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18.2.16

“La mia dolce morte in Svizzera, diecimila euro per non soffrire più”

Torino, la scelta di una donna immobilizzata dalla sclerosi: aspetto la chiamata

La diagnosi di sclerosi è stata fatta alla torinese Paola Cirio nel 2002: «E’ una discesa senza freni, ma la vita è mia e voglio il lieto fine Non so quando partirò per la Svizzera, ma so che è giusto farlo»


Andrea Malaguti

«Mi hanno detto che per morire ci vogliono cinque minuti e diecimila euro. Ti danno un gastroprotettore. E subito dopo un bicchiere di veleno, una sostanza di cui non ricordo il nome. A quel punto te ne vai. Senza sentire dolore. Mi hanno anche raccontato di un uomo che prima di spegnersi ha cominciato a russare.
Come se, finalmente, stesse dormendo sereno. E’ questo il suicidio assistito. E’ così che conto di finire la mia vita. In Svizzera. E’ già tutto predisposto, ho avuto la luce verde».

La torinese Paola Cirio cerca la buona morte, una pratica che in Italia è vietata e su cui il Parlamento comincerà una storica discussione a marzo. Prima il testamento biologico, poi l’eutanasia, ennesima parola tabù che inquieta il mondo cattolico. Un dibattito imposto dalla caparbietà dei radicali, dalle azioni di disobbedienza civile di Marco Cappato, da Mina Welby e da Sos Eutanasia. Davvero si può dire a qualcuno quando spegnere l’interruttore? «In questo Paese sui diritti civili siamo alla preistoria. La politica è patetica. Io ho deciso di raccontare il mio percorso perché penso non sia giusto che solo chi ha un po’ di soldi da parte possa decidere di crepare con dignità». In attesa dei Palazzi il mondo, come sempre, procede per conto suo.

L’ULTIMO ISTANTE

Seduta sul divano del piccolo salotto di casa, le gambe immobilizzate dalla sclerosi multipla, la signora Cirio, 53 anni, racconta come ha intenzione di fregare la morte battendola sul tempo. «Devo essere io a scegliere, non la malattia». Non c’è rabbia nelle sue parole. E lei trasmette un invidiabile senso di libertà. Quella che lo Stato non le concede. E che Paola si è presa comunque. «Non ho paura. E so che, anche se non mi ridaranno i soldi, posso tornare indietro fino all’ultimo istante. Ho un’opportunità in più».

E’ una donna minuta, con i capelli corti. Una collana di perle è l’unico vezzo che si concede. Da ragazza ha studiato all’istituto d’arte, forse più per ribellarsi alla madre che per vocazione. Ha finito per fare l’impiegata al Politecnico, ma se la fotografia della sua esistenza si limitasse a questo non racconterebbe nulla di lei. «Se dovessi definire la mia vita direi “spericolata”, alla Vasco. Ho molto viaggiato e ho molto visto, dal Laos al Mar Rosso e se ho scelto di andarmene stabilendo io come non è perché ho smesso di amare la terra, è perché voglio impedirmi di odiarla». Considera il dolore destinato a sopraffarla una punizione ingiusta. «Perché la dovrei accettare?».

LA MALATTIA

La sclerosi gliel’hanno diagnosticata nel 2002. «Ma già nel 1999 avevo capito di stare male. Diplopia. Ci vedevo doppio. All’ospedale mi dissero: potrebbe essere sclerosi. Lo era». Nessuno le ha spiegato come sarà il decorso della malattia, ma lei ha studiato per conto suo. Solo l’esito è certo. «A un certo punto i muscoli si paralizzano. Ma la testa rimane lucida. E allora sei in trappola e sai che non ti resta molto. In genere si muore per un attacco cardiaco. Un medico non te lo spiegherebbe mai in questo modo, ma io lo so». Arriva un momento in cui il corpo che ti è così familiare diventa non solo estraneo ma radicalmente ostile. «E’ una discesa senza freni». Così, proprio per non sentire addosso l’indicibile panico dei sepolti vivi, Paola ha cominciato il suo percorso. Si è rivolta all’associazione Exit, che a Torino ha una sede a pochi metri da casa sua. Poi Sos Eutanasia, che oggi la porta a Roma, in Senato, per raccontare la sua scelta, si è schierata al suo fianco.

LA CLINICA

«Mi hanno fatto capire che andando in Svizzera potevo decidere da sola. Ho detto: bene, lo faccio, perché ho pensato che quando la malattia mi paralizzerà non avrò neanche la forza di buttarmi dalla finestra. Ci ho pensato al suicidio, sa? Due volte. Un giorno avevo deciso di lanciarmi dal terrazzo di un mio amico che abita al nono piano. Non ho avuto il coraggio. E ho anche pensato che gli avrei creato un sacco di problemi. Un’altra volta ho immaginato di lasciarmi cadere sotto un treno. Ma anche in quel caso ha vinto la paura». Le è venuta in mente la storia di un’ amica che si è tolta la vita per amore. «Il treno l’ha tagliata in due. Mi sono detta che doveva esistere un sistema meno violento. L’ho trovato». Ha versato diecimila euro a un centro di Ginevra e inviato le sue cartelle cliniche. Dopo due mesi è arrivata la risposta. «Se vuole noi siamo qui per lei, luce verde». Si è sentita sollevata, perché è certa che arriverà un momento in cui si sentirà da qualche parte al di fuori dalla vita e dalla morte, sospesa tra il cielo e la terra in un luogo in cui non ha intenzione di stare. «Mandano un’ambulanza a prelevarti e quando arrivi in Svizzera ti fanno parlare con degli psicologi. Cercano di convincerti a non farlo. Se tu insisti loro ti assecondano. Ma io conosco un solo caso in cui qualcuno si è tirato indietro». Guarda fuori dalla finestra. Si vedono le montagne. Poche centinaia di metri più in là c’è lo stadio del Toro. «Ora ho una casa di 70 metri. Ma la preferisco a quella da 700 di uno come Bertone che si permette di dire agli altri che cosa è giusto».

LA FAMIGLIA

Paola Cirio non ha figli. Aveva un marito, ma lo ha messo alla porta anni fa. «Mi tradiva. E quando la malattia si è presentata si è comportato al contrario di come mi sarei aspettata». La sua famiglia è un nucleo ristretto. Una sorella più giovane, un padre malato e una madre con cui non è mai andata d’accordo. «Una cattolica praticante che non mi ha mai capita. Ma anch’io non capisco la Chiesa. Quando ho divorziato mi hanno esclusa. Come se in quella vicenda non fossi già la vittima. Oggi non credo più a nulla. Nè a Dio né all’eternità. Ho deciso di farmi cremare. E poi di far spargere le mie ceneri in un bosco svizzero. Va bene lì ma sarebbe lo stesso se fosse l’Alaska. Quando mia sorella ha scoperto che avevo deciso di chiedere il suicidio assistito ha pianto. Perché non mi hai detto nulla?, mi ha chiesto. Le ho detto che questa è la mia vita e che voglio il lieto fine. Non so quando arriverà il momento. Non so quando partirò per la Svizzera, ma so che è giusto. Credo abbia compreso. Mia madre no. Ma a questo punto che importa?».

4.3.13

Svizzera: un referendum vinto e un altro in arrivo contro le disuguaglianze economiche

 #qualcosadisinistra dalla Svizzera

Lo tsunami anche oltre le Alpi. Oggi in Svizzera è stato approvato a larga maggioranza un referendum che si propone di ridurre le disuguaglianze economiche. E presto ne arriverà un altro che vuole imporre un limite ai superstipendi. Una strada percorribile anche in Italia, grazie al Movimento 5 stelle? Dalla Svizzera ci aiuta a capire di più Marco Morosini, senior scientist e ex professore del Politecnico federale di Zurigo.
LOTTA DI CLASSE ALLA GUGLIELMO TELL
Svizzera, epicentro della rivolta contro le crescenti disuguaglianze economiche
Probabilmente il 3 marzo 2013 resterà una giornata memorabile, non solo nella storia della Svizzera, ma anche nella storia della politica e delle ideologie di questi decenni, come già affermano alcuni osservatori.

thomas minder

Oggi il 100% dei cantoni svizzeri e il 68% dei votanti hanno detto sì alla iniziativa popolare di modifica della costituzione Contro le retribuzioni abusive, lanciata da un singolo cittadino, il piccolo imprenditore di Sciaffusa, Thomas Minder.
L’attuazione della volontà del sovrano – come si dice in Svizzera – spetta ora al governo, che entro un anno dovrà modificare l’articolo 95 della Costituzione, inserendovi le vittoriose prescrizioni referendarie, che danno un nuovo e grande potere agli azionisti e riducono i poteri e forse le retribuzioni degli amministratori. La Costituzione dovrà affermare fra l’altro:
- tutti gli azionisti possono votare anche con voto elettronico a distanza
- l’assemblea annuale degli azionisti vota per decidere i compensi dei membri del consiglio d’amministrazione, del presidente e dell’amministratore delegato e per eleggere e confermare ogni anno gli stessi;
- le casse pensioni votano nell’interesse dei loro assicurati e rendono pubblico il loro voto
- la rappresentanza del diritto di voto da parte degli organi e per i titoli in deposito è vietata
- i membri dei vari organi non ricevono liquidazioni, altre indennità, retribuzioni anticipate, premi per acquisizioni e vendite di ditte e contratti supplementari di consulenza o di lavoro da parte di società del gruppo
- l’infrazione delle disposizioni precedenti è punita con la pena detentiva fino a tre anni e con la pena pecuniaria fino a sei retribuzioni annuali.
Da anni la “Minder-Initiative” – dal nome del suo promotore – detta anche Abzocker Initiative (“Iniziativa contro i profittatori”) era molto popolare nel Paese.
Eppure l’intero governo e una grande maggioranza del parlamento e dei partiti, hanno condotto una tenace campagna per il no. Economie suisse, la confindustria elvetica, ha sperperato 8 milioni di franchi – un record storico – riempiendo la Svizzera di inutili manifesti. Minder e i suoi sostenitori sono invece riusciti a convincere 7 votanti su 10 con i modesti 200 000 franchi del loro budget.

Daniel Vasella, 72 milioni di franchi per non far niente
daniel vasella

Come ha scritto un editorialista sull’imminente referendum “8 milioni non possono niente contro 72 milioni”. Quest’ultimo è il “compenso” (!) che fino a due settimane fa Daniel Vasella, il presidente uscente di Novartis, avrebbe dovuto ricevere in sei anni, in cambio dell’impegno a non lavorare per la concorrenza – peraltro dopo che il suo ultimo stipendio annuo era stato di 40 milioni. Scoperto da un hacker e divulgato come prima notizia in stampa e telegiornali, lo stipendio di “72 milioni per non far niente” di Vasella ha dominato i media per due settimane, infiammando ulteriormente il sentimento di indignazione che da dieci anni la grande maggioranza degli svizzeri nutre verso retribuzioni annue dei manager che vanno dai 10 ai 150 milioni franchi.
Il 22 febbraio Vasella si è piegato allo sdegno popolare e ha annunciato davanti all’assemblea degli azionisti che rinunciava ai 72 milioni e che aveva sbagliato ad accettarli. Troppo tardi.
Forse sono proprio le parole di dieci giorni fa dello stesso Vasella davanti a 2000 dei suoi azionisti quelle che oggi meglio spiegano  perché il sì “Contro le retribuzioni abusive” ha vinto con la percentuale del 68%, record storico in Svizzera:
Da questa vicenda traggo una conseguenza positiva: la trasparenza è il più importante fattore regolativo dei salari dei manager, anche in assenza di leggi dello Stato.”
Prosperi e felici, ma contrari alle disuguaglianze economiche crescenti
La Svizzera è ai primissimi posti nelle classifiche di prosperità e felicità dei suoi abitanti e gode da decenni di tassi di disoccupazione sotto il 2-4%. Eppure è proprio la Svizzera l’epicentro mondiale delle iniziative per ridurre i divari di reddito e di patrimonio che crescono da 30 anni nei Paesi industriali.
In autunno, infatti,  seguirà un secondo referendum costituzionale, quello sulla iniziativa popolare  1:12 per salari equi”. In inverno seguirà un terzo referendum costituzionale per introdurre una tassa di successione del 20% sulle eredità superiori a 2 milioni di franchi.
L’ostilità degli Svizzeri all’aumento delle diseguaglianze economiche dimostra la fragilità della teoria del “trickle down”, secondo la quale tutti i ceti meno abbienti profittano almeno un poco, se i più abbienti accrescono (anche moltissimo) i loro redditi – anche se oltre ogni misura e merito. In teoria potrebbe anche essere vero che gli svizzeri meno abbienti stiano oggettivamente un poco meglio proprio grazie al fatto che i più abbienti raddoppino redditi e patrimoni ogni dieci anni. Ma i ¾ degli svizzeri non ne sono convinti, o comunque ritengono inaccettabile questa dinamica sociale.

30.11.09

Missili e campanili

FRANCO CARDINI

Non c’è bisogno di aver letto Landscape and Memory (1995) di Simon Schama sulla storia del paesaggio per sapere che ambienti e landscapes si modificano col tempo.

Anche e soprattutto grazie all’opera dell’uomo: e che poco c’è in essi di puramente «naturale», niente di definitivamente «bello». Agli antichi elvezi, probabilmente, le torri e i templi dei romani sulle prime non piacevano affatto; e, agli elvezi romanizzati, non dovevan garbare granché i campanili. Che quindi qualche minareto avrebbe davvero compromesso l’armonioso paesaggio svizzero, con i suoi laghi e i suoi pascoli, è lecito dubitare. Le ragioni del «sì» degli abitanti della felice Confederazione Elvetica al referendum sul bando alla costruzione delle torri da cui si chiamano i musulmani alla preghiera debbono essere anche altre.

«Simboli del potere islamico», è stato detto. Ma quale potere? Un campanile cattolico in Svezia significa forse che quel Paese è passato al papismo? I templi buddhisti di New York simboleggiano il passaggio degli States alla fede in Gautama Siddharta? E la monumentale sinagoga di Roma significa forse che la Città Eterna è in mano agli ebrei? «Niente minareti se non c’è reciprocità», ha cristianamente sentenziato qualcuno. Ma di quale reciprocità si tratta? Di campanili cristiani molti Paesi musulmani abbondano: dalla Turchia alla Siria alla Giordania all’Egitto all’Algeria; e il fatto che il re dell’Arabia Saudita ne vieti la costruzione autorizza forse moralmente gli svizzeri a negare un minareto a una comunità musulmana fatta di turchi o di maghrebini, che col monarca wahhabita non hanno proprio nulla a che fare?

Ma le moschee sono fonte d’inquinamento fondamentalista, proclama qualcun altro. Dal che s’inferisce che l’unico modo per controllare e contrastare il fondamentalismo sia quello di umiliare molte decine di migliaia di credenti rifiutando loro un simbolo di libertà religiosa. E’ arrivata a questo, la nostra regressione verso l’intolleranza?

Giratela come volete: ma il risultato del referendum svizzero è un altro tassello nell’allarmante puzzle della perdita delle virtù di tolleranza e di ragionevolezza di cui l’Europa e il mondo occidentale stanno dando di questi tempi prove sempre più chiare. E che questa febbre sia grave è prova il contestuale rifiuto, opposto dal medesimo popolo svizzero, all’altro referendum, che gli chiedeva il divieto dell’esportazione di armi e materiale bellico al fine di sostenere lo sforzo internazionale per il disarmo. Qui, di fronte a ovvi motivi di ben concreto interesse economico, il popolo per definizione più pacifico d’Europa - ma anche quello militarmente parlando meglio esercitato - ha rifiutato di arrestare il «commercio di morte». E’ vero, le armi fanno male alla gente. Ma in fondo anche il tabacco e gli alcolici: e allora perché non continuarne produzione e vendita, magari con l’apposizione di qualche scritta d’avvertimento (tipo: «Sparare al prossimo fa male anche a te»)?

C’è del metodo, in questa follia. Curioso che il minareto somigli dannatamente a un missile, o anche a un bel proiettile lucente di fucile. I Mani di Charlton Heston, ex Mosè, ex Ben Hur, che tra 1998 e 2003 fu presidente dell’americana National Rifle Association, ne saranno estasiati. Lo ricordate, senescente eppur fiero della sua armeria simbolo di libertà, nel Bowling for Columbine di Michael Moore? Chi oggi esulta per l’esito del doppio referendum svizzero può prendere il vecchio Charlton a emblema del suo trionfo. A questo punto, per il momento, è arrivata la nostra notte.