Marco Morosini (Avvenire)
Sul petrolio italiano c’è una buona e una cattiva notizia. La buona è che questo sta diventando un Paese normale. Appena sospettata (neanche accusata) di aver usato male del suo ruolo, una signora ministro si è dimessa. La cattiva notizia è che la volontà di incrementare in Italia il business dei combustibili fossili, è il frutto non di un peccato, ma di un tenace errore. In duecento anni i combustibili fossili hanno messo il turbo al pellegrinaggio dell’umanità verso la prosperità e, per alcuni, la felicità. I pellegrini si sono messi a correre. In un solo secolo la durata media della vita è raddoppiata, il numero degli umani è raddoppiato due volte. L’uso di energia si è moltiplicato per tredici. E per questo l’emissione di CO2, il gas che maggiormente altera il clima, si è moltiplicata per diciassette.
Questo cambia tutto. I pellegrini vedono ora che non possono più correre alla velocità del centometrista una maratona dal traguardo ignoto. La fede nelle energie fossili è diventata insostenibile sul piano (in ordine alfabetico) diplomatico, ecologico, economico, etico, finanziario, geopolitico e tecnologico. Scegliete l’ordine di importanza dei fattori, il prodotto non cambia. «Sappiamo che la tecnologia basata sui combustibili fossili, molto inquinanti – specie il carbone, ma anche il petrolio e, in misura minore, il gas – deve essere sostituita progressivamente e senza indugio». «Abbiamo deciso di disinvestire al più presto il nostro capitale dal carbone, e gradualmente anche dagli altri combustibili fossili». La prima frase è di papa Francesco ( Laudato si’, 165), la seconda è della Fondazione Rockefeller, gli ex-baroni del petrolio. Se completassimo questo collage con le frasi di altri specialisti di clima, ecologia, economia e giustizia sociale, otterremmo un testo come scritto dalla stessa mano.
In dicembre i grandi e i piccoli della Terra hanno deciso a Parigi (Cop21) di impegnarsi per ridurre drasticamente l’uso dei combustibili fossili. Per pungolare i governi, migliaia di scarpe depositate sul selciato di Place de la Repubblique hanno sostituito la 'marcia dei popoli per il clima', organizzata da mesi, ma poi vietata a causa degli attentati. C’erano anche le scarpe di due pellegrini venuti da lontano: le scarpe di papa Francesco e del cardinale Paul Turkson, presidente di Giustizia e Pace. Secondo le grandi organizzazioni mondiali per il clima e per l’energia, per cercare di evitare un riscaldamento globale di più di 2 gradi centigradi, l’80% dei combustibili fossili va lasciato sottoterra. Questi due gradi sono un compromesso politico tra i pochi vincenti e i tanti perdenti dei cambiamenti climatici. Non sono una 'soglia di sicurezza'. Già l’aumento di 0,8° dell’ultimo secolo ha fatto gravi danni.
Eppure le grandi compagnie continuano a sviluppare l’estrazione degli idrocarburi, con investimenti di centinaia di miliardi, che l’Economist definisce «un non-senso». Il maggior danno di trivelle e infrastrutture petrolifere non è locale, ma planetario: l’accelerazione del riscaldamento globale, con drammatiche conseguenze per miliardi di persone. Ben prima però può accadere altro. Sempre secondo l’Economist «O i governi non sono credibili nell’impegno contro i cambiamenti climatici, oppure le compagnie dei combustibili fossili sono sopravvalutate». Per gli analisti di Carbon Tracker( un centro di studi finanziari londinese), una 'bolla del carbonio' minaccia la finanza mondiale. Se bruciassimo tutti i combustibili fossili delle compagnie minerarie, emetteremmo circa 2.800 Gt (gigatonnellate, o miliardi di tonnellate) di CO2, e il pianeta si riscalderebbe molto probabilmente tra i quattro e i sei gradi. Per restare sotto i due gradi, il massimo carbon budget che potremmo 'spendere' sarebbe di circa 600 Gt di CO2 , quindi – riecco la percentualeobiettivo – l’80% dei combustibili fossili rimarrà nel sottosuolo. Buona parte della ricchezza delle grandi compagnie sarebbe, insomma, un patrimonio incagliato ( stranded asset), con conseguenze drammatiche su finanza ed economia mondiali.
Chi voglia abbreviare la vita delle trivelle costiere italiane farà perciò bene a votare sì al referendum del 17 aprile. Ma si deve anche essere consapevoli che rinunciare al nostro poco 'petrolio (o gas) a chilometro zero' vuol dire bruciare più petrolio nei motori e nelle petroliere che vengono da altri continenti. E spesso è petrolio doppiamente sporco. È quello che scatena guerre e colpi di Stato (come in Medio-Oriente e altrove) e che causa ecocidi e devastazioni umane (come in Nigeria, Ecuador e altrove). L’unico modo per prevenire i disastri del clima e dei popoli è ridurre drasticamente e 'senza indugio' il nostro consumo di combustibili fossili e accelerare il passo verso le energie rinnovabili. Come? Sia aumentando fortemente l’efficienza energetica, sia riducendo (chi può e chi deve) il livello materiale dei nostri stili di vita. Il 90% dell’energia commerciale usata nel mondo viene dai combustibili fossili. Ogni prodotto e servizio dipende – anche indirettamente – da essi. Difendere le nostre coste dalle trivelle è utile localmente. Ma sicuramente non basta.
I link ai giornali degli articoli spesso cambiano e diventa difficile se non impossibile recuperare i testi ai quali si riferivano. Questo è l'archivio on-line del blog Giornale-NOTIZIEOGGI
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16.4.16
2.10.15
Così finisce il mito dell’«auto pulita»
Marco Morosini (Avvenire)
Si scopre in questi giorni che il più grande costruttore di automobili del mondo ha truffato clienti e autorità con un software che indicava durante i test di conformità emissioni molto più basse di quelle reali. Tuttavia, come scrive l’Economist in copertina ("I segreti sporchi dell’industria automobilistica" 26.9.2015), sotto accusa è l’intera industria dell’auto e il presunto "segreto" su quanto realmente sporche siano le emissioni delle automobili. A incrinarsi ora sui media mondiali non è solo la reputazione di Volkswagen, ma è il mito dell’"auto pulita".
Un "tigre nel motore" e aria pulita dallo scarico?
Come abbiamo potuto credere di poter avere un tigre nel motore e aria pulita dal tubo di scappamento? Le migliorie tecniche antinquinamento non cambiano le leggi della chimica: da carburanti sporchi non si possono ottenere emissioni "pulite" e la massima forza motrice. A causa dei gas di scarico delle auto "pulite" centinaia di migliaia di persone muoiono ogni anno, decine di milioni si ammalano, i cambiamenti climatici e i loro effetti deleteri sono accelerati. Il motore a combustione interna fu tecnicamente geniale, ma condusse la motorizzazione di massa in un vicolo cieco. Cento anni fa mancavano la cultura e la scienza per pensare alle sue conseguenze sull’ambiente e la salute. Il suo pioniere, Karl Benz, riteneva che in Germania le automobili non sarebbero mai state più di qualche migliaio. Chi immaginava un miliardo di auto in circolazione? I gas di combustione scompaiono nell’aria senza tracce, diceva l’industria automobilistica quando ne circolavano pochi milioni. Quando si capì che non era così, il suo potere economico, politico e culturale era tanto cresciuto da metterla al riparo da tutto. Fino ad oggi.
Un Computer con le ruotenel nostro futuro
Vent’anni fa i più alti fatturati mondiali erano delle aziende del petrolio e delle automobili, oggi sono delle aziende di hardware e software. Alcune di loro stanno progettando le prossime generazioni di automobili. L’auto del futuro sarà un computer con le ruote, non un panzer carico di gadget elettronici, diceva il tecnologo statunitense Armory Lovins. Daniel Goeudevert, il francese ex professore di lettere, alla testa di Volkswagen dal 1991 al 1993, diceva che i quadri dell’industria dell’automobile son prigionieri di schemi mentali praticati per un secolo. Le soluzioni per un’automobile sostenibile - diceva - non verranno dalla stessa industria che per cento anni ne ha sviluppata una insostenibile. Per questo Goeudevert avviò insieme a Swatch il progetto di una "Swatchmobil" rivoluzionaria. Insieme a lui ne era l’artefice Nicolas Hayek, il visionario industriale che aveva fatto rinascere l’orologeria svizzera inventando lo Swatch, un orologio più semplice e più leggero. Il contrario di ciò che fanno gli ingegneri automobilistici, con macchine sempre più pesanti e più complicate.
Il vicolo cieco del motore a combustione interna
I motori a combustione bruciano ogni anno miliardi di tonnellate di derivati del petrolio, costituiti da miscele di migliaia di sostanze. La loro combustione produce altre migliaia di sostanze, in parte ignote, in parte notoriamente nocive per la salute e l’ambiente. Leggi e misurazioni riguardano solo una manciata di queste: CO2, CO, ossidi di azoto, ossidi di zolfo, polveri sottili. Mentre per autorizzare o vietare l’uso di un nuovo farmaco servono anni di ricerca sui suoi effetti e rischi, nessuna ricerca fu fatta quando si cominciò a bruciare i derivati del petrolio nelle automobili. La loro diffusione di massa divenne il tramite involontario per esporre i polmoni di miliardi di persone a una miscela di sostanze indesiderabili. Gli studiosi hanno accertato che miliardi di tonnellate di gas di scarico emessi ogni anno nuocciono a salute, flora, fauna, ecosistemi, clima, edifici e monumenti. Eppure si crede ancora all’auto "pulita". E’ vero: sotto la pressione di scienziati e organizzazioni di cittadini, l’industria riuscì a ridurre le emissioni di alcune delle sostanze nocive. Parte di questa riduzione però è vanificata dall’aumento delle auto in circolazione e dei chilometri percorsi. Per ogni litro di carburante sono emessi alcuni grammi di sostanze nocive localmente, ma due chili e mezzo di CO2, innocua localmente, ma nociva globalmente. L’aumento della sua concentrazione nell’atmosfera, infatti, è la causa principale dei mutamenti climatici provocati dall’uomo. Quando è nuova di fabbrica, la moderna automobile emette meno inquinanti locali di una volta. Tuttavia i suoi catalizzatori non possono diminuire le emissioni di CO2, che sono proporzionali alla quantità di carburante bruciato.
Aria più pulita in città, clima più instabile nel mondo
Automobili "meno sporche" hanno un paradossale effetto rebound (rimbalzo). I clienti le comprano e usano più volentieri. In città ne posso circolare di più senza soffocare la popolazione. Così, erroneamente, non ci si preoccupa se il loro peso, la loro potenza, il loro numero, i chilometri percorsi, e quindi anche il consumo complessivo di carburante dell’intera flotta crescono. In altre parole, paghiamo con più inquinamento globale (la CO2), una certa riduzione dell’inquinamento locale. Il beneficio di un’aria meno inquinata è qui e ora. Mentre si ritiene che l’alterazione climatica dovuta alla CO2 causerà danni globali per più di un secolo, specialmente alle popolazioni del pianeta più povere ed esposte. Grazie alle migliorie tecniche, la singola automobile è diventata "un po’ meno sporca". A trasformarla in "auto pulita" sono stati però i miliardi spesi in marketing, lobby, avvocati, finanziamenti ai partiti e uomini politici e - come emerge ora - in attività criminali di inganno deliberato.
La farsa delle misurazioni dei gas di scarico
"Una farsa" sono definite dall’Economist (26.9.2015) le regole europee per misurare in garage le emissioni delle automobili. Questi test truffaldini sono concepiti dagli stessi costruttori a loro vantaggio e adottati dall’Ue sotto pressione dei governi dei paesi con una più forte industria automobilistica. E’ questo il vero scandalo dell’ "auto pulita", già denunciato negli ultimi vent’anni da enti indipendenti come il Wuppertal Institut e da associazioni per la salute e per l’ambiente. Il software imbroglione di Volkswagen è solo una goccia che ha fatto traboccare il vaso.
La svolta dell’auto: nuove tecnologie e nuova sobrietà
Una vera svolta verso una mobilità sostenibile avverrà solo quando i motori elettrici sostituiranno il motore a combustione, ma solo se saranno alimentati da elettricità prodotta da fonti rinnovabili. Entrambe queste prospettive sono meno lontane di quanto si pensava. Nondimeno, poiché anche le fonti rinnovabili hanno costi ambientali e sociali, anche il loro uso va moderato. Pur con le future auto elettriche occorreranno quindi cambiamenti di comportamento: quando possibile, non possedere un veicolo, quando mezzi più efficaci sono disponibili percorrere meno chilometri in auto, viaggiare a minore velocità, preferire auto meno potenti, più leggere e più piccole. Questi cambiamenti possono essere fatti da ognuno già domani, senza aspettare le auto elettriche. Avete notato che Francesco, il papa della prima enciclica "ecologica", fa un uso sistematico di vetture utilitarie?
Si scopre in questi giorni che il più grande costruttore di automobili del mondo ha truffato clienti e autorità con un software che indicava durante i test di conformità emissioni molto più basse di quelle reali. Tuttavia, come scrive l’Economist in copertina ("I segreti sporchi dell’industria automobilistica" 26.9.2015), sotto accusa è l’intera industria dell’auto e il presunto "segreto" su quanto realmente sporche siano le emissioni delle automobili. A incrinarsi ora sui media mondiali non è solo la reputazione di Volkswagen, ma è il mito dell’"auto pulita".
Un "tigre nel motore" e aria pulita dallo scarico?
Come abbiamo potuto credere di poter avere un tigre nel motore e aria pulita dal tubo di scappamento? Le migliorie tecniche antinquinamento non cambiano le leggi della chimica: da carburanti sporchi non si possono ottenere emissioni "pulite" e la massima forza motrice. A causa dei gas di scarico delle auto "pulite" centinaia di migliaia di persone muoiono ogni anno, decine di milioni si ammalano, i cambiamenti climatici e i loro effetti deleteri sono accelerati. Il motore a combustione interna fu tecnicamente geniale, ma condusse la motorizzazione di massa in un vicolo cieco. Cento anni fa mancavano la cultura e la scienza per pensare alle sue conseguenze sull’ambiente e la salute. Il suo pioniere, Karl Benz, riteneva che in Germania le automobili non sarebbero mai state più di qualche migliaio. Chi immaginava un miliardo di auto in circolazione? I gas di combustione scompaiono nell’aria senza tracce, diceva l’industria automobilistica quando ne circolavano pochi milioni. Quando si capì che non era così, il suo potere economico, politico e culturale era tanto cresciuto da metterla al riparo da tutto. Fino ad oggi.
Un Computer con le ruotenel nostro futuro
Vent’anni fa i più alti fatturati mondiali erano delle aziende del petrolio e delle automobili, oggi sono delle aziende di hardware e software. Alcune di loro stanno progettando le prossime generazioni di automobili. L’auto del futuro sarà un computer con le ruote, non un panzer carico di gadget elettronici, diceva il tecnologo statunitense Armory Lovins. Daniel Goeudevert, il francese ex professore di lettere, alla testa di Volkswagen dal 1991 al 1993, diceva che i quadri dell’industria dell’automobile son prigionieri di schemi mentali praticati per un secolo. Le soluzioni per un’automobile sostenibile - diceva - non verranno dalla stessa industria che per cento anni ne ha sviluppata una insostenibile. Per questo Goeudevert avviò insieme a Swatch il progetto di una "Swatchmobil" rivoluzionaria. Insieme a lui ne era l’artefice Nicolas Hayek, il visionario industriale che aveva fatto rinascere l’orologeria svizzera inventando lo Swatch, un orologio più semplice e più leggero. Il contrario di ciò che fanno gli ingegneri automobilistici, con macchine sempre più pesanti e più complicate.
Il vicolo cieco del motore a combustione interna
I motori a combustione bruciano ogni anno miliardi di tonnellate di derivati del petrolio, costituiti da miscele di migliaia di sostanze. La loro combustione produce altre migliaia di sostanze, in parte ignote, in parte notoriamente nocive per la salute e l’ambiente. Leggi e misurazioni riguardano solo una manciata di queste: CO2, CO, ossidi di azoto, ossidi di zolfo, polveri sottili. Mentre per autorizzare o vietare l’uso di un nuovo farmaco servono anni di ricerca sui suoi effetti e rischi, nessuna ricerca fu fatta quando si cominciò a bruciare i derivati del petrolio nelle automobili. La loro diffusione di massa divenne il tramite involontario per esporre i polmoni di miliardi di persone a una miscela di sostanze indesiderabili. Gli studiosi hanno accertato che miliardi di tonnellate di gas di scarico emessi ogni anno nuocciono a salute, flora, fauna, ecosistemi, clima, edifici e monumenti. Eppure si crede ancora all’auto "pulita". E’ vero: sotto la pressione di scienziati e organizzazioni di cittadini, l’industria riuscì a ridurre le emissioni di alcune delle sostanze nocive. Parte di questa riduzione però è vanificata dall’aumento delle auto in circolazione e dei chilometri percorsi. Per ogni litro di carburante sono emessi alcuni grammi di sostanze nocive localmente, ma due chili e mezzo di CO2, innocua localmente, ma nociva globalmente. L’aumento della sua concentrazione nell’atmosfera, infatti, è la causa principale dei mutamenti climatici provocati dall’uomo. Quando è nuova di fabbrica, la moderna automobile emette meno inquinanti locali di una volta. Tuttavia i suoi catalizzatori non possono diminuire le emissioni di CO2, che sono proporzionali alla quantità di carburante bruciato.
Aria più pulita in città, clima più instabile nel mondo
Automobili "meno sporche" hanno un paradossale effetto rebound (rimbalzo). I clienti le comprano e usano più volentieri. In città ne posso circolare di più senza soffocare la popolazione. Così, erroneamente, non ci si preoccupa se il loro peso, la loro potenza, il loro numero, i chilometri percorsi, e quindi anche il consumo complessivo di carburante dell’intera flotta crescono. In altre parole, paghiamo con più inquinamento globale (la CO2), una certa riduzione dell’inquinamento locale. Il beneficio di un’aria meno inquinata è qui e ora. Mentre si ritiene che l’alterazione climatica dovuta alla CO2 causerà danni globali per più di un secolo, specialmente alle popolazioni del pianeta più povere ed esposte. Grazie alle migliorie tecniche, la singola automobile è diventata "un po’ meno sporca". A trasformarla in "auto pulita" sono stati però i miliardi spesi in marketing, lobby, avvocati, finanziamenti ai partiti e uomini politici e - come emerge ora - in attività criminali di inganno deliberato.
La farsa delle misurazioni dei gas di scarico
"Una farsa" sono definite dall’Economist (26.9.2015) le regole europee per misurare in garage le emissioni delle automobili. Questi test truffaldini sono concepiti dagli stessi costruttori a loro vantaggio e adottati dall’Ue sotto pressione dei governi dei paesi con una più forte industria automobilistica. E’ questo il vero scandalo dell’ "auto pulita", già denunciato negli ultimi vent’anni da enti indipendenti come il Wuppertal Institut e da associazioni per la salute e per l’ambiente. Il software imbroglione di Volkswagen è solo una goccia che ha fatto traboccare il vaso.
La svolta dell’auto: nuove tecnologie e nuova sobrietà
Una vera svolta verso una mobilità sostenibile avverrà solo quando i motori elettrici sostituiranno il motore a combustione, ma solo se saranno alimentati da elettricità prodotta da fonti rinnovabili. Entrambe queste prospettive sono meno lontane di quanto si pensava. Nondimeno, poiché anche le fonti rinnovabili hanno costi ambientali e sociali, anche il loro uso va moderato. Pur con le future auto elettriche occorreranno quindi cambiamenti di comportamento: quando possibile, non possedere un veicolo, quando mezzi più efficaci sono disponibili percorrere meno chilometri in auto, viaggiare a minore velocità, preferire auto meno potenti, più leggere e più piccole. Questi cambiamenti possono essere fatti da ognuno già domani, senza aspettare le auto elettriche. Avete notato che Francesco, il papa della prima enciclica "ecologica", fa un uso sistematico di vetture utilitarie?
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14.3.13
Grillo politico? E' nato 20 anni fa
di Gigi Riva
«Tutto iniziò nel '92, quando nei camerini dello Smeraldo, a Milano, parlammo di pesticidi e ambiente». Il racconto di Marco Morosini, lo scienziato che da sempre «fornisce idee» al comico fondatore del M5S
Cosa sia Marco Morosini per Beppe Grillo è difficile da definire. Valga una citazione della "Neue Zürcher Zeitung" dell'anno scorso: «Come persone che gli hanno aperto gli occhi, Grillo nomina l'economista e premio Nobel americano Joseph Stiglitz, col quale discute regolarmente, il sociologo tedesco Wolfgang Sachs e lo scienziato italiano Marco Morosini, del Politecnico federale di Zurigo/ETH». Ma come gli ha «aperto gli occhi»? Bisogna fare molti passi indietro e tornare al 1992. Beppe è un comico che mira principalmente a far ridere e a fustigare sia i personaggi sia i tic del nostro vivere quotidiano e che ancora non affronta temi ecologici ed economici.
Marco è un milanese laureato in Chimica e tecnologia farmaceutica che ha da tre anni scelto l'estero, l'università di Ulm in Germania dove prenderà un dottorato in Chimica analitica ambientale. Beppe è in scena al teatro "Smeraldo" di Milano, Marco sta in platea e alla fine vuole conoscere la star, suggerirgli una battuta sui giornali troppo carichi di pubblicità. Incontro cruciale. La frase entra nello show. Segue un lungo pranzo in cui Morosini, fa ascoltare a Grillo l'audiocassetta di una conferenza che tiene nelle terze classi delle scuole medie. L'uomo è uno scienziato duro, di quelli che stanno in laboratorio col camice bianco, ma ha interessi multiformi. Gira film (molto premiati) sulle spedizioni in Antartide dove scopre che nei licheni di quei ghiacci ci sono tracce dei pesticidi che usiamo. Ed è il pretesto per parlare ai ragazzi di ecologia globale, di come i nostri comportamenti abbiano consegueze nefaste, tipo lasciare aperto un rubinetto mentre ci si lava i denti.
Chi ha seguito Grillo lo sa: temi, anche minimali, che entrano nei suoi monologhi. Tornato in Germania, inonda il fax dello showman di informazioni sullo sviluppo sostenibile. Nasce un'amicizia e una collaborazione assidua. Morosini, 60 anni, oggi riassume: «Ho scritto per lui duemila pagine, gli ho procurato contatti con persone del mondo che hanno buone idee da mettere in circolo, da Stiglitz a Sachs a molti altri colleghi, e ho scritto testi satirici per gli spettacoli, come facevo per "Cuore" e per "Linus". Farlo mi lusingava molto dal punto di vista umano. Mi dava la sensazione che i miei argomenti potessero essere divulgati, grazie a lui, con una grande potenza».
Dai suoi studi proposte che giudica «clamorose», nel senso che sono «suscettibili di far inalberare gli avversari e entusiasmare i fautori». Eccone alcune: ridurre il consumo di energia da 6000 a 2000 watt pro capite all'anno. Commento: «E' la più importante e la più solida. Non è mia. E' il cardine della scelta energetica del governo svizzero nel 2002 come obiettivo entro il 2050». Ridurre il consumo di materie prime da 40 a 20 tonnellate pro capite l'anno, per limitare il saccheggio che stiamo facendo del pianeta. Settimana di lavoro di 30 ore da subito e di 20 ore tra vent'anni, naturalmente allo stesso stipendio: «Perché un terzo del Pil che produciamo fa danni, un terzo serve a riparare i danni, solo un terzo è utile, basta concentrarsi su quest'ultimo. Del resto la nostra testa è piena di triangoli come ci hanno insegnato i retori, a partire da Cicerone, e alla base della nostra cultura c'è una Trinità». Ridurre il divario salariale a un rapporto massimo di uno a 12: «Nessun manager possa guadagnare in un mese più di quanto i suoi dipendenti guadagnano in un anno. Anche in questo caso è curioso come sia la Svizzera l'epicentro della rivolta internazionale contro le disuguaglianze come ha dimostrato il referendum vinto "Contro le retribuzioni abusive"». Dare agli azionisti il potere di votare in Internet i loro manager e i loro salari. «Ognuna di queste idee potrebbe essere oggetto di dibattito nazionale vivace come avviene in altri paesi. Invece sono state quasi ignorate dai media».
Morosini vorrebbe al più presto ridurre a 18 anni l'età per votare per il Senato, e aprire una discussione sul voto ai sedicenni, come vige in Austria dal 2007. Ed è comprensibile se il Movimento 5 Stelle ha fatto il pieno tra i giovani. Movimento che ora vede come una piramide: «Sul primo gradino ci sono i nove milioni di elettori. Sul secondo il milione o poco meno dei frequentatori del blog; sul terzo i 250 mila iscritti; sul quarto i 40 mila iscritti e identificati con documento che hanno diritto di partecipare alle scelte dei candidati; sul quinto gli iscriti ai meetup; sul sesto i candidati alle elezioni; sul settimo i 163 eletti; sull'ottavo ci sono due seggiole uguali ma diverse».
Lo scienziato è anche un cittadino italiano e come tale guarda la situazione parlamentare che si è prodotta «con molta curiosità e poca preoccupazione. Forse ci sarebbe da farsi tremare le gambe ma mi piace credere che siamo davanti a una grande opportunità. Può girare male e allora finiamo come la Grecia. Ma puà girare bene e allora facciamo come l'Islanda dove hanno mandato a casa tutta la classe dirigente, cambiato il governo, nazionalizzato le banche, annullato il proprio debito, il popolo ha riscritto la Costituzione (e senza un comitato di saggi con Calderoli presidente), c'è una sensazione di fratellanza possibile e l'idea che la vecchia Islanda era marcia, era giusto che crollasse e andava rifondata. Cosa che mi auguro per l'Italia». Quanto a lui che ruolo avrà? «Continuo a scovare diffondere idee che avranno senso nei decenni. Poi certo ci vuole la politica del giorno per giorno e nutro grande ammirazione per Casaleggio, Grillo, gli eletti e gli iscritti che ora la dovranno fare. La politica giorno per giorno cerco di guardarla come un appassionato di ippica guarda di striscio il campionato di calcio».
«Tutto iniziò nel '92, quando nei camerini dello Smeraldo, a Milano, parlammo di pesticidi e ambiente». Il racconto di Marco Morosini, lo scienziato che da sempre «fornisce idee» al comico fondatore del M5S
Cosa sia Marco Morosini per Beppe Grillo è difficile da definire. Valga una citazione della "Neue Zürcher Zeitung" dell'anno scorso: «Come persone che gli hanno aperto gli occhi, Grillo nomina l'economista e premio Nobel americano Joseph Stiglitz, col quale discute regolarmente, il sociologo tedesco Wolfgang Sachs e lo scienziato italiano Marco Morosini, del Politecnico federale di Zurigo/ETH». Ma come gli ha «aperto gli occhi»? Bisogna fare molti passi indietro e tornare al 1992. Beppe è un comico che mira principalmente a far ridere e a fustigare sia i personaggi sia i tic del nostro vivere quotidiano e che ancora non affronta temi ecologici ed economici.
Marco è un milanese laureato in Chimica e tecnologia farmaceutica che ha da tre anni scelto l'estero, l'università di Ulm in Germania dove prenderà un dottorato in Chimica analitica ambientale. Beppe è in scena al teatro "Smeraldo" di Milano, Marco sta in platea e alla fine vuole conoscere la star, suggerirgli una battuta sui giornali troppo carichi di pubblicità. Incontro cruciale. La frase entra nello show. Segue un lungo pranzo in cui Morosini, fa ascoltare a Grillo l'audiocassetta di una conferenza che tiene nelle terze classi delle scuole medie. L'uomo è uno scienziato duro, di quelli che stanno in laboratorio col camice bianco, ma ha interessi multiformi. Gira film (molto premiati) sulle spedizioni in Antartide dove scopre che nei licheni di quei ghiacci ci sono tracce dei pesticidi che usiamo. Ed è il pretesto per parlare ai ragazzi di ecologia globale, di come i nostri comportamenti abbiano consegueze nefaste, tipo lasciare aperto un rubinetto mentre ci si lava i denti.
Chi ha seguito Grillo lo sa: temi, anche minimali, che entrano nei suoi monologhi. Tornato in Germania, inonda il fax dello showman di informazioni sullo sviluppo sostenibile. Nasce un'amicizia e una collaborazione assidua. Morosini, 60 anni, oggi riassume: «Ho scritto per lui duemila pagine, gli ho procurato contatti con persone del mondo che hanno buone idee da mettere in circolo, da Stiglitz a Sachs a molti altri colleghi, e ho scritto testi satirici per gli spettacoli, come facevo per "Cuore" e per "Linus". Farlo mi lusingava molto dal punto di vista umano. Mi dava la sensazione che i miei argomenti potessero essere divulgati, grazie a lui, con una grande potenza».
Dai suoi studi proposte che giudica «clamorose», nel senso che sono «suscettibili di far inalberare gli avversari e entusiasmare i fautori». Eccone alcune: ridurre il consumo di energia da 6000 a 2000 watt pro capite all'anno. Commento: «E' la più importante e la più solida. Non è mia. E' il cardine della scelta energetica del governo svizzero nel 2002 come obiettivo entro il 2050». Ridurre il consumo di materie prime da 40 a 20 tonnellate pro capite l'anno, per limitare il saccheggio che stiamo facendo del pianeta. Settimana di lavoro di 30 ore da subito e di 20 ore tra vent'anni, naturalmente allo stesso stipendio: «Perché un terzo del Pil che produciamo fa danni, un terzo serve a riparare i danni, solo un terzo è utile, basta concentrarsi su quest'ultimo. Del resto la nostra testa è piena di triangoli come ci hanno insegnato i retori, a partire da Cicerone, e alla base della nostra cultura c'è una Trinità». Ridurre il divario salariale a un rapporto massimo di uno a 12: «Nessun manager possa guadagnare in un mese più di quanto i suoi dipendenti guadagnano in un anno. Anche in questo caso è curioso come sia la Svizzera l'epicentro della rivolta internazionale contro le disuguaglianze come ha dimostrato il referendum vinto "Contro le retribuzioni abusive"». Dare agli azionisti il potere di votare in Internet i loro manager e i loro salari. «Ognuna di queste idee potrebbe essere oggetto di dibattito nazionale vivace come avviene in altri paesi. Invece sono state quasi ignorate dai media».
Morosini vorrebbe al più presto ridurre a 18 anni l'età per votare per il Senato, e aprire una discussione sul voto ai sedicenni, come vige in Austria dal 2007. Ed è comprensibile se il Movimento 5 Stelle ha fatto il pieno tra i giovani. Movimento che ora vede come una piramide: «Sul primo gradino ci sono i nove milioni di elettori. Sul secondo il milione o poco meno dei frequentatori del blog; sul terzo i 250 mila iscritti; sul quarto i 40 mila iscritti e identificati con documento che hanno diritto di partecipare alle scelte dei candidati; sul quinto gli iscriti ai meetup; sul sesto i candidati alle elezioni; sul settimo i 163 eletti; sull'ottavo ci sono due seggiole uguali ma diverse».
Lo scienziato è anche un cittadino italiano e come tale guarda la situazione parlamentare che si è prodotta «con molta curiosità e poca preoccupazione. Forse ci sarebbe da farsi tremare le gambe ma mi piace credere che siamo davanti a una grande opportunità. Può girare male e allora finiamo come la Grecia. Ma puà girare bene e allora facciamo come l'Islanda dove hanno mandato a casa tutta la classe dirigente, cambiato il governo, nazionalizzato le banche, annullato il proprio debito, il popolo ha riscritto la Costituzione (e senza un comitato di saggi con Calderoli presidente), c'è una sensazione di fratellanza possibile e l'idea che la vecchia Islanda era marcia, era giusto che crollasse e andava rifondata. Cosa che mi auguro per l'Italia». Quanto a lui che ruolo avrà? «Continuo a scovare diffondere idee che avranno senso nei decenni. Poi certo ci vuole la politica del giorno per giorno e nutro grande ammirazione per Casaleggio, Grillo, gli eletti e gli iscritti che ora la dovranno fare. La politica giorno per giorno cerco di guardarla come un appassionato di ippica guarda di striscio il campionato di calcio».
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4.3.13
Svizzera: un referendum vinto e un altro in arrivo contro le disuguaglianze economiche
#qualcosadisinistra dalla Svizzera
Lo tsunami anche oltre le Alpi. Oggi in Svizzera è stato approvato a larga maggioranza un referendum che si propone di ridurre le disuguaglianze economiche. E presto ne arriverà un altro che vuole imporre un limite ai superstipendi. Una strada percorribile anche in Italia, grazie al Movimento 5 stelle? Dalla Svizzera ci aiuta a capire di più Marco Morosini, senior scientist e ex professore del Politecnico federale di Zurigo.
LOTTA DI CLASSE ALLA GUGLIELMO TELLLo tsunami anche oltre le Alpi. Oggi in Svizzera è stato approvato a larga maggioranza un referendum che si propone di ridurre le disuguaglianze economiche. E presto ne arriverà un altro che vuole imporre un limite ai superstipendi. Una strada percorribile anche in Italia, grazie al Movimento 5 stelle? Dalla Svizzera ci aiuta a capire di più Marco Morosini, senior scientist e ex professore del Politecnico federale di Zurigo.
Svizzera, epicentro della rivolta contro le crescenti disuguaglianze economiche
Probabilmente il 3 marzo 2013 resterà una giornata memorabile, non solo nella storia della Svizzera, ma anche nella storia della politica e delle ideologie di questi decenni, come già affermano alcuni osservatori.

Oggi il 100% dei cantoni svizzeri e il 68% dei votanti hanno detto sì alla iniziativa popolare di modifica della costituzione “Contro le retribuzioni abusive”, lanciata da un singolo cittadino, il piccolo imprenditore di Sciaffusa, Thomas Minder.
L’attuazione della volontà del sovrano – come si dice in Svizzera – spetta ora al governo, che entro un anno dovrà modificare l’articolo 95 della Costituzione, inserendovi le vittoriose prescrizioni referendarie, che danno un nuovo e grande potere agli azionisti e riducono i poteri e forse le retribuzioni degli amministratori. La Costituzione dovrà affermare fra l’altro:
- tutti gli azionisti possono votare anche con voto elettronico a distanza
- l’assemblea annuale degli azionisti vota per decidere i compensi dei membri del consiglio d’amministrazione, del presidente e dell’amministratore delegato e per eleggere e confermare ogni anno gli stessi;
- le casse pensioni votano nell’interesse dei loro assicurati e rendono pubblico il loro voto
- la rappresentanza del diritto di voto da parte degli organi e per i titoli in deposito è vietata
- i membri dei vari organi non ricevono liquidazioni, altre indennità, retribuzioni anticipate, premi per acquisizioni e vendite di ditte e contratti supplementari di consulenza o di lavoro da parte di società del gruppo
- l’infrazione delle disposizioni precedenti è punita con la pena detentiva fino a tre anni e con la pena pecuniaria fino a sei retribuzioni annuali.
Da anni la “Minder-Initiative” – dal nome del suo promotore – detta anche “Abzocker Initiative” (“Iniziativa contro i profittatori”) era molto popolare nel Paese.
Eppure l’intero governo e una grande maggioranza del parlamento e dei partiti, hanno condotto una tenace campagna per il no. Economie suisse, la confindustria elvetica, ha sperperato 8 milioni di franchi – un record storico – riempiendo la Svizzera di inutili manifesti. Minder e i suoi sostenitori sono invece riusciti a convincere 7 votanti su 10 con i modesti 200 000 franchi del loro budget.
Daniel Vasella, 72 milioni di franchi per non far niente

Come ha scritto un editorialista sull’imminente referendum “8 milioni non possono niente contro 72 milioni”. Quest’ultimo è il “compenso” (!) che fino a due settimane fa Daniel Vasella, il presidente uscente di Novartis, avrebbe dovuto ricevere in sei anni, in cambio dell’impegno a non lavorare per la concorrenza – peraltro dopo che il suo ultimo stipendio annuo era stato di 40 milioni. Scoperto da un hacker e divulgato come prima notizia in stampa e telegiornali, lo stipendio di “72 milioni per non far niente” di Vasella ha dominato i media per due settimane, infiammando ulteriormente il sentimento di indignazione che da dieci anni la grande maggioranza degli svizzeri nutre verso retribuzioni annue dei manager che vanno dai 10 ai 150 milioni franchi.
Il 22 febbraio Vasella si è piegato allo sdegno popolare e ha annunciato davanti all’assemblea degli azionisti che rinunciava ai 72 milioni e che aveva sbagliato ad accettarli. Troppo tardi.
Forse sono proprio le parole di dieci giorni fa dello stesso Vasella davanti a 2000 dei suoi azionisti quelle che oggi meglio spiegano perché il sì “Contro le retribuzioni abusive” ha vinto con la percentuale del 68%, record storico in Svizzera:
Da questa vicenda traggo una conseguenza positiva: la trasparenza è il più importante fattore regolativo dei salari dei manager, anche in assenza di leggi dello Stato.”
Prosperi e felici, ma contrari alle disuguaglianze economiche crescenti
La Svizzera è ai primissimi posti nelle classifiche di prosperità e felicità dei suoi abitanti e gode da decenni di tassi di disoccupazione sotto il 2-4%. Eppure è proprio la Svizzera l’epicentro mondiale delle iniziative per ridurre i divari di reddito e di patrimonio che crescono da 30 anni nei Paesi industriali.
In autunno, infatti, seguirà un secondo referendum costituzionale, quello sulla iniziativa popolare “1:12 per salari equi”. In inverno seguirà un terzo referendum costituzionale per introdurre una tassa di successione del 20% sulle eredità superiori a 2 milioni di franchi.
L’ostilità degli Svizzeri all’aumento delle diseguaglianze economiche dimostra la fragilità della teoria del “trickle down”, secondo la quale tutti i ceti meno abbienti profittano almeno un poco, se i più abbienti accrescono (anche moltissimo) i loro redditi – anche se oltre ogni misura e merito. In teoria potrebbe anche essere vero che gli svizzeri meno abbienti stiano oggettivamente un poco meglio proprio grazie al fatto che i più abbienti raddoppino redditi e patrimoni ogni dieci anni. Ma i ¾ degli svizzeri non ne sono convinti, o comunque ritengono inaccettabile questa dinamica sociale.
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6.7.12
Economia autistica della crescita
Marco Morosini (Avvenire)
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17.5.12
Futuro sostenibile - Meno consumi più benessere
Marco Morosini (Avvenire)
«Economia della sufficienza» è un ossimoro per buona parte degli economisti. Uno di loro mi diceva: «Per noi economisti, di più è sempre meglio». Per questo sarà così interessante leggere quanto si dirà al Simposio "Economia della sufficienza - Ciò che manca nell’Agenda per Rio", che il Wuppertal Institut e la Fondazione Heinrich Böll organizzano a Berlino il 21 e 22 maggio in onore di Wolfgang Sachs (programma:http://qualenergia.it/articoli/20120403-economia-della-sufficienza-cio-che-manca-nell-agenda-rio ). Scelti o subìti, i limiti ecologici e la sufficienza sono concetti ai quali il sociologo tedesco ha dedicato una vita di studi, di scritti e di militanza culturale per un mondo in cui giustizia sociale e salvaguardia della natura siano una la condizione per l’altra.
La nostra contraddizione è clamorosa. Da una parte, le scienze naturali stimano con crescente precisione i limiti biofisici da non superare nello sfruttamento della natura. Dall’altra, la maggioranza degli economisti, dei politici e dei leader economici insistono che "di più è sempre meglio" e cercano di stimolare ulteriormente i consumi materiali anche nei paesi ricchi. Costoro non si accontentano neppure di una crescita costante ma invocano addirittura una crescita esponenziale, cioè un’infinita "crescita della crescita": ogni 20 anni l’economia dovrebbe raddoppiarsi. Per sempre.
Si deve a un collettivo di scienziati internazionali guidati da Johan Rockström, dello Stockholm Environment Institute (www.sei-international.org ), la formulazione nel 2009 di nove "limiti planetari" (planetary boundaries), cioè determinati valori di alcuni parametri ecologici che sarebbe prudente non superare con le attività umane, per evitare gravi squilibri nella biosfera: emissioni di CO2, di azoto, di fosforo, acidificazione dei mari, prelievo di acqua dolce, appropriazione umana dei suoli, velocità di perdita della biodiversità. Niente di simile esiste invece da parte della maggioranza degli scienziati sociali - e tanto meno degli economisti - circa i limiti che sarebbe bene dare al nostro agire individuale e collettivo, per restare dentro i "limiti planetari". Quanta energia pro capite possiamo permetterci? Quanti chilometri in automobile o in aereo? Quanti chilometri per cibi e beni che spostiamo per il mondo? Quanto spesso è opportuno rinnovare i nostri veicoli, vestiti, apparecchi elettrici? Quante materie prime possiamo usare per fabbricarli?
Se la formulazione di limiti biofisici prudenziali è soggetta a diverse approssimazioni e presunzioni, la formulazione di limiti prudenziali ai consumi materiali individuali è ancora più precaria. Contano infatti anche fattori poco conoscibili: la futura grandezza della popolazione, la distribuzione più o meno equa dei beni, il progresso ecologico nelle tecniche di produzione, uso e smaltimento, l’invenzione e diffusione di nuovi beni. Eppure, se davvero vogliamo restare entro i "limiti planetari", non è ammissibile accettare come fatalità o addirittura auspicare l’ulteriore espansione dei consumi materiali nei Paesi industrializzati.
Certo, l’inventiva tecnica e sociale permetterà anche a noi di continuare a migliorare la qualità della vita. Ma dovremo aspirare solo a quei miglioramenti che siano compatibili con una forte riduzione del nostro attuale consumo di natura, perché esso è incompatibile sia con i "limiti planetari" ecologici sia con il legittimo bisogno di due terzi dell’umanità di aumentare i propri consumi materiali.
Più benessere, con meno consumo. È questa la sfida e la nuova frontiera del progresso nelle società più ricche. Quei governi, istituzioni e imprese che dichiarano di far propria questa sfida puntano però su un’unica strategia: un aumento dell’efficienza tecnica, in modo che produzione, trasporti ed edifici riescano a consumare sempre meno energia e altre risorse per ogni unità di merce o di servizio prodotta. Un aumento di efficienza tecnica è molto necessario.
Ma i profeti dell’efficienza sembrano ignorare il bilancio storico degli aumenti di efficienza. Da secoli quando i manufatti e i servizi diventano più efficienti se presi uno per uno, le prestazioni diventano più accessibili e più a buon mercato, e il consumo complessivo di energia e risorse naturali cresce, invece di diminuire. È il cosiddetto effetto rebound (rimbalzo). È per questo che senza un’«economia della sufficienza» l’«economia dell’efficienza» non solo non basta, ma complessivamente è controproduttiva.
Le élite politiche ed economiche sembrano non rendersi conto che entrambe le strategie, efficienza e sufficienza, sono indispensabili. Ma milioni di cittadini del mondo - certo, per ora una piccola minoranza - lo stanno capendo e provano a praticare nuovi stili di vita (www.bilancidigiustizia.it). Nel campo della mobilità, per esempio, si possono moderare il numero, la velocità e la distanza degli spostamenti in automobile e il peso del veicolo che si sceglie. Si possono ridurre la frequenza e il numero dei chilometri dei viaggi aerei.
A questi due mezzi si può preferire il treno, quando il divario di tempo non sia proibitivo. Invece che a motore, parte dei tragitti brevi possono avvenire a piedi o in bicicletta, con beneficio anche per la salute. Si può ridurre la frequenza di acquisto di articoli nuovi per sostituire quelli vecchi o presunti vecchi: veicoli, vestiti, mobili, apparecchi elettrici. Più a lungo si usa un bene, più vengono ammortizzati i suoi costi in energia, materiali e inquinamento e più si ritardano costi e danni per produrre un nuovo bene e smaltire quello dismesso.
Nell’alimentazione si posso preferire più spesso cibi locali e di stagione, piuttosto che quelli trasportati, con dispendio di energia e di emissioni nocive, da lontanissimo e nelle stagioni più disparate. Nell’abitare si possono moderare il riscaldamento e il raffreddamento dei locali, risparmiando energia, inquinamento e denaro. Lo stesso si può fare con l’illuminazione e gli altri apparecchi elettrici e spegnendo, quando non necessari, i sempre più numerosi stand-by che consumano elettricità giorno e notte.
Purtroppo un disincentivo a questi comportamenti è la consapevolezza che i più non li praticano, quindi la loro percezione come sacrifici inutili e ingiusti. Per questo occorre anche una dimensione collettiva della sufficienza. Nel suo ultimo libro Futuro sostenibile (www.edizioniambiente.it/eda/catalogo/libri/609 ), per esempio, Wolfgang Sachs propone che il legislatore non consenta la costruzione di automobili più veloci di 120 km/h e treni più veloci di 200 km/h, con gran risparmio dell’energia usata dai veicoli, che cresce in proporzione al quadrato della velocità. Agli ascensori e alle scale mobili, gli architetti potrebbero affiancare scale invitanti, ben visibili e accessibili, invece di nasconderle dietro una porta mal segnalata.
Infine, c’è una dimensione politica e culturale della sufficienza. Come scrive Sachs «il passaggio a un’economia sostenibile è pensabile solo con entrambe le strategie: ecoefficienza, cioè una reinvenzione dei mezzi tecnici, ed ecosufficienza, cioè una saggia moderazione delle pretese».
Perché questo avvenga in tempi utili, occorre che l’idea guida della sufficienza diventi priorità nella politica e predomini nella cultura di massa. Dal raggiungimento di questo obiettivo sembrano separarci anni luce. Ma la storia ci ha insegnato che altre tappe del progresso umano apparentemente inaccessibili sono state raggiunte prima di quanto molti pensassero.
«Economia della sufficienza» è un ossimoro per buona parte degli economisti. Uno di loro mi diceva: «Per noi economisti, di più è sempre meglio». Per questo sarà così interessante leggere quanto si dirà al Simposio "Economia della sufficienza - Ciò che manca nell’Agenda per Rio", che il Wuppertal Institut e la Fondazione Heinrich Böll organizzano a Berlino il 21 e 22 maggio in onore di Wolfgang Sachs (programma:http://qualenergia.it/articoli/20120403-economia-della-sufficienza-cio-che-manca-nell-agenda-rio ). Scelti o subìti, i limiti ecologici e la sufficienza sono concetti ai quali il sociologo tedesco ha dedicato una vita di studi, di scritti e di militanza culturale per un mondo in cui giustizia sociale e salvaguardia della natura siano una la condizione per l’altra.
La nostra contraddizione è clamorosa. Da una parte, le scienze naturali stimano con crescente precisione i limiti biofisici da non superare nello sfruttamento della natura. Dall’altra, la maggioranza degli economisti, dei politici e dei leader economici insistono che "di più è sempre meglio" e cercano di stimolare ulteriormente i consumi materiali anche nei paesi ricchi. Costoro non si accontentano neppure di una crescita costante ma invocano addirittura una crescita esponenziale, cioè un’infinita "crescita della crescita": ogni 20 anni l’economia dovrebbe raddoppiarsi. Per sempre.
Si deve a un collettivo di scienziati internazionali guidati da Johan Rockström, dello Stockholm Environment Institute (www.sei-international.org ), la formulazione nel 2009 di nove "limiti planetari" (planetary boundaries), cioè determinati valori di alcuni parametri ecologici che sarebbe prudente non superare con le attività umane, per evitare gravi squilibri nella biosfera: emissioni di CO2, di azoto, di fosforo, acidificazione dei mari, prelievo di acqua dolce, appropriazione umana dei suoli, velocità di perdita della biodiversità. Niente di simile esiste invece da parte della maggioranza degli scienziati sociali - e tanto meno degli economisti - circa i limiti che sarebbe bene dare al nostro agire individuale e collettivo, per restare dentro i "limiti planetari". Quanta energia pro capite possiamo permetterci? Quanti chilometri in automobile o in aereo? Quanti chilometri per cibi e beni che spostiamo per il mondo? Quanto spesso è opportuno rinnovare i nostri veicoli, vestiti, apparecchi elettrici? Quante materie prime possiamo usare per fabbricarli?
Se la formulazione di limiti biofisici prudenziali è soggetta a diverse approssimazioni e presunzioni, la formulazione di limiti prudenziali ai consumi materiali individuali è ancora più precaria. Contano infatti anche fattori poco conoscibili: la futura grandezza della popolazione, la distribuzione più o meno equa dei beni, il progresso ecologico nelle tecniche di produzione, uso e smaltimento, l’invenzione e diffusione di nuovi beni. Eppure, se davvero vogliamo restare entro i "limiti planetari", non è ammissibile accettare come fatalità o addirittura auspicare l’ulteriore espansione dei consumi materiali nei Paesi industrializzati.
Certo, l’inventiva tecnica e sociale permetterà anche a noi di continuare a migliorare la qualità della vita. Ma dovremo aspirare solo a quei miglioramenti che siano compatibili con una forte riduzione del nostro attuale consumo di natura, perché esso è incompatibile sia con i "limiti planetari" ecologici sia con il legittimo bisogno di due terzi dell’umanità di aumentare i propri consumi materiali.
Più benessere, con meno consumo. È questa la sfida e la nuova frontiera del progresso nelle società più ricche. Quei governi, istituzioni e imprese che dichiarano di far propria questa sfida puntano però su un’unica strategia: un aumento dell’efficienza tecnica, in modo che produzione, trasporti ed edifici riescano a consumare sempre meno energia e altre risorse per ogni unità di merce o di servizio prodotta. Un aumento di efficienza tecnica è molto necessario.
Ma i profeti dell’efficienza sembrano ignorare il bilancio storico degli aumenti di efficienza. Da secoli quando i manufatti e i servizi diventano più efficienti se presi uno per uno, le prestazioni diventano più accessibili e più a buon mercato, e il consumo complessivo di energia e risorse naturali cresce, invece di diminuire. È il cosiddetto effetto rebound (rimbalzo). È per questo che senza un’«economia della sufficienza» l’«economia dell’efficienza» non solo non basta, ma complessivamente è controproduttiva.
Le élite politiche ed economiche sembrano non rendersi conto che entrambe le strategie, efficienza e sufficienza, sono indispensabili. Ma milioni di cittadini del mondo - certo, per ora una piccola minoranza - lo stanno capendo e provano a praticare nuovi stili di vita (www.bilancidigiustizia.it). Nel campo della mobilità, per esempio, si possono moderare il numero, la velocità e la distanza degli spostamenti in automobile e il peso del veicolo che si sceglie. Si possono ridurre la frequenza e il numero dei chilometri dei viaggi aerei.
A questi due mezzi si può preferire il treno, quando il divario di tempo non sia proibitivo. Invece che a motore, parte dei tragitti brevi possono avvenire a piedi o in bicicletta, con beneficio anche per la salute. Si può ridurre la frequenza di acquisto di articoli nuovi per sostituire quelli vecchi o presunti vecchi: veicoli, vestiti, mobili, apparecchi elettrici. Più a lungo si usa un bene, più vengono ammortizzati i suoi costi in energia, materiali e inquinamento e più si ritardano costi e danni per produrre un nuovo bene e smaltire quello dismesso.
Nell’alimentazione si posso preferire più spesso cibi locali e di stagione, piuttosto che quelli trasportati, con dispendio di energia e di emissioni nocive, da lontanissimo e nelle stagioni più disparate. Nell’abitare si possono moderare il riscaldamento e il raffreddamento dei locali, risparmiando energia, inquinamento e denaro. Lo stesso si può fare con l’illuminazione e gli altri apparecchi elettrici e spegnendo, quando non necessari, i sempre più numerosi stand-by che consumano elettricità giorno e notte.
Purtroppo un disincentivo a questi comportamenti è la consapevolezza che i più non li praticano, quindi la loro percezione come sacrifici inutili e ingiusti. Per questo occorre anche una dimensione collettiva della sufficienza. Nel suo ultimo libro Futuro sostenibile (www.edizioniambiente.it/eda/catalogo/libri/609 ), per esempio, Wolfgang Sachs propone che il legislatore non consenta la costruzione di automobili più veloci di 120 km/h e treni più veloci di 200 km/h, con gran risparmio dell’energia usata dai veicoli, che cresce in proporzione al quadrato della velocità. Agli ascensori e alle scale mobili, gli architetti potrebbero affiancare scale invitanti, ben visibili e accessibili, invece di nasconderle dietro una porta mal segnalata.
Infine, c’è una dimensione politica e culturale della sufficienza. Come scrive Sachs «il passaggio a un’economia sostenibile è pensabile solo con entrambe le strategie: ecoefficienza, cioè una reinvenzione dei mezzi tecnici, ed ecosufficienza, cioè una saggia moderazione delle pretese».
Perché questo avvenga in tempi utili, occorre che l’idea guida della sufficienza diventi priorità nella politica e predomini nella cultura di massa. Dal raggiungimento di questo obiettivo sembrano separarci anni luce. Ma la storia ci ha insegnato che altre tappe del progresso umano apparentemente inaccessibili sono state raggiunte prima di quanto molti pensassero.
26.7.11
Nucleare, sfida alla ragione
L'ACCUSA
Desidero esprimere un parere francamente critico riguardo alle affermazioni riportate nell’intervista al filosofo e teologo Robert Spaemann pubblicata da Avvenire, tenendo presente che il dissenso più autorevole alle posizioni in essa sostenute di può desumere indirettamente dalle parole pronunciate da Benedetto XVI, durante l’Angelus del 27 luglio 2007, in occasione del 50° anniversario dello statuto dell’AIEA (Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica): «I cambiamenti epocali avvenuti negli ultimi 50 anni evidenziano come, nel difficile crocevia in cui l’umanità si trova, sia sempre più attuale e urgente l’impegno di incoraggiare la non proliferazione di armi nucleari, promuovere un progressivo e concordato disarmo nucleare e favorire l’uso pacifico e sicuro della tecnologia nucleare per un autentico sviluppo, rispettoso dell’ambiente e sempre attento alle popolazioni più svantaggiate. (...)».
Non mi sembra che il Santo Padre individui nella fissione nucleare, volta naturalmente a scopi pacifici, quella empia violazione dei principi costitutivi della creazione insinuata da Spaemann, né tantomeno che consideri l’integrità dell’atomo equiparabile a quella del genoma. Non si può mettere sullo stesso piano l’Albero della vita e la materia inanimata. Non sono teologo nè filosofo ma un semplice medico, cristiano e medico nucleare che da anni utilizza radionuclidi non sigillati per esami diagnostici (scintigrafie, PET) o trattamenti terapeutici (con radioiodio) senza sentirsi per questo motivo arrogante nei confronti del creato: sento di poter dire che altro è il timore di Dio, per cui siamo chiamati a rispettare la sua opera creatrice, altro è il senso di “hybris” che traspare dalle parole di Spaemann. Mi sono trovato spesso, da medico nucleare, a dover difendere l’uso delle radiazioni ionizzanti (in ambito medico) dalle accuse di teratogenicità e cancerogenicità e ho percepito chiaramente nei miei interlocutori la presenza del “senso del magico” o religioso-naturale.
Le perplessità espresse sulla capacità dell’uomo di governare il nucleare sono certamente fondate e condivisibili, ma al di là dei discorsi tecnici per cui ognuno può essere pro o contro, quello che preoccupa nelle tesi di Spaemann sono proprio le affermazioni filosofiche, per cui si attribuisce al nucleo degli atomi e ai legami delle loro particelle un valore immanente, più che simbolico: l’idea che sia arrogante chi rompe i nuclei di atomi pesanti per mettere energia a disposizione degli uomini e non lo sia chi riempie l’aria che respiriamo con i prodotti di combustione dei materiali fossili ci rimanda a Prometeo e non certo all’antropologia cristiana.
E in effetti le radiazioni hanno in sé qualcosa di intrinsecamente metafisico, anzi francamente animistico, perché non si vedono, non si toccano, non puzzano, ma fanno molto male… Questo lo abbiamo visto con chiarezza nella propaganda antinucleare prima del referendum, per cui le parole di un cantante valevano più di quelle di tanti professori universitari. E d’altra parte, come spiegare l’attenzione rivolta dai media alla catastrofe nucleare ambientale di Fukushima (tutta ancora da valutare, misurare, anche nei suoi effetti biologici sulle persone contaminate) e la relativa disattenzione agli uomini e alle donne morte e disperse per l’abbinamento terremoto-tsunami (15-20.000 persone almeno)? È eccessivo leggere in quest’atteggiamento uno spirito squisitamente religioso (pagano). Perdonatemi, ma sembra proprio questa la chiave di lettura di tanti pronunciamenti antinucleari; gli dèi, offesi dalla presenza delle centrali nucleari, hanno punito gli uomini con lo tsunami. Riccardo Schiavo
LA DIFESA
«L'Europa vive da secoli della menzogna del progresso al singolare. (…) A chi nomina il progresso dico: progresso di cosa e in quale direzione?» ha scritto Spaemann in questa pagina. Anche a me ogni discorso che nomini ancora la «tecnica» e il «progresso» al singolare sembra purtroppo inservibile. Questo errore - che pur alcune menti fini non avrebbero fatto un millennio anni fa - penso a un Guglielmo di Ockham, era forse scusabile nella Belle époque, quando i parigini facevano «Oh, il progresso!» davanti alla torre Eiffel illuminata. Ma è imperdonabile oggi, 40 anni dopo le riflessioni di Günter Anders e di Hans Jonas sulla intrinseca diversità delle tecniche, alcune delle quali hanno ora assunto una portata nello spazio e nel tempo e una irreversibilità mai esistite.
Ma perché restringere la riflessione all’incontrollabilità dell’attuale tecnologia atomica? La riflessione etica sulla pluralità delle tecniche sarebbe indispensabile anche se non avessimo mai imparato a “rompere gli atomi”. Forse l’umanità sa prevedere e controllare le conseguenze dei 50 miliardi di tonnellate di gas di serra che emette ogni anno, mentre la biosfera può assorbirne 10 senza alterare il clima? No - dicono migliaia di climatologi - non sappiamo prevedere le conseguenze di queste emissioni. Più umilmente, essi sanno solo disegnare scenari grossolani più probabili e altri meno probabili. Il primo problema quindi è cognitivo. Ma quando si guida a 100 all’ora con gli occhi bendati, il secondo problema è etico. Sappiamo che non siamo capaci di tornare indietro da certe strade intraprese: i nostri gas di serra, che in parte causeranno conseguenze per un millennio, non sappiamo come ritirarli fuori dall’atmosfera e dagli oceani.
Con 100 miliardi di dollari è tecnicamente possibile rifare entro il 2030 l’infrastruttura energetica mondiale, rifondandola al 100% sulle energie rinnovabili e a costi inferiori di quelli dell’energia fossile e atomica. Lo affermano gli ingegneri statunitensi Mark Jacobson e Mark Delucchi nel più completo studio mai realizzato sul futuro delle energie rinnovabili (“Energy policy”, marzo 2011). Ma sapremo controllare le conseguenze di queste nuove tecnologie se si moltiplicheranno senza freno? L’euforia per le fonti rinnovabili comporta il rischio di concentrarsi solo sulla qualità delle fonti, continuando a lasciar crescere la quantità dell’energia usata e sprecata, «tanto, è rinnovabile….». Per questo, partendo dal presupposto che ogni trasformazione energetica antropica ha un potenziale di disturbo della biosfera, alcuni scienziati propongono da decenni un limite volontario a 1500-2000 watt pro capite. Nel 2002 il governo elvetico, di cui fanno parte tutti i partiti tranne i Verdi, adottò lo scenario di una “società a 2000 watt” (novatlantis.ch). Il livello a cui porre questo limite è una scelta di prudenza etico-politica, eventualmente rivedibile in futuro. Per esempio, la potenza usata in Islanda è di 16 000 watt pro capite (in Usa 12 000, in Europa 6 000, in Bangladesh 500), in gran parte di fonte geotermica. In teoria, se l’umanità riuscisse a usare tecnologie con impatto altrettanto basso che in Islanda, forse 10 miliardi di persone potrebbero usare 160 TW (migliaia di miliardi di watt) senza aumentare il pregiudizio ambientale, invece dei 14 TW che usano ora 7 miliardi di persone. Si stima che l’insieme degli organismi viventi sui continenti assorbano 50-60 TW di energia solare. Volere usare altrettanta potenza solo per la nostra specie, cioè 5-6000 watt pro capite in 10 miliardi, o addirittura il triplo, presuppone un’intelligenza ecologica che la comunità vivente esercita da miliardi di anni ma che la specie umana non ha ancora dimostrato di avere. A buon conto, migliaia di scienziati e ingegneri stanno lavorando d’ingegno, per esempio in Svizzera, per riportare il consumo d’energia elvetico a 2000 watt pro capite, come negli anni ’60, senza atomo e quasi senza energie fossili. Anche loro lavorano per un progresso. Un altro. Marco Morosini
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6.4.11
Nous ne vivons pas dans le meilleur des mondes (technologiques)
Marco Morosini, chercheur en développement durable à l'Ecole polytechnique fédérale de Zuric (Le Monde)
Le Japon est peut-être le seul pays capable de transformer – bien malgré lui – une catastrophe industrielle en un boomerang revenant dans le figure des prophètes des mégatechnologies. Il n'est donc pas improbable que le tragique tremblement de terre japonais – comme celui de Lisbonne en 1755 – ébranle la foi de ceux qui pensent vivre dans le meilleur des mondes (technologiques) possibles.
Celui qui se retrouve au bord de la catastrophe nucléaire, ce n'est pas un pays dysfonctionnel et approximatif mais un pays qui a envahi le monde avec des produits technologiques parfaits (les inventeurs du "zero défaut") et des voitures qui ont la plus faible proportion de pannes, le pays avec la plus grande connaissance des tremblements de terre et de tsunamis et avec la plus haute compétence antisismique, le pays avec le nombre le plus élevé de réacteurs nucléaires par habitant (après la France) et la plus ample expérience dans les dommages nucléaires. Donc, beaucoup de gens se demandent : si les meilleurs techniciens du monde ne savent pas contrôler leurs réacteurs, pourquoi devrions-nous croire à ceux qui nous promettent que d'autres seraient capable de le faire ?
Avec le bon sens dont certains experts semblent pouvoir se passer, certaines catastrophes technologiques et économiques semblent faciles à comprendre par la suite. Prenons par exemple le Concorde, l'avion passager supersonique qui est maintenant dans un musée. Dans l'an 2000 il aurait dû être l'avion le plus vendu au monde, disaient les fabricants. Aujourd'hui, il semble bizarre que tant de techniciens aient cru que dans un monde où les coûts et les effets climatiques du pétrole sont de plus en plus grands, on aurait pu vendre des centaines d'avions supersoniques qui consomment et polluent le triple des autres. Ou prenons les "tours jumelles". Selon leur concepteur elles auraient dû résister à l'impact mécanique d'un jumbo-jet ; en fait, le 11-Septembre ce n'est pas l'impact qui les a fait effondrer mais plutôt le stress thermique du kérosène incendié – que le concepteur n'avait pas calculé.
A Fukushima peut-être que cela a été pareil : les ingénieurs avaient pensé à de nombreuses hypothèses – mais pas à toutes. Les experts du risque le confirmeraient : avec les mégatechnologies la possibilité de l'événement le plus adverse est bien réelle, mais sa probabilité est si faible que certains d'entre eux disent au grand public qu'elle est "pratiquement" nulle, que les centrales atomiques "sont sûres". Or si c'était vraiment le cas, les compagnies d'assurance se battraient pour pouvoir assurer un risque, où il y aurait seulement à gagner et "certainement" rien à perdre. La réalité est bien différente.
En Suisse par exemple chaque centrale est assurée pour un maximum de 1 milliard de francs, contre une perte possible de 100 milliards, estimés par l'Office fédéral de la protection civile. Un projet de loi du "vert libéral" Martin Baeumle vise à introduire une assurance obligatoire pour dégâts de 500 milliards, ce qui conduirait à des augmentations de 5 à 50 centimes par kWh (ce denier coûte maintenant 20 centimes). En Allemagne, le maximum de dommages couvert est de 2,5 milliards d'euros par centrale, par rapport à un maximum de dégâts de 5 500 milliards estimé par des études fédérales. D'autres estimations parviennent à 11 000 milliards d'euros. C'est pourquoi un groupe d'organisations collecte des signatures en Allemagne pour introduire une vraie assurance obligatoire.
UN SIGNAL FORT DU MARCHÉ DE L'ASSURANCE
Selon ces chiffres, les centrales nucléaires, contrairement à la moindre mobylette, fonctionnent presque sans assurance. Il est intéressant de noter que si pour certaines élites, "le marché doit tout diriger", lorsqu'il s'agit des risques atomiques les mêmes ignorent le signal fort et clair du marché de l'assurance – qui généralement est en mesure de mettre un prix sur tout.
Constatons aussi que dans le cas des risques atomiques, les réponses des assureurs et du philosophe sont similaires. Le fait n'est pas que les assureurs calculent une prime trop élevée pour les centrales atomiques. Le fait est tout simplement qu'ils n'assument pas ce risque. Et ce à aucun prix. Normalement le prix pour couvrir un risque est basé sur la multiplication du montant maximum de dégâts par la probabilité qu'il se produise. Mais là où le dommage est irréparable et incalculable, le fait que sa probabilité supposée soit d'un millionième ou bien d'un milliardième, cela ne change en rien.
Lorsque le risque est la perte totale, il ne peut tout simplement pas être pris en charge. Dans l'âge des mégarisques il est donc sage de s'orienter vers la "heuristique de la peur", qui donne la préférence à considérer l'hypothèse la plus défavorables, quelle que soit sa probabilité, quand elle se réfère à une perte inacceptable. C'est bien là le message central du philosophe Hans Jonas, dans son ouvrage classique Le principe responsabilité. Une éthique pour la civilisation technologique (Flammarion, 1979), trop souvent caricaturé en France en mettant à toutes les sauces le principe de précaution, depuis son entrée dans la Constitution.
"To-cheap-to-meter" (trop-bon-marché-pour-être-mesurée) disaient il y a quarante ans les prophètes de l'électricité atomique, en promettant la disparition des compteurs électriques de nos maisons. "Trop chère payée" semble être le message qui vient du Japon.
Le Japon est peut-être le seul pays capable de transformer – bien malgré lui – une catastrophe industrielle en un boomerang revenant dans le figure des prophètes des mégatechnologies. Il n'est donc pas improbable que le tragique tremblement de terre japonais – comme celui de Lisbonne en 1755 – ébranle la foi de ceux qui pensent vivre dans le meilleur des mondes (technologiques) possibles.
Celui qui se retrouve au bord de la catastrophe nucléaire, ce n'est pas un pays dysfonctionnel et approximatif mais un pays qui a envahi le monde avec des produits technologiques parfaits (les inventeurs du "zero défaut") et des voitures qui ont la plus faible proportion de pannes, le pays avec la plus grande connaissance des tremblements de terre et de tsunamis et avec la plus haute compétence antisismique, le pays avec le nombre le plus élevé de réacteurs nucléaires par habitant (après la France) et la plus ample expérience dans les dommages nucléaires. Donc, beaucoup de gens se demandent : si les meilleurs techniciens du monde ne savent pas contrôler leurs réacteurs, pourquoi devrions-nous croire à ceux qui nous promettent que d'autres seraient capable de le faire ?
Avec le bon sens dont certains experts semblent pouvoir se passer, certaines catastrophes technologiques et économiques semblent faciles à comprendre par la suite. Prenons par exemple le Concorde, l'avion passager supersonique qui est maintenant dans un musée. Dans l'an 2000 il aurait dû être l'avion le plus vendu au monde, disaient les fabricants. Aujourd'hui, il semble bizarre que tant de techniciens aient cru que dans un monde où les coûts et les effets climatiques du pétrole sont de plus en plus grands, on aurait pu vendre des centaines d'avions supersoniques qui consomment et polluent le triple des autres. Ou prenons les "tours jumelles". Selon leur concepteur elles auraient dû résister à l'impact mécanique d'un jumbo-jet ; en fait, le 11-Septembre ce n'est pas l'impact qui les a fait effondrer mais plutôt le stress thermique du kérosène incendié – que le concepteur n'avait pas calculé.
A Fukushima peut-être que cela a été pareil : les ingénieurs avaient pensé à de nombreuses hypothèses – mais pas à toutes. Les experts du risque le confirmeraient : avec les mégatechnologies la possibilité de l'événement le plus adverse est bien réelle, mais sa probabilité est si faible que certains d'entre eux disent au grand public qu'elle est "pratiquement" nulle, que les centrales atomiques "sont sûres". Or si c'était vraiment le cas, les compagnies d'assurance se battraient pour pouvoir assurer un risque, où il y aurait seulement à gagner et "certainement" rien à perdre. La réalité est bien différente.
En Suisse par exemple chaque centrale est assurée pour un maximum de 1 milliard de francs, contre une perte possible de 100 milliards, estimés par l'Office fédéral de la protection civile. Un projet de loi du "vert libéral" Martin Baeumle vise à introduire une assurance obligatoire pour dégâts de 500 milliards, ce qui conduirait à des augmentations de 5 à 50 centimes par kWh (ce denier coûte maintenant 20 centimes). En Allemagne, le maximum de dommages couvert est de 2,5 milliards d'euros par centrale, par rapport à un maximum de dégâts de 5 500 milliards estimé par des études fédérales. D'autres estimations parviennent à 11 000 milliards d'euros. C'est pourquoi un groupe d'organisations collecte des signatures en Allemagne pour introduire une vraie assurance obligatoire.
UN SIGNAL FORT DU MARCHÉ DE L'ASSURANCE
Selon ces chiffres, les centrales nucléaires, contrairement à la moindre mobylette, fonctionnent presque sans assurance. Il est intéressant de noter que si pour certaines élites, "le marché doit tout diriger", lorsqu'il s'agit des risques atomiques les mêmes ignorent le signal fort et clair du marché de l'assurance – qui généralement est en mesure de mettre un prix sur tout.
Constatons aussi que dans le cas des risques atomiques, les réponses des assureurs et du philosophe sont similaires. Le fait n'est pas que les assureurs calculent une prime trop élevée pour les centrales atomiques. Le fait est tout simplement qu'ils n'assument pas ce risque. Et ce à aucun prix. Normalement le prix pour couvrir un risque est basé sur la multiplication du montant maximum de dégâts par la probabilité qu'il se produise. Mais là où le dommage est irréparable et incalculable, le fait que sa probabilité supposée soit d'un millionième ou bien d'un milliardième, cela ne change en rien.
Lorsque le risque est la perte totale, il ne peut tout simplement pas être pris en charge. Dans l'âge des mégarisques il est donc sage de s'orienter vers la "heuristique de la peur", qui donne la préférence à considérer l'hypothèse la plus défavorables, quelle que soit sa probabilité, quand elle se réfère à une perte inacceptable. C'est bien là le message central du philosophe Hans Jonas, dans son ouvrage classique Le principe responsabilité. Une éthique pour la civilisation technologique (Flammarion, 1979), trop souvent caricaturé en France en mettant à toutes les sauces le principe de précaution, depuis son entrée dans la Constitution.
"To-cheap-to-meter" (trop-bon-marché-pour-être-mesurée) disaient il y a quarante ans les prophètes de l'électricité atomique, en promettant la disparition des compteurs électriques de nos maisons. "Trop chère payée" semble être le message qui vient du Japon.
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4.4.11
Hermann Scheer, l’energia come questione etica
di Marco Morosini (Planext)
Il recente incidente nucleare di Fukushima e le sue ripercussioni in tutto il mondo circa il ruolo del nucleare nell’approvigionamento energetico riportano prepotentemente alla ribalta le teorie di Hermann Scheer, il politico tedesco che piu’ di ogni altro propugnava un’economia solare mondiale. Scheer, che e’ venuto a mancare nell’ottobre 2010, usava asserire che “chi non ha visioni, non dovrebbe fare politica”. In effetti, il suo maestro fu il visionario Willy Brandt e non il pragmatico Helmut Schmidt (“Chi ha visioni deve andare dal medico”).
Etica e sussidiarietà: questi furono i pilastri dell’approccio di Scheer alla questione energetica, un ambito in cui il perdurante dominio di economisti e tecnologi forse pare legittimo a più di un lettore. Eppure troppo alta è la posta energetica per lasciarla in mano ai tecnici. Le diverse opzioni energetiche hanno infatti tali conseguenze sulle generazioni presenti e future e sulla natura da farne una questione morale e politica, prima che tecnologica. Infatti, mentre i benefici delle energie fossili e dell’energia atomica si concentrano maggiormente nella parte più benestante della popolazione mondiale, i loro costi umani – per esempio il cambiamento climatico – ricadono sproporzionatamente su coloro che meno o punto profittano dei benefici, cioè sulla parte meno abbiente e più debole dell’umanità e specialmente sulle generazioni future.
La sussidiarietà (se un ente “più in basso” è capace di fare qualcosa, l’ente “più in alto” deve lasciargli tale compito e sostenerne l’azione) era la seconda idea guida che Scheer applicò alla questione energetica: mentre le fonti fossili (carbone, petrolio e gas) e atomiche implicano la concentrazione in grandi impianti centralizzati e in potenti oligopoli privati o statali, una buona parte delle energie rinnovabili (solari, eoliche, da biomassa, geotermiche) sono per loro natura decentrali, locali e polverizzate in milioni di piccoli produttori. Questa differenza ha profonde conseguenze politiche perchè nel primo caso è favorita la concentrazione di potere e ricchezza, mentre nel secondo caso è favorita la loro distribuzione diffusa tra i cittadini, sia in una nazione sia sul globo. Per questo l’opzione solare sarebbe importante anche per prevenire i conflitti, non solo per ridurre i danni ambientali. Secondo Scheer la politica ha un compito limitato ma fondamentale: quello di accelerare un cambiamento che è già in atto nella società ma che è troppo lento, creando sistemi di incentivazione individuale verso le opzioni che danno benefici collettivi o che riducono i danni e i rischi collettivi (per esempio l’alterazione del clima).
Proprio sulla velocità di questo cambiamento riemerge l’etica: ormai da molti anni la questione non è sul “se” ma sul “quando” la società umana passerà completamente alle energie rinnovabili. “L’imperativo energEtico” – questo il titolo del suo ultimo libro – sarebbe quello di attuare questo cambiamento in pochi decenni invece che in secoli, cioè prima che i rischi e i costi umani delle attuali tecnologie fossili e atomiche crescano in modo esponenziale. Già nel 1885 Rudolph Clausius, uno dei padri della termodinamica, scrisse che “l’umanità stava dilapidando il patrimonio naturale” e che nei prossimi secoli sarebbe stata costretta ad arrangiarsi con l’energia del sole. Anche tuttora molti di coloro che propugnano l’espasione delle tecnologie fossili e atomiche dicono che si tratta di “tecnologie ponte” verso una futura economia solare, in attesa che le tecnologie per questa diventino “mature”. Per Scheer invece il momento di questa trasformazione è adesso, cioè nei prossimi due o tre decenni. Non conosco un altro politico che ha svolto questa azione di catalizzatore più intensamente di Hermann Scheer. 1988: fonda Eurosolar, l’Associazione europea per le energie rinnovabili, che ha ora sedi in tredici Paesi europei e di cui era presidente. 2000: il Parlamento tedesco vara la storica legge per le energie rinnovabili (EEG) concepita da Scheer, a cui poi si ispirò la legislazione in cinquanta Paesi. Questa legge sancisce l’obbligo per i grandi produttori e distributori di acquistare con tariffa garantita per 15-20 anni dai piccoli produttori l’elettricità prodotta con energie rinnovabili. La tariffa si abbassa ogni anno per i nuovi impianti (degressione) in modo da generare una pressione verso tecnologie sempre più efficienti e da rendere un giorno superflua la sovvenzione; i sovracosti vengono distribuiti a tutti gli acquirenti di elettricità. 2001: fonda e presiede il World Council for Renewable Energy (WCRE), con l’obiettivo di favorire la creazione di un’agezia mondiale per le energie rinnovabili, con rango simile a quello della Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (IAEA, fondata nel 1957); l’obiettivo è raggiunto nel 2009 con la fondazione dell’agenzia IRENA (International Renewable Energy Agency) a cui aderiscono i governi di 130 nazioni. Scheer scrisse quattro libri, tradotti in molte lingue, tra le quali l’Italiano: Strategia solare (1996), Il solare e l’economia globale (2004), Autonomia energetica (2006), L’imperativo energEtico (2010). Ricevette numerosi premi internazionali tra i quali il World Solar Prize (1998) e il premio Nobel Alternativo “Right Livelihood Award” (1998). Nel 2002 “Time Magazine” lo nominò tra gli “Hero for the Green Century”.
La peculiarità di Scheer fu quella di trattare la questione energetica come una questione eminentemente politica. A proposito dell’Agenda 21 – il programma d’azione per lo sviluppo sostenibile adottato da 180 nazioni a Rio de Janeiro nel 1992 – Scheer scrisse che “se si vogliono davvero affrontare tutti i temi dell’Agenda 21, dobbiamo arrivare a una sorta di Agenda 1, con un unico punto all’ordine del giorno: un’economia energetica solare globale”. Infatti quasi tutti i principali problemi ambientali sono collegati con il problema energetico: usiamo e sprechiamo troppa energia e la otteniamo in prevalenza dalle fonti meno benigne. Scheer non era un tecnologo nè un ecologo. Aveva la formazione e l’esperienza del politico purosangue e fu per 30 anni deputato della SPD. Si diplomò in scienze economiche, giuridiche e politiche e la sua tesi di dottorato si intitolava “Partiti contro cittadini? Il futuro della democrazia partitica”. Prima degli studi universitari fu soldato volontario per due anni con il grado di luogotenente e dopo gli studi lavorò per due anni al Centro di ricerca nucleare di Karlsruhe. Forse questa esperienza diretta dell’ambiente militare e di quello dell’energia atomica contribuì a orientarlo verso la politica estera e del disarmo, facendone uno dei giovani talenti intorno a Willy Brandt ed Egon Bahr ed un possibile futuro ministro degli esteri. La sua decisione di dedicarsi alla questione energetica non fu un cambiamento di terreno ma fu la continuazione della sua vocazione di politico del disarmo. A metà degli anni 80 si convinse che il controllo delle risorse energetiche era uno dei principali campi di conflitto tra i popoli. La svolta verso un’economia energetica solare, decentrata e locale gli sembrò uno dei compiti principali della politica per la pace.
Il recente incidente nucleare di Fukushima e le sue ripercussioni in tutto il mondo circa il ruolo del nucleare nell’approvigionamento energetico riportano prepotentemente alla ribalta le teorie di Hermann Scheer, il politico tedesco che piu’ di ogni altro propugnava un’economia solare mondiale. Scheer, che e’ venuto a mancare nell’ottobre 2010, usava asserire che “chi non ha visioni, non dovrebbe fare politica”. In effetti, il suo maestro fu il visionario Willy Brandt e non il pragmatico Helmut Schmidt (“Chi ha visioni deve andare dal medico”).
Etica e sussidiarietà: questi furono i pilastri dell’approccio di Scheer alla questione energetica, un ambito in cui il perdurante dominio di economisti e tecnologi forse pare legittimo a più di un lettore. Eppure troppo alta è la posta energetica per lasciarla in mano ai tecnici. Le diverse opzioni energetiche hanno infatti tali conseguenze sulle generazioni presenti e future e sulla natura da farne una questione morale e politica, prima che tecnologica. Infatti, mentre i benefici delle energie fossili e dell’energia atomica si concentrano maggiormente nella parte più benestante della popolazione mondiale, i loro costi umani – per esempio il cambiamento climatico – ricadono sproporzionatamente su coloro che meno o punto profittano dei benefici, cioè sulla parte meno abbiente e più debole dell’umanità e specialmente sulle generazioni future.
La sussidiarietà (se un ente “più in basso” è capace di fare qualcosa, l’ente “più in alto” deve lasciargli tale compito e sostenerne l’azione) era la seconda idea guida che Scheer applicò alla questione energetica: mentre le fonti fossili (carbone, petrolio e gas) e atomiche implicano la concentrazione in grandi impianti centralizzati e in potenti oligopoli privati o statali, una buona parte delle energie rinnovabili (solari, eoliche, da biomassa, geotermiche) sono per loro natura decentrali, locali e polverizzate in milioni di piccoli produttori. Questa differenza ha profonde conseguenze politiche perchè nel primo caso è favorita la concentrazione di potere e ricchezza, mentre nel secondo caso è favorita la loro distribuzione diffusa tra i cittadini, sia in una nazione sia sul globo. Per questo l’opzione solare sarebbe importante anche per prevenire i conflitti, non solo per ridurre i danni ambientali. Secondo Scheer la politica ha un compito limitato ma fondamentale: quello di accelerare un cambiamento che è già in atto nella società ma che è troppo lento, creando sistemi di incentivazione individuale verso le opzioni che danno benefici collettivi o che riducono i danni e i rischi collettivi (per esempio l’alterazione del clima).
Proprio sulla velocità di questo cambiamento riemerge l’etica: ormai da molti anni la questione non è sul “se” ma sul “quando” la società umana passerà completamente alle energie rinnovabili. “L’imperativo energEtico” – questo il titolo del suo ultimo libro – sarebbe quello di attuare questo cambiamento in pochi decenni invece che in secoli, cioè prima che i rischi e i costi umani delle attuali tecnologie fossili e atomiche crescano in modo esponenziale. Già nel 1885 Rudolph Clausius, uno dei padri della termodinamica, scrisse che “l’umanità stava dilapidando il patrimonio naturale” e che nei prossimi secoli sarebbe stata costretta ad arrangiarsi con l’energia del sole. Anche tuttora molti di coloro che propugnano l’espasione delle tecnologie fossili e atomiche dicono che si tratta di “tecnologie ponte” verso una futura economia solare, in attesa che le tecnologie per questa diventino “mature”. Per Scheer invece il momento di questa trasformazione è adesso, cioè nei prossimi due o tre decenni. Non conosco un altro politico che ha svolto questa azione di catalizzatore più intensamente di Hermann Scheer. 1988: fonda Eurosolar, l’Associazione europea per le energie rinnovabili, che ha ora sedi in tredici Paesi europei e di cui era presidente. 2000: il Parlamento tedesco vara la storica legge per le energie rinnovabili (EEG) concepita da Scheer, a cui poi si ispirò la legislazione in cinquanta Paesi. Questa legge sancisce l’obbligo per i grandi produttori e distributori di acquistare con tariffa garantita per 15-20 anni dai piccoli produttori l’elettricità prodotta con energie rinnovabili. La tariffa si abbassa ogni anno per i nuovi impianti (degressione) in modo da generare una pressione verso tecnologie sempre più efficienti e da rendere un giorno superflua la sovvenzione; i sovracosti vengono distribuiti a tutti gli acquirenti di elettricità. 2001: fonda e presiede il World Council for Renewable Energy (WCRE), con l’obiettivo di favorire la creazione di un’agezia mondiale per le energie rinnovabili, con rango simile a quello della Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (IAEA, fondata nel 1957); l’obiettivo è raggiunto nel 2009 con la fondazione dell’agenzia IRENA (International Renewable Energy Agency) a cui aderiscono i governi di 130 nazioni. Scheer scrisse quattro libri, tradotti in molte lingue, tra le quali l’Italiano: Strategia solare (1996), Il solare e l’economia globale (2004), Autonomia energetica (2006), L’imperativo energEtico (2010). Ricevette numerosi premi internazionali tra i quali il World Solar Prize (1998) e il premio Nobel Alternativo “Right Livelihood Award” (1998). Nel 2002 “Time Magazine” lo nominò tra gli “Hero for the Green Century”.
La peculiarità di Scheer fu quella di trattare la questione energetica come una questione eminentemente politica. A proposito dell’Agenda 21 – il programma d’azione per lo sviluppo sostenibile adottato da 180 nazioni a Rio de Janeiro nel 1992 – Scheer scrisse che “se si vogliono davvero affrontare tutti i temi dell’Agenda 21, dobbiamo arrivare a una sorta di Agenda 1, con un unico punto all’ordine del giorno: un’economia energetica solare globale”. Infatti quasi tutti i principali problemi ambientali sono collegati con il problema energetico: usiamo e sprechiamo troppa energia e la otteniamo in prevalenza dalle fonti meno benigne. Scheer non era un tecnologo nè un ecologo. Aveva la formazione e l’esperienza del politico purosangue e fu per 30 anni deputato della SPD. Si diplomò in scienze economiche, giuridiche e politiche e la sua tesi di dottorato si intitolava “Partiti contro cittadini? Il futuro della democrazia partitica”. Prima degli studi universitari fu soldato volontario per due anni con il grado di luogotenente e dopo gli studi lavorò per due anni al Centro di ricerca nucleare di Karlsruhe. Forse questa esperienza diretta dell’ambiente militare e di quello dell’energia atomica contribuì a orientarlo verso la politica estera e del disarmo, facendone uno dei giovani talenti intorno a Willy Brandt ed Egon Bahr ed un possibile futuro ministro degli esteri. La sua decisione di dedicarsi alla questione energetica non fu un cambiamento di terreno ma fu la continuazione della sua vocazione di politico del disarmo. A metà degli anni 80 si convinse che il controllo delle risorse energetiche era uno dei principali campi di conflitto tra i popoli. La svolta verso un’economia energetica solare, decentrata e locale gli sembrò uno dei compiti principali della politica per la pace.
25.3.11
Ora è certo, il nucleare è un rischio. Ma quanto siamo disposti a rischiare?
Marco Morosini (da Avvenire)
Forse il Giappone è il solo paese capace di trasformare, suo malgrado, una catastrofe industriale in un boomerang per la fede nelle megatecnologie. Così non è improbabile che – come già quello di Lisbona del 1755 – questo tragico terremoto giapponese mini la fede di molti che pensavano di vivere nel migliore dei mondi (tecnologici) possibili. Sull’orlo della catastrofe atomica si è messo un paese che ha invaso il mondo con prodotti tecnologici perfetti e con automobili che hanno la più bassa quota d’avarie, il paese con la massima conoscenza di terremoti e tsunami e con la massima competenza antisismica, il paese con la più alta quota di centrali atomiche pro capite dopo la Francia e con la più vasta esperienza di danni atomici. Così molti si chiedono: se i tecnici più esperti del mondo non riescono a controllare i loro reattori atomici, perché dovremmo credere a chi promette che altri, meno esperti, siano invece capaci di farlo?
Con quel buon senso di cui molti esperti sembrano fare a meno, certe catastrofi tecnologiche ed economiche sembrano facili da capire a posteriori. Prendete per esempio il Concorde, l’aereo passeggeri supersonico oggi custodito in un museo: nel 2000 avrebbe dovuto essere l’aereo più venduto al mondo, dicevano i costruttori. Oggi pare strano che tanti tecnici pensassero davvero che, in un mondo dove il petrolio costa e inquina sempre di più, si potessero vendere centinaia di supersonici dal consumo triplo di quello degli altri aerei. O prendete le "Torri gemelle". Secondo il loro progettista dovevano resistere anche all’impatto meccanico di un Jumbo; in effetti l’11 settembre non crollarono per gli schianti, ma per lo stress termico del cherosene incendiato, che il progettista non aveva calcolato. Anche a Fukushima forse è andata così: sì, i tecnici avevano pensato a tante ipotesi, ma non a tutte. Gli esperti del rischio lo confermerebbero: con le megatecnologie la possibilità del massimo evento avverso è reale, ma la sua probabilità è così piccola che alcuni di essi raccontano alla popolazione che è "praticamente" nulla; che le centrali atomiche "sono sicure". Ma se così fosse, le compagnie d’assicurazione farebbero a gara per poter assicurare un rischio in cui c’è solo da guadagnare e "sicuramente" niente da perdere. Invece in Svizzera ogni centrale è assicurata per un massimale di 1 miliardo di franchi, a fronte di un danno possibile di 100 miliardi stimato dall’Ufficio federale della protezione civile; una proposta di legge chiede di introdurre un’assicurazione obbligatoria per 500 miliardi, il che porterebbe ad aumenti del kWh tra 5 e 50 centesimi (ora ne costa 20). In Germania il massimo danno coperto è di 2,5 miliardi di euro per centrale, contro un massimo danno stimato dallo Stato di 5.500 miliardi. Altre stime arrivano a 11 mila miliardi. Per questo numerose organizzazioni tedesche stanno raccogliendo firme per introdurre una vera assicurazione obbligatoria delle centrali (www.atomhaftpflicht.de). Secondo queste cifre le centrali atomiche, a differenza di un’automobile, viaggiano quasi senza assicurazione. È curioso che mentre secondo certe élites «il mercato deve dirigere tutto», per i rischi atomici proprio costoro ignorino il segnale forte e chiaro del mercato delle assicurazioni, capace altrimenti di dare un prezzo a qualunque rischio.
È interessante osservare che in questo caso la risposta del mercato del rischio e quella del filosofo sono simili. Di fatto, non è che le assicurazioni calcolino un premio troppo alto per le centrali atomiche. Semplicemente non assumono quel rischio. Per qualunque prezzo. Il prezzo di un rischio si basa sulla moltiplicazione dell’ammontare del massimo danno per la probabilità che esso si verifichi. Quando però il danno diventa incalcolabile e irreparabile, se la sua probabilità è di un milionesimo o un miliardesimo non cambia nulla. Quando il rischio è la perdita totale, semplicemente non può essere assunto. Nell’era dei megarischi è necessario quindi orientarsi all’"euristica della paura", che dà la preferenza a considerare l’ipotesi più avversa concepibile, a prescindere dal calcolo delle probabilità, quando essa contempla una perdita inammissibile. È questo il messaggio centrale del filosofo Hans Jonas, nel suo classico Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica (1979).
"Too-cheap-to-meter" (troppo-a-buon-mercato-per-misurarla) promettevano i profeti dell’elettricità atomica quando 30 anni fa pronosticavano la scomparsa dei contatori elettrici dalle nostre case. "Troppo costosa per poterla pagare" sembra invece il messaggio che ci viene dal Giappone.
Forse il Giappone è il solo paese capace di trasformare, suo malgrado, una catastrofe industriale in un boomerang per la fede nelle megatecnologie. Così non è improbabile che – come già quello di Lisbona del 1755 – questo tragico terremoto giapponese mini la fede di molti che pensavano di vivere nel migliore dei mondi (tecnologici) possibili. Sull’orlo della catastrofe atomica si è messo un paese che ha invaso il mondo con prodotti tecnologici perfetti e con automobili che hanno la più bassa quota d’avarie, il paese con la massima conoscenza di terremoti e tsunami e con la massima competenza antisismica, il paese con la più alta quota di centrali atomiche pro capite dopo la Francia e con la più vasta esperienza di danni atomici. Così molti si chiedono: se i tecnici più esperti del mondo non riescono a controllare i loro reattori atomici, perché dovremmo credere a chi promette che altri, meno esperti, siano invece capaci di farlo?
Con quel buon senso di cui molti esperti sembrano fare a meno, certe catastrofi tecnologiche ed economiche sembrano facili da capire a posteriori. Prendete per esempio il Concorde, l’aereo passeggeri supersonico oggi custodito in un museo: nel 2000 avrebbe dovuto essere l’aereo più venduto al mondo, dicevano i costruttori. Oggi pare strano che tanti tecnici pensassero davvero che, in un mondo dove il petrolio costa e inquina sempre di più, si potessero vendere centinaia di supersonici dal consumo triplo di quello degli altri aerei. O prendete le "Torri gemelle". Secondo il loro progettista dovevano resistere anche all’impatto meccanico di un Jumbo; in effetti l’11 settembre non crollarono per gli schianti, ma per lo stress termico del cherosene incendiato, che il progettista non aveva calcolato. Anche a Fukushima forse è andata così: sì, i tecnici avevano pensato a tante ipotesi, ma non a tutte. Gli esperti del rischio lo confermerebbero: con le megatecnologie la possibilità del massimo evento avverso è reale, ma la sua probabilità è così piccola che alcuni di essi raccontano alla popolazione che è "praticamente" nulla; che le centrali atomiche "sono sicure". Ma se così fosse, le compagnie d’assicurazione farebbero a gara per poter assicurare un rischio in cui c’è solo da guadagnare e "sicuramente" niente da perdere. Invece in Svizzera ogni centrale è assicurata per un massimale di 1 miliardo di franchi, a fronte di un danno possibile di 100 miliardi stimato dall’Ufficio federale della protezione civile; una proposta di legge chiede di introdurre un’assicurazione obbligatoria per 500 miliardi, il che porterebbe ad aumenti del kWh tra 5 e 50 centesimi (ora ne costa 20). In Germania il massimo danno coperto è di 2,5 miliardi di euro per centrale, contro un massimo danno stimato dallo Stato di 5.500 miliardi. Altre stime arrivano a 11 mila miliardi. Per questo numerose organizzazioni tedesche stanno raccogliendo firme per introdurre una vera assicurazione obbligatoria delle centrali (www.atomhaftpflicht.de). Secondo queste cifre le centrali atomiche, a differenza di un’automobile, viaggiano quasi senza assicurazione. È curioso che mentre secondo certe élites «il mercato deve dirigere tutto», per i rischi atomici proprio costoro ignorino il segnale forte e chiaro del mercato delle assicurazioni, capace altrimenti di dare un prezzo a qualunque rischio.
È interessante osservare che in questo caso la risposta del mercato del rischio e quella del filosofo sono simili. Di fatto, non è che le assicurazioni calcolino un premio troppo alto per le centrali atomiche. Semplicemente non assumono quel rischio. Per qualunque prezzo. Il prezzo di un rischio si basa sulla moltiplicazione dell’ammontare del massimo danno per la probabilità che esso si verifichi. Quando però il danno diventa incalcolabile e irreparabile, se la sua probabilità è di un milionesimo o un miliardesimo non cambia nulla. Quando il rischio è la perdita totale, semplicemente non può essere assunto. Nell’era dei megarischi è necessario quindi orientarsi all’"euristica della paura", che dà la preferenza a considerare l’ipotesi più avversa concepibile, a prescindere dal calcolo delle probabilità, quando essa contempla una perdita inammissibile. È questo il messaggio centrale del filosofo Hans Jonas, nel suo classico Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica (1979).
"Too-cheap-to-meter" (troppo-a-buon-mercato-per-misurarla) promettevano i profeti dell’elettricità atomica quando 30 anni fa pronosticavano la scomparsa dei contatori elettrici dalle nostre case. "Troppo costosa per poterla pagare" sembra invece il messaggio che ci viene dal Giappone.
27.8.09
La nuova regola: vivere con attenzione - Intervista a Marco Morosini
Rendere sostenibi i propri investimenti e le spese è la misura più efficace contro le crisi economiche
Esperimenti all'avanguardia, ma poca capacità di sistema. E l'Italia vista da Marco Morosini, curatore di Futuro sostenibile 2009 (in uscita a dicembre per Feltrinelli), seconda tappa del primo, pionieristico studio condotto da Wolfgang Sachs e dal Wuppertal Institut. I «bilancisti», ovviamente, rientrano nelle avanguardie positive.
E c'è da dire che coni Biland dl giustizia l'Italia, forse per la prima volta, fa scuola: ora, in Austria ci sono i Bilanzen der Gerechtigkelt...
«La peculiarità dei Bilanci di giustizia sta nel prendere alla lettera la parola bilancio: i partecipanti registrano tutte le spese e gli investimenti o comunque le voci più importanti. Inoltre non si limitano a spostare qualche spesa qua e là verso criteri più etici, ma cercano di farlo sistematicamente. Ovviamente, non sempre ci sono alternative alle scelte tradizionali; ma con una ricerca sistematica si scopre che le possibilità sono pi di quelle che si pensa».
Nel nuovo studio del Wuppertal Institut si parla molto del ruolo dei singoli: «vivere con attenzione», dal consumi ai risparmio energetico. Una ricetta anche contro la crisi?
«A lungo termine, rendere sostenibili (equi socialmente e responsabili ecologicamente) i propri investimenti e spese è la misura più efficace per evitare le crisi economiche. Le crisi finanziarie, invece, hanno spesso cause che dipendono dal disordine della regolamentazione del mondo finanziario e imprenditoriale; un disordine determinato da politica e lobby economiche, ben poco da uno stile di vita collettivo. L'Islanda è ai primi posti negli indici internazionali di sviluppo; ciò non ha impedito che una cattiva regolamentazione finanziaria la precipitasse in una delle crisi più gravi della sua storia. A livello di singoli, criteri di spesa più responsabili possono aiutare chi è in difficoltà per la crisi. Le famiglie dei bilanci spendono meno della media. Se alcuni prodotti etici possono costare di più , altri costano meno: un buon riso bio, in sacchi da 5 kg e senza pubblicità, è migliore e costa meno che un riso comprato a mezzi chili e imballato due volte, su cui devono guadagnare diversi intermediari».
Dai dati emerge un divario netto tra crescita economica e soddisfazione per la propria vita.
«Diverse ricerche confermano che da una ventina d'anni nei principali Paesi industriali si lavora più ore, invertendo la direzione del progresso sociale ed economico che per secoli era consistito anche nel ridurre la durata del lavoro umano. Se ai tempi di lavoro formali si aggiungono le ore dedicate ai trasferimenti casa-lavoro e soprattutto alla gestione economica di se stessi, come se ogni persona fosse una piccola azienda, non meraviglia che sempre più persone ritengano peggiorata la loro qualità di vita».
In Germania su questi temi è forte la collaborazione tra cittadini e istituzioni; da noi?
«Le faccio un esempio: tra i Comuni più avanti nella riforma economica verso la sostenibilità ambientale ci sono quelli in cui c'è un efficace ufficio per l'Agenda locale 21 , un organismo previsto nel 1992 dal programma Onu per lo sviluppo sostenibile deciso al vertice di Rio. In altre nazioni migliaia di Comuni hanno efficaci Agende 21 locali; su 8.ooo Comuni italiani, quelle coordinate nell'associazione Agende 21 (www.a2litaly.it) sono solo qualche decina».
Ga.Ja.
Esperimenti all'avanguardia, ma poca capacità di sistema. E l'Italia vista da Marco Morosini, curatore di Futuro sostenibile 2009 (in uscita a dicembre per Feltrinelli), seconda tappa del primo, pionieristico studio condotto da Wolfgang Sachs e dal Wuppertal Institut. I «bilancisti», ovviamente, rientrano nelle avanguardie positive.
E c'è da dire che coni Biland dl giustizia l'Italia, forse per la prima volta, fa scuola: ora, in Austria ci sono i Bilanzen der Gerechtigkelt...
«La peculiarità dei Bilanci di giustizia sta nel prendere alla lettera la parola bilancio: i partecipanti registrano tutte le spese e gli investimenti o comunque le voci più importanti. Inoltre non si limitano a spostare qualche spesa qua e là verso criteri più etici, ma cercano di farlo sistematicamente. Ovviamente, non sempre ci sono alternative alle scelte tradizionali; ma con una ricerca sistematica si scopre che le possibilità sono pi di quelle che si pensa».
Nel nuovo studio del Wuppertal Institut si parla molto del ruolo dei singoli: «vivere con attenzione», dal consumi ai risparmio energetico. Una ricetta anche contro la crisi?
«A lungo termine, rendere sostenibili (equi socialmente e responsabili ecologicamente) i propri investimenti e spese è la misura più efficace per evitare le crisi economiche. Le crisi finanziarie, invece, hanno spesso cause che dipendono dal disordine della regolamentazione del mondo finanziario e imprenditoriale; un disordine determinato da politica e lobby economiche, ben poco da uno stile di vita collettivo. L'Islanda è ai primi posti negli indici internazionali di sviluppo; ciò non ha impedito che una cattiva regolamentazione finanziaria la precipitasse in una delle crisi più gravi della sua storia. A livello di singoli, criteri di spesa più responsabili possono aiutare chi è in difficoltà per la crisi. Le famiglie dei bilanci spendono meno della media. Se alcuni prodotti etici possono costare di più , altri costano meno: un buon riso bio, in sacchi da 5 kg e senza pubblicità, è migliore e costa meno che un riso comprato a mezzi chili e imballato due volte, su cui devono guadagnare diversi intermediari».
Dai dati emerge un divario netto tra crescita economica e soddisfazione per la propria vita.
«Diverse ricerche confermano che da una ventina d'anni nei principali Paesi industriali si lavora più ore, invertendo la direzione del progresso sociale ed economico che per secoli era consistito anche nel ridurre la durata del lavoro umano. Se ai tempi di lavoro formali si aggiungono le ore dedicate ai trasferimenti casa-lavoro e soprattutto alla gestione economica di se stessi, come se ogni persona fosse una piccola azienda, non meraviglia che sempre più persone ritengano peggiorata la loro qualità di vita».
In Germania su questi temi è forte la collaborazione tra cittadini e istituzioni; da noi?
«Le faccio un esempio: tra i Comuni più avanti nella riforma economica verso la sostenibilità ambientale ci sono quelli in cui c'è un efficace ufficio per l'Agenda locale 21 , un organismo previsto nel 1992 dal programma Onu per lo sviluppo sostenibile deciso al vertice di Rio. In altre nazioni migliaia di Comuni hanno efficaci Agende 21 locali; su 8.ooo Comuni italiani, quelle coordinate nell'associazione Agende 21 (www.a2litaly.it) sono solo qualche decina».
Ga.Ja.
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15.10.08
La nuova società degli uguali
di Marco Morosini, senior scientist al Politecnico federale di Zurigo
La Svizzera punta a ridurre di due terzi i suoi consumi energetici entro il 2050. Una sfida tecnologica, politica e culturale. Ma è davvero possibile?
È un obiettivo ambizioso, da realizzare entro il 2050: garantire a un paese industrializzato tutti i beni e servizi di cui ha bisogno usando la stessa quantità di energia per abitante che usava negli anni sessanta. Dieci anni fa, adottando l’idea-guida di una “società a 2.000 watt”, la Svizzera ha accettato la sfida: la Confederazione punta ad abbattere i consumi energetici passando dall’attuale uso continuo di energia (non solo elettrica) di 6.000 watt per abitante a 2.000 watt nel 2050, pari a 18.000 chilowattora o due tonnellate equivalenti di petrolio all’anno. Di questi 2.000 watt, cioè un terzo dell’energia primaria usata oggi, 1.500 verranno da energie rinnovabili e 500 da combustibili fossili, in modo da ridurre le emissioni di CO2 a una tonnellata per abitante.
Ma l’obiettivo dei 2.000 watt è realistico in un mondo che consuma sempre più energia? In un’epoca in cui quasi tutti gli economisti, e i mezzi di comunicazione che gli fanno eco, sono convinti che per garantire il benessere delle persone si debba per forza aumentare i consumi energetici, anche dei paesi più ricchi? In Svizzera sono in molti a pensare di sì: i due politecnici federali, cinque dei più importanti istituti di ricerca della Confederazione, la società degli ingegneri e degli architetti, l’ente federale dell’energia e molti enti locali, tra cui le città di Berna, Basilea e Zurigo. Anche il governo federale, che ha redatto la sua Strategia di sviluppo sostenibile 2002 sulle linee guida della Società a 2.000 watt, pensa che la sfida si possa vincere.
In realtà l’obiettivo dei 2.000 watt implica tre sfide: una tecnologica, una politica e una culturale. Riportare la Svizzera ai livelli di consumo energetico degli anni sessanta senza perdere benessere vuol dire ridurre gli sprechi d’energia primaria usando le tecnologie migliori. Oggi nel mondo l’uso medio di energia pro capite è di 2.000 watt: in Bangladesh è di 500, in Europa di 6.000, negli Stati Uniti di 12.000 watt. Il tetto di 2.000 watt esprime indirettamente la necessità di perequare i consumi energetici a livello mondiale: una grande sfida politica. Infine, associare la riduzione di un bene materiale all’idea di progresso ribalta quella mentalità di accrescimento su cui, nell’ultimo cinquantennio, abbiamo costruito la nostra società.
L’ostacolo principale sulla strada dell’autolimitazione dei consumi energetici è di tipo culturale: la contraddizione tra efficientismo ed edonismo. Per ora, l’idea di una società a 2.000 watt si basa molto sui watt e poco sulla società. È un progetto nato in una scuola d’ingegneria, ideato da scienziati che sanno come migliorare le tecnologie e ridurre i consumi. Ma l’aumento della domanda di servizi, che fa crescere i consumi energetici, dipende da fattori psicologici, culturali e commerciali. La promessa di una società a 2.000 watt “senza rinunciare al benessere” sembra implicare la stabilità dei desideri umani. I desideri, invece, crescono sull’onda di due spinte diverse. Da un lato c’è il miglioramento delle tecnologie e la loro maggiore ecoefficienza, che rendono accessibili a sempre più persone servizi prima impossibili o riservati a pochi.
Dall’altro c’è la pressione culturale: la moda, la tendenza generalizzata a emulare i ricchi, un’industria pubblicitaria da mille miliardi di euro all’anno che pervade la vita quotidiana. Gli scienzati potranno anche rendere i viaggi spaziali dieci o cento volte più efficienti di oggi, ma se questo svilupperà un turismo spaziale di cui prima non si sentiva il bisogno, i consumi energetici continueranno ad aumentare. Senza ecosufficienza, cioè senza rinunciare non solo ai viaggi spaziali ma a una parte dei servizi a cui oggi siamo abituati, l’ecoefficienza non basterà e in certi casi sarà addirittura controproducente.
Se vogliamo raggiungere l’obiettivo dei 2.000 watt nei paesi industriali, dobbiamo smettere di investire miliardi per creare desideri e trasformarli in bisogni. Se vogliamo affrontare davvero la questione della sostenibilità, nei prossimi quarant’anni dovremo imparare a essere felici senza pretendere più energia degli altri nove miliardi di abitanti del pianeta.
Società da 2000 watt: www.novatlantis.ch/
Strategia per uno sviluppo sostenibile 2002: http://www.are.admin.ch/dokumentation/publikationen/00014/index.html?lang=it
Edilizia sostenibile “Minergie”: www.minergie.ch/it/
internazionale.it n.765
La Svizzera punta a ridurre di due terzi i suoi consumi energetici entro il 2050. Una sfida tecnologica, politica e culturale. Ma è davvero possibile?
È un obiettivo ambizioso, da realizzare entro il 2050: garantire a un paese industrializzato tutti i beni e servizi di cui ha bisogno usando la stessa quantità di energia per abitante che usava negli anni sessanta. Dieci anni fa, adottando l’idea-guida di una “società a 2.000 watt”, la Svizzera ha accettato la sfida: la Confederazione punta ad abbattere i consumi energetici passando dall’attuale uso continuo di energia (non solo elettrica) di 6.000 watt per abitante a 2.000 watt nel 2050, pari a 18.000 chilowattora o due tonnellate equivalenti di petrolio all’anno. Di questi 2.000 watt, cioè un terzo dell’energia primaria usata oggi, 1.500 verranno da energie rinnovabili e 500 da combustibili fossili, in modo da ridurre le emissioni di CO2 a una tonnellata per abitante.
Ma l’obiettivo dei 2.000 watt è realistico in un mondo che consuma sempre più energia? In un’epoca in cui quasi tutti gli economisti, e i mezzi di comunicazione che gli fanno eco, sono convinti che per garantire il benessere delle persone si debba per forza aumentare i consumi energetici, anche dei paesi più ricchi? In Svizzera sono in molti a pensare di sì: i due politecnici federali, cinque dei più importanti istituti di ricerca della Confederazione, la società degli ingegneri e degli architetti, l’ente federale dell’energia e molti enti locali, tra cui le città di Berna, Basilea e Zurigo. Anche il governo federale, che ha redatto la sua Strategia di sviluppo sostenibile 2002 sulle linee guida della Società a 2.000 watt, pensa che la sfida si possa vincere.
In realtà l’obiettivo dei 2.000 watt implica tre sfide: una tecnologica, una politica e una culturale. Riportare la Svizzera ai livelli di consumo energetico degli anni sessanta senza perdere benessere vuol dire ridurre gli sprechi d’energia primaria usando le tecnologie migliori. Oggi nel mondo l’uso medio di energia pro capite è di 2.000 watt: in Bangladesh è di 500, in Europa di 6.000, negli Stati Uniti di 12.000 watt. Il tetto di 2.000 watt esprime indirettamente la necessità di perequare i consumi energetici a livello mondiale: una grande sfida politica. Infine, associare la riduzione di un bene materiale all’idea di progresso ribalta quella mentalità di accrescimento su cui, nell’ultimo cinquantennio, abbiamo costruito la nostra società.
L’ostacolo principale sulla strada dell’autolimitazione dei consumi energetici è di tipo culturale: la contraddizione tra efficientismo ed edonismo. Per ora, l’idea di una società a 2.000 watt si basa molto sui watt e poco sulla società. È un progetto nato in una scuola d’ingegneria, ideato da scienziati che sanno come migliorare le tecnologie e ridurre i consumi. Ma l’aumento della domanda di servizi, che fa crescere i consumi energetici, dipende da fattori psicologici, culturali e commerciali. La promessa di una società a 2.000 watt “senza rinunciare al benessere” sembra implicare la stabilità dei desideri umani. I desideri, invece, crescono sull’onda di due spinte diverse. Da un lato c’è il miglioramento delle tecnologie e la loro maggiore ecoefficienza, che rendono accessibili a sempre più persone servizi prima impossibili o riservati a pochi.
Dall’altro c’è la pressione culturale: la moda, la tendenza generalizzata a emulare i ricchi, un’industria pubblicitaria da mille miliardi di euro all’anno che pervade la vita quotidiana. Gli scienzati potranno anche rendere i viaggi spaziali dieci o cento volte più efficienti di oggi, ma se questo svilupperà un turismo spaziale di cui prima non si sentiva il bisogno, i consumi energetici continueranno ad aumentare. Senza ecosufficienza, cioè senza rinunciare non solo ai viaggi spaziali ma a una parte dei servizi a cui oggi siamo abituati, l’ecoefficienza non basterà e in certi casi sarà addirittura controproducente.
Se vogliamo raggiungere l’obiettivo dei 2.000 watt nei paesi industriali, dobbiamo smettere di investire miliardi per creare desideri e trasformarli in bisogni. Se vogliamo affrontare davvero la questione della sostenibilità, nei prossimi quarant’anni dovremo imparare a essere felici senza pretendere più energia degli altri nove miliardi di abitanti del pianeta.
Società da 2000 watt: www.novatlantis.ch/
Strategia per uno sviluppo sostenibile 2002: http://www.are.admin.ch/dokumentation/publikationen/00014/index.html?lang=it
Edilizia sostenibile “Minergie”: www.minergie.ch/it/
internazionale.it n.765
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