Tutto è interpretazione, la realtà oggettiva non esiste
GIANNI VATTIMO
Non esagerava Richard Rorty quando, nel dialogo con Peter Engel uscito in italiano presso il Mulino (A cosa serve la verità?, pp. 90, e8), dichiarava di non sentirsi interessato dalla discussione su realismo e antirealismo che ancora agita una parte della filosofia contemporanea. La discussione, cioè, sul senso da dare al famoso principio di Tarski secondo cui «P» è vero se, e solo se, P. Che tradotto vuol dire: «piove» è vero se e solo se piove. Le virgolette sono decisive, ovviamente - o non troppo ovviamente, fuori dall'ambito degli interlocutori interessati al dibattito. Anzi, il famoso principio di Tarski può essere per molti, non solo profani ma anche filosofi, come mostra l'esempio di Rorty, una ennesima prova della inutilità di un certo tipo di filosofia.
In effetti, anche leggendo il recente lucido libro intitolato significativamente Per la verità (Einaudi, pp. 172, e10) di Diego Marconi, della cui serietà come filosofo non dubitiamo, non si può evitare una certa sensazione di noia, e in fondo non si può sfuggire alla domanda «a che serve», che sta alla base della citata discussione tra Rorty e Engel. Ma prima ancora che la domanda sull'utilità della discussione, il libro di Marconi ci pone di fronte a un problema ancora più radicale: davvero la seconda P sta fuori delle virgolette? Chi lo dice? Rispondere a questa domanda serve anche e soprattutto a delineare la risposta alla domanda di Rorty. Che P stia fuori delle virgolette lo dice, sostiene, afferma, qualcuno a cui serve che si dica così...
È possibile che la seconda P stia fuori da ogni virgoletta? O comunque, perché decidere fin da principio che non ha senso porre una simile questione? In fondo, la sola ragione che Marconi adduce per escludere la seconda P dalle virgolette è che altrimenti gran parte dei nostri discorsi su vero, falso, affermazioni giustificate o ingiustificate, razionalità o irrazionalità dei nostri comportamenti, decisioni politiche ed etiche, sarebbero vani - non avrebbero a loro volta alcun senso. Ogni volta che ci opponiamo a una tesi, che affermiamo qualcosa contro qualcos'altro, usiamo la distinzione tra «P» e P. L'argomento a favore del principio di Tarski è dunque che abbiamo bisogno di quel principio. Ma sempre di nuovo: chi ne ha bisogno? E soprattutto, un tale argomento opposto al «relativismo» pragmatista di Rorty è chiaramente autocontraddittorio. La tesi di Tarski dovrebbe essere accettata solo perché vera, non perché detta da o a un uditorio specifico, quel «noi» dell'esperienza comune a cui anche Marconi si richiama per mostrarne la validità.
Come vede chiunque abbia avuto la pazienza di arrivare fin qui, ci avviluppiamo già in una serie di questioni di cui si può solo dire che non vengono a capo di nulla. O che si possono evitare solo rinunciando alla domanda sul «chi lo dice». Domanda a cui però non si sfugge, ci pare, a meno di non volerselo vietare d'autorità, con un atto certo assai poco filosofico.
La questione, come si sarà capito, è quella che Nietzsche risolve brutalmente scrivendo che «non ci sono fatti, solo interpretazioni. E anche questa è un'interpretazione». Anche Marconi raccomanda di accettare la tesi di Tarski perché non possiamo farne a meno per spiegare la nostra comune esperienza. Ma la nostra comune esperienza - quella che lui chiama anche spesso la massima evidenza disponibile qui e ora - è una interpretazione. Che noi tendiamo a non chiamare tale solo per distinguerla da opinioni più marcatamente individuali, di cui diciamo che sono «solo» interpretazioni. Persino della storia dell’universo prima di noi possiamo parlare solo in quanto in qualche modo ne «sentiamo» gli effetti.
Rivendicare il carattere interpretativo di ogni affermazione sui fatti vuol dire sostenere che le cose non ci sono se non le inventiamo noi (idealismo empirico)? Oppure che l'ordine in cui ci appaiono è un ordine che stabiliamo noi, più o meno arbitrariamente (una sorta di idealismo soggettivistico-trascendentale)? Kant, che non è proprio un cane morto, sosteneva che delle cose in sé non sappiamo se non quello che ci appare fenomenicamente nel quadro dei nostri a priori (tempo, spazio, categorie dell'intelletto), e che non per questo si dovesse cancellare ogni distinzione tra chiacchiere e enunciati «veri». Se noi diciamo che la differenza tra vero e falso è sempre una differenza tra interpretazioni più o meno accettabili e condivise manteniamo questa stessa distinzione; e non abbiamo bisogno di immaginare un fatto che «ci sia» fuori da ogni lettura umana.
Chi non è soddisfatto di questa soluzione? A che, a chi, serve la «verità» senza le virgolette? Forse, come suggerisce Marconi, serve per mettere in discussione l'ordine esistente - illuminismo e rivoluzione, diritti umani contro totalitarismi, progresso del sapere contro oscurantismo? Ma ci facciano il piacere, direbbe Totò. Chi ha sempre tuonato contro Kant e il suo perverso soggettivismo è stata la Chiesa, e spesso anche i principi e i governi. Certo, questo non sarebbe una «prova» dal punto di vista di un tarskiano. Prendiamolo solo come un «segno» che ci richiama a stare attenti. E a scoprire una «verità» sulla verità? Diremo cioè che «è vero» che la tesi di Tarski serve a chi detiene il potere per imporre la propria interpretazione come unica vera? No; da buoni pragmatisti, magari con una verniciatura di critica marxista dell'ideologia, diremo soltanto che questo è ciò che «a noi» suona come verità - quella capace di farci liberi. Non possiamo mai pretendere di identificarci con il punto di vista di Dio. Possiamo solo riconoscere che vediamo le cose in base a certi pregiudizi, a certi interessi, e che se mai è possibile la verità, essa è il risultato di un accordo che non è necessitato da alcuna evidenza definitiva, ma solo dalla carità, dalla solidarietà, dal bisogno umano (troppo umano?) di vivere in accordo con gli altri. Dire tutto questo - amare il prossimo è un dovere, la solidarietà è meglio che la lotta - significherebbe che, come una P fuori dalla virgolette, lo crediamo perché è un fatto? Forse neanche Tarski in persona lo sosterrebbe.
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15.10.08
La verità tra virgolette
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11.4.08
Grida sul Tibet sussurri sui salari
GIANNI VATTIMO
Piccoli pensieri per mitigare il senso di colpa che avvertiamo per non sentirci affatto coinvolti dalla campagna elettorale. Le cause sono note: esito quasi scontato della battaglia; somiglianza preoccupante tra i programmi; indignazione per essere costretti votare a scatola, cioè lista, chiusa. A tutto ciò va aggiunto, in questi ultimi giorni, quella specie di colpo di grazia che si può chiamare il trionfo dell’inessenziale, o anche, nei termini di Ernesto Rossi, la riabilitazione (propagandistica) dell’aria fritta. Non sappiamo come chiamare se non così la «drammatica» lettera con cui Veltroni chiede a Berlusconi un esplicito impegno a rispettare l’Italia, la sua unità, la sua Costituzione, la sua bandiera, contro le innocue sparate (e solo di parole) della Lega di Bossi; e, dall’altro lato, la ripresa berlusconiana della proposta di obbligare i pubblici accusatori a un periodico controllo della loro sanità mentale. Con varie aggiunte che scandalizzano persino i massimi editorialisti moderati, come il proposito di Dell’Utri di riformare i libri di testo in modo da limitare il peso che avrebbe ancora in essi il «mito» della Resistenza. Ciò che possiamo aspettarci è probabilmente: meno partigiani e più Tibet.
Anche sul Tibet è difficile non vedere che, come nel caso dell’unità nazionale, della stessa necessità di una storiografia più obiettiva, di una magistratura indipendente e affidabile (magari anche nei tempi di stesura delle sentenze!) non ci sono avversari riconoscibili, al massimo si distinguono i sostenitori di un semplice boicottaggio «politico» della Cina (i capi di Stato non vadano all’inaugurazione delle Olimpiadi a Pechino) da quelli che vorrebbero un democratico bombardamento per difendere la teocrazia del Dalai Lama. Insomma, un insieme di facili indignazioni che tentano invano di movimentare l’asfittica scena della campagna elettorale, contribuendo a far dimenticare problemi più vicini e urgenti: salari e pensioni insufficienti, costo crescente dei generi alimentari non solo in Italia ma in tutto il mondo, dall’Egitto ad Haiti, che ormai danno luogo a sanguinosi moti di piazza. Sono forse temi che Pannella e i suoi amici in sciopero della fame per ottenere dalla Rai una rubrica fissa sui diritti umani metterebbero all’ordine del giorno? Abbiamo la fondata impressione che anche questa ultima trovata di Pannella non abbia affatto lo scopo di mettere l’accento sui mali prodotti dal liberismo mondiale, ma solo di offrire ulteriori distrazioni dalle questioni più urgenti che ci toccano, non solo noi italiani, più da vicino.
Un ennesimo corteo per la libertà della Birmania, o peggio «contro la fame nel mondo», non disturba nessuno, se si rinuncia a vedere il nesso di tante violazioni dei diritti umani con il Wto e il Fondo monetario internazionale. Vero che l’idea radicale può dar l’impressione di colmare il vuoto di riferimenti alla politica internazionale (altri temi «eticamente sensibili» e perciò tabù?) di cui soffre il dibattito elettorale. Ma, anche su questo terreno, l’indignazione per i diritti dei più remoti popoli oppressi non rischierà di (o non sarà usata per) farci dimenticare, per esempio, l’imminenza delle più ingenti spese militari che i Paesi europei dovranno mettere in conto per partecipare al nuovo sistema di «difesa» (contro chi?) inventato da Bush e approvato dai Paesi Nato nei giorni scorsi? Anche su questo, autorevolissimi commentatori di sicura fede atlantica hanno richiamato la nostra attenzione nei giorni scorsi, senza suscitare alcuna reazione nei leader degli schieramenti in lotta, occupati a promettere assicurazioni gratuite alle casalinghe e fantastiche riduzioni d’imposte: promesse bellissime ma obiettivamente irrealizzabili. Perciò, avanti con le indignazioni «olimpiche», sperando che gli atleti tedofori ci trasmettano almeno quel tanto di forza da farci arrivare alla nostra cabina elettorale.
lastampa.it
Piccoli pensieri per mitigare il senso di colpa che avvertiamo per non sentirci affatto coinvolti dalla campagna elettorale. Le cause sono note: esito quasi scontato della battaglia; somiglianza preoccupante tra i programmi; indignazione per essere costretti votare a scatola, cioè lista, chiusa. A tutto ciò va aggiunto, in questi ultimi giorni, quella specie di colpo di grazia che si può chiamare il trionfo dell’inessenziale, o anche, nei termini di Ernesto Rossi, la riabilitazione (propagandistica) dell’aria fritta. Non sappiamo come chiamare se non così la «drammatica» lettera con cui Veltroni chiede a Berlusconi un esplicito impegno a rispettare l’Italia, la sua unità, la sua Costituzione, la sua bandiera, contro le innocue sparate (e solo di parole) della Lega di Bossi; e, dall’altro lato, la ripresa berlusconiana della proposta di obbligare i pubblici accusatori a un periodico controllo della loro sanità mentale. Con varie aggiunte che scandalizzano persino i massimi editorialisti moderati, come il proposito di Dell’Utri di riformare i libri di testo in modo da limitare il peso che avrebbe ancora in essi il «mito» della Resistenza. Ciò che possiamo aspettarci è probabilmente: meno partigiani e più Tibet.
Anche sul Tibet è difficile non vedere che, come nel caso dell’unità nazionale, della stessa necessità di una storiografia più obiettiva, di una magistratura indipendente e affidabile (magari anche nei tempi di stesura delle sentenze!) non ci sono avversari riconoscibili, al massimo si distinguono i sostenitori di un semplice boicottaggio «politico» della Cina (i capi di Stato non vadano all’inaugurazione delle Olimpiadi a Pechino) da quelli che vorrebbero un democratico bombardamento per difendere la teocrazia del Dalai Lama. Insomma, un insieme di facili indignazioni che tentano invano di movimentare l’asfittica scena della campagna elettorale, contribuendo a far dimenticare problemi più vicini e urgenti: salari e pensioni insufficienti, costo crescente dei generi alimentari non solo in Italia ma in tutto il mondo, dall’Egitto ad Haiti, che ormai danno luogo a sanguinosi moti di piazza. Sono forse temi che Pannella e i suoi amici in sciopero della fame per ottenere dalla Rai una rubrica fissa sui diritti umani metterebbero all’ordine del giorno? Abbiamo la fondata impressione che anche questa ultima trovata di Pannella non abbia affatto lo scopo di mettere l’accento sui mali prodotti dal liberismo mondiale, ma solo di offrire ulteriori distrazioni dalle questioni più urgenti che ci toccano, non solo noi italiani, più da vicino.
Un ennesimo corteo per la libertà della Birmania, o peggio «contro la fame nel mondo», non disturba nessuno, se si rinuncia a vedere il nesso di tante violazioni dei diritti umani con il Wto e il Fondo monetario internazionale. Vero che l’idea radicale può dar l’impressione di colmare il vuoto di riferimenti alla politica internazionale (altri temi «eticamente sensibili» e perciò tabù?) di cui soffre il dibattito elettorale. Ma, anche su questo terreno, l’indignazione per i diritti dei più remoti popoli oppressi non rischierà di (o non sarà usata per) farci dimenticare, per esempio, l’imminenza delle più ingenti spese militari che i Paesi europei dovranno mettere in conto per partecipare al nuovo sistema di «difesa» (contro chi?) inventato da Bush e approvato dai Paesi Nato nei giorni scorsi? Anche su questo, autorevolissimi commentatori di sicura fede atlantica hanno richiamato la nostra attenzione nei giorni scorsi, senza suscitare alcuna reazione nei leader degli schieramenti in lotta, occupati a promettere assicurazioni gratuite alle casalinghe e fantastiche riduzioni d’imposte: promesse bellissime ma obiettivamente irrealizzabili. Perciò, avanti con le indignazioni «olimpiche», sperando che gli atleti tedofori ci trasmettano almeno quel tanto di forza da farci arrivare alla nostra cabina elettorale.
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