Visualizzazione post con etichetta filosofia. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta filosofia. Mostra tutti i post

18.1.09

La Filosofia al tempo di Internet

Che ruolo può svolgere la Filosofia nell'era di Internet? Punto Informatico ha interpellato Luciano Floridi, Professore di "Information Ethics" e "Philosophy of Information" ad Oxford, su come l'argomento tocchi Wikipedia, Google e gli altri fenomeni di massa dell'IT.

Punto Informatico: In questo momento quali sono le principali questioni aperte nella Filosofia dell'Informazione?
Luciano Floridi: Temo che la lista sarebbe lunga, tecnica e percio' forse un po' tediosa per le lettrici e i lettori di Punto Informatico. Provero' quindi a riassumere solo due punti salienti, semplificando.
Primo punto. Il rinnovamento della filosofia, una delle discipline più antiche e conservatrici del nostro sapere. Farla oggi, con metodologie (come i livelli di astrazione), teorie (come quella sui sistemi multiagente) e soluzioni tecniche (come quelle pertinenti le varie logiche create in ambito AI) fornite dall'informatica, permette di rinnovare lo studio di problemi secolari e aggiornare approcci concettuali ormai calcificatisi.

PI: Ad esempio?
LF: Si pensi alla questione dell'identità personale, e le classiche domande su chi siamo e chi vorremmo essere, o quanto la nostra identità dipenda dai nostri corpi, memorie o interazioni sociali.
Poter costruire e sperimentare molteplici identità online getta nuova luce su vecchie teorie e apre prospettive di indagine molto interessanti. Cambia inoltre il vocabolario concettuale, che si sta svecchiando e raffinando anche grazie all'IT (si pensi ai concetti di agente, rete, interazione, telepresenza e così via).

Secondo punto. La filosofia dell'informazione puo' e deve contribuire, con la sua capacità di analisi, comprensione e argomentazione logica, a chiarire e risolvere i nuovi problemi nati oggi da una società che definiamo appunto dell'informazione, e le nuove sfide dirette (si pensi al vandalismo informatico) o indirette (tipo la bioingegneria) poste dallo sviluppo delle tecnologie digitali. Gli esempi si potrebbero facilmente moltiplicare, ma forse la gestione e protezione della privacy sui dati personali rappresenta quello più ovvio e noto.

PI: Nell'articolo sulla Tragedia dei beni comuni digitali riprende il classico esempio di un bene comune considerato inesauribile (il mare), ma oggi in crisi per inquinamento e sostenibilità alimentare, paragonandolo al Web, a sua volta a rischio per la saturazione di banda da parte degli utenti P2P in caso di superamento del Digital Divide nella Infosfera. Quali soluzioni avete individuato tramite la disciplina della Etica Informatica?
LF: Ampliare l'approccio ambientalista anche alle realtà sintetiche e artificiali. L'ambientalismo è spesso visto in contrasto con lo sviluppo tecnologico, ma in realtà sono due "forze buone". Devono allearsi contro i veri nemici: lo spreco delle risorse, la distruzione di ricchezze naturali, storiche e culturali, l'inquinamento e impoverimento degli ambienti.
Manca ancora la consapevolezza che le giuste sinergie tra tecnologie informatiche e tali valori possono portare a soluzioni molto efficaci nello sviluppo e nel mantenimento ottimali sia degli ecosistemi biologici, sia di sistemi sintetici o artificiali altrettanto complessi come la Rete, sia di tutte le realtà costruite dall'uomo, basti pensare all'ecosistema del mondo aziendale.
La società non solo va sempre più globalizzandosi, sta anche aumentando l'interdipendenza: i beni comuni sono non solo biologici o digitali, ma soprattutto l'esito di interazioni simbiotiche tra il naturale e l'artificiale. Caso ben rappresentato dalla medicina e dalla sua dipendenza dall'IT, la cosiddetta e-Health. Ecco, in questo ampio contesto, la risoluzione della tragedia dei beni comuni digitali passa attraverso la consapevolezza e l'implementazione di valori ambientalistici.
Quello che ho definito come ambientalismo sintetico mostra quanto ecologia e tecnologia possano essere il binomio vincente per il progresso di una società dell'informazione avanzata.

PI: Come si inquadra un fenomeno quale le enciclopedie collaborative di natura wiki nell'epistemologia contemporanea? Vale il "Vox populi, vox dei"?
LF: Le enciclopedie collaborative, Wikipedia ma non solo essa, sono il fenomeno forse più vistoso di una trasformazione radicale più profonda ma anche meno visibile, nello sviluppo della conoscenza e quindi delle sua interpretazione.
Semplificando molto, dal Seicento, con Cartesio, fino alla metà del Novecento, con Wittgenstein, la conoscenza è stata di solito interpretata come un fenomeno stand-alone, si direbbe in informatica, cioè come se il soggetto conoscitore fosse un agente singolo, isolato e scollato dall'ambiente. Oggi, grazie alla rivoluzione digitale, stiamo comprendendo sempre meglio come essa si sviluppi, si organizzi, possa essere gestita e fruita al meglio soltanto in modalità online, ovvero tenendo conto dei sistemi distribuiti e multiagente di cui necessita.
Cartesio che identifica nell' "Io penso" la soluzione del fondamento della conoscenza, solo nella sua stanza davanti al focolare, o Newton che solo, sotto l'albero di mele, scopre la gravitazione universale, sono vignette al massimo di valore pedagogico elementare. Di fatto il sapere è un'impresa collaborativa, ci sono sempre meno geni isolati e sempre più reti di collaborazione, scuole, gruppi di ricerca.
Cio' non significa tornare alla vecchia idea per cui, se tutti la pensano in un certa maniera allora le cose devono stare in quel modo. Se così fosse, l'astrologia, data la sua popolarità, sarebbe una scienza invece che una frottola. La conoscenza è sì distribuita, multiagente e contestualizzata, ma le sue dinamiche sono anche molto strutturate e gerarchizzate, per ragioni di fondi, di capacità tecniche sempre più specialistiche e quindi rare, e quindi per ragioni di credibilità e di riconoscimento.
Tornando alle enciclopedie collaborative, esse sprigionano forze altrimenti non sfruttabili, dalle competenze scientifiche del grande laboratorio, in grado di correggere una voce, alla passione di un neofita in grado pur sempre di apportare qualche miglioria a voci di suo interesse. Non devono tuttavia essere confuse con la ricerca e l'avanzamento del sapere.

PI: In che modo?
LF: Sono dei depositi di ciò che già sappiamo. Ogni miglioramento conta e fa accrescere la qualità e il valore del tutto. E tanto migliore sarà il loro funzionamento tanto più facile sarà progredire nell'esplorazione di quello che è ancora ignoto. Ma Wikipedia è la prima tappa del percorso, non l'arrivo. Se si tiene presente questo punto, non si può negare che la democratizzazione dell'informazione, anche attraverso le enciclopedie collaborative, sia un fenomeno molto positivo e di grande arricchimento e facilitazione della nostre vita intellettuale.

PI: I motori di ricerca sono la Pizia dei giorni nostri?
LF: Questa è un'idea molto suggestiva. Direi che l'analogia è pertinente per quanto riguarda alcuni usi che vengono fatti dei motori di ricerca. Google, per esempio, a volte sembra essere usato come un tempo si ricorreva ai vati, per cercare risposte a qualsiasi domanda prema all'interessato. Ancor peggio, una nuova generazione di utenti impazienti sembra implicitamente adottare un approccio molto pericoloso: se il vate/Google non ne parla significa che l'oggetto in questione non esiste o è comunque trascurabile ed insignificante. Il limite dell'analogia sta nel fatto che i motori di ricerca non si compromettono, non perchè danno risposte misteriose che necessitano di interpretazione, ma piuttosto perchè ci danno moltissime risposte non sempre compatibili tra loro, e tra le quali sta poi a noi scegliere.
Riprendendo la precedente domanda, se due voci enciclopediche (anche solo due voci di Wikipedia, una italiana e l'altra inglese sullo stesso argomento) discordano, come possiamo decidere? Serviva molta scaltrezza per interpretare la Pizia. Direi che la stessa scaltrezza, anche se per motivi diversi, deve ancora essere esercitata per usare i motori di ricerca con intelligenza.

PI: Quali letture consiglierebbe a chi volesse approfondire gli argomenti trattati in questa intervista?
LF: Quasi tutti i miei scritti sono disponibili presso il mio sito. Purtroppo sono quasi tutti in inglese. La buona notizia è che Massimo Durante, ricercatore dell'Università di Torino, sta preparando un'antologia in italiano degli scritti più importanti da me pubblicati nello scorso decennio nell'ambito dell'etica informatica. Uscirà per la Giappichelli di Torino tra alcuni mesi.

a cura di Fabrizio Bartoloni
punto-informatico.it

15.10.08

La verità tra virgolette

Tutto è interpretazione, la realtà oggettiva non esiste

GIANNI VATTIMO

Non esagerava Richard Rorty quando, nel dialogo con Peter Engel uscito in italiano presso il Mulino (A cosa serve la verità?, pp. 90, e8), dichiarava di non sentirsi interessato dalla discussione su realismo e antirealismo che ancora agita una parte della filosofia contemporanea. La discussione, cioè, sul senso da dare al famoso principio di Tarski secondo cui «P» è vero se, e solo se, P. Che tradotto vuol dire: «piove» è vero se e solo se piove. Le virgolette sono decisive, ovviamente - o non troppo ovviamente, fuori dall'ambito degli interlocutori interessati al dibattito. Anzi, il famoso principio di Tarski può essere per molti, non solo profani ma anche filosofi, come mostra l'esempio di Rorty, una ennesima prova della inutilità di un certo tipo di filosofia.

In effetti, anche leggendo il recente lucido libro intitolato significativamente Per la verità (Einaudi, pp. 172, e10) di Diego Marconi, della cui serietà come filosofo non dubitiamo, non si può evitare una certa sensazione di noia, e in fondo non si può sfuggire alla domanda «a che serve», che sta alla base della citata discussione tra Rorty e Engel. Ma prima ancora che la domanda sull'utilità della discussione, il libro di Marconi ci pone di fronte a un problema ancora più radicale: davvero la seconda P sta fuori delle virgolette? Chi lo dice? Rispondere a questa domanda serve anche e soprattutto a delineare la risposta alla domanda di Rorty. Che P stia fuori delle virgolette lo dice, sostiene, afferma, qualcuno a cui serve che si dica così...

È possibile che la seconda P stia fuori da ogni virgoletta? O comunque, perché decidere fin da principio che non ha senso porre una simile questione? In fondo, la sola ragione che Marconi adduce per escludere la seconda P dalle virgolette è che altrimenti gran parte dei nostri discorsi su vero, falso, affermazioni giustificate o ingiustificate, razionalità o irrazionalità dei nostri comportamenti, decisioni politiche ed etiche, sarebbero vani - non avrebbero a loro volta alcun senso. Ogni volta che ci opponiamo a una tesi, che affermiamo qualcosa contro qualcos'altro, usiamo la distinzione tra «P» e P. L'argomento a favore del principio di Tarski è dunque che abbiamo bisogno di quel principio. Ma sempre di nuovo: chi ne ha bisogno? E soprattutto, un tale argomento opposto al «relativismo» pragmatista di Rorty è chiaramente autocontraddittorio. La tesi di Tarski dovrebbe essere accettata solo perché vera, non perché detta da o a un uditorio specifico, quel «noi» dell'esperienza comune a cui anche Marconi si richiama per mostrarne la validità.

Come vede chiunque abbia avuto la pazienza di arrivare fin qui, ci avviluppiamo già in una serie di questioni di cui si può solo dire che non vengono a capo di nulla. O che si possono evitare solo rinunciando alla domanda sul «chi lo dice». Domanda a cui però non si sfugge, ci pare, a meno di non volerselo vietare d'autorità, con un atto certo assai poco filosofico.

La questione, come si sarà capito, è quella che Nietzsche risolve brutalmente scrivendo che «non ci sono fatti, solo interpretazioni. E anche questa è un'interpretazione». Anche Marconi raccomanda di accettare la tesi di Tarski perché non possiamo farne a meno per spiegare la nostra comune esperienza. Ma la nostra comune esperienza - quella che lui chiama anche spesso la massima evidenza disponibile qui e ora - è una interpretazione. Che noi tendiamo a non chiamare tale solo per distinguerla da opinioni più marcatamente individuali, di cui diciamo che sono «solo» interpretazioni. Persino della storia dell’universo prima di noi possiamo parlare solo in quanto in qualche modo ne «sentiamo» gli effetti.

Rivendicare il carattere interpretativo di ogni affermazione sui fatti vuol dire sostenere che le cose non ci sono se non le inventiamo noi (idealismo empirico)? Oppure che l'ordine in cui ci appaiono è un ordine che stabiliamo noi, più o meno arbitrariamente (una sorta di idealismo soggettivistico-trascendentale)? Kant, che non è proprio un cane morto, sosteneva che delle cose in sé non sappiamo se non quello che ci appare fenomenicamente nel quadro dei nostri a priori (tempo, spazio, categorie dell'intelletto), e che non per questo si dovesse cancellare ogni distinzione tra chiacchiere e enunciati «veri». Se noi diciamo che la differenza tra vero e falso è sempre una differenza tra interpretazioni più o meno accettabili e condivise manteniamo questa stessa distinzione; e non abbiamo bisogno di immaginare un fatto che «ci sia» fuori da ogni lettura umana.

Chi non è soddisfatto di questa soluzione? A che, a chi, serve la «verità» senza le virgolette? Forse, come suggerisce Marconi, serve per mettere in discussione l'ordine esistente - illuminismo e rivoluzione, diritti umani contro totalitarismi, progresso del sapere contro oscurantismo? Ma ci facciano il piacere, direbbe Totò. Chi ha sempre tuonato contro Kant e il suo perverso soggettivismo è stata la Chiesa, e spesso anche i principi e i governi. Certo, questo non sarebbe una «prova» dal punto di vista di un tarskiano. Prendiamolo solo come un «segno» che ci richiama a stare attenti. E a scoprire una «verità» sulla verità? Diremo cioè che «è vero» che la tesi di Tarski serve a chi detiene il potere per imporre la propria interpretazione come unica vera? No; da buoni pragmatisti, magari con una verniciatura di critica marxista dell'ideologia, diremo soltanto che questo è ciò che «a noi» suona come verità - quella capace di farci liberi. Non possiamo mai pretendere di identificarci con il punto di vista di Dio. Possiamo solo riconoscere che vediamo le cose in base a certi pregiudizi, a certi interessi, e che se mai è possibile la verità, essa è il risultato di un accordo che non è necessitato da alcuna evidenza definitiva, ma solo dalla carità, dalla solidarietà, dal bisogno umano (troppo umano?) di vivere in accordo con gli altri. Dire tutto questo - amare il prossimo è un dovere, la solidarietà è meglio che la lotta - significherebbe che, come una P fuori dalla virgolette, lo crediamo perché è un fatto? Forse neanche Tarski in persona lo sosterrebbe.
lastampa.it

3.11.07

Andirivieni di Hilary Putnam

I contributi del grande epistemologo americano alle concezioni della mente, in due prossimi incontri: sabato 3 novembre al Festival della scienza di Genova e martedì 6 all'Università Roma Tre, dove si svolgerà un convegno titolato «Il futuro della filosofia»
Francesco Ferretti

Ecco un problema semplice, almeno in apparenza. Prendete una tavola con due fori, uno quadrato col lato di due centimetri, e uno circolare col diametro di due centimetri. Ora prendete un piolo a base quadrata col lato di poco inferiore a due centimetri e provate a inserirlo nei fori. Entrerà in quello quadrato, ma non nel foro circolare. Perché? A sollevare il quesito è Hilary Putnam, filosofo di Harvard, senza dubbio il più grande epistemologo vivente, nei prossimi giorni in Italia per partecipare a due incontri: il Festival della scienza di Genova in cui terrà una lectio magistralis sabato 3 novembre (ore 18.00, Palazzo Ducale, Sala del Maggior Consiglio) e il convegno internazionale organizzato il 6 novembre dall'Università Roma Tre con il titolo «Il futuro della filosofia» (ore 9.30, Rettorato dell'Università Roma Tre, Via Ostiense 159).
Il quesito posto da Putnam apre una questione decisiva rispetto al tema dei rapporti tra filosofia e scienza: la questione del riduzionismo - l'idea secondo cui le leggi delle scienze di «livello superiore» devono essere ridotte alle leggi delle scienze di «livello inferiore». Per un riduzionista i fatti sociali, ad esempio, devono essere analizzati in riferimento alla psicologia degli individui, quelli psichici in riferimento alla neuroscienza o alla biologia. La tesi di Putnam è che il riduzionismo non è adeguato sul piano esplicativo: per dar conto del perché il piolo entri soltanto nel foro quadrato, non è alla struttura atomica dei due oggetti che dobbiamo riferirci. Che il piolo e la tavola consistano di atomi organizzati in un certo modo fornisce senz'altro delle spiegazioni di alcuni fenomeni, ma non dà le informazioni richieste per rispondere alla domanda. Per risolvere il quesito, in effetti, l'informazione pertinente è quella che fa riferimento a proprietà (di macrolivello) quali la rigidità degli oggetti o la loro configurazione geometrica.
Passando a casi più concreti, l'idea di Putnam è che quando si affrontano questioni del tipo «le leggi della società capitalistica» o il concetto di «persona» l'analisi riduzionista conduce a esiti del tutto insoddisfacenti. Non è possibile descrivere le leggi del capitalismo deducendole dalle leggi della fisica o dallo studio del funzionamento del cervello umano. Ovviamente, gli esseri umani sono sistemi fisici: come tali, alcuni fenomeni che li riguardano possono essere descritti utilizzando le leggi della fisica. Da ciò, tuttavia, non deriva che tutti i fenomeni che li riguardano possano essere descritti in questo modo: le leggi del capitalismo si situano a un livello di descrizione che è autonomo da quello fornito dalla fisica, dalle neuroscienze o dalla biologia. Quando si trascura la possibilità di incontrare descrizioni della realtà che coinvolgono diversi livelli di analisi si incorre in quello che può essere considerato l'errore comune a tutte le forme di riduzionismo: trascurare i livelli alti di spiegazione, comportandosi di fatto come se questi non esistessero.
Ora, poiché lo stesso Putnam è stato in passato un fervente riduzionista, è ovvio che questa revisione di prospettiva (una delle tante che caratterizzano il suo percorso di ricerca) ha implicazioni anche in altri aspetti del suo sistema teorico: quella principale riguarda il ripudio del funzionalismo nella filosofia della mente.
Il funzionalismo - di cui Putnam è stato tra i padri fondatori - è l'idea secondo cui gli stati mentali si caratterizzano per il loro ruolo funzionale: ovvero, per il tipo di relazioni che intrattengono con gli input ambientali, gli output comportamentali e i legami causali che connettono gli stati mentali tra loro. Dal fatto che gli stati mentali siano concepiti in questo modo dipende un'altra importante caratteristica del funzionalismo: l'idea secondo cui la mente è in larga parte indipendente dal sostrato fisico che la realizza.
La possibilità di ipotizzare menti artificiali si regge, ovviamente, su questa importante caratteristica del funzionalismo: se la mente dipendesse in modo esclusivo dalla «materia cerebrale», infatti, verrebbe meno ogni pretesa di costruire sistemi artificiali pensanti.
Per quanto, negli anni '60 del '900, Putnam sia diventato famoso sostenendo che la macchina di Turing era un buon modello per spiegare ciò che avviene nella mente, oggi egli considera questa ipotesi viziata da un forte riduzionismo. Dal suo punto di vista attuale, infatti, deve essere totalmente rivista la convinzione per cui ciò che di più rilevante riguarda la mente avviene all'interno della testa degli individui. La critica a questa concezione «internista» è stata sferrata da Putnam tramite il cosidetto esperimento mentale «della Terra Gemella»: oltre alla Terra in cui viviamo, esisterebbe nell'universo una Terra Gemella. Le due terre - sostiene l'esperimento - sono identiche sino alla struttura atomica degli individui e degli oggetti che la popolano; allo stesso modo sono identici anche gli eventi che vi accadono: in questo momento, ad esempio, mentre voi state leggendo questo articolo, anche il vostro gemello su Terra Gemella, sta leggendo lo stesso articolo, il che implica stati mentali e cerebrali identici ai vostri. Solo una proprietà rende diverse la Terra e la Terra Gemella: la struttura chimica dell'acqua. Pur avendo la stessa apparenza, lo stesso sapore e la stessa funzione del liquido con cui noi tutti ci dissetiamo, la struttura chimica dell'acqua gemella è XYZ, non H2O.
Questa piccola diversità ha una portata decisiva nello studio della natura del contenuto mentale e del significato. Quando i due gemelli proferiscono un enunciato del tipo: «c'è dell'acqua nel bicchiere di fronte a me» quello che accade è che pur trovandosi (per definizione) nello stesso stato cerebrale e nello stesso stato mentale, si riferiscono a due entità diverse: ciò che avviene all'interno della scatola cranica non è dunque sufficiente a determinare il riferimento delle espressioni linguistiche - il significato, in altri termini, non sta nella testa dei parlanti. È una critica che ha avuto profonde ripercussioni nella filosofia della mente più vicina alla scienza cognitiva. Jerry Fodor, ad esempio, ha cercato di far fronte alle critiche di Putnam distinguendo il contenuto nella testa degli individui (narrow content) da quello che tiene conto delle relazioni causali col mondo esterno (broad content). Andy Clark, per citare solo un altro caso, ha sostenuto che la mente si deve intendere come estesa fuori della scatola cranica a inglobare l'ambiente esterno, considerato come una «impalcatura» su cui il cervello fa leva per rendere più efficaci i suoi processi di elaborazione.
Entrambe le argomentazioni, insieme a altre analoghe, invitano dunque a considerare il ruolo del mondo esterno - quello sociale e quello fisico - nella vita mentale degli individui, e la scienza cognitiva deve tenerne conto se vuole definire correttamente alcuni degli assunti centrali che la caratterizzano, con il risultato di approdare a un nuovo proficuo ripensamento dei rapporti tra filosofia e scienza.
ilmanifesto.it 02 novembre 2007

18.9.07

La feconda eredità di un pensiero materialista proiettato sul presente

Il Meridiano delle «Opere» di Baruch Spinoza. Una raccolta e una bella traduzione di tutti gli scritti unita a una efficace nota che scandisce la vita del filosofo olandese. L'interpretazione di Spinoza è stata in perenne rinnovamento, anche se non mancano ancora studiosi che cercano di neutralizzare un pensiero la cui eredità permette di uscire dalla crisi della cultura della sinistra italiana
Toni Negri

In una recente intervista Pierre-François Moreau (oggi punto di riferimento degli studi francesi su Spinoza) ha notato che l'Italia è forse il paese nel quale si pubblica di più sull'opera di Spinoza. Paradossalmente, nel nostro paese non c'era tuttavia un'edizione di riferimento che, in buon italiano, comprendesse l'intera opera del grande autore seicentesco. Oggi, questa Opera finalmente c'è: pubblicata da Mondadori nei Meridiani, a cura e con un saggio introduttivo di Filippo Mignini (che ha anche lavorato alle traduzioni ed alle note con Omero Proietti). Quest'edizione è importantissima perché raccoglie, come s'è detto, tutta l'opera di Spinoza, perché la traduce bene, perché contiene un'utile introduzione teorica, un accurato accenno storico alla fortuna di Spinoza e soprattutto perché offre un'accurata cronologia ragionata sulla vita di Spinoza e sull'ambiente olandese nel quale la sua filosofia si è formata. (A proposito chi ne ha il tempo può ancora visitare a Parigi, nel Musée d'Art et d'Histoire du Judaisme, una ricchissima ed appassionante esposizione sull'Amsterdam ebraica di Rembrant e Spinoza). Era ora che questo strumento essenziale fosse messo a disposizione degli studiosi italiani.
Un autore azzerato
Come ben si segnala nell'introduzione, l'interpretazione di Spinoza e la sua fortuna sono state in perenne rinnovamento. Anche a chi scrive è richiesto di prendere posizione su questo terreno e di misurare in che prospettiva mettersi nello spendere o forse, meglio, nell'investire le fortune lasciateci da Spinoza. Ho tra le mani la recensione che alla traduzione Mignini-Proietti, ha fatto Emanuele Severino ne Il Corriere della Sera. S'intitola: «Spinoza, Dio e il Nulla. Il Maestro del Seicento, lontano dalla religione, ma tentato di negare il mondo» (30 Giugno 2007). Severino aderisce all'affermazione di Mignini che la filosofia di Spinoza rappresenti: «il più radicale ed alternativo sistema della storia filosofica dell'Occidente dopo la venuta di Cristo» - ma, come spesso gli storici della filosofia hanno fatto (allo scopo di neutralizzare questa potente radicalità alternativa), aggiunge che l'immanenza spinozista si sporge sul nulla, che l'assoluto della produzione sembra confondersi in quello della distruzione e che queste spinte opposte «hanno in comune la convinzione decisiva ed abissale che le cose del mondo sono nulla».
Questo sforzo di neutralizzazione è stato probabilmente - nella sua forma più sofisticata - elaborato da Hegel quando, dopo aver affermato che «se non si è spinozisti, non può filosofare» - che cioè solo l'assunzione dell'assoluto e l'immersione in esso aprono alla filosofia - immediatamente aggiunge: non solo Spinoza non ha la capacità di sviluppare quest'assolutezza perché non è trinitario, dialettico, perché è ebreo ma anche perché, «povero tisicuzzo», non ne ha la forza. Quale smalcazonata! Perdura, tuttavia, questo stile di polemica e permette a chi vede nell'essere una tendenza alla morte, di rimproverare a chi scriveva: «l'uomo libero a nulla pensa di meno che alla morte, e la sua saggezza è meditazione non della morte ma della vita» (Ethica), di confondere l'essere e il non essere. Eppure no: «la nostra mente, in quanto percepisce le cose con verità, è una parte dell'intelletto infinito di Dio» (Ethica). Possiede dunque la potenza del divino - questa natura, questa materia della quale siamo fatti, hanno quella potenza.
Collocandoci dentro una storia di investimenti della potenza spinozista, chiediamoci che cosa sia oggi, come possa per noi configurarsi, il materialismo spinozista. Non è un materialismo dell'oggetto inerte, diremo, e neppure è quello che semplicemente promana da sequenze causali necessarie: è bensì un materialismo delle differenze attive e dei dispositivi soggettivi, ovvero un'affermazione della materia come forza produttiva, attraverso l'attività di quelle modalità che costituiscono la sostanza. Questa linea interpretativa ha, nell'ultimo trentennio dopo il '68, invaso il terreno delle letture spinoziste ed è difficile pensare che oggi, e forse per un lungo periodo, ci si possa dire spinozisti (e quindi cominciare a filosofare) evitandone l'efficia.
Un'etica dell'azione
Da questo punto di vista, la pubblicazione dell'Opera omnia di Spinoza offre un'ottima occasione per la ripresa del dibattito sul problema della cultura di sinistra in Italia. Il socialismo positivista ha finito da tempo di dare i suoi frutti ed anche le rifioriture engelsiane si sono ampiamente dissolte. Quanto al togliattismo, ovvero allo storicismo piegato alle esigenze della politica del partito, anch'esso ha da tempo terminato di esercitare qualche influenza. Che mille fiori fioriscano, allora! In realtà sono già fioriti: non saranno mille ma per quanto minuscolo il campo della critica di sinistra possa essere, è sicuramente originale e sta ridefinendo i suoi orizzonti. Forse già si può dire: questo secolo sarà spinozista! Foucault lo disse per Deleuze, Deleuze lo disse per Marx, Marx lo dice per Spinoza. Ciascuno di questi autori ha proceduto mascherato per chiarirci quell'unico modo di fare una filosofia materialista che apra ad un'etica dell'azione.
Fra gli anni '60 e '70 abbiamo vissuto un'epoca di profondissima crisi dell'ideologia socialista e di critica del pensiero marxiano. Possiamo forse oggi ritrovare le origini spinoziste di quella riflessione. Un esempio fra altri possibili. Quando Althusser definisce una «cesura» radicale nello sviluppo del pensiero marxiano, egli forse non pensa ancora che la rottura fra la metodologia scientifica del Marx maturo ed il suo umanesimo iniziale potesse essere interpretata in termini spinozisti. Solo più tardi, nel momento più difficile della sua conversione postmarxista, confusamente Althusser suggerirà una tale determinante del suo passaggio. Straordinariamente efficace questa allusione! Essa significava che Spinoza ci poteva finalmente liberare da ogni dialettismo, da ogni teleologia; essa affidava la conoscenza alla resistenza e la felicità alla passione razionale della moltitudine. Ecco perché, quando il quadro della lotta per l'emancipazione umana si allarga, e la critica aggancia lo sviluppo capitalistico nella fase della sussunzione reale, nella fase imperiale cioè, nel postcolonialismo - è allora che sulla «cesura» marxiana si impone apertamente la «matrice» spinozista.
È un materialismo dei dispositivi ontologici e della produzione di soggettività che qui apertamente si esprime. È un passaggio storico nel quale stanno tutti coloro che attorno all'emancipazione, hanno sviluppato un pensiero della differenza, antiteleologico ed immanentista.Mario Tronti e Luisa Muraro, nel nostro (grande) piccolo, ma poi tutti gli altri che, del postmoderno, hanno fatto un'arma di emancipazione: la Spivak come gli altri postcoloniali, per parlare solo di alcuni - ma soprattutto ci sta Foucault. È questo il momento nel quale il nuovo materialismo spinozista comincia a produrre i suoi effetti, a mostrarci - attraverso le articolazioni della sostanza - la produttività dei modi, ossia la piega singolare, rivoluzionaria che essi assumono.
L'offensiva storicista
Attenzione tuttavia ai contrefeux che sono opposti a questa nuova fondazione del pensiero materialista o del pensiero politico di una sinistra rivoluzionaria. Vi è chi sostiene che, aderendo a questo materialismo, si rischia di giocare col fuoco, con il vitalismo e/o un irrazionalismo che ormai fan parte del mercato. Redemption business. Tom Nairn ha sostenuto questa tesi in un recente numero del London Review of Books: era la stizzosa reazione di un esponente della vecchia guardia socialista contro le nuove esperienze e i nuovi bisogni del proletariato cognitivo. Più pericolosa, d'altro lato, si è presentata, ben agguerrita, un'offensiva storicista, intesa a neutralizzare «l'anomalia spinoziana». È soprattutto Jonathan Israel - nel suo per altri versi importante Radical Enlightment - che ha operato in questo senso appiattendo la specificità dello spinozismo in un vago illuminismo riformista.
Ma Spinoza non è mai stato un riformista, non ha mai pensato l'essere come una dinamica che non facesse salti: anzi, è proprio su queste rotture, su questa vivace presenza dei modi, sulla singolarità che l'eterno loro garantisce, e sulla libertà, che il futuro si presenta. E così Spinoza rompe con ogni filosofia accademica (ed ogni neutralizzazione del sapere) perché mette la sua metafisica al servizio diretto della liberazione dell'umanità, e dei movimenti, contro le istituzioni del potere. E' da qui che si apre un'alternativa definitiva alla modernità e a tutti i suoi orpelli ideologici.
ilmanifesto.it

13.9.07

Quelle dispute attorno al divenire della critica al capitalismo

Percorsi di ricerca che si intersecano per poi divaricarsi all'interno di quella «crisi del marxismo» tratteggiata da Louis Althusser. Da una parte una teoria sulla «contigenza», dall'altra la continuità tra vita e politica
Roberto Ciccarelli

Ci sono dispute intellettuali che non sono mai cominciate. Quella che Alain Badiou, filosofo, drammaturgo e matematico, professore emerito alla Normale di Parigi avrebbe desiderato avere con Gilles Deleuze è una di queste. Questa strana categoria dell'incontro mancato, lo scrivere con qualcuno senza che questo qualcuno abbia mai manifestato un desiderio in tal senso, è diventata teoria, e rivendicazione di un rapporto esclusivo da parte di Badiou, ne Il clamore dell'Essere (tradotto da Einaudi nel 2004), un libro tanto smilzo, quanto provocatorio, pubblicato nel 1997. In quelle pagine Badiou ha rivelato che Deleuze, con il quale aveva intrattenuto un epistolario, arrivò nel 1994 a distruggere tutte le lettere che gli aveva scritto, proibendogli ogni pubblicazione (promessa solo in parte mantenuta). Quel forte gesto simbolico riassumeva molte cose: un taglio netto con chi nei primi anni Settanta lo aveva definito «fascista» per la sua filosofia «anarco-desiderante» (che oggi Badiou ammette, per sua e nostra fortuna, che non rappresenta affatto Deleuze). Un'accusa infantile che Deleuze a sua volta tacciò di «suicidio intellettuale».
Un corsivo di commiato
Alla fine degli anni Ottanta Badiou si rese conto che la sua ricerca convergeva con quella di Deleuze. Entrambe rifiutavano le retoriche sulla «fine della filosofia»; si battevano contro i golpisti viennesi che avevano preso il potere nelle università americane introducendovi il credo della filosofia analitica; entrambe erano «fedeli» al marxismo.
Timide, al limite della freddezza, furono le risposte di Deleuze: prima un biglietto per un volume di Badiou nel 1982 (Théorie du Sujet) al quale Badiou rispose con una lunga recensione al libro di Deleuze su Leibniz nel 1989. Poi un segnale più deciso nell'ultimo libro scritto nel 1991 con Félix Guattari Che cos'è la filosofia?. In un corsivo si legge che nel pensiero di Badiou c'è un tentativo di restaurare l'anacronistico primato della filosofia sulla scienza, di restaurare la partizione dell'«Essere» secondo l'«Uno» e il «Molteplice», quando invece l'«Essere» si dice in un solo e medesimo senso, quello delle molteplicità e delle singolarità.
La ricerca delle fonti
Instancabile, anche se con moderata sensibilità auto-critica, Badiou ha continuato a coltivare negli anni successivi un confronto che il suo interlocutore gli ha negato in vita, in particolare sulla teoria delle molteplicità e sull'interpretazione del pensiero matematico. Lo testimonia questa antologia di scritti edita da Ombre Corte.
Tutto parte dalla critica che Badiou muove agli «allievi» di Deleuze, accusandoli di non avere mai preso sul serio, e indagato a fondo, le sue fonti: Spinoza, Nietzsche, Bergson, e Whitehead. Curioso, poi, constatare che l'unico che dice di averlo fatto sia lo stesso Badiou il quale, dopo un'analisi sommaria e liquidatoria, ha concluso che in realtà tutti questi autori non hanno fatto altro che rafforzare il platonismo di Deleuze. È questa la tesi che non tardò a suo tempo a sollevare l'indignazione generale. Colui che ha attribuito alla filosofia il compito di «rovesciare il platonismo», un platonico? Per Badiou, Deleuze era proprio un platonico inconsapevole.
Il tono polemico con cui Badiou ha risposto alla critiche della sue tesi sul platonismo di Deleuze non è dettato solo dal fastidio di non avere rispettato la filologia dei tesiti deleuziani. Nel suo caso, infatti, non si tratta solo di una vanità ferita. Il merito della contesa è il giudizio sulla politica di Deleuze.
Oggi si può dire che Deleuze sia stato l'unico teorico novecentesco a pensare la politica al di là del binomio rappresentanza-rappresentazione, quel vincolo teologico-politico che ha incatenato la modernità davanti all'alternativa Schmitt o Kelsen: da una parte il decisionismo, dall'altra parte il normativismo. Badiou ha abbracciato il paradigma decisionista, declinando Schmitt con Lenin per arrivare ad una teoria della «contingenza» politica. Quando Badiou sostiene che in Deleuze manca una «teoria» della politica che vada oltre la mera analisi del capitalismo ha ragione e torto insieme. Ragione perché l'analisi del capitalismo non genera automaticamente una teoria della politica, casomai una critica dell'economia politica, che è altra cosa, anche se certo non estranea ad essa. Torto perché, se teoria della politica deve esistere, non è detto che sia improntata sempre al decisionismo.
A Badiou sfugge infatti il fatto che Deleuze abbia tentato la decostruzione di tutti i presupposti teologici, occasionalistici e generalmente metafisici sui quali si è retta una parte cospicua della teoria politica novecentesca. E va detto che la critica del potere e l'analisi del «divenire minoritario» delle lotte rappresentano quanto di meglio tra gli anni Settanta e gli anni Novanta è stato prodotto in sede di teoria della politica dopo la crisi del marxismo (quella per intendersi descritta da Louis Althusser) e, più in generale, dell'idea di «soggetto» politico antagonista.
Il presente inafferrabile
Sebbene la tesi del Plato Redivivus resista caparbia nel corso dei sette articoli raccolti in questa antologia, non è detto che Badiou non abbia tuttavia avvertito l'esigenza di una nuova interrogazione del pensiero deleuziano alla luce della necessità di coniugare la singolarità politica con una nuova definizione dell'universale rispettoso delle differenze.
Su questo punto Badiou centra il bersaglio e raccoglie in tre massime ciò che Deleuze dice al nostro presente: eludere il controllo (massima negativa), credere nel mondo (massima soggettiva), partecipare agli eventi (massima creativa). Che significa: il nuovo non ha il sapore dell'antico, ma si produce nella vita, nei concetti, negli affetti. Quale migliore viatico etico-politico per una politica immobile. Basterebbe poco a fare un gioco diverso da quello dominante, piuttosto che continuare ad ingrossare i Pantheon di partito ed evocare «culture politiche» che non ci sono. Ogni epoca ha il suo gusto. La nostra, quello necrofilo.
ilmanifesto.it