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3.5.15

Se a sgocciolare è l’Expo

Guido Viale (il Manifesto)

Trickle-down (in ita­liano, sgoc­cio­la­mento) è il nome di una teo­ria eco­no­mica, ma anche di una filo­so­fia, che molti hanno cono­sciuto attra­verso la para­bola di Laz­zaro che si nutriva delle bri­ciole che il ricco Epu­lone lasciava cadere dalla sua mensa (Luca, 16, 19–31). Dopo la loro morte le parti si sono inver­tite per­ché Laz­zaro è stato ammesso al ban­chetto di Dio, in Para­diso, men­tre Epu­lone è finito all’inferno a sof­frire fame e sete. La teo­ria e la filo­so­fia del Trickle–down in realtà si fer­mano alla prima parte della parabola.

La seconda parte è com­pito nostro rea­liz­zarla; e non in Para­diso, dopo la morte, ma su que­sta Terra, qui e ora.

In ogni caso, secondo la teo­ria, più i ric­chi diven­tano ric­chi, più qual­che cosa della loro ric­chezza “sgoc­cio­lerà” sulle classi che stanno sotto di loro, per cui che i ric­chi siano sem­pre più ric­chi con­viene a tutti. Discende da que­sta teo­ria la pro­gres­siva ridu­zione delle tasse sui red­diti mag­giori (fino alla flat tax, l’aliquota uguale per tutti, pre­di­cata negli Usa dal par­tito repub­bli­cano e, in Ita­lia, da Mat­teo Sal­vini) che, a par­tire dagli anni Set­tanta, ha inau­gu­rato la cre­scita incon­trol­lata delle dise­gua­glianze. In Ita­lia la pro­gres­siva ridu­zione delle ali­quote mar­gi­nali dell’imposta sui red­diti più ele­vati (al momento dell’introduzione dell’Irpef era di oltre il 70 per cento; oggi supera di poco il 40) è stata giu­sti­fi­cata soste­nendo che ali­quote troppo ele­vate incen­ti­vano l’evasione fiscale, men­tre ali­quote più “ragio­ne­voli” l’avrebbero eli­mi­nata. I risul­tati si vedono. L’altro cavallo di bat­ta­glia della Trickle-down eco­no­mics è che le misure di incen­ti­va­zione eco­no­mica dovreb­bero essere desti­nate esclu­si­va­mente alle imprese, per­ché sono solo le imprese a creare buona occu­pa­zio­nee, quindi, red­dito e benes­sere anche per i lavo­ra­tori. Tutte le altre spese, spe­cie se di carat­tere sociale, sono, in ter­mini eco­no­mici, “spre­chi”. Ma l’evoluzione tec­no­lo­gica rende sem­pre di più job-less, cioè senza occu­pa­zione aggiun­tiva, la cre­scita sia della sin­gola impresa che del sistema nel suo com­plesso. Anzi, molto spesso la ridu­zione dell’occupazione in una impresa viene salu­tata con un dra­stico aumento del suo valore in borsa.

Tra­spo­sta sul piano sociale, la filo­so­fia del Trickle-down ha assunto i con­no­tati del “capi­ta­li­smo com­pas­sio­ne­vole”, che negli Stati uniti costi­tui­sce la dot­trina uffi­ciale dell’ala più rea­zio­na­ria del par­tito repub­bli­cano, e non solo di quella. In base ad essa il wel­fare, come insieme di misure tese a garan­tire in forma uni­ver­sa­li­stica i diritti fon­da­men­tali del cit­ta­dino – pen­sione, cure sani­ta­rie, istru­zione, soste­gno al red­dito – va eli­mi­nato per­ché induce chi ne bene­fi­cia all’ozio; e va sosti­tuito con la bene­fi­cienza gestita dalla gene­ro­sità dei ric­chi, nelle forme da loro pre­scelte e indi­riz­zan­dola, ovvia­mente, solo a chi, a loro esclu­sivo giu­di­zio, “se la merita”. Non c’è nega­zione più radi­cale della dignità dell’essere umano (e del vivente in genere) di una teo­ria come que­sta. Eppure è una con­ce­zione che sta pro­gres­si­va­mente pren­dendo piede in tutti gli ambiti della cul­tura uffi­ciale, anche là dove gli isti­tuti del Wel­fare State (che let­te­ral­mente signi­fica Stato del benes­sere, e che da tempo viene tra­dotto sem­pre più spesso con l’espressione “Stato assi­sten­ziale”) sono, bene o male, ancora in funzione.

Non deve stu­pire quindi di ritro­vare i capi­saldi di que­sta con­ce­zione vio­len­te­mente anti­de­mo­cra­tica in quello che viene fin da ora uffi­cial­mente indi­cato come “il lascito imma­te­riale” della peg­giore mani­fe­sta­zione della teo­ria e della prassi del capi­ta­li­smo finan­zia­rio, o “finan­z­ca­pi­ta­li­smo”: la cosid­detta “carta di Milano” dell’Expò. Lascito imma­te­riale, per­ché quello mate­riale, come è ormai noto, non è che deva­sta­zione del ter­ri­to­rio, asfalto e cemento, cor­ru­zione, nuovi debiti di Comune, Regione e Stato, vio­la­zione dei diritti, della dignità e della sicu­rezza del lavoro (l’Expò è stato il labo­ra­to­rio del Job-act), pro­pa­ganda per un’alimentazione, un’agricoltura e un’industria ali­men­tare tos­si­che e, dul­cis in fundo, un mec­ca­ni­smo di per­pe­tua­zione delle Grandi Opere inu­tili: per­ché, a Expò con­cluso, ci sarà da deci­dere che cosa fare, con nuovo cemento, nuovi debiti e nuova cor­ru­zione di quell’area ormai devastata.

Uno dei punti o pro­po­siti qua­li­fi­canti della Carta di Milano è infatti la lotta con­tro lo spreco ali­men­tare attra­verso il recu­pero del cibo che oggi viene but­tato via, desti­nan­dolo ai poveri. Nella carta i rife­ri­menti a que­sto pro­po­sito sono tre: “ che il cibo sia con­su­mato prima che depe­ri­sca, donato qua­lora in eccesso e con­ser­vato in modo tale che non si dete­riori”; “indi­vi­duare e denun­ciare le prin­ci­pali cri­ti­cità nelle varie legi­sla­zioni che disci­pli­nano la dona­zione degli ali­menti inven­duti per poi impe­gnarci atti­va­mente al fine di recu­pe­rare e ridi­stri­buire le ecce­denze”; “creare stru­menti di soste­gno in favore delle fasce più deboli della popo­la­zione, anche attra­verso il coor­di­na­mento tra gli attori che ope­rano nel set­tore del recu­pero e della distri­bu­zione gra­tuita delle ecce­denze ali­men­tari”. Appa­ren­te­mente si tratta di rac­co­man­da­zioni di buon senso: dare a chi non può per­met­ter­selo il cibo che altri­menti but­te­remmo via. E’ quello che si cerca di fare con isti­tu­zioni e pro­grammi bene­me­riti, come la legge detta del “Buon Sama­ri­tano” o il Last-minute mar­ket pro­mosso dal prof. Andrea Segrè. Il fatto è che sono misure messe a punto nell’ambito della gestione dei rifiuti e tese alla loro mini­miz­za­zione (in vista del loro azze­ra­mento, pre­vi­sto dal pro­gramma Rifiuti zero, che le ren­de­rebbe super­flue). Tra­spo­ste nell’ambito di un pro­gramma pla­ne­ta­rio per “nutrire il pia­neta” hanno l’effetto di retro­ce­dere all’ambito della gestione dei rifiuti il tema della sot­toa­li­men­ta­zione di una parte deci­siva dell’umanità, la cui con­di­zione è invece il pro­dotto delle grandi e cre­scenti dise­gua­glianze mon­diali nella distri­bu­zione dei red­diti, del lavoro e delle risorse.

Per cogliere meglio que­sto punto è neces­sa­rio risa­lire a quella che è la matrice della Carta di Milano, cioè il “Pro­to­collo di Milano”: un docu­mento ela­bo­rato dalla fon­da­zione Barilla – ema­na­zione dell’omonima mul­ti­na­zio­nale ali­men­tare – a cui l’Expò ha affi­dato il com­pito di indi­vi­duare i capi­saldi del pro­gramma “nutrire il pia­neta”, che sono poi stati tra­dotti “in pil­lole” nella Carta di Milano; e che ha la pre­tesa di defi­nire un pro­gramma di azione dei pros­simi decenni per tutti i sog­getti del mondo – Governi, imprese, asso­cia­zioni, cit­ta­dini — impe­gnati nella filiera agroa­li­men­tare come pro­dut­tori, distri­bu­tori o consumatori.

Nel Pro­to­collo di Milano il tema dello spreco di ali­menti occupa il primo posto: “Primo para­dosso – spreco di ali­menti: 1,3 miliardi di ton­nel­late di cibo com­me­sti­bile sono spre­cati ogni anno, ovvero un terzo della pro­du­zione glo­bale di ali­menti e quat­tro volte la quan­tità neces­sa­ria a nutrire gli 805 milioni di per­sone denu­trite nel mondo”. Nell’ambito dei pro­grammi per sra­di­care la fame, tra cui “le dispo­si­zioni per­ti­nenti nel qua­dro delle legi­sla­zioni inter­na­zio­nali, regio­nali e nazio­nali per la pro­te­zione e con­ser­va­zione delle risorse e l’adozione di azioni fina­liz­zate allo svi­luppo soste­ni­bile nella Diret­tiva qua­dro euro­pea sulle acque, il Piano d’azione per un’Europa effi­ciente sotto il pro­filo delle risorse, gli Obiet­tivi di Svi­luppo del Mil­len­nio per sra­di­care la povertà estrema e la fame”, il Pro­to­collo di Milano arriva a trat­tare que­sta prima emer­genza pla­ne­ta­ria con le stesse moda­lità con cui, in un qual­siasi Comune d’Italia, si affronta il pro­blema della gestione dei rifiuti: “Le ini­zia­tive per la ridu­zione degli spre­chi devono rispet­tare la seguente gerarchia:

1. Pre­ven­zione; 2. Riu­ti­lizzo per l’alimentazione umana; 3. Ali­men­ta­zione ani­male; 4. Pro­du­zione di ener­gia e com­po­stag­gio”. Se la guerra alla fame nel mondo è in primo luogo una lotta con­tro la tra­sfor­ma­zione degli ali­menti in rifiuti (e non per una più equa distri­bu­zione delle risorse), è ovvio che ai poveri e agli affa­mati del pia­neta non spetti altro che il com­pito di smal­tire ciò di cui i ric­chi si vogliono sba­raz­zare. Cioè sedersi, come Laz­zaro, ai piedi della tavola del ricco Epu­lone. Con il che la Trickle-down eco­no­mics fa il suo ingresso trion­fale nel “lascito” dell’Expò.

18.4.14

I 10 PUNTI DI FORZA DELLA LISTA ALTRA EUROPA CON TSIPRAS

di Luciano Gallino, Marco Revelli, Barbara Spinelli, Guido Viale (L'Altra Europa)

«Siamo radicali perché la realtà è radicale» (Alexis Tsipras)

Quando diciamo che siamo per un’Altra Europa, la vogliamo davvero e non solo a parole. Abbiamo in mente un ordine politico nuovo, perché il vecchio è in frantumi. Non può essere rammendato alla meno peggio.



In realtà il nostro è l’unico progetto che non si limita a invocare a parole un’altra Europa, ma si propone di cambiarla con politiche che riuniscano quel che è stato disunito e disfatto. Gli altri partiti sono tutti, in realtà, conservatori dello status quo.

Sono conservatori Matteo Renzi e il governo, che parlano di cambiamento e tuttavia hanno costruito quest’Unione che umilia e impoverisce i popoli, favorendo banche e speculatori.

Sono conservatori i leghisti, che denunciano l’Unione ma come via d’uscita prospettano il nazionalismo e la xenofobia.

Nei fatti è conservatore il Movimento 5 Stelle, che si fa portavoce di un disagio reale, ma senza sbocchi chiari.

Tutta diversa la Lista Tsipras. Il progetto è di cambiare radicalmente le istituzioni europee, di dare all’Unione una Costituzione scritta dai popoli, di dotarla di una politica estera non bisognosa delle stampelle statunitensi. Tutta diversa la prospettiva della Lista Tsipras. La nostra non è né una promessa fittizia, come quella di Renzi, né una protesta che rinuncia alla battaglia prima di farla. Metteremo duramente in discussione il Fiscal compact, e in particolare contesteremo – anche con referendum abrogativo – le norme applicative che il Parlamento dovrà introdurre per dare attuazione all'obbligo del pareggio di bilancio che purtroppo è stato inserito ormai nell'articolo 81 della Costituzione, senza che l'Europa ce l'abbia mai chiesto. In ogni caso, faremo in modo che non abbiano più a ripetersi calcoli così palesemente errati e nefasti, nati da una cultura neoliberista che ha impedito all’Europa di divenire l’istanza superiore in grado di custodire sovranità che sono andate evaporando, proteggendoli al tempo stesso dai mercati incontrollabili, dall’erosione delle democrazie e dalla prevaricazione di superpotenze che usano il nostro spazio come estensione dei loro mercati e della loro potenza geopolitica.

Ecco le 10 vie alternative che intendiamo percorrere:

1 - Siamo la sola forza alternativa perché non crediamo sia possibile pensare l’economia e l’Europa democraticamente unita «in successione»: prima si mettono a posto i conti e si fanno le riforme strutturali, poi ci si batte per un’Europa più solidale e diversa. Le due cose vanno insieme. Operare «in successione» riproduce ad infinitum il vizio mortale dell’Euro: prima si fa la moneta, poi per forza di cose verrà l’Europa politica solidale. È dimostrato che questa “forza delle cose” non c’è. Status quo significa che s’impone lo Stato più forte.

2 - Siamo la sola forza alternativa perché crediamo che solo un’Europa federale sia la via aurea, nella globalizzazione. Se l’edificheremo, Grecia o Italia diverranno simili a quello che è la California per gli Usa. Nessuno parlerebbe di uscita della California dal dollaro: le strutture federali e un comune bilancio tengono gli Stati insieme e non colpevolizzano i più deboli. In un’Europa federata, quindi multietnica, l’isola di Lampedusa è una porta, non una ghigliottina.

3 - Siamo la sola forza alternativa perché non pensiamo che prioritaria ed esclusiva sia la difesa dell’«interesse nazionale»: si tratta di individuare quale sia l’interesse di tutti i cittadini europei. Se salta un anello, tutta la catena salta.

4 - Siamo la sola forza alternativa perché non siamo un movimento minoritario di protesta, ma avanziamo proposte precise, rapide. Proponiamo una Conferenza sul debito che ricalchi quanto deciso nel 1953 sulla Germania, cui vennero condonati i debiti di guerra. L’accordo cui si potrebbe giungere è l’europeizzazione della parte dei debiti che eccede il fisiologico 60 per cento del pil. E proponiamo un piano Marshall per l’Europa, che avvii una riconversione produttiva, ecologicamente sostenibile e ad alto impatto sull’occupazione, finanziato dalle tasse sulle transazioni finanziarie e l’emissione di anidride carbonica, oltre che da project bond e eurobond.

5 - Siamo la sola forza alternativa perché esigiamo non soltanto l’abbandono delle politiche di austerità, ma la modifica dei trattati che le hanno rese possibili. Tra i primi: l’abolizione e la ridiscussione a fondo del Fiscal Compact, che promette al nostro e ad altri Paesi una o due generazioni di intollerabile povertà, e la distruzione dello Stato sociale. Promuoviamo un’Iniziativa Cittadina (art. 11 del Trattato sull’Unione europea) con l’obbiettivo di una sua radicale messa in discussione. Chiederemo inoltre al Parlamento Europeo un’indagine conoscitiva e giuridica sulle responsabilità della Commissione, della Bce e del Fmi nell’imporre un’austerità che ha gravemente danneggiato milioni di cittadini europei.

6 – Siamo la sola forza alternativa perché non ci limitiamo a condannare gli scandali della disoccupazione e del precariato, ma proponiamo un Piano Europeo per l’Occupazione (PEO) il quale stanzi almeno 100 miliardi l’anno per 10 anni per dare occupazione ad almeno 5-6 milioni di disoccupati o inoccupati (1 milione in Italia): tanti quanti hanno perso il lavoro dall’inizio della crisi. Il PEO dovrà dare la priorità a interventi che non siano in contrasto con gli equilibri ambientali come le molte Grandi Opere che devastano il territorio e che creano poca occupazione, ad esempio il TAV Torino-Lione e le trivellazioni nel Mediterraneo e nelle aree protette. Dovrà agevolare la transizione verso consumi drasticamente ridotti di combustibili fossili; la creazione di un’agricoltura biologica; il riassetto idrogeologico dei territori; la valorizzazione non speculativa del nostro patrimonio artistico; il potenziamento dell’istruzione e della ricerca.

7 – Siamo la sola forza alternativa perché riteniamo un pericolo l’impegno del governo di concludere presto l’accordo sul Partenariato Transatlantico per il Commercio e l'Investimento (Ttip). Condotto segretamente, senza controlli democratici, il negoziato è in mano alle multinazionali, il cui scopo è far prevalere i propri interessi su quelli collettivi dei cittadini. Il welfare è sotto attacco. Acqua, elettricità, educazione, salute saranno esposte alla libera concorrenza, in barba ai referendum cittadini e a tante lotte sui “beni comuni”. La battaglia contro la produzione degli OGM, quella che penalizza le imprese inquinanti o impone l’etichettatura dei cibi, la tassa sulle transazioni finanziarie e sull’emissione di anidride carbonica sono minacciate. La nostra lotta contro la corruzione e le mafie è ingrediente essenziale di questa resistenza alla commistione mondializzata fra libero commercio, violazione delle regole, abolizione dei controlli democratici sui territori.

8 - Siamo la sola forza alternativa perché vogliamo cambiare non solo gli equilibri fra istituzioni europee ma la loro natura. I vertici dei capi di Stato o di governo sono un cancro dell’Unione, e proponiamo che il Parlamento europeo diventi un’istituzione davvero democratica: che legiferi, che nomini la Commissione e il suo Presidente, e imponga tasse europee in sostituzione di quelle nazionali. Vogliamo un Parlamento costituente, capace di dare ai cittadini dell’Unione una Carta che cominci, come la Costituzione statunitense, con le parole «We, the people....». Non con la firma di 28 re azzoppati e prepotenti, che addossano alla burocrazia di Bruxelles colpe di cui sono i primi responsabili.

9 - Siamo la sola forza alternativa a proposito dell’euro. Pur essendo critici radicali della sua gestione, e degli scarsi poteri di una Banca centrale cui viene proibito di essere prestatrice di ultima istanza, siamo contrari all’uscita dall’euro e non la riteniamo indolore. Uscire dall’euro è pericoloso economicamente (aumento del debito, dell’inflazione, dei costi delle importazioni, della povertà), e non restituirebbe ai paesi il governo della moneta, ma ci renderebbe più che mai dipendenti da mercati incontrollati, dalla potenza Usa o dal marco tedesco. Soprattutto segnerebbe una ricaduta nei nazionalismi autarchici, e in sovranità fasulle. Noi siamo per un’Europa politica e democratica che faccia argine ai mercati, alla potenza Usa, e alle le nostre stesse tentazioni nazionaliste e xenofobe. Una moneta «senza Stato» è un controsenso politico, prima che economico.

10 – Siamo la sola forza alternativa perché la nostra è l’Europa della Resistenza: contro il ritorno dei nazionalismi, le Costituzioni calpestate, i Parlamenti svuotati, i capi plebiscitati da popoli visti come massa amorfa, non come cittadini consapevoli. Dicono che la pace in Europa è oggi un fatto acquisito. Non è vero. Le politiche di austerità hanno diviso non solo gli Stati ma anche i popoli, e quella che viviamo è una sorta di guerra civile dentro un’Unione che secerne di nuovo partiti fascistoidi come Alba Dorata in Grecia, Jobbik in Ungheria, Fronte Nazionale in Francia, Lega in Italia. All’esterno, poi, siamo impegnati in guerre decise dalla potenza Usa: guerre di cui gli Stati dell’Unione non discutono mai perché vi partecipano servilmente, senz’alcun progetto di disarmo, refrattari a ogni politica estera e di difesa comune (il costo della non-Europa in campo militare ammonta a 120 miliardi di euro annui). Perfino ai confini orientali dell’Unione sono gli Stati Uniti a decidere quale ordine debba regnare.

L’Europa che abbiamo in mente è quella del Manifesto di Ventotene, e chi lo scrisse non pensava ai compiti che ciascuno doveva fare a casa, ma a un comune compito rivoluzionario. Noi oggi facciamo rivivere quella presa di coscienza: per questo al Parlamento europeo saremo con Tsipras, non con i socialisti che già pensano a Grandi Intese con i conservatori dello status quo. Siamo così fatti perché non abbiamo perduto la memoria del Novecento. L’Europa delle nazioni portò ai razzismi, e allo sterminio degli ebrei, dei Rom, dei malati mentali. L’Europa della recessione sfociò nella presa del potere di Hitler.

1.9.10

I diritti dei padroni e quelli degli operai

di Guido Viale
Per Marchionne, per la Marcegaglia e per molti altri che hanno frequentato il meeting di Comunione e liberazione la lotta di classe è un residuo di un passato da superare, così come lo è la conflittualità sindacale o la lotta «tra operai e padroni». Così si capisce meglio dove mirassero le tante polemiche fuori tempo massimo contro il '68 e la sua cultura distruttiva. Però, come giustamente ha fatto notare Adriano Sofri sulla sua piccola posta, la frase «basta lotta tra padroni e operai» prende una sfumatura diversa a seconda che a pronunciarla sia un operaio oppure un padrone. In effetti per tutti costoro quello che è o va superato è la lotta degli operai contro i padroni, o dei lavoratori contro le imprese e i loro imprenditori, perché l'altra, quella dei padroni contro gli operai è in pieno corso e va a gonfie vele. Come altro si può intendere, infatti, la situazione di quelle migliaia di lavoratori lasciati sul lastrico da padroni, spesso bancarottieri, che si sono impossessati di un'impresa per distruggerla o ridimensionarla grazie ai meccanismi messi in campo dalla finanza internazionale? O le delocalizzazioni fatte per liberarsi di una manodopera troppo costosa? O la diffusione del lavoro precario che distrugge qualsiasi possibilità di costruirsi una vita e un futuro? O la tesi di Tremonti, secondo cui la normativa sulla sicurezza sul lavoro (L. 626) è ormai insostenibile per le imprese, nonostante le morti sul lavoro ufficialmente accertate siano più di mille all'anno, e altrettante, e forse più, siano non accertate, perché morti «bianche» provocate dal lavoro «nero»?
L'accondiscendenza politica e sindacale verso il primato assoluto dell'impresa - che è l'ideologia sottostante a queste prese di posizione - ha impregnato talmente il sentire comune che nell'affrontare questi temi i loro corifei non si rendono nemmeno più conto di quel che dicono. Sentite Marchionne al meeting di Rimini: «Non credo sia onesto usare il diritto di pochi per piegare il diritto di molti». Pensa di parlare di tre degli operai che ha fatto licenziare per rappresaglia contro la Fiom, ma la stessa frase potrebbe essere letta in un altro modo. Quali sono «i diritti di pochi»? Non sono forse quelli dei padroni della fabbrica? O, meglio, degli azionisti di riferimento (gli altri sono «parco buoi») e dei manager che si sono scelti e che guadagnano, tutti quanti, milioni di euro all'anno: 3-400 volte di più dei «molti» che lavorano per loro. E chi sono quei «molti» i cui diritti vengono «piegati» dai «pochi»: quelli che un picchetto o un'assemblea in fabbrica ha magari dissuaso dal cedere al ricatto dell'azienda? O quelli «piegati» a dire di sì in un referendum sotto la minaccia di perdere per sempre il loro posto di lavoro? E ancora (è sempre Marchionne che parla): «La dignità e i diritti non possono essere patrimonio esclusivo di tre persone. Sono valori che vanno difesi e riconosciuti a tutti». Certo la dignità e i diritti di alcuni «tre», per esempio Marchionne, Elkann e Montezemolo, oppure Tremonti, Sacconi e la Sig.ra Marcegaglia, non sembrano messi in discussione. Ma che dire di migliaia di lavoratori posti di fronte al diktat di accettare condizioni di lavoro inaccettabili, contrarie alla loro dignità (ma si è mai vista la «pausa mensa» a fine turno, dopo otto ore di lavoro quasi senza pause? E perché non li si lascia andare a mangiare a casa loro? Perché siano pronti per il lavoro straordinario) e contrari ai loro diritti (quello, sacrosanto di garantirsi un brandello di vita familiare libera da turni e straordinari; o quello di scioperare). Questa storia della fine della lotta tra operai e padroni, con cui i vincenti di oggi si riempiono la bocca trattando i diritti dei perdenti come carta straccia, ricorda da vicino la storia della «fine delle ideologie». In realtà, a scomparire dai radar è stata solo l'ideologia socialista, con le sue varianti anarchica e comunista. Le altre, quella liberale, trasformata in liberismo e in «pensiero unico» è più viva che mai (anche se è più che mai un morto che cammina). E la dottrina della chiesa, trasformata in fondamentalismo cattolico («diritto alla vita» contro i diritti di chi vive), anche.

9.10.08

Barbarie universale - Oltre l'ossessione del berlusconismo

L'uomo di Arcore è «solo» l'italica personificazione di un degrado mondiale. La versione specifica di una caduta umana, da cui bisogna tentare d'uscire con un «movimento dal basso» che diventi «fatto politico»

Guido Viale

A cavallo tra gli anni '50 e '60 del secolo scorso, in Francia, il pensiero radicale di sinistra aveva dato vita a una rivista dal titolo profetico Socialisme ou barbarie. Mai analisi storica è stata più pregnante: il socialismo non si è realizzato - e forse non avrebbe potuto realizzarsi mai - ed è sopravvenuta la barbarie. Quella in cui tuttI noi, insieme all'intero pianeta, siamo ormai immersi.
Come La lettera rubata di Poe, la barbarie è lì davanti ai nostri occhi; ma proprio per questo non la vediamo; e quando qualcosa colpisce la nostra attenzione, come i conflitti di interesse del presidente del Consiglio, la pornografia eletta a sistema di selezione della classe di governo, la truffa mondiale della Parmalat, l'invasione dell'immondizia, le tifoserie scatenate o il razzismo della Lega, tendiamo ad attribuirla a una specificità nostrana, come se il resto del pianeta fosse immune da cose simili o anche peggiori. Invece, fatte le debite proporzioni, i conflitti di interesse che hanno portato in Iraq e in Afghanistan Bush e i suoi accoliti fanno impallidire quelli di Berlusconi (con l'aggravante che negli Stati uniti non c'è nemmeno una magistratura che, nel bene o nel male, li abbia messi sotto accusa); l'improvvisa ascesa di alcune soubrette al governo del nostro paese non sono che una versione sporcacciona dell'ascesa che potrebbe portare un «pitbull con il rossetto» a rovesciare un pronostico elettorale dato ormai per scontato; le truffe perpetrate dal sistema finanziario degli Stati uniti giganteggiano di fronte a quelle di Parmalat, Cirio, Banca di Lodi o Alitalia; la spettacolarizzazione che trasforma in successi gaffe e flop interni e internazionali di Berlusconi fanno scuola nel mondo. Infine violenza da stadio e intolleranza antislamica («vadano a pregare e pisciare nel deserto» per riprendere l'invito dell'ex-sindaco di Treviso) avevano già trovato una felice sintesi nella trasformazione di una tifoseria nelle milizie che hanno poi massacrato migliaia di cittadini islamici nella Bosnia di Arkan, Karadzic e Mladic. Ceramente in Italia alcuni di questi fenomeni presentano caratteri estremi e anticipatori; ma molti altri, ascrivibili alla medesima «temperie», cioè alla barbarie, registrano altrettanto considerevoli ritardi. Il fatto è che con la globalizzazione «la Storia» ha ormai preso a procedere in ordine sparso.

L'alibi italiano
L'antiberlusconismo, visto sotto questa luce, è stato e resta un alibi per evitare di fare i conti con la realtà: continuiamo ad accreditare a uno degli uomini più ridicoli della terra le doti di demiurgo che lui si attribuisce: quasi fosse lui, insieme alla sua corte di azzeccagarbugli, «veline» e trafficanti, e non viceversa, ad aver forgiato il carattere di quella maggioranza che regolarmente lo vota, rivota e osanna; nonostante tutti i fiaschi a cui è andato incontro e di cui ha già fornito ampie prove. E' lui, invece, a essere lo specchio e il punto di convergenza non solo delle aspirazioni, ma anche e soprattutto del modo di ragionare, di una moltitudine che va ben al di là del recinto dei suoi fan, o degli elettori del centrodestra; per abbracciare anche la parte preponderante di quel che sta alla sua sinistra e, soprattutto, del ceto politico da cui essa dovrebbe essere rappresentata.
Basta uscire dalla pista del circo a cui i media inchiodano giorno dopo giorno il discorso politico (le diatribe tra maggioranza e «opposizione») per imbattersi in una sostanziale identità di vedute: se non generale, sufficientemente diffusa da rendere impraticabile l'enucleazione di una qualsiasi alternativa. Si guardi, per esempio, al modo in cui l'universo mondo politico ha acclamato Berlusconi per aver «risolto» il problema dei rifiuti in Campania: in sostanza, facendo suoi i pochi risultati raggiunti dal governo precedente (lo sgombero delle strade) e prescrivendo di ricoprire di discariche l'intera regione, come se la Campania non ne avesse già ospitate abbastanza: di lecite e non; portando peraltro al governo del paese e del suo partito uomini oggi indicati come i referenti diretti della camorra casalese, regina incontrastata della gestione criminale dei rifiuti; il tutto in attesa dei mitici inceneritori, pagati «mettendo le mani nelle tasche» degli italiani con la bolletta elettrica e su alcuni dei quali la camorra ha già messo le mani prima ancora che vengano costruiti. E che comunque, come è successo a quello di Acerra sotto il suo precedente governo, arriveranno tra molti anni, o forse mai.
Questa incontestabile aura di successo, che non solo sfida, ma persino si alimenta dei continui fiaschi totalizzati dai suoi governi - l'attuale e i precedenti - sembra aver trovato una spiegazione, proposta e accolta da due editorialisti di Repubblica, in una sorta di format in cui Berlusconi, anche grazie al controllo dei media, è riuscito a imbrigliare il discorso politico: le cose presentate come positive sono merito suo; i suoi fallimenti sono colpa dell'opposizione o del precedente governo (cioè dei «comunisti»). Ma questa, come molte altre spiegazioni simili, elude il problema centrale, che è quello della barbarie: un problema che è sociale e culturale assai più che politico.

La grande resa pubblica
E' indubbio che i media, e soprattutto le sue cinque televisioni, che Prodi non aveva nemmeno cercato di scalfire, hanno e hanno avuto un peso fondamentale nel forgiare, ormai da un quarto di secolo, il carattere degli italiani. Berlusconi ha insediato al potere una nomenclatura e imposto un controllo dell'informazione da fare invidia al defunto potere sovietico. Vista sotto questa luce, la riforma dell'istruzione è stata realizzata da tempo, ben prima di quella, mai avviata, dell'ex ministro Moratti (Inglese, informatica e impresa: nessuno ne parla più) o di quella dal ministro Gelmini (grembiulini, cinque in condotta e 50 allievi per classe). Oggi la cultura degli italiani è quella prodotta dalla Tv: che i giornali del giorno dopo non fanno che ricalcare, e la scuola a subire, facendo come se la televisione non esistesse. Perché nessun preside, nessun insegnante, nessuna sperimentazione ha gli strumenti per confrontarsi con essa. E il ministero dell'istruzione non sarà mai tale fino a quando non avrà accordato ai programmi scolastici - rivisti - l'intero palinsesto, per lo meno della televisione pubblica.
Forse la barbarie sta proprio qui: nella resa della scuola, ma anche della politica e del mondo della cultura, di fronte a questa trasmissione unidirezionale di contenuti (o di non contenuti) culturali, perché sono venuti meno strumenti e condizioni per costruire, prima ancora che per trasmettere, una visione del mondo diversa, che si sottragga alla barbarie del presente: anche solo qualche brandello di una o più concezioni alternative al «pensiero unico» di cui è ormai impregnata la nostra vita quotidiana.
Come uscirne? Nessuno lo sa e se qualcuno crede di saperlo probabilmente è già fuori strada. Molti si aspettano la salvezza da dio. Se a suggerire che «ormai solo un dio può salvarci» era stato il più ateo dei filosofi del secolo scorso, milioni di suoi inconsapevoli seguaci corrono oggi a frotte a ripararsi sotto lo scudo della religione: di una delle tante religioni, non più percepite come veicoli di un rapporto con il trascendente, quanto come legittimazione identitaria della propria collocazione all'interno della barbarie generale. La vicenda degli «atei devoti» è, da questo punto di vista, estremamente esemplare. Quella dei «kamikaze» islamici, all'estremo opposto, anche.
Il fatto è che in un mondo di macerie, come quello prodotto dalle devastazioni della barbarie imperante, le condizioni per costruire una nuova dimora, cioè una diversa vivibilità, o una vivibilità tout court, debbono essere realizzate a partire dalle fondamenta, con i materiali che quelle macerie ci mettono a disposizione, e nei luoghi in cui già siamo o ci ritroviamo gettati. Ma che cosa può essere mai questa nuova dimora? Può essere la rete di relazioni in cui ciascuno di noi è inserito, adattata e trasformata per farne uno strumento di verifica, di trasmissione, e poi di controllo delle proprie condizioni di esistenza; in forme e modalità condivise. Troppo astratto? Certamente sì. Ma se ne possono ricavarne alcune regole per orientarsi nel mare della barbarie contemporanea.

«Piccole» vie d'uscita
Verifica, che vuol dire innanzitutto trasparenza. Ovunque il segreto, che sia politico, militare, industriale o amministrativo, è il nemico principale della verità; più di quanto lo sia la menzogna. Il solo limite legittimo che può - ma non necessariamente deve - incontrare è dato dalla riservatezza sulla propria vita personale.
Trasmissione, per dotarsi di mezzi propri con cui metterci in comunicazione con gli altri. La tecnologia della rete ha creato l'illusione che questi mezzi siano già a disposizione di tutti, o quasi. Ma non è così: c'è una dimensione della vita associata che non passa e non passerà mai attraverso la «Rete». E' la dimensione del contatto fisico, della verifica dello sguardo, del rapporto con ciò che resta della natura, dell'organizzazione materiale dei nostri spostamenti e dei nostri incontri, della necessità di non sottrarsi alle difficoltà, alla fatica, all'imbarazzo, al lutto, al dolore che il mondo reale impone e continuamente ripropone e che il mondo virtuale permette invece di eludere con la semplice pressione di un tasto: ciò che continua a distinguere irrevocabilmente, a dispetto di tante teorizzazioni, questi due universi. Prima di crollare - per poi ricostituirsi sotto l'egida di una versione particolarmente autoritaria del pensiero unico - l'universo sovietico era stato minato dall'interno dal samizdat: una rete di elaborazione e di trasmissione dell'informazione e del pensiero indipendente, veicolati attraverso contatti personali e testi dattiloscritti progressivamente estesa a tutti gli angoli e a tutti gli ambiti dell'impero. Oggi, di fronte alla «temperie culturale» imposta dalla barbarie imperante, a tutti noi si ripropone la stessa sfida, anche se gli strumenti di questa trasmissione non saranno più la macchina da scrivere e la carta copiativa, ma il web o la fotocopiatrice.
Controllo, che vuol dire condivisione. Dall'alto si controlla per linee gerarchiche; dal basso solo trovando un punto di incontro tra soggetti, interessi, visioni e condizioni di partenza differenti. Per questo la trasparenza è così importante: su questioni di comune interesse si possono anche fare patti con il diavolo; a condizione di sapere chi è; e che tutti sappiano quali patti e tra chi sono intercorsi. Più si amplia la gamma delle differenze che concorrono al perseguimento di uno stesso obiettivo, più diventa difficile per chiunque se ne mantenga estraneo sottrarsi a una verifica pubblica delle proprie scelte. E' questa la molla che alimenta la voglia di partecipazione: di costruire e far vivere sedi di consultazione e confronto tra le parti in causa - i cosiddetti stakeholder - quali ambiti di elaborazione e trasmissione di una cultura autonoma. Certo, prima che un processo del genere arrivi a influenzare i centri di comando delle strutture, delle istituzioni e dei meccanismi che governano il mondo la strada da percorrere è molto lunga. Ma quella indicata non è una astratta procedura formale, ma un processo in cui forma e contenuti procedono di pari passo: proprio quello che manca da tempo, e sempre più, alle strutture della democrazia rappresentativa.
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