9.10.08

Barbarie universale - Oltre l'ossessione del berlusconismo

L'uomo di Arcore è «solo» l'italica personificazione di un degrado mondiale. La versione specifica di una caduta umana, da cui bisogna tentare d'uscire con un «movimento dal basso» che diventi «fatto politico»

Guido Viale

A cavallo tra gli anni '50 e '60 del secolo scorso, in Francia, il pensiero radicale di sinistra aveva dato vita a una rivista dal titolo profetico Socialisme ou barbarie. Mai analisi storica è stata più pregnante: il socialismo non si è realizzato - e forse non avrebbe potuto realizzarsi mai - ed è sopravvenuta la barbarie. Quella in cui tuttI noi, insieme all'intero pianeta, siamo ormai immersi.
Come La lettera rubata di Poe, la barbarie è lì davanti ai nostri occhi; ma proprio per questo non la vediamo; e quando qualcosa colpisce la nostra attenzione, come i conflitti di interesse del presidente del Consiglio, la pornografia eletta a sistema di selezione della classe di governo, la truffa mondiale della Parmalat, l'invasione dell'immondizia, le tifoserie scatenate o il razzismo della Lega, tendiamo ad attribuirla a una specificità nostrana, come se il resto del pianeta fosse immune da cose simili o anche peggiori. Invece, fatte le debite proporzioni, i conflitti di interesse che hanno portato in Iraq e in Afghanistan Bush e i suoi accoliti fanno impallidire quelli di Berlusconi (con l'aggravante che negli Stati uniti non c'è nemmeno una magistratura che, nel bene o nel male, li abbia messi sotto accusa); l'improvvisa ascesa di alcune soubrette al governo del nostro paese non sono che una versione sporcacciona dell'ascesa che potrebbe portare un «pitbull con il rossetto» a rovesciare un pronostico elettorale dato ormai per scontato; le truffe perpetrate dal sistema finanziario degli Stati uniti giganteggiano di fronte a quelle di Parmalat, Cirio, Banca di Lodi o Alitalia; la spettacolarizzazione che trasforma in successi gaffe e flop interni e internazionali di Berlusconi fanno scuola nel mondo. Infine violenza da stadio e intolleranza antislamica («vadano a pregare e pisciare nel deserto» per riprendere l'invito dell'ex-sindaco di Treviso) avevano già trovato una felice sintesi nella trasformazione di una tifoseria nelle milizie che hanno poi massacrato migliaia di cittadini islamici nella Bosnia di Arkan, Karadzic e Mladic. Ceramente in Italia alcuni di questi fenomeni presentano caratteri estremi e anticipatori; ma molti altri, ascrivibili alla medesima «temperie», cioè alla barbarie, registrano altrettanto considerevoli ritardi. Il fatto è che con la globalizzazione «la Storia» ha ormai preso a procedere in ordine sparso.

L'alibi italiano
L'antiberlusconismo, visto sotto questa luce, è stato e resta un alibi per evitare di fare i conti con la realtà: continuiamo ad accreditare a uno degli uomini più ridicoli della terra le doti di demiurgo che lui si attribuisce: quasi fosse lui, insieme alla sua corte di azzeccagarbugli, «veline» e trafficanti, e non viceversa, ad aver forgiato il carattere di quella maggioranza che regolarmente lo vota, rivota e osanna; nonostante tutti i fiaschi a cui è andato incontro e di cui ha già fornito ampie prove. E' lui, invece, a essere lo specchio e il punto di convergenza non solo delle aspirazioni, ma anche e soprattutto del modo di ragionare, di una moltitudine che va ben al di là del recinto dei suoi fan, o degli elettori del centrodestra; per abbracciare anche la parte preponderante di quel che sta alla sua sinistra e, soprattutto, del ceto politico da cui essa dovrebbe essere rappresentata.
Basta uscire dalla pista del circo a cui i media inchiodano giorno dopo giorno il discorso politico (le diatribe tra maggioranza e «opposizione») per imbattersi in una sostanziale identità di vedute: se non generale, sufficientemente diffusa da rendere impraticabile l'enucleazione di una qualsiasi alternativa. Si guardi, per esempio, al modo in cui l'universo mondo politico ha acclamato Berlusconi per aver «risolto» il problema dei rifiuti in Campania: in sostanza, facendo suoi i pochi risultati raggiunti dal governo precedente (lo sgombero delle strade) e prescrivendo di ricoprire di discariche l'intera regione, come se la Campania non ne avesse già ospitate abbastanza: di lecite e non; portando peraltro al governo del paese e del suo partito uomini oggi indicati come i referenti diretti della camorra casalese, regina incontrastata della gestione criminale dei rifiuti; il tutto in attesa dei mitici inceneritori, pagati «mettendo le mani nelle tasche» degli italiani con la bolletta elettrica e su alcuni dei quali la camorra ha già messo le mani prima ancora che vengano costruiti. E che comunque, come è successo a quello di Acerra sotto il suo precedente governo, arriveranno tra molti anni, o forse mai.
Questa incontestabile aura di successo, che non solo sfida, ma persino si alimenta dei continui fiaschi totalizzati dai suoi governi - l'attuale e i precedenti - sembra aver trovato una spiegazione, proposta e accolta da due editorialisti di Repubblica, in una sorta di format in cui Berlusconi, anche grazie al controllo dei media, è riuscito a imbrigliare il discorso politico: le cose presentate come positive sono merito suo; i suoi fallimenti sono colpa dell'opposizione o del precedente governo (cioè dei «comunisti»). Ma questa, come molte altre spiegazioni simili, elude il problema centrale, che è quello della barbarie: un problema che è sociale e culturale assai più che politico.

La grande resa pubblica
E' indubbio che i media, e soprattutto le sue cinque televisioni, che Prodi non aveva nemmeno cercato di scalfire, hanno e hanno avuto un peso fondamentale nel forgiare, ormai da un quarto di secolo, il carattere degli italiani. Berlusconi ha insediato al potere una nomenclatura e imposto un controllo dell'informazione da fare invidia al defunto potere sovietico. Vista sotto questa luce, la riforma dell'istruzione è stata realizzata da tempo, ben prima di quella, mai avviata, dell'ex ministro Moratti (Inglese, informatica e impresa: nessuno ne parla più) o di quella dal ministro Gelmini (grembiulini, cinque in condotta e 50 allievi per classe). Oggi la cultura degli italiani è quella prodotta dalla Tv: che i giornali del giorno dopo non fanno che ricalcare, e la scuola a subire, facendo come se la televisione non esistesse. Perché nessun preside, nessun insegnante, nessuna sperimentazione ha gli strumenti per confrontarsi con essa. E il ministero dell'istruzione non sarà mai tale fino a quando non avrà accordato ai programmi scolastici - rivisti - l'intero palinsesto, per lo meno della televisione pubblica.
Forse la barbarie sta proprio qui: nella resa della scuola, ma anche della politica e del mondo della cultura, di fronte a questa trasmissione unidirezionale di contenuti (o di non contenuti) culturali, perché sono venuti meno strumenti e condizioni per costruire, prima ancora che per trasmettere, una visione del mondo diversa, che si sottragga alla barbarie del presente: anche solo qualche brandello di una o più concezioni alternative al «pensiero unico» di cui è ormai impregnata la nostra vita quotidiana.
Come uscirne? Nessuno lo sa e se qualcuno crede di saperlo probabilmente è già fuori strada. Molti si aspettano la salvezza da dio. Se a suggerire che «ormai solo un dio può salvarci» era stato il più ateo dei filosofi del secolo scorso, milioni di suoi inconsapevoli seguaci corrono oggi a frotte a ripararsi sotto lo scudo della religione: di una delle tante religioni, non più percepite come veicoli di un rapporto con il trascendente, quanto come legittimazione identitaria della propria collocazione all'interno della barbarie generale. La vicenda degli «atei devoti» è, da questo punto di vista, estremamente esemplare. Quella dei «kamikaze» islamici, all'estremo opposto, anche.
Il fatto è che in un mondo di macerie, come quello prodotto dalle devastazioni della barbarie imperante, le condizioni per costruire una nuova dimora, cioè una diversa vivibilità, o una vivibilità tout court, debbono essere realizzate a partire dalle fondamenta, con i materiali che quelle macerie ci mettono a disposizione, e nei luoghi in cui già siamo o ci ritroviamo gettati. Ma che cosa può essere mai questa nuova dimora? Può essere la rete di relazioni in cui ciascuno di noi è inserito, adattata e trasformata per farne uno strumento di verifica, di trasmissione, e poi di controllo delle proprie condizioni di esistenza; in forme e modalità condivise. Troppo astratto? Certamente sì. Ma se ne possono ricavarne alcune regole per orientarsi nel mare della barbarie contemporanea.

«Piccole» vie d'uscita
Verifica, che vuol dire innanzitutto trasparenza. Ovunque il segreto, che sia politico, militare, industriale o amministrativo, è il nemico principale della verità; più di quanto lo sia la menzogna. Il solo limite legittimo che può - ma non necessariamente deve - incontrare è dato dalla riservatezza sulla propria vita personale.
Trasmissione, per dotarsi di mezzi propri con cui metterci in comunicazione con gli altri. La tecnologia della rete ha creato l'illusione che questi mezzi siano già a disposizione di tutti, o quasi. Ma non è così: c'è una dimensione della vita associata che non passa e non passerà mai attraverso la «Rete». E' la dimensione del contatto fisico, della verifica dello sguardo, del rapporto con ciò che resta della natura, dell'organizzazione materiale dei nostri spostamenti e dei nostri incontri, della necessità di non sottrarsi alle difficoltà, alla fatica, all'imbarazzo, al lutto, al dolore che il mondo reale impone e continuamente ripropone e che il mondo virtuale permette invece di eludere con la semplice pressione di un tasto: ciò che continua a distinguere irrevocabilmente, a dispetto di tante teorizzazioni, questi due universi. Prima di crollare - per poi ricostituirsi sotto l'egida di una versione particolarmente autoritaria del pensiero unico - l'universo sovietico era stato minato dall'interno dal samizdat: una rete di elaborazione e di trasmissione dell'informazione e del pensiero indipendente, veicolati attraverso contatti personali e testi dattiloscritti progressivamente estesa a tutti gli angoli e a tutti gli ambiti dell'impero. Oggi, di fronte alla «temperie culturale» imposta dalla barbarie imperante, a tutti noi si ripropone la stessa sfida, anche se gli strumenti di questa trasmissione non saranno più la macchina da scrivere e la carta copiativa, ma il web o la fotocopiatrice.
Controllo, che vuol dire condivisione. Dall'alto si controlla per linee gerarchiche; dal basso solo trovando un punto di incontro tra soggetti, interessi, visioni e condizioni di partenza differenti. Per questo la trasparenza è così importante: su questioni di comune interesse si possono anche fare patti con il diavolo; a condizione di sapere chi è; e che tutti sappiano quali patti e tra chi sono intercorsi. Più si amplia la gamma delle differenze che concorrono al perseguimento di uno stesso obiettivo, più diventa difficile per chiunque se ne mantenga estraneo sottrarsi a una verifica pubblica delle proprie scelte. E' questa la molla che alimenta la voglia di partecipazione: di costruire e far vivere sedi di consultazione e confronto tra le parti in causa - i cosiddetti stakeholder - quali ambiti di elaborazione e trasmissione di una cultura autonoma. Certo, prima che un processo del genere arrivi a influenzare i centri di comando delle strutture, delle istituzioni e dei meccanismi che governano il mondo la strada da percorrere è molto lunga. Ma quella indicata non è una astratta procedura formale, ma un processo in cui forma e contenuti procedono di pari passo: proprio quello che manca da tempo, e sempre più, alle strutture della democrazia rappresentativa.
ilmanifesto.it

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