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15.6.10

La globalizzazione dell’operaio

di Luciano Gallino (La Repubblica)

È possibile che la Fiat non abbia davvero alcuna alternativa. O riesce ad avvicinare il costo di produzione dello stabilimento di Pomigliano a quello degli stabilimenti siti in Polonia, Serbia o Turchia, o non riuscirà più a vendere né in Italia né altrove le auto costruite in Campania. L’industria mondiale dell’auto è afflitta da un eccesso pauroso di capacità produttiva, ormai stimato intorno al 40 per cento. Di conseguenza i produttori si affrontano con furibonde battaglie sul fronte del prezzo delle vetture al cliente.
A farne le spese, prima ancora dei loro bilanci, sono i fornitori (che producono oltre due terzi del valore di un´auto), le comunità locali che vedono di colpo sparire uno stabilimento su cui vivevano, e i lavoratori che provvedono all´assemblaggio finale. I costruttori che non arrivano a spremere fino all´ultimo euro da tutti questi soggetti sono fuori mercato.
Va anche ammesso che davanti alla prospettiva di restare senza lavoro in una città e una regione in cui la disoccupazione, soprattutto quella giovanile, ha già raggiunto livelli drammatici, la maggioranza dei lavoratori di Pomigliano – ben 15.000 se si conta l´indotto – è probabilmente orientata ad accettare le proposte Fiat in tema di organizzazione della produzione e del lavoro. La disperazione, o il suo approssimarsi, è di solito una cattiva consigliera; ma se tutto quello che l´azienda o il governo offrono è la scelta tra lavorare peggio, oppure non lavorare per niente, è quasi inevitabile che uno le dia retta.
Una volta riconosciuto che forse l´azienda non ha alternative, e non ce l´hanno nemmeno i lavoratori di Pomigliano, occorre pure trovare il modo e la forza di dire anzitutto che le condizioni di lavoro che Fiat propone loro sono durissime. E, in secondo luogo, che esse sono figlie di una globalizzazione ormai senza veli, alle quali molte altre aziende italiane non mancheranno di rifarsi per imporle pure loro ai dipendenti.
Allo scopo di utilizzare gli impianti per 24 ore al giorno e 6 giorni alla settimana, sabato compreso, nello stabilimento di Pomigliano rinnovato per produrre la Panda in luogo delle attuali Alfa Romeo, tutti gli addetti alla produzione e collegati (quadri e impiegati, oltre agli operai), dovranno lavorare a rotazione su tre turni giornalieri di otto ore. L´ultima mezz´ora sarà dedicata alla refezione (che vuol dire, salvo errore, non toccare cibo per almeno otto ore). Tutti avranno una settimana lavorativa di 6 giorni e una di 4. L´azienda potrà richiedere 80 ore di lavoro straordinario a testa (che fanno due settimane di lavoro in più all´anno) senza preventivo accordo sindacale, con un preavviso limitato a due o tre giorni. Le pause durante l´orario saranno ridotte di un quarto, da 40 minuti a 30. Le eventuali perdite di produzione a seguito di interruzione delle forniture (caso abbastanza frequente nell´autoindustria, i cui componenti provengono in media da 800 aziende distanti magari centinaia di chilometri) potranno essere recuperate collettivamente sia nella mezz´ora a fine turno – giusto quella della refezione – o nei giorni di riposo individuale, in deroga dal contratto nazionale dei metalmeccanici. Sarebbe interessante vedere quante settimane resisterebbero a un simile modo di lavorare coloro che scuotono con cipiglio l´indice nei confronti dei lavoratori e dei sindacati esortandoli a comportarsi responsabilmente, ossia ad accettare senza far storie le proposte Fiat.
Non è tutto. Ben 19 pagine sulle 36 del documento Fiat consegnato ai sindacati a fine maggio sono dedicate alla “metrica del lavoro.” Si tratta dei metodi per determinare preventivamente i movimenti che un operaio deve compiere per effettuare una certa operazione, e dei tempi in cui deve eseguirli; misurati, si noti, al centesimo di secondo. Per certi aspetti si tratta di roba vecchia: i cronotecnici e l´analisi dei tempi e dei metodi erano presenti al Lingotto fin dagli anni 20. Di nuovo c´è l´uso del computer per calcolare, verificare, controllare movimenti e tempi, ma soprattutto l´adozione a tappeto dei criteri organizzativi denominati World Class Manufacturing (Wcm, che sta per “produzione di qualità o livello mondiale”). Sono criteri che provengono dal Giappone, e sono indirizzati a due scopi principali: permettere di produrre sulla stessa linea singole vetture anche molto diverse tra loro per motorizzazione, accessori e simili, in luogo di tante auto tutte uguali, e sopprimere gli sprechi. In questo caso si tratta di fare in modo che nessuna risorsa possa venire consumata e pagata senza produrre valore. La risorsa più preziosa è il lavoro. Un´azienda deve quindi puntare ad una organizzazione del lavoro in cui, da un lato, nemmeno un secondo del tempo retribuito di un operaio possa trascorrere senza che produca qualcosa di utile; dall´altro, il contenuto lavorativo utile di ogni secondo deve essere il più elevato possibile. L´ideale nel fondo della Wcm è il robot, che non si stanca, non rallenta mai il ritmo, non si distrae neanche per un attimo. Con la metrica del lavoro si addestrano le persone affinché operino il più possibile come robot.
È qui che cadono i veli della globalizzazione. Essa è consistita fin dagli inizi in una politica del lavoro su scala mondiale. Dagli anni 80 del Novecento in poi le imprese americane ed europee hanno perseguito due scopi. Il primo è stato andare a produrre nei paesi dove il costo del lavoro era più basso, la manodopera docile, i sindacati inesistenti, i diritti del lavoro di là da venire. Ornando e mascherando il tutto con gli spessi veli dell´ideologia neo-liberale. Al di sotto dei quali urge da sempre il secondo scopo: spingere verso il basso salari e condizioni di lavoro nei nostri paesi affinchÈ si allineino a quelli dei paesi emergenti. Nome in codice: competitività. La crisi economica esplosa nel 2007 ha fatto cadere i veli della globalizzazione. Politici, industriali, analisti non hanno più remore nel dire che il problema non è quello di far salire i salari e le condizioni di lavoro nei paesi emergenti: sono i nostri che debbono, s´intende per senso di responsabilità, discendere al loro livello.
È nella globalizzazione ormai senza veli che va inquadrato il caso Fiat. Se in Polonia, o in qualunque altro paese in sviluppo, un operaio produce tot vetture l´anno, per forza debbono produrne altrettante Pomigliano, o Mirafiori, o Melfi. È esattamente lo stesso ragionamento che in modo del tutto esplicito fanno ormai Renault e Volkswagen, Toyota e General Motors. Se in altri paesi i lavoratori accettano condizioni di lavoro durissime perché è sempre meglio che essere disoccupati, dicono in coro i costruttori, non si vede perché ciò non debba avvenire anche nel proprio paese. Non ci sono alternative. Per il momento purtroppo è vero. Tuttavia la mancanza di alternative non è caduta dal cielo. È stata costruita dalla politica, dalle leggi, dalle grandi società, dal sistema finanziario, in parte con strumenti scientifici, in parte per ottusità o avidità. Toccherebbe alla politica e alle leggi provare a ridisegnare un mondo in cui delle alternative esistono, per le persone non meno per le imprese.

17.5.08

Un po' di coca e il turno se ne vola via

Seconda puntata
Nello stabilimento gioiello della Fiat si «tira» per reggere i ritmi del Tmc2. Ma la cocaina detta anche tutti i tempi della vita e permette un commercio che per molti consumatori si trasforma in un bel business


Loris Campetti
Melfi (Potenza)

All'inizio era il «prato verde», messi di grano a perdita d'occhio nella straordinaria piana di San Nicola. Il grano ha lasciato il posto allo stabilimento Fiat-Sata di Melfi e la collina che si arrampica verso il paese è ferita da una strada costruita tutta in sopraelevata. Quando venne inaugurata la fabbrica, nel '94, speranze di emancipazione e retorica postdemocristiana si mescolarono in una narrazione inedita in questa terra lucana: arriva il capitalismo serio, si può uscire da una povertà contadina dominata per decenni dal paternalismo di Emilio Colombo. Arriva l'industria, arriva il progresso. Il vecchio applaudiva al passaggio dei nuovi padrini: «Romito, salutateci Agnello», aveva scritto su un cartello ripreso da cento telecamere e alla Fiat veniva concesso tutto, dalla deroga al divieto del lavoro notturno per le donne a una rivisitata forma di gabbie salariali che condannavano i futuri operai a guadagnare meno dei loro compagni di Mirafiori e a lavorare di più.
«Prato verde» chiamarono lo stabilimento di San Nicola. Perché nasceva dal nulla (il grano, si sa, è nulla) e nell'assenza di memoria dell'industria e del conflitto. Ci sono voluti 10 anni esatti perché gli operai di Melfi esplodessero decretando la fine della pace sociale, per 21 giorni bloccarono i cancelli, ressero alle cariche della polizia e ruppero un isolamento che inutilmente, in tanti nella politica, nei media e persino nei sindacati avevano cercato di costruire intorno ai nuovi briganti in tuta blu. Vinsero, con il sostegno quasi solitario della Fiom, diventarono maggiorenni conquistando diritti che altri, in altre stagioni, avevano conquistato e che ora, tutti insieme, rischiano di perdere di nuovo.
Quasi 15 anni dopo la nascita, Melfi è uno degli stabilimenti di punta della Fiat. 5.300 dipendenti diretti, 10 mila con l'indotto. Gli operai arrivano a San Nicola ogni mattina, pomeriggio e notte da tutti i paesi della Basilicata, dal nord della Puglia e in parte dalla Campania. Ore e ore di pullman o di macchina, centinaia di incidenti stradali con tanti morti e feriti accumulati in 15 anni di pendolariato. Anche qui, come alla Sevel in Val di Sangro, lavora una classe operaia molto giovane che spesso non riesce a reggere i ritmi ossessivi della fabbrica modello, come testimonia un turnover molto alto. Anche qui, come alla Sevel, impazza la cocaina. Mentre ci lasciamo alle spalle la piana e il paese viaggiando verso Potenza, un delegato Fiom senza nome ci racconta la «normalita» del consumo e dello spaccio lungo le linee di montaggio - pardon, le Ute, un acronimo che sta per Unità produttive elementari che viaggiano sui ritmi della famigerata metrica Tmc2, responsabile di strappi, ernie, tunnel carpali, tendiniti. «La cocaina circola in fabbrica dall'inizio, ma solo da pochi anni ha assunto dimensioni di massa. Un carrellista che lavora nella mia Ute vende una quantità di dosi incredibili agli altri operai, ai capi, ai vigilanti che tirano da matti, alle donne. Lo spaccio è quotidiano come il consumo, ma il venerdì e prima delle vacanze il volume degli affari va alle stelle perché vengono acquistate le dosi per il sabato sera in discoteca, o per le ferie. Il mio amico carrellista prima di Natale ha tirato su 15 mila euro, in poco tempo si è fatto casa». Ci si droga anche dentro la fabbrica? «Gli operai - risponde - si fanno durante le pause, li riconosci perché riprendono il lavoro eccitati, tirano su col naso, è una specie di tic, e per una mezz'ora producono come pazzi, poi si danno una calmata. All'inizio sono solo consumatori saltuari, ma quando prendono il vizio si trasformano in piccoli spacciatori per pagarsi la dose. Le canne se le fanno direttamente sulla Ute: sentissi che profumo...».
Droga di sostegno
I prezzi della cocaina si aggirano tra i 70 e i 100 euro a grammo, i soliti 20-25 euro a quartino. Arriva soprattutto da Foggia portata dai soliti camionisti che riforniscono la fabbrica di pezzi, componenti e sogni di gloria, o di fuga che dir si voglia. «C'è anche qualcuno che si buca - continua il racconto del nostro amico delegato - e spesso viene aiutato dall'azienda a recarsi qualche periodo in comunità per tentare di disintossicarsi». Perché si drogano? «Anni di lavoro in questa fabbrica ti spompano. Il ritmo è stressante, i viaggi quotidiani per raggiungere o lasciare il lavoro fanno il resto e la vita nei paesi è banale, noiosa. C'è chi si fa per reggere lo stress, ma spesso le motivazioni sono altre: per stare bene con gli amici, per stare bene con la moglie o il marito. Molti si portano la coca a casa e fanno sniffare anche la moglie per scopare meglio». Vuol dire che con gli amici si sta male senza farsi? E che non si riesce a divertirsi in discoteca o a letto senza l'uso di cocaina? Il delegato scuote le spalle, e va avanti nel suo racconto. Insiste sul legame con il sesso: «Quando tirano, anche in fabbrica, non li ferma più nessuno. Qui si dice «inculare la formica» quando sei preso dal raptus e ti senti Rambo, e succede che il tuo compagno di lavoro, un po' per gioco e un po' no, venga a toccarti il culo, non avendo una donna a portata di mano». Tra i consumatori ci sono anche iscritti al sindacato? «Ce ne sono, ce ne sono. Anche delegati. Uno dell'Ugl è stato anche bastonato perché era in ritardo con il pagamento allo spacciatore. I delegati Fiom? Qualche spinello, quello tutti. Sì, qualcuno usa anche la cocaina. La maggior parte dei consumatori - cambia discorso - è sposato e ha figli». Qual è la percentuale dei cocainomani? «C'è chi dice il 40%, chi corregge la cifra al rialzo: uno su due».
Stress, noia, sesso, voglia di essere diverso anche se poi finisce che sei esattamente uguale a tutti gli altri tuoi coetanei. «Di notte c'è meno controllo ma si sniffa in tutti i turni. In questa fabbrica si può comprare fumo, coca, eroina ma anche perizoma, canottiere, elettrodomestici. Tutti sanno nessuno parla. Per paura, per convenienza, per quieto vivere». In realtà c'è chi parla: i blitz dell'antidroga fuori dai cancelli, sui piazzali dello stabilimento, finiscono spesso con arresti, dunque le spiate non mancano. Chi viene pizzicato con le mani nella farina viene spinto dall'azienda a dimettersi, oppure viene degradato e spostato in altre unità, «è successo recentemente a un quarto livello del montaggio». Dalla lotta vittoriosa dei 21 giorni, Michele è assessore di Rifondazione alle politiche sociali della provincia di Potenza, in distacco dalla Fiat di Melfi dove fa l'operaio: «Ho assistito personalmente - ci racconta - all'arresto di due operai sul pullman che ci riportava al paese dopo il turno di notte: sono saliti in tre, uno in borghese dalla porta davanti e due in divisa da quella posteriore per bloccare le uscite e sono andati a colpo sicuro mettendo le manette a due operai, direttamente sul pullman. Per fortuna quella volta non avevano roba con sé e sono stati rilasciati». In qualche caso, però, scatta il licenziamento ma sempre con motivazioni diverse: «Due ragazzi - ci racconta l'avvocato Lina Grosso che segue le cause di lavoro per la Fiom - sono stati licenziati per assenza ingiustificata, ma è noto che si trattava di due tossicodipendenti. Noi avviamo la procedura ma in questi casi la Fiat punta sempre a monetizzare, offrendo soldi a chi di soldi ha bisogno come il pane, pur di non arrivare a sentenza. Per noi è difficile convincere questi ragazzi a non accettare l'offerta, anche perché non abbiamo alcuna certezza di vincere la causa». E questo è uno dei tanti problemi a Melfi, dove le procedure d'urgenza (il 700 contro i licenziamenti) durano mesi e mesi e le sentenze, quando ci si arriva, rarissimamente sono a favore del sindacato. «C'è invece il caso di un altro operaio, dipendente da alcol, che l'azienda metteva regolarmente in postazioni per lui insostenibili. Una volta chiese di poter uscire per andare in ospedale perché stava male. Lo bloccarono più volte finché non riuscì a scappare determinando momenti di forte tensione. Fuggì in automobile dopo una colluttazione con due capi in stato confusionale ed ebbe un incidente d'auto. L'azienda l'ha licenziato e noi abbiamo fatto causa. Abbiamo perso in primo grado e siamo andati in appello, anche perché una perizia medica ha stabilito che non era in grado di intendere e di volere per cui non è stato condannato in sede penale. Dopo una seconda perizia che ha confermato la prima, la Fiat ha proposto la transazione, cioè la monetizzazione per non arrivare a sentenza. Il nostro assistito non ha accettato e ora aspettiamo il verdetto del giudice». Finalmente, all'inizio della settimana è avvenuta una cosa che ha ridato qualche speranza all'ufficio legale della Fiom: il giudice di melfi ha accolto il ricorso contro il licenziamento di un operaio Sata, Michele Passannante, «senza giusta causa», dopo l'apertura di un'inchiesta giudiziaria in cui è indagato per una presunta appartenenza all'area del terrorismo. Ora la Fiat dovrà riaprirgli le porte della fabbrica e pagargli gli stipendi arretrati.
Un'emergenza che dilaga
La Regione Basilicata si occupa della Fiat di Melfi dal giorno della sua apertura, e lo fa manifestando talvolta un certo grado di autonomia rispetto allo strapotere esercitato nel territorio dalla multinazionale torinese. Ha attivato incheste («magari la Procura fosse altrettanto attiva», ci dicono gli avvocati che difendono gli operai) sul mutamento della vita nei paesi in cui vivono i dipendenti Sata e dell'indotto, sugli infortuni stradali stradali legati al pendolarismo, sul mobbing. La Regione si è occupata anche di tossicodipenza in fabbrica. In particolare c'è un'inchiesta curata dall'equipe della Cooperativa Marcella sulla percezione delle droghe da parte dei lavoratori dell'area industriale di Melfi: «Tutti sono concordi nell'affermare che l'uso delle sostanze è gravemente nocivo per la salute», pur ritenendo che alcune, come le droghe leggere, possano aumentare la capacità lavorativa e insieme a quelle sintetiche migliorino la resistenza alla fatica, a differenza di alcol e psicofarmaci. In molti pensano che l'uso di droghe pesanti e sintetiche facciano correre rischi all'interessato e ai compagni di lavoro. Sono al corrente del consumo crescente di droghe in fabbrica, o per conoscenza diretta, o per lo spaccio evidente, le siringhe abbandonate, i furti, l'eccesso di assenze per malattia, qualche episodio di violenza. Solo il 21% degli intervistati esclude che nella sua azienda si consumino sostanze stupefacenti. Un dato allarmante su cui riflettere è segnalato da un intervistato su due: chi si fa si infortuna di più. Il 50% sostiene che chi si droga è «una persona normale».
L'altro dato che non deve sorprendere è che il consumatore «non si ritiene tossicodipendente» (44,9%). Per il 77,3% del campione, infine, «le imprese dovrebbero avere un programma di lotta contro la droga».
Qualche mese fa, nel terzo stabilimento meridionale della Fiat per importanza, quello di Cassino, fu realizzato un video con un operaio intervistato di spalle che raccontava il consumo di droga durante il turno di notte. Diceva molte verità, e proponeva qualche certezza di troppo e troppo politicamente corrette: ci si fa di cocaina solo per resistere a un lavoro altrimenti insopportabile. E' così, ma non è solo così. Ne parleremo nelle prossime puntate. Finora abbiamo indagato solo grandi fabbriche metalmeccaniche, anzi Fiat, perché è più facile stabilirvi relazioni e perché il tasso di vent'enni è altissimo. Non si creda però che si tratti di un fenomeno circoscritto a queste realtà. In tutti i settori dell'industria e dei servizi il consumo della cocaina è drammaticamente alto e crescente. Lo è nei lavori faticosi, come nell'edilizia, nei lavori ripetitivi, in quelli che prevedono il rapporto con il pubblico. Lo è soprattutto tra i giovani e i precari. C'è chi pensa che ci sia un rapporto tra la diffusione delle droghe e la riduzione dei conflitti sul lavoro. Ipotesi, naturalmente, tutte da verificare.
ilmanifesto.it

16.5.08

Quanto tira la classe operaia

La cocaina va a ruba nelle fabbriche tra i più giovani.
Prima puntata
Alla Sevel in Val di Sangro un operaio su due consuma sostanze stupefacenti. Lo stesso avviene dove l'età media è molto bassa. Si sniffa per reggere «un lavoro e una vita di merda», perché così fan tutti, perché la fabbrica non è più una comunità. Lo spaccio, i furti, i blitz. La polvere bianca cambia il rapporto con il lavoro e il sindacato Al montaggio ci sono stati casi di ragazze che si prostituivano per pagarsi la dose. Adesso meno e solo quando finisce lo stipendio
Loris Campetti
Atessa (Chieti)
«Il proletariato non è soltanto una classe che soffre... La vergognosa situazione economica nella quale si trova lo spinge irresistibilmente in avanti e lo incita a lottare per la sua emancipazione definitiva». Così scriveva nel 1840 Friedrich Engels nella sua magistrale «Indagine sulla condizione della classe operaia in Inghilterra». E' un'idea semplice quanto straordinaria quella di Engels e Marx, che ha mosso centinaia di milioni di uomini e donne in tutto il pianeta nel corso dei due secoli alle nostre spalle. Un'idea che ha cambiato il mondo, emancipando grandi masse da una condizione di miseria e subalternità attraverso la lotta di classe, il «motore della storia».A che punto è la storia, 170 anni dopo l'indagine di Engels? Questa domanda ci è sorta spontanea al termine della nostra inchiesta sul consumo e la diffusione delle droghe nelle fabbriche italiane, e siamo andati a risfogliare i testi classici, memori delle operaie tessili di Manchester poco più che bambine, costrette ad avvelenarsi con «cherry, porto e caffè» per reggere un ritmo di lavoro disumano per 15-16 ore al giorno. Nel 2008 ci sono realtà industriali importanti in cui addirittura il 50% dei lavoratori si fa di cocaina e, in misura minore, di eroina e di ogni sostanza capace di rendere più tollerabile una «vita di merda», o meglio, di far sognare un'improbabile fuga da essa. Di merda è il lavoro così come la normalità delle relazioni in paesi privi di vita sociale, che concedono ben poco alle speranze di futuro e di cambiamento, ci raccontano le tute blu. Ci si fa per lavorare, per sballare, per fare l'amore. Ci si fa alla catena di montaggio, in discoteca con gli amici, a letto con la moglie per migliorare le prestazioni sessuali; poi arriva la dipendenza e con essa lo spaccio per pagarsi la dose. Operai e operaie, capi e sorveglianti, adescati in fabbrica da altri operai: una «pista» nei cessi della fabbrica tanto per provare, l'esaltazione e il cuore che batte a mille, l'adrenalina che all'inizio fa persino aumentare la produzione, infine la consuetudine. Si lavora di notte per guadagnare trecento euro in più, 1.400 invece di 1.100 euro buoni per affrontare l'astinenza e la crisi della quarta settimana. La notte ci sono meno controlli, «tu fai i picchi di produzione e i capi non ti rompono il cazzo». Qualche ragazza può persino arrivare a prostituirsi per pagarsi la dose, per fortuna casi sporadici.Dall'officina al murettoDalla fabbrica la droga arriva nei paesi di provenienza dei lavoratori in una spirale perversa di cui, oltre alle forze dell'ordine, si occupano in pochi: operatori sociali, Ser.T, qualche livello istituzionale. Le aziende nascondono finché possono il fenomeno per salvare la faccia; quando un caso esplode, magari dopo l'ennesimo blitz dei carabinieri, scelgono la repressione attraverso il licenziamento o le «dimissioni spontanee», a volte aiutano il recupero dei tossicodipendenti. I sindacati, anch'essi, rimuovono, cosa che non riescono più a fare i delegati il cui impegno rischia di cambiare natura, assorbito dal lavoro di aiuto ai ragazzi finiti nella spirale. Ragazzi - anche iscritti al sindacato, persino delegati - che non vivono, se non molto parzialmente, il lavoro come emancipazione, come veicolo per costruirsi un futuro, ma come pura fonte di introito per continuare a sniffare coca o a iniettarsi eroina, oppure a fumarla «come fa un gruppo di ragazze del mio turno», dice Arturo che da anni prova a disintossicarsi e ci ricade ogni volta, nonostante il suo appuntamento quotidiano al Ser.T di Pescara. Lui dal sindacato (è iscritto alla Fiom) si aspetta «solo un aiuto per difendermi dai capi che mi ricattano, mi perseguitano, mi danno giorni e giorni di sospensione per poi tenerli nel cassetto e tirarli fuori ogni volta che provo ad alzare la testa». Arturo alterna lavoro in fabbrica, assenze per malattia e molto d'altro per tirare avanti. Ha abbandonato l'università in seguito a un grande trauma, il terremoto al suo paese, San Giuliano di Puglia, e ha cominciato a farsi.Abbiamo iniziato il nostro viaggio alla Sevel di Atessa, Val di Sangro, Abruzzo. Assegneremo nomi di fantasia a molti interlucutori, ragazzi e ragazze che usano sostanze stupefacenti, delegati sindacali che chiedono l'anonimato, operatori delle forze dell'ordine impegnati nell'antidroga. La Sevel è la principale fabbrica italiana della Fiat per numero di addetti dopo Mirafiori. Vi si costruiscono i furgoni Ducato per la multinazionale torinese e per la francese Psa (Peugeot e Cytroen), un prodotto che non sta risentendo della crisi internazionale dell'automobile. Dalla nascita, nel 1980, la Sevel ha progressivamente aumentato la sua capacità produttiva e oggi dà lavoro a 6.500 persone sui tre turni, mattino, pomeriggio, notte, a cui si aggiungono quasi duemila operai di ditte esterne che operano nel perimetro dello stabilimento e migliaia di addetti dell'indotto. Solo in Val di Sangro sono 10 mila le famiglie che vivono di Sevel, tra i 10 e i 15 milioni di euro al mese che rappresentano la principale fonte di reddito della valle. Inutile dire che al peso economico dell'azienda si aggiunge quello politico. Una situazione per molti aspetti analoga a quella determinatasi in Basilicata con l'arrivo della Fiat-Sata. L'azienda procede con assunzioni massicce - ci racconta la nostra guida, il delegato Fiom Antonio Di Tonno - grandi infornate di ragazzi e ragazze diciottenni selezionati alla bell'e meglio. Il bacino primario ormai non è più sufficiente a soddisfare la domanda Fiat e sono sempre più numerose le assunzioni effettuate in tutto il Chietino, il Pescarese, il Molise, la Puglia, la Campania. Età media bassissima, alto turnover perché qui «si fatica sodo»: «I giovani vivono in modo estraniante il rapporto con la fabbrica e il sindacato, per non parlare della politica. Pensano al pallone, alla pizza, alla discoteca. E alla cocaina. C'è chi fa di tutto per non farsi confermare al termine del periodo di prova, così da poter dire ai genitori: "io ho provato, non è colpa mia se non mi hanno preso". Vuoi per questo atteggiamento, vuoi per una diffusione della droga fuori controllo, adesso la Sevel sta assumendo persone un po' più grandi, tra i 25 e i 28 anni». Tanto i delegati quanto un ufficiale dell'antidroga che in fabbrica è di casa, con blitz notturni alla ricerca quasi sempre fruttuosa di sostanze, valutano che un dipendente su due sia coinvolto con maggiore o minore frequenza e dipendenza nel giro della cocaina. Fino a poco tempo fa, dosi massicce di droga venivano trovate negli armadietti degli operai. Ci raccontano di sequestri di molte dosi di coca, di eroina e mattoni fino a un chilo di peso di hashish. In tanti sono stati beccati, ora tutti si sono fatti più accorti.Il silenzio è d'oroNon sempre i rapporti delle forze dell'ordine con la sicurezza aziendale sono idilliaci, così ai blitz interni allo stabilimento si aggiungono quelli fuori, a colpo sicuro. Perché tossici e spacciatori sono ricattabili, ed è da loro che arrivano le soffiate a Ps e Cc. E all'azienda, che talvolta utilizza le spiate per poi compromettere gli spioni facendo a sua volta spiate ai i loro compagni di lavoro. Ci sono stati arresti, ma tutto resta sotto traccia, e la stampa, anche quella locale, tace. La Procura si muove con i piedi di piombo, a volte neanche sostiene il lavoro dei Pm che autorizzano l'utilizzo delle cimici nel tentativo di arginare il fenomeno. «In fabbrica - dice Antonio - è saltato l'ordine. E l'azienda, dopo aver lavorato con costanza a neutralizzare il sindacato, ora lamenta la mancanza di un'interlocuzione con noi, nel senso che non siamo più un interlocutore forte di una conoscenza approfondita della fabbrica, degli operai, dei problemi».Questi giovani operai e operaie sono completamente diversi dalla classe operaia che conosciamo e raccontiamo. I «vecchi» con vent'anni e più di servizio in Sevel, sono furiosi con le nuove generazioni in tuta blu: «Se le cercano, non vogliono fare un cazzo, ti contattano solo per farsi spostare in postazioni migliori. Sono individualisti e non ci rispettano, la droga li ha svuotati dentro. Invece del lavoro - dicono - hanno in testa la cocaina». Su una cosa vecchi e giovani sembrerebbero uniti: votano in maggioranza a destra, per Fini e Berlusconi, o non votano, anche molti di quelli che avevano investito sul governo Prodi e sono rimasti delusi. Anche qualche iscritto ai sindacati, persino un po' di delegati possono votare a destra: «Con la tessera difendono il salario dal padrone, con il voto a destra lo difendono dallo stato che ci massacra con le tasse». «La fabbrica è diventato un supermercato, si vende di tutto: puoi acquistare un motore Alfa, un paracarro, uno stereo, ogni tipo di droga proveniente soprattutto da Napoli attraverso i camionisti che portano in fabbrica componenti e materiale necessario alla produzione dei furgoni. La roba finisce in mano agli spacciatori interni e, di mano in mano, raggiunge tutti i reparti, poi esce dalla fabbrica e arriva nei paesi dove tutti consumano droghe leggere e tanti, forse addirittura l'80%, si fanno di coca, dai 14 ai 40 anni», racconta un addetto alla repressione esterna e ci confermano i ragazzi con cui parliamo, nonché il segretario della Fiom abruzzese, Marco Di Rocco: «Una piaga sociale».Ma il processo di trasformazione culturale riguarda innanzitutto la fabbrica: ci si fa sulla linea di montaggio, si sniffa nelle pause vicino all'armadietto e al cesso ci si buca. Qualche volta, ci dice un ufficiale, «sono stati beccati dei ragazzi esaltati che facevano l'amore dentro i furgoni che costruiscono». I furti negli armadietti non si contano, «riescono a svuotarne così tanti perché operano in squadre organizzate», ci dice un altro delegato. Ma spariscono anche i sifoni dei bagni, gli specchi. «Tutto per quattro soldi, per un quartino». Il quartino è una dose da un quarto di grammo di coca, con una ventina di euro te la porti a casa o alla catena. Il suo prezzo, da Napoli ad Atessa, può anche triplicare.Ricatti e minaccePerché lo fanno? «Perché sono uguali ai loro coetanei che studiano o vivacchiano in paese. Qualcuno - ci dice chi si occupa di droga nel territorio di Lanciano - all'inizio tira coca per reggere un lavoro molto pesante, ma non è questa la motivazione prevalente. Lo fanno soprattutto la notte perché la sorveglianza è minore. E se chi spaccia è ricattabile, i sorveglianti interni non hanno strumenti per intervenire e vengono minacciati». Giulietta e Romeo sono due operai in trattamento da qualche anno al Ser.T. Eroinomani, ora vivono con la loro dose quotidiana di metadone e giurano di esserne fuori. Giulietta ha ereditato un'epatite C dal tempo in cui si bucava, è stata trasferita dalla linea a un posto più umano solo dopo quattro svenimenti. Ora lavora in verniciatura, che non è l'ideale per chi ha il fegato compromesso. Il nostro delegato Fiom si impegna di fronte a noi ad aiutarla a farsi trasferire in un posto compatibile con il suo stato di salute. Questo fanno i delegati, spesso chiamati a «dare una mano» con i capi, per ottenere turni o postazioni migliori: «Mi arrivano in casa - dice Antonio - i genitori di ragazzi finiti nella spirale. Chiedono aiuto». Molti sono giovani con contratti atipici. Si subisce il turno di notte perché sei precario e ricattabile, o lo si sceglie per guadagnare 300 euro in più, o perché «ci si può drogare senza troppe rotture di coglioni». I «pipistrelli» spesso vivono la notte come un «regalo», e lavorano a testa bassa per difenderlo.Il Ser.T di Lanciano ha 220 utenti, la metà sono operai Sevel. «Non ci si fa per reggere la fatica. Molti arrivano in fabbrica già legati alla coca o all'eroina. All'inizio può darti un po' di carica, se la controlli ti aiuta ma se ne fai un uso eccessivo non riesci più a lavorare. Il fisico regge meglio l'eroina - sostiene Romeo - che dà assuefazione solo psicologica. Con l'ero e poi passando al metadone riesci a fare la tua vita. Con la coca è peggio, 30 euro al giorno per la dose è tutto quello che cerchi. Si sente dire che al montaggio c'è stato qualche caso di ragazze che si prostituivano per tirar su i soldi». Questo è un tabù, anche chi è disposto a raccontarti tutto finge di non sapere, di non aver capito la domanda. Si sa «ma non si dice, sono solo voci che corrono». Corrono in fretta. Ripeti la domanda e allora la risposta è obbligata: «Una volta succedeva, adesso meno e solo a fine mese quando lo stipendio è finito». Rimozione o pudore? Forse entrambe le cose. Giulietta dice di dover ringraziare un capo che l'ha aiutata quando era ridotta molto male e pesava 38 chili: «Ero arrivata a consumare anche 80 euro al giorno per l'eroina, e a quel punto non ti resta che spacciare», se di prostituirti non vuoi sentir parlare. Che cos'è il lavoro per questi ragazzi? Per Romeo «è la cosa principale, mi dà un senso, un'identità» e invece per Giulietta «non è possibile identificarsi con questo lavoro. Se potessi me ne andrei domani. Ma non in un'altra fabbrica, tutto sommato la Sevel è il miglior posto di lavoro in zona. Vorrei fare altro nella vita». E il sindacato? «Ho un buon rapporto, è importante il sindacato. Però - ammette Romeo - raramente partecipo agli scioperi». E Giulietta: «Io non ho rapporti, i miei delegati sono pappa e ciccia col padrone. Solo la Fiom si salva. Però agli scioperi aderisco, almeno a quelli di otto ore così mi risparmio la fatica di andare in fabbrica». Perché vi fate? «Prova tu a vivere in questi paesi, poi lo capisci e ti fai anche tu». Non ha dubbi Giulietta. Ora riesce a vivere decentemente insieme al suo compagno. «Ormai siamo fuori. Ma non dal metadone, quello te lo porti dietro tutta la vita». Romeo non ha rinunciato all'idea di liberarsi anche del metadone, «una volta ci ho provato, forse proverò ancora». Sono due utenti modello, da cinque anni non si bucano e riescono a farsi le vacanze fuori: prima però passano al Ser.T, si portano le dosi quotidiane e poi via, alla ricerca di una vita normale. Con chiunque parli ti senti ripetere che con la cocaina non c'è problema, «puoi smettere quando vuoi». Fatto sta che non smettono. In pochi ammettono di essere tossicodipendenti. Lo raccontano a noi o a se stessi?La crisi della comunitàL'impressione che si trae da questo primo giro è che la «diversità» operaia sia finita, i giovani in tuta sono uguali a quelli senza perché la fabbrica non è più una comunità, un luogo identitario, di aggregazione. Si condivide una stessa condizione di lavoro ma è più facile mettersi insieme per sniffare che per lottare contro il padrone. La fabbrica è sempre più un luogo di transito per i giovani. E un luogo di consumo, di spaccio. (1/continua)
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