Visualizzazione post con etichetta Fiat. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Fiat. Mostra tutti i post

16.1.11

L'onore di Cipputi

Rossana Rossanda

Hanno votato tutti i salariati, a Mirafiori, sull'accordo proposto dall'amministratore delegato Marchionne. Tutti, una percentuale che nessuna elezione politica si sogna. E sono stati soltanto il 54% i sì e il 46% i no, un rifiuto ancora più massiccio di quello di Pomigliano. Quasi un lavoratore su due ha respinto quell'accordo capestro, calato dall'alto con prepotenza, ed esige una trattativa vera.
Per capire il rischio e la sfida di chi ha detto no, bisogna sapere a che razza di ricatto - questa è la parola esatta - si costringevano i lavoratori: o approvare la volontà di Marchionne al buio, perché non esiste un piano industriale, non si sa se ci siano i soldi, vanno buttati a mare tutti i diritti precedenti e al confino il solo sindacato che si è permesso di non firmare, la Fiom, o ci si mette contro un padrone che, dichiarando la novità ed extraterritorialità di diritto della joint venture Chrysler Fiat, si considera sciolto da tutte le regole e pronto ad andare a qualsiasi rappresaglia. L'operaia che è andata a dire a Landini «io devo votare sì, perché ho due bambini e un mutuo in corso, ma voi della Fiom per favore andate avanti» dà il quadro esatto della libertà del salariato. E davanti a quale Golem si è levato chi ha detto no. Tanto più nell'epoca che Marchionne, identificandosi con il figlio di Dio, ha definito «dopo Cristo», la sua.
Si vedrà che farà adesso, con la metà dei dipendenti che gli ha fatto quel che in Francia chiamano le bras d'honneur e la sottoscritta non sa come si dica in Italia, ma sa come si fa; perché alla provocazione c'è un limite, o almeno c'era. Nulla ci garantisce, né ci garantirebbe anche se avesse votato «sì» l'80 per cento delle maestranze, che Marchionne sia interessato a tenere la Fiat, a farla produrre quattro volte quanto produce ora, a presentare quali modelli e se li venderà in un mercato europeo stagnante, nel quale la Fiat stagna più degli altri. Se avesse intelligenza industriale, o soltanto buon senso, riaprirebbe un tavolo di discussione, scoprirebbe le sue carte, affronterebbe il da farsi con chi lo dovrà fare. Questo gli hanno mandato a dire i lavoratori di Pomigliano e quelli di Mirafiori.
Da soli, solo loro. Perché la famiglia Agnelli, già così amata dalla capitale sabauda da aver pianto in un corteo interminabile sulle spoglie dell'ultimo della dinastia che aveva qualche interesse produttivo, l'avvocato, non ha fatto parola. In questo frangente si è data forse dispersa, non si vede, non si sente, pensa alla finanza.
Né ha fatto parola il governo del nostro scassato paese, che pure, quale che ne fosse il colore, ha innaffiato la Fiat di miliardi, ma si lascia soffiare l'ultimo gioiello in nome della vera modernità, che consiste nel sapere che non si tratta di difendere né un proprio patrimonio produttivo, né i propri lavoratori - quando mai, sarebbe protezionismo, da lasciare soltanto agli Usa, alla Francia e alla Germania che si prestano a raccogliere le ossa dell'ex Europa. A noi sta soltanto competere con i salari dell'Europa dell'Est, dell'India e possibilmente della pericolosa Cina.
Tutti i soloni della stampa italiana hanno perciò felicitato Marchionne che, sia pur ingloriosamente e sul filo di lana, è passato.
La sinistra poi è stata incomparabile. Quella politica e le confederazioni sindacali. Aveva dalla sua parte storica, che è poi la sua sola ragione di esistere, una Costituzione che difende come poche i diritti sociali in regime capitalista. Gli imponeva - gli impone - quel che chiamano il modello renano, un compromesso non a mani basse, keynesiano, fra capitale e società, che garantisce in termini ineludibili la libertà sindacale. Fin troppo se le confederazioni sono riuscite fra loro, attraverso qualche articolo da azzeccagarbugli dello statuto dei lavoratori, a impegolarsi in accordi mirati a far fuori i disturbatori, tipo i fatali Cobas, per cui oggi nessuno osa attaccarsi all'articolo 39, che - ripeto - più chiaro non potrebbe essere. La Cgil ha strillato un po' ma avrebbe preferito che la Fiom mettesse una «firma tecnica» a quel capolavoro suicida. Quanto ai partiti non c'è che da piangere. D'Alema, che sarebbe dotato di lumi, Fassino, Chiamparino, Ichino, il Pd tutto hanno dichiarato che se fossero stati loro al posto degli operai Fiat - situazione dalla quale sono ben lontani - avrebbero votato sì senza batter ciglio. Diamine, non c'erano intanto 3.500 euro da prendere? Ma che vuole la Fiom, per la quale è stato coniato lo squisito ossimoro di estremisti conservatori?
Molto basso è l'onore d'Italia, scriveva un certo Slataper. Da ieri lo è un po' meno. Salutiamo con rispetto, noi che non riusciamo a fare granché, quel 46% di Cipputi che a Torino, dopo Pomigliano, permette di dire che non proprio tutto il paese è nella merda.

12.1.11

Marchionne e lo stipendio del dipendente Fiat

Opzioni e titoli gratuiti portano i compensi del leader Fiat a 38 milioni l' anno
Mucchetti Massimo
In questi giorni si riparla dei compensi di Sergio Marchionne. Sono troppi? Sono giustificati? Vale la pena di seguire il consiglio di Raffaele Mattioli: fare i conti prima di fare filosofia. E vale la pena di farli come se si dovesse rispondere al Dodd-Frank Act, la riforma finanziaria di Obama che farà testo anche in Chrysler. I numeri, dunque. Dal giugno 2004 al 2009, i compensi annuali, compreso l' accantonamento per la liquidazione riportato in nota, ammontano a 35,6 milioni di euro. Fa una media di 6,3 milioni l' anno che, per comodità nei conteggi successivi, ipotizziamo essere anche la paga del 2010 non ancora nota. Poi, come ricorda Andrea Malan sul Sole 24 Ore, ecco 4 milioni di azioni gratuite disponibili a fine 2012, ovvero 69,8 milioni alle quotazioni del 7 gennaio. Infine, 19,42 milioni di stock option esercitabili quest' anno al prezzo medio di 9,64 euro che, alla stessa data, valevano 143,8 milioni, di cui 115 immediatamente realizzabili. In 79 mesi al vertice della Fiat, Marchionne totalizza un valore pari a 255,5 milioni. Ovvero 38,8 milioni l' anno. E ora il confronto. Secondo il Dodd Frank Act, la paga del capo va paragonata al salario mediano versato dal gruppo. La legge italiana non esige questa notizia. Ci dobbiamo perciò arrangiare con il costo del lavoro pro capite che, nel quinquennio 2005-2009, equivale a 37.406 euro e dal 2006 al 2009 cala dell' 8%. Morale: ogni anno Marchionne guadagna 1.037 volte il suo dipendente medio. C' è forse bisogno di un gesto, suggerisce Cirino Pomicino su Libero. Le imposte. Marchionne ha conservato la residenza fiscale nel cantone svizzero di Zug. Sull' Espresso, Maurizio Maggi ipotizza un certo risparmio sulle imposte che il top manager dovrebbe versare se trasferisse la residenza nel Paese dove forma il suo reddito. Non è stato smentito. Infine, il titolo Fiat e le regole. L' azione ordinaria raggiunge l' apice l' 8 luglio 2007, a quota 23,44 euro. La prima tranche di stock option, concessa nel 2004 ed esercitabile al prezzo di 6,583 euro, viene a maturazione nel 2008 e resta valida fino al 31 gennaio 2011. Ma nel corso del 2008 le quotazioni crollano da 15,5 a 4,8 euro. E così, nella primavera seguente, il periodo d' esercizio delle stock option viene spostato in avanti: dal primo gennaio 2011 alla stessa data del 2016. Il 10 giugno 2009 la Fiat firma l' accordo Chrysler, che già incorpora l' idea dello sdoppiamento del gruppo, che parte adesso. L' aggiornamento delle opzioni è scelta legittima, ma anche discussa, perché attenua il rischio implicito in questa parte variabile della retribuzione. Il farlo durante la gestazione di decisioni price sensitive alimenta il dubbio di un' asimmetria informativa a favore del beneficiario rispetto al mercato. Nelle start up della Silicon Valley le stock option hanno avuto un ruolo, ma nelle imprese mature? Enrico Cuccia e Cesare Romiti non vollero mai azioni di Mediobanca e di Fiat: per non essere condizionati da interessi personali e restare del tutto liberi di decidere, magari sbagliando, per il bene dell' impresa. Che va oltre quello dei suoi soci pro tempore. mmucchetti@corriere.it RIPRODUZIONE RISERVATA

11.8.10

Ma i pretori non ci salveranno

Dario Di Vico

D'accordo. Le sentenze vanno rispettate e dunque tutti in piedi per far passare il collegio giudicante. Ma a costo di essere politicamente scorretti, anche in agosto, va detta una semplice verità. Se i pretori del lavoro tornano ad essere, come in anni che pensavamo passati, i protagonisti delle relazioni industriali italiane le ragioni dell'economia sono destinate inevitabilmente a soccombere.

L'errore che la vicenda di Melfi e i commenti entusiasti di tutte le sinistre ci portano a fare è quello di discutere solo e prevalentemente di relazioni industriali («la cornice») mettendo in secondo piano il futuro dell'industria italiana («il quadro»). Eppure la coesione sociale che tutti auspichiamo dipende dal quadro, da fattori come i livelli occupazionali, le retribuzioni, l'ingresso dei giovani nel mercato del lavoro, la competitività del made in Italy sui mercati stranieri, tutti legati alle scelte che da settembre sapremo fare in termini di politica industriale. Nessun pretore ci potrà venire in aiuto.
E allora partiamo dal quadro. Come ha sostenuto l'Istat solo una settimana fa la produttività nell'industria italiana ha addirittura innestato la retromarcia. Solo tra il 2007 e il 2009 è scesa del 2,7% e siamo comunque da anni il fanalino di coda dell'Ocse. Nel frattempo la Cina si avvia a diventare una potenza industriale presente non solo nelle produzioni low cost ma addirittura nei progetti innovativi per l'auto elettrica. E la Germania con lo spettacolare risveglio della Volkswagen ha dimostrato come la sinergia tra una solida cultura industriale del Paese e un sindacato accorto e intelligente possa dare risultati strepitosi. La competizione, dunque, si fa sempre più dura e non solo con sistemi a bassa intensità di diritti sindacali, come sono ancora quelli asiatici, ma anche con i cugini tedeschi. Del resto gli enormi investimenti di capitale di un'industria come quella dell'auto «rendono necessario il completo sfruttamento degli impianti e la loro flessibilità di fronte a un mercato sempre più difficile». Si tranquillizzino Maurizio Landini e Nichi Vendola, non sto usando frasi di Sergio Marchionne ma di Romano Prodi. Che in un articolo comparso sul Messaggero venerdì 6 agosto ha sostenuto come a Torino le automobili le sappiano ancora progettare molto bene ma non basta: vanno create le condizioni perché si possano fabbricare nel nostro Paese Italia e vendere in Europa. «La mancanza di accordo priverà l'Italia dell'ultimo residuo di industria automobilistica che ancora le rimane».

Ma allora perché con la Fiom non si riesce a discutere con costrutto di politica industriale e produttività? La verità è che in quel sindacato, sicuramente radicato in fabbrica, presente pressoché in tutta Italia e dotato di buone strutture di base, è prevalsa un'idea di supplenza nei confronti della politica. Orfano di una sinistra capace di tradurre in azioni concrete i valori del lavoro e spaventato dai meccanismi dell'economia globale, il gruppo dirigente della Fiom ha scelto la politica al posto dell'industria, la cornice invece del quadro. Si è fatto partito. La difesa ideologica del contratto nazionale è quanto meno singolare in un sindacato che non sarebbe certo penalizzato da uno sviluppo della contrattazione aziendale. I grandi sindacalisti della Cgil di un tempo a questo punto della vicenda italiana avrebbero sfidato imprenditori e politica sullo sviluppo e la produttività, la Fiom invece ha scelto la trincea. E davanti a un'economia sempre più interdipendente preferisce chiudere gli occhi e non vedere.

È però legittimo chiedersi se questa scelta sia utile a garantire più occasioni di lavoro, più reddito, più successi aziendali o invece non equivalga a un Aventino sindacale. Per quale motivo nelle aziende alimentari grazie a una disposizione prevista nel contratto sottoscritto anche dalla Cgil si può arrivare a 21 turni settimanali mentre a Pomigliano è uno scandalo contrattarne 18? E come mai nel recente passato anche i metalmeccanici discussero con la loro controparte di banca delle ore, ovvero di un calendario su base annuale che potesse rispondere alle esigenze di flessibilità delle aziende? Per carità, ogni proposta è opinabile e può essere sostituita con un'altra migliore, ma il terreno di gioco no. Non ce n'è un altro. Se si vuole salvare l'industria e il lavoro italiano bisogna sporcarsi le mani. Un sindacalista si dovrebbe sempre distinguere da un politico.

15.6.10

La globalizzazione dell’operaio

di Luciano Gallino (La Repubblica)

È possibile che la Fiat non abbia davvero alcuna alternativa. O riesce ad avvicinare il costo di produzione dello stabilimento di Pomigliano a quello degli stabilimenti siti in Polonia, Serbia o Turchia, o non riuscirà più a vendere né in Italia né altrove le auto costruite in Campania. L’industria mondiale dell’auto è afflitta da un eccesso pauroso di capacità produttiva, ormai stimato intorno al 40 per cento. Di conseguenza i produttori si affrontano con furibonde battaglie sul fronte del prezzo delle vetture al cliente.
A farne le spese, prima ancora dei loro bilanci, sono i fornitori (che producono oltre due terzi del valore di un´auto), le comunità locali che vedono di colpo sparire uno stabilimento su cui vivevano, e i lavoratori che provvedono all´assemblaggio finale. I costruttori che non arrivano a spremere fino all´ultimo euro da tutti questi soggetti sono fuori mercato.
Va anche ammesso che davanti alla prospettiva di restare senza lavoro in una città e una regione in cui la disoccupazione, soprattutto quella giovanile, ha già raggiunto livelli drammatici, la maggioranza dei lavoratori di Pomigliano – ben 15.000 se si conta l´indotto – è probabilmente orientata ad accettare le proposte Fiat in tema di organizzazione della produzione e del lavoro. La disperazione, o il suo approssimarsi, è di solito una cattiva consigliera; ma se tutto quello che l´azienda o il governo offrono è la scelta tra lavorare peggio, oppure non lavorare per niente, è quasi inevitabile che uno le dia retta.
Una volta riconosciuto che forse l´azienda non ha alternative, e non ce l´hanno nemmeno i lavoratori di Pomigliano, occorre pure trovare il modo e la forza di dire anzitutto che le condizioni di lavoro che Fiat propone loro sono durissime. E, in secondo luogo, che esse sono figlie di una globalizzazione ormai senza veli, alle quali molte altre aziende italiane non mancheranno di rifarsi per imporle pure loro ai dipendenti.
Allo scopo di utilizzare gli impianti per 24 ore al giorno e 6 giorni alla settimana, sabato compreso, nello stabilimento di Pomigliano rinnovato per produrre la Panda in luogo delle attuali Alfa Romeo, tutti gli addetti alla produzione e collegati (quadri e impiegati, oltre agli operai), dovranno lavorare a rotazione su tre turni giornalieri di otto ore. L´ultima mezz´ora sarà dedicata alla refezione (che vuol dire, salvo errore, non toccare cibo per almeno otto ore). Tutti avranno una settimana lavorativa di 6 giorni e una di 4. L´azienda potrà richiedere 80 ore di lavoro straordinario a testa (che fanno due settimane di lavoro in più all´anno) senza preventivo accordo sindacale, con un preavviso limitato a due o tre giorni. Le pause durante l´orario saranno ridotte di un quarto, da 40 minuti a 30. Le eventuali perdite di produzione a seguito di interruzione delle forniture (caso abbastanza frequente nell´autoindustria, i cui componenti provengono in media da 800 aziende distanti magari centinaia di chilometri) potranno essere recuperate collettivamente sia nella mezz´ora a fine turno – giusto quella della refezione – o nei giorni di riposo individuale, in deroga dal contratto nazionale dei metalmeccanici. Sarebbe interessante vedere quante settimane resisterebbero a un simile modo di lavorare coloro che scuotono con cipiglio l´indice nei confronti dei lavoratori e dei sindacati esortandoli a comportarsi responsabilmente, ossia ad accettare senza far storie le proposte Fiat.
Non è tutto. Ben 19 pagine sulle 36 del documento Fiat consegnato ai sindacati a fine maggio sono dedicate alla “metrica del lavoro.” Si tratta dei metodi per determinare preventivamente i movimenti che un operaio deve compiere per effettuare una certa operazione, e dei tempi in cui deve eseguirli; misurati, si noti, al centesimo di secondo. Per certi aspetti si tratta di roba vecchia: i cronotecnici e l´analisi dei tempi e dei metodi erano presenti al Lingotto fin dagli anni 20. Di nuovo c´è l´uso del computer per calcolare, verificare, controllare movimenti e tempi, ma soprattutto l´adozione a tappeto dei criteri organizzativi denominati World Class Manufacturing (Wcm, che sta per “produzione di qualità o livello mondiale”). Sono criteri che provengono dal Giappone, e sono indirizzati a due scopi principali: permettere di produrre sulla stessa linea singole vetture anche molto diverse tra loro per motorizzazione, accessori e simili, in luogo di tante auto tutte uguali, e sopprimere gli sprechi. In questo caso si tratta di fare in modo che nessuna risorsa possa venire consumata e pagata senza produrre valore. La risorsa più preziosa è il lavoro. Un´azienda deve quindi puntare ad una organizzazione del lavoro in cui, da un lato, nemmeno un secondo del tempo retribuito di un operaio possa trascorrere senza che produca qualcosa di utile; dall´altro, il contenuto lavorativo utile di ogni secondo deve essere il più elevato possibile. L´ideale nel fondo della Wcm è il robot, che non si stanca, non rallenta mai il ritmo, non si distrae neanche per un attimo. Con la metrica del lavoro si addestrano le persone affinché operino il più possibile come robot.
È qui che cadono i veli della globalizzazione. Essa è consistita fin dagli inizi in una politica del lavoro su scala mondiale. Dagli anni 80 del Novecento in poi le imprese americane ed europee hanno perseguito due scopi. Il primo è stato andare a produrre nei paesi dove il costo del lavoro era più basso, la manodopera docile, i sindacati inesistenti, i diritti del lavoro di là da venire. Ornando e mascherando il tutto con gli spessi veli dell´ideologia neo-liberale. Al di sotto dei quali urge da sempre il secondo scopo: spingere verso il basso salari e condizioni di lavoro nei nostri paesi affinchÈ si allineino a quelli dei paesi emergenti. Nome in codice: competitività. La crisi economica esplosa nel 2007 ha fatto cadere i veli della globalizzazione. Politici, industriali, analisti non hanno più remore nel dire che il problema non è quello di far salire i salari e le condizioni di lavoro nei paesi emergenti: sono i nostri che debbono, s´intende per senso di responsabilità, discendere al loro livello.
È nella globalizzazione ormai senza veli che va inquadrato il caso Fiat. Se in Polonia, o in qualunque altro paese in sviluppo, un operaio produce tot vetture l´anno, per forza debbono produrne altrettante Pomigliano, o Mirafiori, o Melfi. È esattamente lo stesso ragionamento che in modo del tutto esplicito fanno ormai Renault e Volkswagen, Toyota e General Motors. Se in altri paesi i lavoratori accettano condizioni di lavoro durissime perché è sempre meglio che essere disoccupati, dicono in coro i costruttori, non si vede perché ciò non debba avvenire anche nel proprio paese. Non ci sono alternative. Per il momento purtroppo è vero. Tuttavia la mancanza di alternative non è caduta dal cielo. È stata costruita dalla politica, dalle leggi, dalle grandi società, dal sistema finanziario, in parte con strumenti scientifici, in parte per ottusità o avidità. Toccherebbe alla politica e alle leggi provare a ridisegnare un mondo in cui delle alternative esistono, per le persone non meno per le imprese.

5.5.09

Ombre sull'indotto

LUCIANO GALLINO
In passato le strategie della Fiat per diventare grande mediante fusioni o acquisizioni di costruttori stranieri sono regolarmente fallite. Questa volta, invece, il Lingotto, pare sulla buona strada. L'accordo con Chrysler presenta sicuramente molti aspetti positivi. Apre la porta al mercato statunitense, esporta tecnologie di prodotto e di fabbricazione.
Fa salire verso i quattro milioni le unità costruite all'anno dai due marchi consociati. L'acquisizione di Opel dalla General Motors sarebbe un altro passo, forse decisivo, per occupare un posto stabile nella mezza dozzina di produttori che sopravviveranno alla inevitabile ristrutturazione dell'industria mondiale dell'auto. Un processo la cui asprezza deriva dal fatto che da tempo essa, in media, riesce a vendere sì e no 70 vetture ogni 100 che i suoi stabilimenti sarebbero in grado di produrre. Dal successo della Fiat nell'entrare a far parte del ristretto club dei marchi superstiti potrebbero derivare importanti benefici per tutta l'economia italiana.
Bisognerebbe però anche accordarsi su che cosa si intende per successo. Per farlo occorrerà dar risposta prima o poi a un triplice interrogativo, che in realtà ne riassume decine di altri: che cosa succederà, rispettivamente, agli occupati del gruppo Fiat in Italia; alle loro condizioni di lavoro; infine alla industria italiana della componentistica, con le sue imprese, e i suoi occupati - che sono circa il triplo di quelli Fiat. Cominciamo dagli occupati del gruppo. Se Fiat Auto diventa parte di una società mista da sei milioni di unità, i siti produttivi italiani, da Termini a Mira-fiori, si troveranno a concorrere con dozzine di altri impianti della stessa società nella Ue e in Usa. Per far sì che gli impianti italiani producano una congrua fetta di quei milioni - cioè parecchie unità in più delle 6-700.000 che produrranno quest'anno - quasi tutti dovranno essere ammodernati, il che richiederà investimenti rilevanti e veloci. In caso contrario la produzione e l'occupazione migreranno altrove.
È vero che i dati di aprile sulle immatricolazioni di auto nuove vedono la Fiat uscirne un po' meglio, ossia meno negativamente, dei marchi stranieri, con una perdita di solo il 3% rispetto allo stesso mese del 2008, pari a 67.000 auto vendute, contro il meno 7,5% e 122.000 unità dei secondi. Ma questo effetto positivo è dovuto soprattutto agli ecoincentivi, che per ora vedono la Fiat offrire modelli più idonei; incentivi che non saranno eterni, e in ogni caso vedranno presto i modelli stranieri alla riscossa. Per mantenere stabile l'occupazione in Italia ai livelli attuali, senza ricorrenti mesi di cig, a fronte degli scenari che si aprono con la vicenda Opel, la Fiat dovrebbe tornare a produrre tra uno e due milioni di vetture all'anno.
Né va dimenticato che non ci sono soltanto gli addetti alla produzione di auto. L'eventuale scorporo di Fiat Auto dal Gruppo omonimo lascerebbe orfane sia l'Iveco (autocarri) che la Nch (trattori e macchine per il movimento terra, che in Italia hanno qualche migliaio di dipendenti, al momento in cassa integrazione per mesi. È dubbio che la controllante Exor si prenderebbe molta cura di questi gioielli per così dire minori, dopo aver ceduto il tesoro principale.
Quanto alle condizioni di lavoro, una volta ancora riconosciuta la validità dell'operazione Chrysler, bisogna pur notare che i lavoratori statunitensi dovranno fare notevoli sacrifici a seguito dell'accordo con Fiat: meno giornate festive, meno paga per gli straordinari, contributi azzerati per l'assistenza sanitaria ai pensionati, in un paese dove bisogna essere o molto poveri o molto anziani per aver diritto a un minimo di sanità pubblica, e inoltre niente scioperi per diversi anni. Non ci stupiremmo più di tanto se un domani la stessa Fiat, presa nelle strette della conversione, o altri componenti dell'industria nazionale, finissero per dichiarare che visti i sacrifici compiuti dagli americani per salvare lavoro impresa, anche i lavoratori italiani dovrebbero fare altrettanto, e magari di più.
Infine c'è la grande assente nei commenti finora diffusi in merito alla vicenda Fiat-Opel: la componentistica. Oggi circa i due terzi di un'auto (in valore), telai, mo - tori e trasmissioni compresi, sono fabbricati al di fuori degli stabilimenti dove si mette poi il marchio sul cofano, con la tendenza a salire verso il 75%. Quindi, per ogni addetto alla lavorazione finale, altri due-tre sono occupati in fondamentali lavorazioni a monte. E qui le cose sul fronte Fiat-Opel sembrano davvero complicarsi. Due dei maggiori produttori mondiali d componenti sono tedeschi (Bosch e Continental, decine di miliardi di fatturato a testa), un terzo è austro-canadese (Magna, 75.000 dipendenti nel mondo, che dopo avere enormemente ampliato i suoi impianti a Graz non vedrebbe male un proprio ingresso in Opel). Ciò significa che il vero problema della Fiat non saranno soltanto le trattative con GM, ma la gigantesca riorganizzazione di tutta la filiera produttiva in Europa e nel mondo, alle prese con i suddetti giganti. Tra le misure del successo di Fiat, che tutti ci auguriamo, bisogna dunque collocare anche le dimensioni e la qualità tecnico-organizzativa che il sistema italiano della componentistica riuscirà a conservare, con le sue decine di migliaia di addetti.
larepubblica.it