Galapagos (Il Manifesto)
È una piramide con una base sempre più larga e un vertice più sottile quella che emerge dai dati di Bankitalia sulla distribuzione dei redditi e della ricchezza. Solo un paio di dati: nel 2010 il 14,4% della popolazione era ufficialmente in una situazione di povertà a causa di un reddito insufficiente. Il tutto mentre il 10% delle famiglie più ricche possiede il 46% della ricchezza totale stimata in circa 9 mila miliardi di euro. Semplificando, circa 6 milioni di italiani possiedono - in media - una ricchezza di quasi 4200 miliardi, circa 700 mila euro a testa, contro 54 milioni di persone che - sempre in media - hanno un patrimonio di circa 90 mila euro. Come dire: il 10-20 per cento delle persone più povere non ha nulla di ricchezza e il 70-80 per cento ha un patrimonio che corrisponde al valore di una abitazioni modesta. Che ovviamente non tutti hanno, visto che il 21% delle famiglie vive in affitto.
C'è un altro aspetto che colpisce: negli ultimi 20 anni il reddito dell'Italia è cresciuto poco, ma il reddito reale dei lavoratori autonomi è aumentato del 15,7%, quasi 5 volte di più del 3,3% dei lavoratori dipendenti. Siamo di fronte a una gigantesca redistribuzione dei redditi a sfavore del lavoratori dipendenti. La specificità della crisi italiana è in questi dati che confermano come la progressiva pauperizzazione del lavoro dipendente a fronte di uno stato sociale sempre meno generoso è alla base della caduta della domanda. Cioè dei consumi, anche quelli alimentari, come confermano i dati Istat sulla vendite al dettaglio.
Ma c'è ancora un altro dato - non di Bankitalia - che completa il quadro: ieri mattina Attilio Befera, il massimo dirigente dell'agenzia delle entrate, ha denunciato che in Italia l'evasione fiscale tocca i 120 miliardi l'anno. E non sono certo i lavoratori dipendenti (anche se a volte lo fanno) e i pensionati a evadere. Insomma, chi più guadagna più evade. E questo spiega perché molti ristoranti sono pieni e ci siano in circolazione centinaia di migliaia di auto di lusso.
Da questi numeri è possibile trarre alcune conclusioni che dovrebbero fare da guida alla politica economica della sinistra. La prima è che la lotta all'evasione deve essere l'obiettivo prioritario: se non aumenta il gettito fiscale non sarà possibile diminuire il cuneo fiscale che penalizza i lavoratori dipendenti e far pagare meno tasse a loro e ai pensionati. E senza recuperare i soldi degli evasori non sarà possibile aumentare la spesa sociale e i consumi privati di milioni di persone. Di più: la distribuzione della ricchezza indica con chiarezza che è necessario procedere a una riforma fiscale che alleggerisca la pressione sui redditi e aumenti quella sul patrimonio.
Quanto ai salari, non aumentano solo con la diminuzione della pressione fiscale, ma anche con l'aumento della produttività. Attenzione, però: la produttività non deve aumentare «strizzando» ancora di più i lavoratori con innovazioni di processo, magari con l'aggiunta del ricatto della flessibilità in uscita, ma deve essere ottenuta attraverso innovazioni di prodotto. Perché - ce lo spiegano i dati annuali di Mediobanca - nelle imprese che innovano che i profitti, ma anche i salari, sono più alti. Ma la sinistra è convinta che il programma di Monti si muova in questa direzione?
I link ai giornali degli articoli spesso cambiano e diventa difficile se non impossibile recuperare i testi ai quali si riferivano. Questo è l'archivio on-line del blog Giornale-NOTIZIEOGGI
Visualizzazione post con etichetta declino Italia. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta declino Italia. Mostra tutti i post
26.1.12
Etichette:
crisi economica,
declino Italia,
Galapagos,
il manifesto,
poveri,
ricchi
21.12.08
Italiani brava gente
Forse è per le cose che ha detto Gianfranco Fini il 16 dicembre - la società italiana consentì passivamente alle leggi razziali di Mussolini nel ’38; anche la Chiesa s’adattò, nonostante «luminose eccezioni» - che le parole in Italia si pervertono così facilmente e ciclicamente. Non scottano quando dovrebbero scottare, infuocano quando descrivono fatti accertati. Quel che è normale viene esagerato, quel che è irregolare o illegale vien vissuto e presentato come normalità. Quando nel mondo delle parole si crea sì vasta confusione vuol dire che s’è smarrita la via, che si va in giro come ciechi di notte, che vero e falso si mischiano. Le parole sono un luogo: perdi le coordinate, quando non corrispondono più a nulla. Se i profeti biblici faticano tanto a dirle, se spesso addirittura le fuggono, è perché le vogliono puntuali, attendibili, non manipolabili da chi tende a «proseguire la sua corsa senza voltarsi» (Geremia 8,6).
Non dovrebbe troppo stupirsi, Fini, per l’impermalimento che ha suscitato.
Non dovrebbe neppure tranquillizzarsi troppo, come se la patologia non riguardasse anche lui, anche l’oggi, anche i commentatori facili a scrutare i cedimenti passati, meno facili a scrutare i cedimenti presenti. La «propensione al conformismo» di cui ha parlato, la «vocazione all’indifferenza più o meno diffusa», la complicità «sotterranea e oscura, negata ma presente»: sono vizi del passato che sopravvivono. Lo «stereotipo autoassolutorio e consolatorio degli italiani brava gente, smontato dal Presidente della Camera, intorpidì le menti nel ’38 e ancor oggi. È quello che più colpisce, nel 2008 che si conclude riaprendo d’un tratto, a destra e sinistra, la questione morale. Se la gente continua a correre senza voltarsi, come priva di bussola, è perché l’Italia non sa guardare dentro di sé e capire quel che ognuno fa, tacendo o restando indifferente. I tedeschi, che hanno lavorato sulla memoria, sono divenuti eminentemente circospetti, toccano i vocaboli quasi fossero oggetti puntuti e bollenti. Ci hanno messo circa quarant’anni per riavvicinarsi alla parola Vaterland, patria, memori dell’infamia che la sporcò. Tutti gli aggettivi legati a Volk, popolo, li imbarazzano. Non usano l’aggettivo sovversivo, se non in casi limite. Esitano anche davanti ai termini bellici: durante il terrorismo il figlio di Thomas Mann, Golo, parlò di guerra contro lo Stato. La classe politica si ribellò: quella non era guerra ma crimine che non giustificava, come avviene in guerra, stravolgimenti delle leggi repubblicane.
Non così in Italia, dove proprio queste parole - eversione, guerra - s’insediano come ineludibili lasciapassare che creano connivenze di gruppo e son condivise da chi ignora i disastri nati in passato da conformismo o indifferenza. Non sembra esserci ricordo né del fascismo né del terrorismo, quando ci fu eversione contro lo Stato di diritto. Eversivo e sedizioso è chi si ribella all’ordine costituzionale, sovvertendolo. Quest’aggettivo, lo sentiamo quasi ogni giorno ai telegiornali, proferito dai governanti a proposito del modo di opporsi di Di Pietro, senza che nessuno obietti: Berlusconi non fu criticato con tanta frequenza, quando prese il potere. Di Pietro è confutabile - ogni politico lo è - ma in altre democrazie sarebbe giudicato del tutto regolare. Molto più di chi, pochi anni fa, prometteva di abolire il mercato. Si distinguono per faccia tosta soprattutto gli ex craxiani, che non furono così severi quando auspicarono il negoziato con le Brigate Rosse durante l’affare Moro.
Lo stesso accade con la parola guerra. Quando si parla di guerra tra procure, o tra magistratura e politica, si confondono e oscurano i fatti. Si dimentica quel che spetta ai vari poteri dello Stato. Si ignora che tra procure non c'è stata ultimamente guerra (allo stesso modo in cui non ci fu guerra tra etnie jugoslave, ma aggressione serba contro altre etnie): c’è stata azione legale di una procura chiamata a indagare sia su De Magistris sia su chi a Catanzaro ostacolava De Magistris (i magistrati di Catanzaro, per legge, possono esser indagati solo da quelli di Salerno da cui dipendono). Il Consiglio superiore della magistratura e lo stesso Quirinale avrebbero potuto ascoltare quel che la procura di Salerno riferì due volte al Csm, invece di chiudersi per un anno nella passività.
Il peccato di conformismo è di ritorno perché son rari coloro che in Di Pietro scorgono un politico normale: ben più normale della Lega che ha non solo vilipendiato l’unità nazionale ma sprezzato, minacciando l’uso dei fucili, il monopolio legale della violenza. Sono rarissimi coloro che magari hanno dubbi sull’inchiesta di De Magistris e tuttavia non ritengono che essa dovesse essergli sottratta. Quel che conformismo e passività fanno con le parole è letale: l’illegale diventa la norma, la norma desta sospetto. Nichilismo è il suo nome, nella storia d'Europa: lo denuncia l’appello del 12 dicembre di Marco Travaglio e Massimo Fini, anche se il loro giudizio sul fascismo è, a mio parere, troppo indulgente. Lo denuncia Roberto Saviano, ieri su Repubblica, quando descrive la corruzione inconsapevole di destra e sinistra; l’assenza nei coinvolti delle inchieste napoletane o abruzzesi della percezione dell’errore e tanto meno del crimine; lo scambio di favori banalizzato; il «triste cinismo» di chi dice: «Tutto è comunque marcio. Non esistono innocenti perché in un modo o nell’altro tutti sono colpevoli».
All’origine di simili vizi c’è una confusione di compiti che spiega il caos linguistico, il discredito della giustizia, infine la concentrazione dei poteri. Non si sopporta che giudici e pm agiscano in autonomia. Sentendosi assediati, essi finiscono spesso col vedere solo i propri problemi. Si vorrebbe che i magistrati non fossero più obbligati a prendere in considerazione qualsiasi denuncia: secondo il ministro Alfano, le priorità date ai procedimenti più urgenti vanno «scelte dal legislatore (cioè dalla politica, ndr) e raccolte direttamente dalla sensibilità dei cittadini». Non si sopporta che l’opposizione faccia l’opposizione, se non collabora col governo. La confusione s’estende alla scienza, alla medicina, alle vite private. Alla fine non si sopporta neppure che una persona ridotta a stato vegetativo muoia come ha deciso. Se la magistratura ne approva le scelte, l’esecutivo cancella la separazione di competenze e anche qui accentra i poteri. Gli stessi che denunciano lo Stato etico prediletto dai totalitari oggi lo ripropongono. Il sottosegretario alla Salute Eugenia Roccella fa questo, quando difende i veti del ministro Sacconi all’alimentazione interrotta e la violazione di una sentenza esecutiva della Corte d’appello di Milano: il morente in stato vegetativo non ha una sua volontà. È «affidato all’altro anche se avesse testimoniato volontà diverse, anche se l’avesse lasciato scritto». Il giurista Michele Ainis vede un pericolo grande: lo Stato invadente è in realtà vacillante, cede a Antistati (lobby, Chiesa) che lo disfano e su cui il cittadino non ha più influenza.
Riprendersi le parole, rimetterle al loro posto: comincia così l’uscita dalla crisi, probabilmente. È Saviano a ricordarlo, in Gomorra a pagina 258, quando evoca don Peppino Diana, ucciso dalla camorra nel ’94: «Pensavo ancora una volta alla battaglia di don Peppino, alla priorità della parola. A quanto fosse davvero incredibilmente nuova e potente la volontà di porre la parola al centro di una lotta contro i meccanismi di potere. Parole davanti a betoniere e fucili. E non metaforicamente. Realmente. Lì a denunciare, testimoniare, esserci. La parola con l’unica sua armatura: pronunciarsi. Una parola che è sentinella, testimone: vera a patto di non smettere mai di tracciare. Una parola orientata in tal senso la puoi eliminare solo ammazzando».
lastampa.it
Non dovrebbe troppo stupirsi, Fini, per l’impermalimento che ha suscitato.
Non dovrebbe neppure tranquillizzarsi troppo, come se la patologia non riguardasse anche lui, anche l’oggi, anche i commentatori facili a scrutare i cedimenti passati, meno facili a scrutare i cedimenti presenti. La «propensione al conformismo» di cui ha parlato, la «vocazione all’indifferenza più o meno diffusa», la complicità «sotterranea e oscura, negata ma presente»: sono vizi del passato che sopravvivono. Lo «stereotipo autoassolutorio e consolatorio degli italiani brava gente, smontato dal Presidente della Camera, intorpidì le menti nel ’38 e ancor oggi. È quello che più colpisce, nel 2008 che si conclude riaprendo d’un tratto, a destra e sinistra, la questione morale. Se la gente continua a correre senza voltarsi, come priva di bussola, è perché l’Italia non sa guardare dentro di sé e capire quel che ognuno fa, tacendo o restando indifferente. I tedeschi, che hanno lavorato sulla memoria, sono divenuti eminentemente circospetti, toccano i vocaboli quasi fossero oggetti puntuti e bollenti. Ci hanno messo circa quarant’anni per riavvicinarsi alla parola Vaterland, patria, memori dell’infamia che la sporcò. Tutti gli aggettivi legati a Volk, popolo, li imbarazzano. Non usano l’aggettivo sovversivo, se non in casi limite. Esitano anche davanti ai termini bellici: durante il terrorismo il figlio di Thomas Mann, Golo, parlò di guerra contro lo Stato. La classe politica si ribellò: quella non era guerra ma crimine che non giustificava, come avviene in guerra, stravolgimenti delle leggi repubblicane.
Non così in Italia, dove proprio queste parole - eversione, guerra - s’insediano come ineludibili lasciapassare che creano connivenze di gruppo e son condivise da chi ignora i disastri nati in passato da conformismo o indifferenza. Non sembra esserci ricordo né del fascismo né del terrorismo, quando ci fu eversione contro lo Stato di diritto. Eversivo e sedizioso è chi si ribella all’ordine costituzionale, sovvertendolo. Quest’aggettivo, lo sentiamo quasi ogni giorno ai telegiornali, proferito dai governanti a proposito del modo di opporsi di Di Pietro, senza che nessuno obietti: Berlusconi non fu criticato con tanta frequenza, quando prese il potere. Di Pietro è confutabile - ogni politico lo è - ma in altre democrazie sarebbe giudicato del tutto regolare. Molto più di chi, pochi anni fa, prometteva di abolire il mercato. Si distinguono per faccia tosta soprattutto gli ex craxiani, che non furono così severi quando auspicarono il negoziato con le Brigate Rosse durante l’affare Moro.
Lo stesso accade con la parola guerra. Quando si parla di guerra tra procure, o tra magistratura e politica, si confondono e oscurano i fatti. Si dimentica quel che spetta ai vari poteri dello Stato. Si ignora che tra procure non c'è stata ultimamente guerra (allo stesso modo in cui non ci fu guerra tra etnie jugoslave, ma aggressione serba contro altre etnie): c’è stata azione legale di una procura chiamata a indagare sia su De Magistris sia su chi a Catanzaro ostacolava De Magistris (i magistrati di Catanzaro, per legge, possono esser indagati solo da quelli di Salerno da cui dipendono). Il Consiglio superiore della magistratura e lo stesso Quirinale avrebbero potuto ascoltare quel che la procura di Salerno riferì due volte al Csm, invece di chiudersi per un anno nella passività.
Il peccato di conformismo è di ritorno perché son rari coloro che in Di Pietro scorgono un politico normale: ben più normale della Lega che ha non solo vilipendiato l’unità nazionale ma sprezzato, minacciando l’uso dei fucili, il monopolio legale della violenza. Sono rarissimi coloro che magari hanno dubbi sull’inchiesta di De Magistris e tuttavia non ritengono che essa dovesse essergli sottratta. Quel che conformismo e passività fanno con le parole è letale: l’illegale diventa la norma, la norma desta sospetto. Nichilismo è il suo nome, nella storia d'Europa: lo denuncia l’appello del 12 dicembre di Marco Travaglio e Massimo Fini, anche se il loro giudizio sul fascismo è, a mio parere, troppo indulgente. Lo denuncia Roberto Saviano, ieri su Repubblica, quando descrive la corruzione inconsapevole di destra e sinistra; l’assenza nei coinvolti delle inchieste napoletane o abruzzesi della percezione dell’errore e tanto meno del crimine; lo scambio di favori banalizzato; il «triste cinismo» di chi dice: «Tutto è comunque marcio. Non esistono innocenti perché in un modo o nell’altro tutti sono colpevoli».
All’origine di simili vizi c’è una confusione di compiti che spiega il caos linguistico, il discredito della giustizia, infine la concentrazione dei poteri. Non si sopporta che giudici e pm agiscano in autonomia. Sentendosi assediati, essi finiscono spesso col vedere solo i propri problemi. Si vorrebbe che i magistrati non fossero più obbligati a prendere in considerazione qualsiasi denuncia: secondo il ministro Alfano, le priorità date ai procedimenti più urgenti vanno «scelte dal legislatore (cioè dalla politica, ndr) e raccolte direttamente dalla sensibilità dei cittadini». Non si sopporta che l’opposizione faccia l’opposizione, se non collabora col governo. La confusione s’estende alla scienza, alla medicina, alle vite private. Alla fine non si sopporta neppure che una persona ridotta a stato vegetativo muoia come ha deciso. Se la magistratura ne approva le scelte, l’esecutivo cancella la separazione di competenze e anche qui accentra i poteri. Gli stessi che denunciano lo Stato etico prediletto dai totalitari oggi lo ripropongono. Il sottosegretario alla Salute Eugenia Roccella fa questo, quando difende i veti del ministro Sacconi all’alimentazione interrotta e la violazione di una sentenza esecutiva della Corte d’appello di Milano: il morente in stato vegetativo non ha una sua volontà. È «affidato all’altro anche se avesse testimoniato volontà diverse, anche se l’avesse lasciato scritto». Il giurista Michele Ainis vede un pericolo grande: lo Stato invadente è in realtà vacillante, cede a Antistati (lobby, Chiesa) che lo disfano e su cui il cittadino non ha più influenza.
Riprendersi le parole, rimetterle al loro posto: comincia così l’uscita dalla crisi, probabilmente. È Saviano a ricordarlo, in Gomorra a pagina 258, quando evoca don Peppino Diana, ucciso dalla camorra nel ’94: «Pensavo ancora una volta alla battaglia di don Peppino, alla priorità della parola. A quanto fosse davvero incredibilmente nuova e potente la volontà di porre la parola al centro di una lotta contro i meccanismi di potere. Parole davanti a betoniere e fucili. E non metaforicamente. Realmente. Lì a denunciare, testimoniare, esserci. La parola con l’unica sua armatura: pronunciarsi. Una parola che è sentinella, testimone: vera a patto di non smettere mai di tracciare. Una parola orientata in tal senso la puoi eliminare solo ammazzando».
lastampa.it
Etichette:
declino Italia,
La Stampa,
riprendersi le parole,
Spinelli
27.4.08
Italia, la vera Casa delle libertà e le servitù mediali
Marco Morosini
Il declino trentennale dell'Italia ha molte cause, ma una è più importante: la servitù dell'informazione. Il Paese è come un miope così forte che non riesce a trovare gli occhiali. Senza vista tutto diventa più difficile. A dircelo è la Casa della libertà, quella vera: freedomhouse.org. Creata nel 1941 dai coniugi Roosvelt e finanziata dai maggiori nomi capitalismo statunitense, la Casa della libertà è la referenza internazionale sullo stato delle libertà civili. Il suo rapporto Libertà della stampa classifica l'Italia del 2005 come paese "semi-libero", al 79° posto nel mondo, dietro a Bulgaria e Mongolia. «La libertà dei media – scrive la Casa della libertà – è limitata dalla perdurante concentrazione del potere mediatico nelle mani del primo ministro Silvio Berlusconi, che controlla il 90 per cento dei media televisivi sia attraverso le sue aziende private sia con il suo potere politico sulle reti della televisione statale». Chi deve ricchezza e potere a questa situazione nega che il problema esista. È grottesco però che giornalisti apparentemente equidistanti ripetano che non esiste strapotere mediatico e che anche se c'è non conta. Prodi ha vinto due volte su quattro – dicono – e la lega padana si è affermata senza potere mediatico. Il che è come dire che un carcere da cui alcuni evadono è un tempio della libertà.
Secondo la media dei dieci principali indici di sviluppo l'Italia era nel 2005 46a nel mondo. Era però 18a per reddito e 79a per libertà di stampa. È il ritratto degli ultimi 40 anni: tanti consumi, poca consapevolezza. Gran parte degli italiani si possono paragonare a bambini alla guida di una Ferrari: hanno troppi mezzi per fare danni rispetto alla loro consapevolezza e al loro senso di responsabilità. Non stupisce che nell'indice di sostenibilità ambientale l'Italia sia 69a.
Tradotto in immagine, quel 79° posto per la libertà di stampa è una macchietta che forse solo Pasolini avrebbe potuto inventare per un film surreale: un vecchio di 72 anni in camicia scura, il pubblicitario più ricco del mondo, che con barzellette e insulti ai nemici e a metà del Paese aizza una piccola folla in una piccola piazza. Eppure viene trasmesso ogni giorno per settimane sulle sette reti nazionali. L'immagine riassume i due prodotti peggiori dell'Italia degli ultimi cento anni: l'autoritarismo in camicia nera e la pubblicità totalitaria. Un'industria pubblicitaria che domina ogni momento della vita: le città, i paesaggi, i cibi, i giochi e i vestiti dei ragazzi, tutti gli sport, tutti i mezzi di comunicazione, il parlamento, il governo. Perfino le previsioni del tempo sono fatte "con il prosciutto A", il segnale orario "con il formaggio B", mentre i telegiornali sono spostati dall'ora esatta, per lasciar posto agli spot che, durante la cena, spiegano come pulire un water o come non macchiare le mutande. Anche i due monologhi della più importante trasmissione elettorale riassumono quel 79° posto dell'Italia. Il candidato più debole ha dovuto recarsi nella proprietà del candidato più forte, essere in balia delle sue regole e dei suoi dipendenti e parlare per primo. Per ogni minuto che l'ospite parlava, il padrone di casa guadagnava denaro. I due intervalli pubblicitari hanno interrotto l'ospite per 4 minuti e l'ospitante per un minuto e mezzo: per ogni minuto di pubblicità il primo perdeva telespettatori, il secondo guadagnava soldi. Il padrone di casa si è sottratto a un confronto leale con l'ospite, come invece avviene nei Paesi liberali. Ha parlato per secondo e per ultimo, potendo così criticare e smontare (e in parte denigrare) le tesi dell'ospite, senza che questo potesse fare lo stesso con le sue. Ha promesso rigore contro la criminalità e ha esaltato come "eroe" un suo stretto collaboratore, condannato per pluriomicidio, lesioni, estorsione e traffico di stupefacenti senza che nessuno potesse replicare. Ha affermato il falso e promesso a sorpresa nuove abolizioni di tasse senza che il suo dipendente o l'ospite potessero replicare. Infine, al di fuori del tempo che gli spettava e contro ogni regola, è tornato sul proprio palcoscenico, ha interrotto il suo dipendente e su un grande pannello con i simboli di tutti i partiti ha sfiorato quello dell'ospite dicendo che facendo una croce così il voto sarebbe stato nullo.
Si sa, nei Paesi industriali, il potere più forte è quello delle grandi aziende, mentre il più debole è quello dei governi e dei parlamenti che cercano, ove vogliano, di civilizzare il potere più forte. Solo in Italia i due poteri invece di bilanciarsi si concentrano nelle mani di decine di uomini pagati dalla stessa mano per remare sulla stessa barca. La seconda anomalia italiana è che da decenni la quasi totalità dei giornali non serve i lettori ma i loro proprietari, vale a dire industrie che non c'entrano con l'editoria. A questo dominio dell'industria come padrona si aggiunge il suo dominio come inserzionista. La maggioranza dei giornalisti sa di essere al guinzaglio pubblicitario: per non essere strozzati, non bisogna mordere la mano del padrone, ma leccarla.
Per recuperare due decenni perduti servono programmi educativi, industriali, energetici ed ecologici per i prossimi cinquantanni e la capacità di guardare avanti. L'Italia invece sarà governata guardando a 900, 90 e 50 anni fa: un medioevo incarnato da crociati e guerrieri padani che si radunano con armature, scudi e spade sguainate; un ventennio nero italiano rimpianto da un industriale e neosenatore fiero di dirsi fascista e da due vecchie e nuove Onorevoli che hanno battibeccato sui giornali su chi delle due sia più in contatto con Benito Mussolini nell'aldilà e meglio capace di portarne al governo l'eredità politica. Il tutto nel nome della "libertà". Infine, la ricetta meno antiquata del prossimo governo è quella degli anni '60: più pubblicità, più consumi, più produzione, più lavoro, più felicità. È con queste tre visioni che hanno promesso al Paese: "Rialzati Italia!".
area7.ch
Il declino trentennale dell'Italia ha molte cause, ma una è più importante: la servitù dell'informazione. Il Paese è come un miope così forte che non riesce a trovare gli occhiali. Senza vista tutto diventa più difficile. A dircelo è la Casa della libertà, quella vera: freedomhouse.org. Creata nel 1941 dai coniugi Roosvelt e finanziata dai maggiori nomi capitalismo statunitense, la Casa della libertà è la referenza internazionale sullo stato delle libertà civili. Il suo rapporto Libertà della stampa classifica l'Italia del 2005 come paese "semi-libero", al 79° posto nel mondo, dietro a Bulgaria e Mongolia. «La libertà dei media – scrive la Casa della libertà – è limitata dalla perdurante concentrazione del potere mediatico nelle mani del primo ministro Silvio Berlusconi, che controlla il 90 per cento dei media televisivi sia attraverso le sue aziende private sia con il suo potere politico sulle reti della televisione statale». Chi deve ricchezza e potere a questa situazione nega che il problema esista. È grottesco però che giornalisti apparentemente equidistanti ripetano che non esiste strapotere mediatico e che anche se c'è non conta. Prodi ha vinto due volte su quattro – dicono – e la lega padana si è affermata senza potere mediatico. Il che è come dire che un carcere da cui alcuni evadono è un tempio della libertà.
Secondo la media dei dieci principali indici di sviluppo l'Italia era nel 2005 46a nel mondo. Era però 18a per reddito e 79a per libertà di stampa. È il ritratto degli ultimi 40 anni: tanti consumi, poca consapevolezza. Gran parte degli italiani si possono paragonare a bambini alla guida di una Ferrari: hanno troppi mezzi per fare danni rispetto alla loro consapevolezza e al loro senso di responsabilità. Non stupisce che nell'indice di sostenibilità ambientale l'Italia sia 69a.
Tradotto in immagine, quel 79° posto per la libertà di stampa è una macchietta che forse solo Pasolini avrebbe potuto inventare per un film surreale: un vecchio di 72 anni in camicia scura, il pubblicitario più ricco del mondo, che con barzellette e insulti ai nemici e a metà del Paese aizza una piccola folla in una piccola piazza. Eppure viene trasmesso ogni giorno per settimane sulle sette reti nazionali. L'immagine riassume i due prodotti peggiori dell'Italia degli ultimi cento anni: l'autoritarismo in camicia nera e la pubblicità totalitaria. Un'industria pubblicitaria che domina ogni momento della vita: le città, i paesaggi, i cibi, i giochi e i vestiti dei ragazzi, tutti gli sport, tutti i mezzi di comunicazione, il parlamento, il governo. Perfino le previsioni del tempo sono fatte "con il prosciutto A", il segnale orario "con il formaggio B", mentre i telegiornali sono spostati dall'ora esatta, per lasciar posto agli spot che, durante la cena, spiegano come pulire un water o come non macchiare le mutande. Anche i due monologhi della più importante trasmissione elettorale riassumono quel 79° posto dell'Italia. Il candidato più debole ha dovuto recarsi nella proprietà del candidato più forte, essere in balia delle sue regole e dei suoi dipendenti e parlare per primo. Per ogni minuto che l'ospite parlava, il padrone di casa guadagnava denaro. I due intervalli pubblicitari hanno interrotto l'ospite per 4 minuti e l'ospitante per un minuto e mezzo: per ogni minuto di pubblicità il primo perdeva telespettatori, il secondo guadagnava soldi. Il padrone di casa si è sottratto a un confronto leale con l'ospite, come invece avviene nei Paesi liberali. Ha parlato per secondo e per ultimo, potendo così criticare e smontare (e in parte denigrare) le tesi dell'ospite, senza che questo potesse fare lo stesso con le sue. Ha promesso rigore contro la criminalità e ha esaltato come "eroe" un suo stretto collaboratore, condannato per pluriomicidio, lesioni, estorsione e traffico di stupefacenti senza che nessuno potesse replicare. Ha affermato il falso e promesso a sorpresa nuove abolizioni di tasse senza che il suo dipendente o l'ospite potessero replicare. Infine, al di fuori del tempo che gli spettava e contro ogni regola, è tornato sul proprio palcoscenico, ha interrotto il suo dipendente e su un grande pannello con i simboli di tutti i partiti ha sfiorato quello dell'ospite dicendo che facendo una croce così il voto sarebbe stato nullo.
Si sa, nei Paesi industriali, il potere più forte è quello delle grandi aziende, mentre il più debole è quello dei governi e dei parlamenti che cercano, ove vogliano, di civilizzare il potere più forte. Solo in Italia i due poteri invece di bilanciarsi si concentrano nelle mani di decine di uomini pagati dalla stessa mano per remare sulla stessa barca. La seconda anomalia italiana è che da decenni la quasi totalità dei giornali non serve i lettori ma i loro proprietari, vale a dire industrie che non c'entrano con l'editoria. A questo dominio dell'industria come padrona si aggiunge il suo dominio come inserzionista. La maggioranza dei giornalisti sa di essere al guinzaglio pubblicitario: per non essere strozzati, non bisogna mordere la mano del padrone, ma leccarla.
Per recuperare due decenni perduti servono programmi educativi, industriali, energetici ed ecologici per i prossimi cinquantanni e la capacità di guardare avanti. L'Italia invece sarà governata guardando a 900, 90 e 50 anni fa: un medioevo incarnato da crociati e guerrieri padani che si radunano con armature, scudi e spade sguainate; un ventennio nero italiano rimpianto da un industriale e neosenatore fiero di dirsi fascista e da due vecchie e nuove Onorevoli che hanno battibeccato sui giornali su chi delle due sia più in contatto con Benito Mussolini nell'aldilà e meglio capace di portarne al governo l'eredità politica. Il tutto nel nome della "libertà". Infine, la ricetta meno antiquata del prossimo governo è quella degli anni '60: più pubblicità, più consumi, più produzione, più lavoro, più felicità. È con queste tre visioni che hanno promesso al Paese: "Rialzati Italia!".
area7.ch
Iscriviti a:
Post (Atom)