Visualizzazione post con etichetta sinti. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta sinti. Mostra tutti i post

8.3.15

Con i fascisti non si discute

Luigi Manconi, sociologo (Internazionale)

Sarà stato un decennio fa quando, un pomeriggio di un giorno di maggio, ricevo una telefonata di Tullia Zevi, la più autorevole esponente dell’ebraismo italiano. È particolarmente turbata e mi spiega il motivo.

Ha appena ricevuto l’invito da parte del notissimo conduttore di una notissima trasmissione a partecipare a un dibattito televisivo. In studio sarà presente lo storico revisionista Robert Faurisson, che ha appena pubblicato un volume sulla Shoah (ovvero sulla falsità della Shoah).

Dopo la presentazione della sua tesi, ci sarebbe stato il confronto tra la Zevi e uno storico italiano piuttosto favorevole invece alla posizione di Faurisson.

Insomma, tema: “I lager non sono mai esistiti”, e poi: “uno a favore, uno contro”.

A Tullia Zevi si chiedeva ovviamente di fare la parte del “contro”.

Di fronte al suo netto rifiuto di interpretare quel ruolo, il conduttore mostrò sincera sorpresa. Non riusciva proprio a comprendere il motivo di quella decisione: per lui, la composizione di quel dibattito rappresentava la realizzazione del pluralismo nella sua forma massima e perfetta.

E poi perché temere il confronto, quando – confermava rassicurante il giornalista – si sta dalla parte della ragione e della verità storica?

Quest’ultimo argomento è certamente il più interessante. Quel conduttore non aveva la minima intenzione di negare l’esistenza delle camere a gas, ma pretendeva di affermare un’interpretazione, per così dire, illimitata e incondizionata del pluralismo. Ovvero una concezione tecnica e neutrale della dialettica democratica e del libero confronto tra opzioni diverse. In altre parole, una manifestazione estrema e pienamente compiuta della lottizzazione delle idee, nella sua rappresentazione plastico-teatrale.

Al centro, il Male Assoluto (Faurisson). E ai lati, sullo stesso piano e livellati da ruoli precisamente speculari, il Bene (Tullia Zevi) e il Dubbio (lo storico italiano moderatamente revisionista). Provvidenzialmente, la cosa non andò in porto e si è evitato, così, uno di quegli innumerevoli strazi quotidianamente perpetrati ai danni dell’intelligenza e del buon gusto.

L’episodio mi è tornato in mente nell’apprendere quanto è accaduto nel corso della trasmissione Piazza pulita lunedì scorso e quanto ha scritto in merito Gad Lerner.

Nel suo blog, Lerner cita l’eurodeputato leghista Gianluca Buonanno, che “ha definito i rom ‘feccia dell’umanità’, con l’effetto spettacolo di averlo detto in faccia a Djana Pavlovic con sottofondo di applauso meccanico dei figuranti in sala”.

Spiegando come quell’episodio corrisponda a una sorta di format televisivo assiduamente reiterato (e oggi concentrato, in particolare, sull’ostilità contro rom e sinti), Lerner ha proposto un antidoto, “rapido efficace, silenzioso: basta dire no grazie. O noi o loro. Non partecipare a quelle oscene rappresentazioni. Lasciare vuote le sedie dei talk show che invitano ogni giorno Salvini, Borghezio, Buonanno”.

Sono incondizionatamente d’accordo. Da molti anni adotto tacitamente quel comportamento, rifiutandomi di prendere parte a confronti con esponenti leghisti o cripto-fascisti. Ma, certo, il dichiararlo e assumerlo come impegno collettivo (da parte di donne e uomini di buona volontà e di buon senso) sarebbe tutt’altra cosa.

Purtroppo è facile prevedere che la proposta di Lerner sarà destinata all’insuccesso: si troverà sempre qualcuno, e intendo dire proprio qualcuno a sinistra, che sciorinerà efficacissimi e callidissimi argomenti per spiegare l’utilità – invece – di affrontare “a pie’ fermo e a viso aperto” le posizioni fascio-leghiste. Io sono convinto che questo sia l’atteggiamento più sbagliato e l’intera storia dei talk show televisivi sta lì a dimostrarlo inequivocabilmente.

C’è poi da aggiungere una sommessa considerazione teorica qualora si volesse porre la questione su un piano generale, di metodo e di sistema. Una scelta, come quella suggerita da Lerner, non ha un effetto discriminatorio, dal momento che non mira a escludere dal circuito del discorso pubblico determinate posizioni (cosa per altro impossibile, oltre che errata).

Quella scelta intende, piuttosto, auto-escludersi da un confronto che risulta privo dei requisiti indispensabili per essere effettivamente tale. Ovvero la condivisione tra gli interlocutori di un minimo di opzioni morali e di regole di linguaggio. Come è possibile discutere con chi ritiene che una determinata minoranza sia “la feccia dell’umanità”?

26.7.07

Ci sono i rom. E il comune abbatte la fabbrica storica

Pavia, avviata la demolizione dei capannoni Snia, gioiello architettonico. Stop della magistratura
di GIAN ANTONIO STELLA
E se i rom avessero occupato la Chiesa di San Pietro in Ciel d’Oro, il Broletto o il Ponte Coperto? Ecco cosa ti domandi, nel vedere a Pavia le macerie di quello che era fino a ieri uno dei monumenti di archeologia industriale più affascinanti d’Italia: l’antico stabilimento della Snia Viscosa. Demolito dalle ruspe perché il sindaco diessino non sapeva più cosa fare per cacciare gli «zingari» che avevano occupato l’area. C’è chi dirà: non era mica il Colosseo! Non era mica una cappella gotica! Non era mica un castello medievale! Verissimo. È la tesi dello scrittore Mino Milani, autore del romanzo «Fantasma d’amore» dal quale Dino Risi trasse il film omonimo con Marcello Mastroianni: «La necessità di abbattere la Snia trascende dalla storicità degli edifici. Non si tratta di chiese o monumenti, ma di ruderi abbandonati da decenni». Opinione condivisa giorni fa sul Corriere da Pietro Trivi, consigliere comunale di Forza Italia: «Che valore storico possono avere dei vecchi capannoni trasformati dai rom in una bidonville? Per la città quella ex fabbrica è solo un buco nero che crea problemi ai residenti».
Verissimo anche questo. Come è sempre successo nella storia (si pensi alle rovine della reggia di caccia dei Savoia a Venaria Reale che sta per essere restituita al suo splendore ma che fu a lungo occupata negli anni del boom economico da immigrati veneti e siciliani, pugliesi e romagnoli) gli antichi capannoni, scrostati e crepati e aggrediti dalla vegetazione, erano stati invasi negli ultimi tempi da un numero crescente di rom. I quali si erano adattati a vivere in condizioni spaventose. Niente servizi igienici. Bambini abbandonati tra le macerie. Avvisaglie di una ripresa di quella tubercolosi che pareva sconfitta da decenni. Accumulo di quintali e tonnellate di immondizia.
Un degrado progressivo e apparentemente inarrestabile. Tale da scoraggiare il Comune, che dopo alcuni tentativi si era di fatto rassegnato all’impotenza. Da spingere gli operatori sociali a rinunciare a mettere piede nel ghetto, dove tra i 260 «zingari» accampati alla meno peggio c’erano almeno 74 ragazzini mai coinvolti in un progetto scolastico. Da esasperare gli spazzini al punto che, mandati a portar via almeno un po’ di tonnellate di spazzatura, si erano ribellati all’idea di entrare nel complesso industriale abbandonato: «C’è il pericolo i muri crollino».
Insomma: che tirasse un’aria sempre più pesante, con rischi sanitari per tutta la popolazione dei dintorni, è innegabile. E neppure gli oppositori più critici della giunta unionista, come l’ex sindaco Elio Veltri che pure accusa l’amministrazione comunale di non aver fatto abbastanza, si sognano di negare l’evidenza: il problema andava risolto. Ma mai come in questo caso c’era il rischio di buttare via, con l’acqua sporca, il bambino. Perché il «monumento industriale» della Snia è (era?) davvero bello.
Lo aveva detto il grande architetto Vittorio Gregotti, che una manciata di anni fa aveva progettato per il Comune il piano regolatore spiegando che quegli edifici, soprattutto i più belli allineati lungo viale Monte Grappa, nel quartiere di San Pietro in Verzolo, andavano sottratti al degrado, recuperati, restituiti alla città che avrebbe potuto portarci una parte dell’Università. Lo aveva ribadito Italia Nostra, che aveva mandato un drammatico appello alla Sovrintendenza ai beni ambientali e architettonici chiedendo che almeno sui pezzi più pregiati del grande stabilimento fondato nel 1905 per produrre seta artificiale su una grande area (appetita dai padroni dell’edilizia) di 240 mila metri quadri tra la Ferrovia e il Ticino, fosse posto finalmente il vincolo ufficiale già prefigurato da Gregotti. Lo aveva implorato Legambiente. E lo stesso Veltri in una lettera angosciata al vice-premier e ministro dei Beni culturali Francesco Rutelli, in cui ricordava come l’amministrazione pavese avesse già consentito negli ultimi anni due profonde ferite (una strada e una tangenziale) al parco della Vernavola dove nel 1525 si scontrarono gli eserciti di Francesco I e di Carlo V e minacciasse ora di costruire un grande parcheggio sotto la splendida chiesa romanica di San Primo. E ancora decine e decine di volontari trascinati da Giovanni Giovannetti, che col consigliere comunale Irene Campari (indipendente di sinistra in dissenso con la giunta di sinistra) e con Paolo Ferloni di Italia Nostra si erano spinti a presentare un esposto alla magistratura denunciando «il "partito del mattone"» deciso a «buttare giù tutto, anche le cornici dentellate, anche gli ornamenti e le archeggiature in cotto dipinto» di una testimonianza essenziale del ruolo di Pavia, che «nel secolo scorso, con Milano, è stata a lungo la città più industrializzata della Lombardia».
Niente da fare. Il sindaco Piera Capitelli l’aveva detto: «Per gli occupanti dell’area a Pavia non c’è più posto». Pugno di ferro: «Non abbiamo mai potuto affrontare il problema delle demolizioni ma ora che c’è il sospetto che alcuni edifici siano pericolanti lo dovremo affrontare». I rom, i rischi igienici, l’odore dell’immondizia accumulata? «Il problema si risolverà con l’abbattimento dei capannoni», aveva rincarato l’assessore ai Servizi Sociali Francesco Brendolise. E i vincoli? «Non sono della Sovrintendenza ma del piano regolatore. E se vi fossero problemi di stabilità potrebbe essere superato». Quanto alle preoccupazioni di chi denuncia «colate di cemento» in «una città che continua a perdere abitanti», il sindaco era stato chiaro: «Per il boom edilizio non posso che essere felice. Porta lavoro, attua una parte del programma e risponde all’esigenza abitativa: la città è stata ferma per troppo tempo».
E così ieri mattina, benedette dai proprietari dell’area (tra i quali spicca la «Tradital» di Luigi Zunino, indicato nella lunga estate calda delle scalate bancarie come uno che trattava affari con Stefano Ricucci e Danilo Coppola) le ruspe si sono presentate a sorpresa sul posto e hanno cominciato ad abbattere il primo dei quattro capannoni. Il più bello, forse. Finché non sono arrivati, per conto della magistratura, gli agenti: fermi tutti, sospendete. Un intervento che al sindaco non è piaciuto per niente: «L’ordinanza di demolizione l’ho firmata perché esistono concreti pericoli di crollo negli edifici in cui è nata la bidonville. Come Sindaco devo badare all’incolumità dei residenti e l’ex Snia non è sicura. Tra l’altro non vi sono vincoli architettonici imposti dalla sovrintendenza e ogni tentativo di dimostrare il contrario è solo strumentale...». Credeva di avercela fatta, ormai. E se un domani l’avessero rimproverata d’aver buttato giù quella «cattedrale industriale»? Uffa...

corriere.it