Il maggio e le sue vite successive
Cosa resta del Maggio? I ricordi annebbiati d'una «generazione» che cerca le cause del suo pentimento? Eppure, come ricorda Kristin Ross, studiosa di New York in un lavoro pubblicato da Le Monde diplomatique e da Complete, la rivolta del 1968 fu prima di tutto l'occasione di uno straordinario incontro tra operai e studenti per la rimessa in causa dell'ordine sociale.
Kristin Ross
Le rappresentazioni che si fondano sull'austerità della vita militante nascondono totalmente un aspetto che pure emerge piuttosto chiaramente come uno dei ricordi salienti in quasi tutti i racconti di attivisti: il piacere che nasceva, a volte, dalla semplice cancellazione delle barriere sociali, in una società profondamente compartimentata come la Francia, dove la comunicazione, e a maggior ragione quella sovversiva, non si stabiliva facilmente tra un settore e l'altro della società! Durante le settimane dell'insurrezione, si verificarono parecchi cambiamenti, tra i quali la moltiplicazione di ciò che Jean-Franklin Narot (1) chiama «l'incontro»: non una riunione in qualche società segreta, riservata a pochi iniziati, ma piuttosto il risultato di contatti e di relazioni tra persone che, per le differenze di statuto sociale, culturale o professionale, non erano destinate a incontrarsi.
Anche se insignificanti a prima vista, certi piccoli segnali suggerivano l'idea che gli intermediari e la segmentazione sociale erano stati semplicemente spazzati via.
Il racconto di Martine Storti (2) non manca di ricordare il lato fastidioso della vita militante, che secondo lei, si cristallizza nella tecnica oggi obsoleta del ciclostile; molto più tardi (scrive anche lei nei tardi anni '80), il ricordo di questa esperienza la sommergerà, con la sua ricchezza sensoriale e emozionale, quando scoprirà la sua madeleine proustiana sotto forma di una matrice per ciclostile abbandonata: «E, stropicciata in mezzo ai volantini, una reliquia, questa matrice vergine vecchia di una trentina di anni: ha ancora lo stesso odore, quell'odore di inchiostro, di carta carbone, un odore particolare, acido e dolciastro assieme, pepato e zuccherato, l'odore delle ore, delle giornate, delle notti passate a fare volantini con il ciclostile, con il terrore della catastrofe, del momento in cui la matrice si sarebbe lacerata, per troppo inchiostro o eccessiva velocità del ciclostile. Dopo aver cercato, quasi sempre inutilmente, di aggiustare i pezzi lacerati e di azionare il ciclostile a rilento, con la mano, sperando che la matrice resistesse fino alla fine, dovevamo rassegnarci a battere di nuovo il testo su una nuova matrice, battendo con due dita su un vecchio rudere».
Questo racconto, e quelli di altri militanti, suggeriscono molteplici piaceri, legati alla trasgressione fisica e sociale, ma anche alla possibilità di nuove amicizie o complicità. Un piacere, dice Storti, ben diverso dalla rivendicazione, dalla parola d'ordine rivoluzionaria del Maggio '68 («Godere senza limiti») di cui, peraltro, ella diffida in particolar modo, che non è un fine in sé e che, sul momento non sembra nemmeno necessariamente tale. Il piacere di superare la segmentazione, fisica o sociale, è proporzionale alla durezza della segregazione sociale urbana del tempo; i dialoghi allacciati, nonostante questa segregazione, veicolano un sentimento di trasformazione urgente, immediata, vissuta non come una futura ricompensa ma nell'istante.
Nel 1978, Robert Linhart ricorda (3): «Circa quindici anni fa, le fabbriche erano un mondo chiuso, e dovevamo mendicare le testimonianze»; un'altra militante, che lavorava in fabbrica alla catena di montaggio, scrive che prima del suo arrivo e di quello di altri intellettuali, «gli operai lavoravano nei sobborghi di Parigi, e gli stabilimenti ci sembravano lontani e inavvicinabili quanto l'Algeria o il Vietnam (4)». Persino Jean-Pierre Thorn, realizzatore del documentario Oser lutter, oser vaincre, sullo sciopero violento di Flins, ricorda la sua infanzia e adolescenza segnate da una vera e propria segregazione sociale: «Fino al 1968, non ero consapevole della presenza delle fabbriche o della classe operaia. In quel momento ho cominciato a notare che esisteva intorno a noi un universo impressionante, che aveva il potere di paralizzare il paese smettendo di lavorare. Le bandiere rosse pendevano alle porte degli stabilimenti. Avevo vent'anni ed è stato un trauma. (5)» Claire, che insegnava in un liceo parigino nel 1968, parla, dieci anni dopo, dell'emozione provata nel vedere finalmente superate barriere sociali ritenute in passato invalicabili: «Incontravo per la prima volta degli operai. Non ne avevo mai visti.
Senza scherzi, neanche nella metropolitana. [...] mai visto una fabbrica.
Di colpo, ho vissuto e ho lavorato soltanto con operai: vecchi membri del partito e immigrati più giovani. I ricordi, i miei unici veri ricordi del Maggio '68, non sono le manifestazioni, ma piuttosto, le riunioni dagli operai, due volte alla settimana. Le fabbriche erano in sciopero, occupate, ci si riuniva per «fare teoria», E si faceva della teoria, ma come lo si poteva fare nel '68 [...]. Mi sentivo bene. E credevo che sarebbe durato. Non immaginavo ciò che oggi sono davvero costretta a costatare, cioè che non avrei proprio più visto operai [...]. Ci accoglievano senza problemi ai picchetti di scioperanti, ci lasciavano entrare liberamente nelle officine...
(6)». Un altro militante ricorda incontri come questi: «Quando militavo, invece, incontravo un sacco di altre persone, socialmente diverse [...] ricordo il calore umano che si stabiliva tra di noi. Quando militi, la cosa che fa sopportare tutto è il fatto di ritrovarsi come questa mattina, alle 4, quando il tempo è bello, con un obbiettivo comune che sfugge agli altri, con la felicità di stare in un posto dove non si dovrebbe stare, questa specie di complicità (7)».
Un altro piacere, forse più marginale, ma altrettanto autentico, accompagna questi spostamenti trasgressivi oltre le barriere sociali, dall'altra parte del «muro»: il piacere di abbandonare tutto dietro di sé, di liberarsi delle speranze vane e del peso morto delle abitudini che ancorano la gente in un luogo o in uno spazio prestabiliti. Per Jacques e Danielle Rancière (8), si tratta di un piaceree diverso, spesso taciuto nelle descrizioni miserabiliste post-68 dei militanti che «si mescolano ai lavoratori»: «L'intellettuale doveva estirpare da sé tutto quanto, nel suo modo di parlare o di essere, rischiava di ricordare le sue origini, tutto ciò che, nelle sue abitudini, lo separava dal popolo. Un ideale pieno di contraddizioni, assimilato con una analisi un po' troppo semplicistica alle figure dello scoutismo o dell'ascesi. All'epoca, il conto dei piaceri e delle sofferenze non era deficitario. Lasciare ai vecchi partiti e ai giovani carrieristi il compito di cogestire le università e di ridipingere il marxismo con i più recenti colori epistemologici o semiologici per penetrare nella realtà della fabbrica o nel clima di amicizia dei caffè e dei centri per immigrati non era poi cosi lugubre (cosa che si sarebbe capita in seguito). In un certo senso, servire il popolo non era che l'altra faccia dell'effettivo disgusto per il proseguimento degli esercizi universitari, da un lato o dall'altro della cattedra. La trasformazione dell'intellettuale può essere vissuta come una vera e propria liberazione».
Anche se gustato a posteriori, e sentito indirettamente e soprattutto nel momento difficile della ripresa e del ritorno alle proprie abitudini e nel proprio ambiente, il piacere è stato forte. I racconti di gente ormai affermata, intellettuali o militanti, che lavorarono talvolta anni in fabbrica, offrono scarsi elementi a favore di quell'altro stereotipo miserabilista di militanti che sposano lo stile di vita degli operai o soffrono di una sorta di bisogno patologico di diventare seriamente uno di loro. Né si trova traccia del discorso più utopistico di Gilles Deleuze sul divenire - divenire-animale, divenire-macchina, divenire operaio - concepito come desiderio di metamorfosi. Anzi, un notabile insiste: «L'unica cosa che mi interessava, era trovare operai per darci il cambio a livello politico. Soprattutto non volevo mettermi al loro posto (9)». «Per noi, non si è mai trattato di un gesto di purificazione, ma di una misura politica (10)». «Stavo bene in fabbrica; non volevo dimenticare la mia condizione di intellettuale ma far incontrare persone di origini diverse. Volevo lavorare dall'interno e soprattutto non intendevo tagliare i ponti appena arrivato (11)».
Eppure, come succedette all'inizio di maggio, si scopriva che la distanza tra operai e studenti non era poi così grande. «C'è stato il Maggio 68. Dopo quei pochi mesi passati in fabbrica, il mondo degli studenti era già molto avanti. Dopo la manifestazione del 13 maggio, Renault è entrata in sciopero; il 15 o il 16, è stata decisa l'occupazione della nostra fabbrica. [...] una vera piccola guerra dall'interno, che si è protratta per sei settimane! ... Mi sentivo a mio agio in questo clima, tanto più che, a quel tempo, gli operai 'si intellettualizzavano', ci incontravamo a metà strada dei nostri percorsi rispettivi. I giovani della fabbrica andavano sulle barricate e alla Sorbona (12)!».
Ha forse ragione Danieel Bensaïd (13) nel suggerire che tutti i travestimenti simbolici dei primi giorni del Maggio (manifestazioni pseudo-insurrezionali, selve di bandiere nere, barricate, occupazioni di università), chiaramente ispirate alle tradizioni delle lotte operaie, vanno capiti come un insieme semantico, un linguaggio attraverso il quale il movimento studentesco cercava di rivolgersi agli operai senza la mediazione dei leader burocratici, di creare una comunicazione tra due mondi finora chiusi e di raggiungere la classe operaia attraverso un lungo processo di cerchi concentrici. Persino una parola d'ordine come Crs14=Ss che gli studenti scandivano fin dal 3 maggio mentre erano stati chiamati alla Sorbona soltanto i gendarmi e non si vedeva ancora alcun Crs, potrebbe essere letto come un esorcismo. In un certo senso, gli studenti esageravano la situazione, visto che i Crs non erano ancora arrivati, accelerando gli avvenimenti o spingendoli al limite.
Ma essi si rivolgevano anche ai lavoratori, che non erano ancora presenti, e ciò facendo, ne prendevano a prestito il linguaggio specifico.
In fatti, non erano stati gli studenti a inventare questa parola d'ordine, che era stata usata per la prima volta dai minatori in sciopero negli anni 1947-48, subito dopo che il ministro socialista dell'interno aveva istituito, e si era rivolto a queste nuove forze dell'ordine per porre fine allo sciopero. All'inizio dello sciopero generale, a metà maggio, il comitato di azione Lavoratori-Studenti della periferia di Censier, diede il compito specifico di collegare l'università e le fabbriche. Censier era un po' al di fuori dei sentieri battuti dai giornalisti, più interessati alla Sorbona e al teatro dell'Odéon, questi grandi anfiteatri del delirio verbale. I documenti redatti dal comitato d'azione durante i due mesi di maggio e giugno confermano l'esistenza di una cooperazione tra giovani studenti e operai, durante lo sciopero. Ma a Censier, lo spostamento funzionava nell'altro senso, non erano gli studenti ad andare verso gli operai, ma il contrario. In realtà, gli operai erano attratti dalle enormi possibilità materiali offerte da questi luoghi: locali aperti a tutte le ore, ciclostili, manodopera sempre disponibile per i collegamenti, per i lavori di stampa, per i dibattiti, ecc. Era uno spazio diverso nei confronti della vita sindacale nelle fabbriche, dove gli operai dovevano fare i conti con inspiegabili interdizioni, reticenze, controlli, sorveglianze e manovre di ogni genere. Censier, dove si potevano redigere rapporti, nominare portavoce, fornire agli scioperanti un aiuto materiale , divenne un centro di coordinamento e di collegamento la cui efficacia fu, talvolta, reale.
La sua esistenza previene ogni diniego ironico della mitologia operaia spesso attribuita al Maggio, così come contraddice l'idea che lo sciopero si sia sviluppato in modo autonomo, senza alcun legame con il movimento studentesco come se la loro simultaneità fosse stata pura coincidenza.
note:
(1) Psicanalista, autore di «Mai 68 raconté aux enfants. Contribution à la critique de l'inintelligence organisée», Le Débat, n° 51, settembre-novembre 1988.
(2) Militante nel 1968, quindi giornalista a Libération, Martine Storti ha scritto Un chagrin politique: de Mai 68 aux annèes 80, L'Harmattan, Parigi, 1996, p. 52.
(3) «Évolution du procès de travail et lutte de classe», Critique communiste, 1978. Dirigente maoista, Robert Linhart ha tratto dalla sua esperienza in fabbrica un libro intitolato L'Établi, ed. de Minuit, Parigi, 1978.
(4) Jenny Chomienne, citata da Virginie Linhart, in Volontaires pour l'usine, Vies d'établis, 1967-1977, Seuil, Parigi, 1994, p.. 102.
(5) Jean-Pierre Thorn, citato da Linhart in Volontaires..., cit.
pp. 190-191.
(6) Claire, insegnante, citata di Libération, 19 maggio 1978.
(7) Un militante anonimo, citato da Bruno Giorgini in Que sont mes amis devenus? (Mai 68-été 78, dix ans après), Savelli, Parigi, 1978, p. 50.
(8) Danièle e Jacques Rancière, militanti maoisti, poi filosofi, «La Lègende des philosophes (les intellectuels de la traversée du gauchisme)», Révoltes logiques, 1978.
(9) Nicole Linhhart, citata da Linhart, in Volontaires, op. cit., p. 119.
(10) Georges, operaio-ingegnere, citato da Michèle Manceaux, in Les Maos de France, Gallimard, Paris, 1972 p. 63.
(11) Yves Cohen, citato da Linhart, in Volontaires, op.cit., p. 181.
(12) Danièle Léon, citato da Linhart, in Volontaires, op.cit., p.
123.
(13) Militante trotskista e filosofo.
(14) Crs: membro di una «Compagnie Répubblicaine de Sécurité» [N.d.T.].
(Traduzione di M.G.G.)
manifesto.it
I link ai giornali degli articoli spesso cambiano e diventa difficile se non impossibile recuperare i testi ai quali si riferivano. Questo è l'archivio on-line del blog Giornale-NOTIZIEOGGI
5.3.05
4.3.05
Grillo ruggente
ATTUALITÀ PERSONAGGI / IL SIGNORE DELLA SATIRA 3 marzo 2005 75
Politici. Industriali. Manager. Ma anche televisioni e giornali. Il comico
lancia un affondo a tutto campo. E scommette su Internet:
“Nella guerra mondiale per l’informazione solo il Web ci può salvare”
colloquio con Beppe Grillo di Andrea Scanzi
Nel 1991, un sondaggio Abacus
attestò che Beppe Grillo era il
comico più famoso d’Italia. Oggi,
a giudicare dai Palasport
puntualmente pieni, non molto
è cambiato. Eppure Grillo non fa più televisione.
Da molto tempo. Niente più “Te
la do io l’America”, “Fantastico”. Niente
più Sanremo. Niente più “Discorsi all’umanità”.
Da 15 anni, Grillo porta avanti
una satira che prima di lui non esisteva,
quella economico-ecologica. Un monologo
a stagione, sempre in giro per l’Italia, 5
mila spettatori a serata. Il Tour 2005, varato
a Pordenone, si chiama “Beppe Grillo.
it”. Al centro, una convinzione: solo la
Rete può salvarci.
Perché crede che Internet sia così importante?
«Siamo nel mezzo della terza guerra mondiale:
quella dell’informazione. L’unico
modo per salvarsi è sapere. Conoscere le
notizie. Noi abbiamo un mezzo, la Rete,
che ci consente di arrivare dritti alle notizie.
La politica, le televisioni, i giornali arrivano
sempre dopo. Quando c’è stato lo
tsunami, Fini andava in tv e faceva lo sguardo
di circostanza come rappresentante dell’unità
di crisi. Gli passavano i bigliettini e
diceva che i dispersi erano 18, poi 16, poi
10. Nel frattempo bastava collegarsi a Internet
e c’era tutta la lista dei ricoverati negli
ospedali. Fini non rappresentava l’unità
di crisi: rappresentava la crisi».
Non nutre fiducia nella politica.
«I politici sono superati. Non ci rappresentano
più. La sinistra mi mette tristezza. Per
vincere basterebbe che si chiudesse in una
beauty farm per un anno e non avesse alcun
contatto con l’esterno. Non dovrebbe
parlare mai. Vincerebbe ovunque. E invece
parla. Io vorrei una sinistra che non replica
a Calderoli, perché a uno come Calderoli
non devi replicare: devi guardarlo con
sbigottimento, solo questo. La sinistra si interroga
sui leader, ma noi non siamo bambini,
siamo adulti. Non abbiamo bisogno
di leader. Ma di programmi, di progetti sui
grandi temi: energia e informazione».
Nello spettacolo se la prende con Fassino.
«Fassino è una brava persona, lo è anche
Bertinotti. Bertinotti voleva mettermi in
contatto con Rifkin, quello della macchina
a idrogeno. Gli ho detto di dargli la mia
mail, l’indirizzo del mio blog, www.beppegrillo.
it. Ho sentito un silenzio: “Non mi
puoi dare il telefono?”. Poi ha aggiunto:
“Come si scrive www?”. Questo dà il senso
di quanto certi politici siano inadeguati.
A “Porta a Porta” Fassino aveva davanti
Paolo Scaroni, l’amministratore
delegato Enel,
sotto inchiesta a Rovigo
per disastro ambientale e
condannato anni fa per
corruzione perché con la
sua Techno-Int pagava
tangenti proprio all’Enel:
viste le credenziali,
questo governo non poteva
non fargli fare carriera.
Scaroni ha detto
che “il futuro è il nucleare, il nucleare è sicuro”.
Io speravo che Fassino gli saltasse
alla gola e con la forza dei suoi tre globuli
rossi lo strozzasse, ma ha replicato timidamente.
Siamo costretti a scegliere tra una
destra che vuole il nucleare e una sinistra rimasta
al carbone. Tra il peggio e il leggermente
meno peggio. Io non voglio votare
pro o contro Fassino. Voglio votare pro o
contro Scaroni, Tronchetti, Romiti, perché
è questa la gente che mi cambia la vita».
Perché ha aperto il blog?
«Perché è una cosa viva, la gente lascia messaggi.
Da qui alla fine manderemo un milione
di mail a Ciampi, chiedendo il ritiro
delle truppe dall’Iraq. Gustavo Selva, il presidente
della commissione Esteri della Camera,
ha candidamente affermato a “Libero”
che siamo andati in Iraq per fare una
guerra, e che la storia dell’intervento umanitario
era una ipocrisia per ingannare
Ciampi. Per una cosa così, ovunque sarebbero
scesi in piazza. Da noi no. Provo sgomento
per la morte dell’elicotterista italiano,
ma non puoi chiamare “costruttore di
pace” un mitragliere. Il
futuro è in siti di democrazia
diretta come Wikipedia,
Oracle, Soaw. Cose
nate per scherzo, dentro
un garage, come fu per la
Apple e Google. Di fronte
alle torture in Iraq, Usa e
Inghilterra hanno parlato
di “mele marce”. Non è
così. Da Internet mi sono
scaricato l’Exploitation
Training Manual, un trattato
dell’83 che è il manuale del perfetto
torturatore. Lo applicano a Fort
Benning, una scuola in Georgia che
ha “laureato” anche Noriega. Nel
manuale, con linguaggio manageriale, c’è
scritto tutto: come deve essere la prigione,
come si tortura un uomo colto, come si tortura
un ottimista».
Dopo il crack Parmalat, lei è diventato il più
grande consulente globale di finanza in Italia.
«Ma io faccio il comico, non dovrebbe essere
così. Del caso Parmalat parlavo da sette
anni, la Finanza mi ha prelevato alle 9 di
mattina e chiesto come facevo a sapere.
Semplice: avevo fatto delle ricerche. Già
che c’ero, gli ho portato il materiale su Mediaset
e Telecom, così magari si portavano
avanti nel lavoro. La Cnn americana ha trasmesso
quattro volte nel mondo una mia
intervista di 15 minuti nelle sue news. In
Italia non mi ha cercato nessuno».
Parla spesso di «capitalismo senza capitali» come
grande male dell’economia italiana.
«In Italia i grandi manager comprano le
azioni delle loro società, le pagano meno e
poi le rivendono a un prezzo maggiorato.
Rubano con le stock option. È un meccanismo
facile, perché il consulente finanziario
che ti controlla i bilanci è lo stesso che
prima ti ha insegnato a falsificarli. In America
becchi 24 anni per falso in bilancio, da
noi lo depenalizzano, la chiamano “contabilità
creativa”. Da noi le leggi vengono fatte
dai fuorilegge. In trent’anni abbiamo
cancellato tutte le nostre industrie. In Bangladesh
le banche hanno salvato i poveri
dagli aguzzini, da noi fanno il contrario. Il
“Time” ha dedicato la copertina al nostro
capitalismo malato, e a me tocca vedere
Geronzi che va dal papa e afferma di condividere
i suoi “principi evangelici”. I grandi
capitalisti come Olivetti e Piaggio non
esistono più, ora abbiamo Lapo Elkann,
che agli azionisti dice che “la situazione
non è poi così male, abbiamo fatto una
joint venture con l’Iran per il lancio nel
2005 di una macchina rivoluzionaria: la
Zigulì”. La General Motors ha pagato un
miliardo e mezzo per andarsene, e alla Fiat
esultano. Sarebbe come se io andassi a
comprare una Fiat Croma, me la offrissero
per 10 mila euro e io pagassi non per comprarla,
ma per lasciargliela lì. Questi manager
andrebbero studiati nelle scuole, per
imparare a capire cosa non si deve fare. I
capitalisti di oggi non comprano le società:
mettono nei consigli d’amministrazione i
loro uomini. Le spolpano dall’interno e poi
se ne vanno, lasciando debiti spaventosi.
Ecco il capitalismo senza capitali. Telecom
ha nove volte i debiti di Parmalat. Il 40 per
cento delle aziende quotate in Borsa ha cinque
consiglieri d’amministrazione in comune.
È sempre la stessa gente. Si parla di
conflitto d’interessi, ma ormai è un interesse
senza conflitto. Berlusconi gestisce, senza
possederle, sette società, tra cui Mediaset,
Mondadori, Mediolanum, Sirti e Data
Service. Ovvero le tv, l’energia, l’informazione.
Con questa tecnica Tronchetti Provera
ha in mano 41 società. In un pomeriggio,
con un mio amico, ho buttato giù il
Grillo Index. L’Italia è 74esima come libertà
di stampa e 83esima come indice di stabilità
ambientale. E con Berlusconi, il “Portatore
Nano di democrazia”, l’indice di
competitività è franato al 51esimo posto».
Lei è stato attaccato dai ricercatori, ha detto che
certa ricerca non va finanziata.
«Non l’ho detto io, l’hanno detto i direttori
delle 17 più importanti riviste scientifiche
mondiali. I ricercatori puri non esistono
più, sono a libro paga delle case farmaceutiche.
E le case farmaceutiche hanno bisogno
di nuove malattie. I nuovi malati di oggi
sono i sani. In America hanno inventato
una malattia che colpirebbe i bambini “sovraeccitati”.
Essere casinisti a sei anni è diventata
una malattia. A questi bambini
danno una pasticca al giorno, il Ritalin della
Novartis, che è un metilfemidato, simile
all’anfetamina. Senza dirlo a nessuno, nel
marzo 2004 un comitato
mondiale di saggi, quasi tutti
a libro paga dei colossi farmaceutici,
ha abbassato la soglia
delle tre maggiori patologie:
diabete, colesterolo alto,
ipertensione. Significa che se tu il 28 febbraio
2004 eri sano, il 2 marzo con le stesse
analisi diventavi malato. Così hanno inventato
centinaia di milioni di nuovi malati.
Solo con la Rete riesci a sapere queste cose.
Certi farmaci preventivi sono peggio
della guerra preventiva. La prevenzione è il
più grande affare della storia, devi essere informato,
altrimenti muori come uno stupido.
Berlusconi ha donato 10 miliardi per la
ricerca sul tumore al pancreas. Bello. Poi
però ti informi e scopri che il tumore al pancreas
è rarissimo, colpisce 11 casi su 100
mila ed è incurabile. Perché, allora, dovrei
farmi il controllo? Dopo i 50 anni ti dicono
di fare per forza il Psa, l’esame alla prostata,
ma non ti dicono che il Psa nei 50 per
cento dei casi sbaglia e non distingue tumore
da prostata ingrossata. Quando ti
fanno la biopsia, prelevano 18 tessuti diversi
dalla prostata, ma non è detto che proprio
in quei 18 ci sia il tumore. E 20 persone
su cento, dopo la biopsia, restano impotenti.
Alle donne dicono di fare la mammografia.
Su mille persone, 40 hanno il tumore.
A due salverai la vita, alle altre 38 no.
Però anche qui non ti dicono che c’è un 10
per cento di falsi negativi e falsi positivi».
Tutte cose che nello spettacolo dice.
«Il mio monologo si chiude così: “Con la
Rete aspetteremo l’avvento di un nuovo Rinascimento”.
È una speranza».
Politici. Industriali. Manager. Ma anche televisioni e giornali. Il comico
lancia un affondo a tutto campo. E scommette su Internet:
“Nella guerra mondiale per l’informazione solo il Web ci può salvare”
colloquio con Beppe Grillo di Andrea Scanzi
Grillo ruggente
Le case farmaceutiche hanno
bisogno di nuove malattie. I
nuovi malati di oggi sono i sani
L’espresso 74
Politici. Industriali. Manager. Ma anche televisioni e giornali. Il comico
lancia un affondo a tutto campo. E scommette su Internet:
“Nella guerra mondiale per l’informazione solo il Web ci può salvare”
colloquio con Beppe Grillo di Andrea Scanzi
Nel 1991, un sondaggio Abacus
attestò che Beppe Grillo era il
comico più famoso d’Italia. Oggi,
a giudicare dai Palasport
puntualmente pieni, non molto
è cambiato. Eppure Grillo non fa più televisione.
Da molto tempo. Niente più “Te
la do io l’America”, “Fantastico”. Niente
più Sanremo. Niente più “Discorsi all’umanità”.
Da 15 anni, Grillo porta avanti
una satira che prima di lui non esisteva,
quella economico-ecologica. Un monologo
a stagione, sempre in giro per l’Italia, 5
mila spettatori a serata. Il Tour 2005, varato
a Pordenone, si chiama “Beppe Grillo.
it”. Al centro, una convinzione: solo la
Rete può salvarci.
Perché crede che Internet sia così importante?
«Siamo nel mezzo della terza guerra mondiale:
quella dell’informazione. L’unico
modo per salvarsi è sapere. Conoscere le
notizie. Noi abbiamo un mezzo, la Rete,
che ci consente di arrivare dritti alle notizie.
La politica, le televisioni, i giornali arrivano
sempre dopo. Quando c’è stato lo
tsunami, Fini andava in tv e faceva lo sguardo
di circostanza come rappresentante dell’unità
di crisi. Gli passavano i bigliettini e
diceva che i dispersi erano 18, poi 16, poi
10. Nel frattempo bastava collegarsi a Internet
e c’era tutta la lista dei ricoverati negli
ospedali. Fini non rappresentava l’unità
di crisi: rappresentava la crisi».
Non nutre fiducia nella politica.
«I politici sono superati. Non ci rappresentano
più. La sinistra mi mette tristezza. Per
vincere basterebbe che si chiudesse in una
beauty farm per un anno e non avesse alcun
contatto con l’esterno. Non dovrebbe
parlare mai. Vincerebbe ovunque. E invece
parla. Io vorrei una sinistra che non replica
a Calderoli, perché a uno come Calderoli
non devi replicare: devi guardarlo con
sbigottimento, solo questo. La sinistra si interroga
sui leader, ma noi non siamo bambini,
siamo adulti. Non abbiamo bisogno
di leader. Ma di programmi, di progetti sui
grandi temi: energia e informazione».
Nello spettacolo se la prende con Fassino.
«Fassino è una brava persona, lo è anche
Bertinotti. Bertinotti voleva mettermi in
contatto con Rifkin, quello della macchina
a idrogeno. Gli ho detto di dargli la mia
mail, l’indirizzo del mio blog, www.beppegrillo.
it. Ho sentito un silenzio: “Non mi
puoi dare il telefono?”. Poi ha aggiunto:
“Come si scrive www?”. Questo dà il senso
di quanto certi politici siano inadeguati.
A “Porta a Porta” Fassino aveva davanti
Paolo Scaroni, l’amministratore
delegato Enel,
sotto inchiesta a Rovigo
per disastro ambientale e
condannato anni fa per
corruzione perché con la
sua Techno-Int pagava
tangenti proprio all’Enel:
viste le credenziali,
questo governo non poteva
non fargli fare carriera.
Scaroni ha detto
che “il futuro è il nucleare, il nucleare è sicuro”.
Io speravo che Fassino gli saltasse
alla gola e con la forza dei suoi tre globuli
rossi lo strozzasse, ma ha replicato timidamente.
Siamo costretti a scegliere tra una
destra che vuole il nucleare e una sinistra rimasta
al carbone. Tra il peggio e il leggermente
meno peggio. Io non voglio votare
pro o contro Fassino. Voglio votare pro o
contro Scaroni, Tronchetti, Romiti, perché
è questa la gente che mi cambia la vita».
Perché ha aperto il blog?
«Perché è una cosa viva, la gente lascia messaggi.
Da qui alla fine manderemo un milione
di mail a Ciampi, chiedendo il ritiro
delle truppe dall’Iraq. Gustavo Selva, il presidente
della commissione Esteri della Camera,
ha candidamente affermato a “Libero”
che siamo andati in Iraq per fare una
guerra, e che la storia dell’intervento umanitario
era una ipocrisia per ingannare
Ciampi. Per una cosa così, ovunque sarebbero
scesi in piazza. Da noi no. Provo sgomento
per la morte dell’elicotterista italiano,
ma non puoi chiamare “costruttore di
pace” un mitragliere. Il
futuro è in siti di democrazia
diretta come Wikipedia,
Oracle, Soaw. Cose
nate per scherzo, dentro
un garage, come fu per la
Apple e Google. Di fronte
alle torture in Iraq, Usa e
Inghilterra hanno parlato
di “mele marce”. Non è
così. Da Internet mi sono
scaricato l’Exploitation
Training Manual, un trattato
dell’83 che è il manuale del perfetto
torturatore. Lo applicano a Fort
Benning, una scuola in Georgia che
ha “laureato” anche Noriega. Nel
manuale, con linguaggio manageriale, c’è
scritto tutto: come deve essere la prigione,
come si tortura un uomo colto, come si tortura
un ottimista».
Dopo il crack Parmalat, lei è diventato il più
grande consulente globale di finanza in Italia.
«Ma io faccio il comico, non dovrebbe essere
così. Del caso Parmalat parlavo da sette
anni, la Finanza mi ha prelevato alle 9 di
mattina e chiesto come facevo a sapere.
Semplice: avevo fatto delle ricerche. Già
che c’ero, gli ho portato il materiale su Mediaset
e Telecom, così magari si portavano
avanti nel lavoro. La Cnn americana ha trasmesso
quattro volte nel mondo una mia
intervista di 15 minuti nelle sue news. In
Italia non mi ha cercato nessuno».
Parla spesso di «capitalismo senza capitali» come
grande male dell’economia italiana.
«In Italia i grandi manager comprano le
azioni delle loro società, le pagano meno e
poi le rivendono a un prezzo maggiorato.
Rubano con le stock option. È un meccanismo
facile, perché il consulente finanziario
che ti controlla i bilanci è lo stesso che
prima ti ha insegnato a falsificarli. In America
becchi 24 anni per falso in bilancio, da
noi lo depenalizzano, la chiamano “contabilità
creativa”. Da noi le leggi vengono fatte
dai fuorilegge. In trent’anni abbiamo
cancellato tutte le nostre industrie. In Bangladesh
le banche hanno salvato i poveri
dagli aguzzini, da noi fanno il contrario. Il
“Time” ha dedicato la copertina al nostro
capitalismo malato, e a me tocca vedere
Geronzi che va dal papa e afferma di condividere
i suoi “principi evangelici”. I grandi
capitalisti come Olivetti e Piaggio non
esistono più, ora abbiamo Lapo Elkann,
che agli azionisti dice che “la situazione
non è poi così male, abbiamo fatto una
joint venture con l’Iran per il lancio nel
2005 di una macchina rivoluzionaria: la
Zigulì”. La General Motors ha pagato un
miliardo e mezzo per andarsene, e alla Fiat
esultano. Sarebbe come se io andassi a
comprare una Fiat Croma, me la offrissero
per 10 mila euro e io pagassi non per comprarla,
ma per lasciargliela lì. Questi manager
andrebbero studiati nelle scuole, per
imparare a capire cosa non si deve fare. I
capitalisti di oggi non comprano le società:
mettono nei consigli d’amministrazione i
loro uomini. Le spolpano dall’interno e poi
se ne vanno, lasciando debiti spaventosi.
Ecco il capitalismo senza capitali. Telecom
ha nove volte i debiti di Parmalat. Il 40 per
cento delle aziende quotate in Borsa ha cinque
consiglieri d’amministrazione in comune.
È sempre la stessa gente. Si parla di
conflitto d’interessi, ma ormai è un interesse
senza conflitto. Berlusconi gestisce, senza
possederle, sette società, tra cui Mediaset,
Mondadori, Mediolanum, Sirti e Data
Service. Ovvero le tv, l’energia, l’informazione.
Con questa tecnica Tronchetti Provera
ha in mano 41 società. In un pomeriggio,
con un mio amico, ho buttato giù il
Grillo Index. L’Italia è 74esima come libertà
di stampa e 83esima come indice di stabilità
ambientale. E con Berlusconi, il “Portatore
Nano di democrazia”, l’indice di
competitività è franato al 51esimo posto».
Lei è stato attaccato dai ricercatori, ha detto che
certa ricerca non va finanziata.
«Non l’ho detto io, l’hanno detto i direttori
delle 17 più importanti riviste scientifiche
mondiali. I ricercatori puri non esistono
più, sono a libro paga delle case farmaceutiche.
E le case farmaceutiche hanno bisogno
di nuove malattie. I nuovi malati di oggi
sono i sani. In America hanno inventato
una malattia che colpirebbe i bambini “sovraeccitati”.
Essere casinisti a sei anni è diventata
una malattia. A questi bambini
danno una pasticca al giorno, il Ritalin della
Novartis, che è un metilfemidato, simile
all’anfetamina. Senza dirlo a nessuno, nel
marzo 2004 un comitato
mondiale di saggi, quasi tutti
a libro paga dei colossi farmaceutici,
ha abbassato la soglia
delle tre maggiori patologie:
diabete, colesterolo alto,
ipertensione. Significa che se tu il 28 febbraio
2004 eri sano, il 2 marzo con le stesse
analisi diventavi malato. Così hanno inventato
centinaia di milioni di nuovi malati.
Solo con la Rete riesci a sapere queste cose.
Certi farmaci preventivi sono peggio
della guerra preventiva. La prevenzione è il
più grande affare della storia, devi essere informato,
altrimenti muori come uno stupido.
Berlusconi ha donato 10 miliardi per la
ricerca sul tumore al pancreas. Bello. Poi
però ti informi e scopri che il tumore al pancreas
è rarissimo, colpisce 11 casi su 100
mila ed è incurabile. Perché, allora, dovrei
farmi il controllo? Dopo i 50 anni ti dicono
di fare per forza il Psa, l’esame alla prostata,
ma non ti dicono che il Psa nei 50 per
cento dei casi sbaglia e non distingue tumore
da prostata ingrossata. Quando ti
fanno la biopsia, prelevano 18 tessuti diversi
dalla prostata, ma non è detto che proprio
in quei 18 ci sia il tumore. E 20 persone
su cento, dopo la biopsia, restano impotenti.
Alle donne dicono di fare la mammografia.
Su mille persone, 40 hanno il tumore.
A due salverai la vita, alle altre 38 no.
Però anche qui non ti dicono che c’è un 10
per cento di falsi negativi e falsi positivi».
Tutte cose che nello spettacolo dice.
«Il mio monologo si chiude così: “Con la
Rete aspetteremo l’avvento di un nuovo Rinascimento”.
È una speranza».
Politici. Industriali. Manager. Ma anche televisioni e giornali. Il comico
lancia un affondo a tutto campo. E scommette su Internet:
“Nella guerra mondiale per l’informazione solo il Web ci può salvare”
colloquio con Beppe Grillo di Andrea Scanzi
Grillo ruggente
Le case farmaceutiche hanno
bisogno di nuove malattie. I
nuovi malati di oggi sono i sani
L’espresso 74
A lezione di tortura: il Congresso USA sostiene la SOA
a cura di School of Americas Watch
La "Scuola delle Americhe" è una scuola di combattimento che insegna ai suoi allievi tecniche di repressione, di spionaggio militare, di interrogatori e di torture. Centinaia di sudamericani sono stati torturati, uccisi, fatti sparire per opera dei diplomati della SOA. Già dal 2000 il Pentagono si è impegnato nella creazione di una cortina di fumo attorno all'organizzazione ignorandone l'operato e mascherandola dietro un nuovo nome.Vi ricordate come i leader del Congresso di entrambi gli schieramenti politici deploravano le torture dei prigionieri ad Abu Ghraib come “anti-americane”?. Ebbene, giovedì scorso, la Casa Bianca ha approvato l’azione di governo che ripristina l’istituzione americana dei più infamanti insegnamenti di torture, conosciuta come la School of Americas (Scuola delle Americhe, SOA), dove abusi illegali, fisici e psicologici, sui prigionieri di tutto il mondo sono stati eseguiti per anni.Reliquia della Guerra Fredda, la SOA fu in origine istituita per militari, polizia e ufficiali dell’intelligence americana impegnati a sud del confine in lotta contro gli insorti di Washington etichettati come “comunisti”. In realtà, i diplomati alla SOA sono stati artefici di numerosi repressione politiche, sostenendo i regimi dittatoriali appoggiati dal Pentagono.I manuali sugli interrogatori, a lungo usati dalla SOA, furono resi pubblici a maggio dall’Archivio della Sicurezza Nazionale, un gruppo di ricerca indipendente, e pubblicati sul sito web dopo che furono declassificati, conformemente Freedom Information Act, su richiesta, tra gli altri, del Baltimore Sun. Nel distribuire i manuali, la NSA osservò che “descrivevano 'tecniche coercitive' come quelle utilizzate per maltrattare i detenuti ad Abu Ghraib”. Le tecniche di tortura di Abu Ghraib sono state testate dai diplomati alla SOA – sette dei manuali sugli interrogatori dell’esercito americano che furono tradotti in spagnolo vennero poi utilizzati in esercitazioni della SOA e distribuiti agli allievi, offrendo istruzioni sulle torture, sulle tecniche di combattimento e di assassinio. Come ha scritto il dottor Miles Schuman, un medico del Centro canadese per le Vittime delle Torture che ha documentato casi di tortura e aiutato le loro vittime, il 14 maggio sul Globe and Mail, sotto la dicitura “Abu Ghraib: La regola, non l'eccezione”.“Il cappuccio nero che copre i volti dei prigionieri nudi ad Abu Ghraib era noto "nelle camera delle torture guatemalteche e salvadoregne come la capuchi". Il letto metallico sul quale i detenuti, denudati e incappucciati, venivano legati in una posizione da crocifissione era la cama (letto, NdT), nominativo per la prima volta usato in riferimento a un prigioniero cileno che sopravvisse al regime del Generale Augusto Pinochet. Nel suo caso, gli elettrodi venivano attaccati alle braccia, alle gambe e ai genitali, così come sono stati attaccati ai detenuti iracheni, poi messi su un box e minacciati con scosse elettriche se cadevano. Gli uomini iracheni venivano legati, nudi, a gattoni sul pavimento e tenuti a guinzaglio da una giovane recluta americana sorridente; mi ricorda il figlio di un contadino ribelle che raccontava le torture agonizzanti, compiute a Port au Prince nel 1984 per mano dei Tonton Macoutes (polizia del dittatore haitiano, NdT), su ordine dell’americano John Claude (Baby Doc) Duvalier – il braccio destro del dittatore. Il fatto di fotografare le torture ad Abu Ghraib per umiliare e per zittire si può compare all’esperienza di una missionaria americana, Suor Diana Ortiz, la quale, nel 1989, fu ripetutamente torturata e violentata da una banda sotto la supervisione di un americano, a causa della sua testimonianza prima del Congresso sui Diritti Umani.La lunga storia delle torture compiute in America Latina da delinquenti abilitati degli Stati Uniti sotto il comando degli ufficiali della SOA è stata ampiamente documentata da organizzazioni sui diritti umani quali Amnesty International (nel suo rapporto del 2002 intitolato “Potere Impareggiabile - Unmatched Power”) e nei libri quali "Hidden Terrors" di A.J. Langguth, "Rogue State" di William Blum, e "A Miracle, a Universe" di Lawrence Weschler. Di fatto, ciascun rapporto sugli abusi dei diritti umani in America Latina vengono messi in risalto quelli compiuti da ufficiali della SOA. Un rapporto della Commissione Verità delle Nazioni Unite afferma che oltre due terzi degli ufficiali del Salvador citati per abuso sono diplomati della SOA. Il 40% dei membri del Gabinetto sotto tre dittature sanguinarie del Guatemala erano diplomati della SOA; e la lista continua...Nel 2000 il Pentagono si impegnò in un tentativo di “smoke-screen” (cortina di fumo, NdT) per dare alla SOA un nuovo volto cambiando il suo nome in Western Hemispheric Institute for Security Cooperation (WHINSEC) come parte di un programma di riforma. Ma, come ha detto il Senatore repubblicano Paul Coverdale della Georgia (dove è localizzata la SOA - WHINSEC ) a quel tempo, i cambiamenti alla scuola erano principalmente superficiali.La campagna lobbista per chiudere la SOA-WHINSEC è stata condotta dalla School of Americas Watch, organizzazione fondata da attivisti religiosi dopo l’omicidio, nel 1990, di quattro monache americane compiuto da squadre della morte del Salvador sotto il comando di uno dei più scellerati diplomati della SOA: il colonnello Roberto D’Aubuisson. Per timore che si pensi che questi collegamenti atroci alla scuola appartengano tutti a un lontano passato, la SOA Watch ha documentato una gran quantità di scandali successivi alla cosiddetta riforma del Pentagono. Ecco alcuni esempi:Nel giugno del 2001 il colonnello Byron Lima Estrada, un diplomato della SOA, che ha guidato la sanguinaria unità dell’intelligence D-2 del Guatemala, fu incriminato per l’omicidio del vescovo del Guatemala Gerardi – due giorni dopo il vescovo diffuse un rapporto nel quale si concludeva che l’esercito era responsabile per la maggioranza dei 200,000 morti durante alla guerra civile del paese. Nell’aprile del 2002 due diplomati della SOA (il comandante in capo dell’esercito Efrain Vasquez e il generale Ramirez Poveda) contribuirono a realizzare un golpe, non andato a buon fine, in Venezuela. Il famigerato Otto Reich, un fallito funzionario dell’amministrazione Bush che sedette alla rinominata scuola dei Board of Visitors, incontrò i generali nei mesi precedenti al golpe.Nel giugno del 2002, la polizia colombiana arrestò il diplomato della SOA John Fredy Jimenez per l’omicidio dell’arcivescovo Isaias Duarte nel marzo dello stesso anno.Nel 2002 il capitano boliviano Filiman Rodriguez fece un corso d'addestramento per ufficiali di 49 settimane presso la WHINSEC. Ma nel 1999 fu ritenuto responsabile per il rapimento e le torture compiute su Waldo Albarracin, poi divenuto direttore dell’Assemblea Popolare per i Diritti Umani per conto della Commissione della Camera dei Deputati della Bolivia. Nel 2003 il colonnello salvadoregno Francisco del Cid Diaz era un allievo della WHINSEC. Ma lo stesso colonnello comandò un’unità che uccise, nel 1983, 16 membri della cooperativa Los Hojas dell’Associazione Nazionale degli Indigeni e gettò i loro corpi nel fiume . Nel 1992 la Commissione Inter-Americana OAS sui Diritti Umani ordinò il processo del colonnello Cid Diaz per questi omicidi. Il rappresentante Jim McGovern ha guidato l’opposizione alla Casa Bianca contro la SOA-WHINSEC, ma il suo emendamento per le Operazioni Estere che raccolgono denaro sporco per la scuola (che aveva 128 sponsor) è stato bloccato la settimana scorsa dopo un accordo bipartisan che limitava il numero degli emendamenti che possono pervenire alla Casa Bianca. L’ultima occasione per fermare il denaro della scuola quest’anno, dipende dal solo Senato - ma quando vengono chiamati in causa i senatori Boxer e Feinstein, in passato critici verso la SOA, per chiedere loro quali piani hanno per il futuro, la risposta è un assordante silenzio proveniente dai loro uffici. I nostri rappresentanti eletti non possono reclamare che non conoscono nulla riguardo al record di torture perpetrate dalla scuola. Questo episodio fa venire in mente l’osservazione di Mark Twain, il quale affermava che “non esiste nessuna, differente, classe criminale americana, tranne che il Congresso”.
Fonte: http://www.soaw.org/new/newswire_detail.php?id=474 Tradotto da Marta Cerpelloni per Nuovi Mondi MediaFor Fair Use Only
La "Scuola delle Americhe" è una scuola di combattimento che insegna ai suoi allievi tecniche di repressione, di spionaggio militare, di interrogatori e di torture. Centinaia di sudamericani sono stati torturati, uccisi, fatti sparire per opera dei diplomati della SOA. Già dal 2000 il Pentagono si è impegnato nella creazione di una cortina di fumo attorno all'organizzazione ignorandone l'operato e mascherandola dietro un nuovo nome.Vi ricordate come i leader del Congresso di entrambi gli schieramenti politici deploravano le torture dei prigionieri ad Abu Ghraib come “anti-americane”?. Ebbene, giovedì scorso, la Casa Bianca ha approvato l’azione di governo che ripristina l’istituzione americana dei più infamanti insegnamenti di torture, conosciuta come la School of Americas (Scuola delle Americhe, SOA), dove abusi illegali, fisici e psicologici, sui prigionieri di tutto il mondo sono stati eseguiti per anni.Reliquia della Guerra Fredda, la SOA fu in origine istituita per militari, polizia e ufficiali dell’intelligence americana impegnati a sud del confine in lotta contro gli insorti di Washington etichettati come “comunisti”. In realtà, i diplomati alla SOA sono stati artefici di numerosi repressione politiche, sostenendo i regimi dittatoriali appoggiati dal Pentagono.I manuali sugli interrogatori, a lungo usati dalla SOA, furono resi pubblici a maggio dall’Archivio della Sicurezza Nazionale, un gruppo di ricerca indipendente, e pubblicati sul sito web dopo che furono declassificati, conformemente Freedom Information Act, su richiesta, tra gli altri, del Baltimore Sun. Nel distribuire i manuali, la NSA osservò che “descrivevano 'tecniche coercitive' come quelle utilizzate per maltrattare i detenuti ad Abu Ghraib”. Le tecniche di tortura di Abu Ghraib sono state testate dai diplomati alla SOA – sette dei manuali sugli interrogatori dell’esercito americano che furono tradotti in spagnolo vennero poi utilizzati in esercitazioni della SOA e distribuiti agli allievi, offrendo istruzioni sulle torture, sulle tecniche di combattimento e di assassinio. Come ha scritto il dottor Miles Schuman, un medico del Centro canadese per le Vittime delle Torture che ha documentato casi di tortura e aiutato le loro vittime, il 14 maggio sul Globe and Mail, sotto la dicitura “Abu Ghraib: La regola, non l'eccezione”.“Il cappuccio nero che copre i volti dei prigionieri nudi ad Abu Ghraib era noto "nelle camera delle torture guatemalteche e salvadoregne come la capuchi". Il letto metallico sul quale i detenuti, denudati e incappucciati, venivano legati in una posizione da crocifissione era la cama (letto, NdT), nominativo per la prima volta usato in riferimento a un prigioniero cileno che sopravvisse al regime del Generale Augusto Pinochet. Nel suo caso, gli elettrodi venivano attaccati alle braccia, alle gambe e ai genitali, così come sono stati attaccati ai detenuti iracheni, poi messi su un box e minacciati con scosse elettriche se cadevano. Gli uomini iracheni venivano legati, nudi, a gattoni sul pavimento e tenuti a guinzaglio da una giovane recluta americana sorridente; mi ricorda il figlio di un contadino ribelle che raccontava le torture agonizzanti, compiute a Port au Prince nel 1984 per mano dei Tonton Macoutes (polizia del dittatore haitiano, NdT), su ordine dell’americano John Claude (Baby Doc) Duvalier – il braccio destro del dittatore. Il fatto di fotografare le torture ad Abu Ghraib per umiliare e per zittire si può compare all’esperienza di una missionaria americana, Suor Diana Ortiz, la quale, nel 1989, fu ripetutamente torturata e violentata da una banda sotto la supervisione di un americano, a causa della sua testimonianza prima del Congresso sui Diritti Umani.La lunga storia delle torture compiute in America Latina da delinquenti abilitati degli Stati Uniti sotto il comando degli ufficiali della SOA è stata ampiamente documentata da organizzazioni sui diritti umani quali Amnesty International (nel suo rapporto del 2002 intitolato “Potere Impareggiabile - Unmatched Power”) e nei libri quali "Hidden Terrors" di A.J. Langguth, "Rogue State" di William Blum, e "A Miracle, a Universe" di Lawrence Weschler. Di fatto, ciascun rapporto sugli abusi dei diritti umani in America Latina vengono messi in risalto quelli compiuti da ufficiali della SOA. Un rapporto della Commissione Verità delle Nazioni Unite afferma che oltre due terzi degli ufficiali del Salvador citati per abuso sono diplomati della SOA. Il 40% dei membri del Gabinetto sotto tre dittature sanguinarie del Guatemala erano diplomati della SOA; e la lista continua...Nel 2000 il Pentagono si impegnò in un tentativo di “smoke-screen” (cortina di fumo, NdT) per dare alla SOA un nuovo volto cambiando il suo nome in Western Hemispheric Institute for Security Cooperation (WHINSEC) come parte di un programma di riforma. Ma, come ha detto il Senatore repubblicano Paul Coverdale della Georgia (dove è localizzata la SOA - WHINSEC ) a quel tempo, i cambiamenti alla scuola erano principalmente superficiali.La campagna lobbista per chiudere la SOA-WHINSEC è stata condotta dalla School of Americas Watch, organizzazione fondata da attivisti religiosi dopo l’omicidio, nel 1990, di quattro monache americane compiuto da squadre della morte del Salvador sotto il comando di uno dei più scellerati diplomati della SOA: il colonnello Roberto D’Aubuisson. Per timore che si pensi che questi collegamenti atroci alla scuola appartengano tutti a un lontano passato, la SOA Watch ha documentato una gran quantità di scandali successivi alla cosiddetta riforma del Pentagono. Ecco alcuni esempi:Nel giugno del 2001 il colonnello Byron Lima Estrada, un diplomato della SOA, che ha guidato la sanguinaria unità dell’intelligence D-2 del Guatemala, fu incriminato per l’omicidio del vescovo del Guatemala Gerardi – due giorni dopo il vescovo diffuse un rapporto nel quale si concludeva che l’esercito era responsabile per la maggioranza dei 200,000 morti durante alla guerra civile del paese. Nell’aprile del 2002 due diplomati della SOA (il comandante in capo dell’esercito Efrain Vasquez e il generale Ramirez Poveda) contribuirono a realizzare un golpe, non andato a buon fine, in Venezuela. Il famigerato Otto Reich, un fallito funzionario dell’amministrazione Bush che sedette alla rinominata scuola dei Board of Visitors, incontrò i generali nei mesi precedenti al golpe.Nel giugno del 2002, la polizia colombiana arrestò il diplomato della SOA John Fredy Jimenez per l’omicidio dell’arcivescovo Isaias Duarte nel marzo dello stesso anno.Nel 2002 il capitano boliviano Filiman Rodriguez fece un corso d'addestramento per ufficiali di 49 settimane presso la WHINSEC. Ma nel 1999 fu ritenuto responsabile per il rapimento e le torture compiute su Waldo Albarracin, poi divenuto direttore dell’Assemblea Popolare per i Diritti Umani per conto della Commissione della Camera dei Deputati della Bolivia. Nel 2003 il colonnello salvadoregno Francisco del Cid Diaz era un allievo della WHINSEC. Ma lo stesso colonnello comandò un’unità che uccise, nel 1983, 16 membri della cooperativa Los Hojas dell’Associazione Nazionale degli Indigeni e gettò i loro corpi nel fiume . Nel 1992 la Commissione Inter-Americana OAS sui Diritti Umani ordinò il processo del colonnello Cid Diaz per questi omicidi. Il rappresentante Jim McGovern ha guidato l’opposizione alla Casa Bianca contro la SOA-WHINSEC, ma il suo emendamento per le Operazioni Estere che raccolgono denaro sporco per la scuola (che aveva 128 sponsor) è stato bloccato la settimana scorsa dopo un accordo bipartisan che limitava il numero degli emendamenti che possono pervenire alla Casa Bianca. L’ultima occasione per fermare il denaro della scuola quest’anno, dipende dal solo Senato - ma quando vengono chiamati in causa i senatori Boxer e Feinstein, in passato critici verso la SOA, per chiedere loro quali piani hanno per il futuro, la risposta è un assordante silenzio proveniente dai loro uffici. I nostri rappresentanti eletti non possono reclamare che non conoscono nulla riguardo al record di torture perpetrate dalla scuola. Questo episodio fa venire in mente l’osservazione di Mark Twain, il quale affermava che “non esiste nessuna, differente, classe criminale americana, tranne che il Congresso”.
Fonte: http://www.soaw.org/new/newswire_detail.php?id=474 Tradotto da Marta Cerpelloni per Nuovi Mondi MediaFor Fair Use Only
25.2.05
Intervista a Lévi-Strauss
Lévi-Strauss: biografia
«Presto saremo nove miliardi. Questo pianeta che esplode mi disorienta»
di VERONIQUE MORTAIGNE
Claude Lévi-Strauss non voleva accordare un’intervista che riassumesse la sua carriera e il suo pensiero, ma, in occasione dell’Anno del Brasile in Francia, che comincerà in marzo, voleva tornare sul suo rapporto con il «Paese dal legno color brace». Con estrema cortesia, ci riceve nella sua biblioteca, in abito scuro e cravatta con nodo metallico ornato di motivi indigeni - «un banale artigianato», dice. Fra i volumi rilegati, un totem dell’Oceania, molti oggetti asiatici, un rotolo di preghiere tibetane.
Amazzonia: Claude Lévi-Strauss accampato sulla riva del Machado con la scimmietta Lucinda aggrappata alla gamba destra. L'immagine è tratta dal libro «Saudades do Brasil»: la raccolta di foto che l'antropologo scattò in Brasile tra il '35 e il '39, gli anni delle ricerch
Dal 1935, ha insegnato sociologia proprio all’Università di San Paolo. Cosa significa per lei oggi il Brasile?
«Rappresenta l’esperienza più importante della mia vita: per la lontananza e il contrasto, ma anche perché ha determinato la mia carriera. Mi sento profondamente in debito verso questo Paese. L’ho lasciato all’inizio del 1939 e l’ho rivisto solo nel 1985, quando ho accompagnato il presidente Mitterrand in una visita ufficiale di cinque giorni. Sebbene brevissimo, quel viaggio ha suscitato dentro di me una vera e propria rivoluzione mentale: il Brasile era diventato interamente, totalmente, un altro Paese. La città di San Paolo, che avevo conosciuto quando raggiungeva a stento un milione di abitanti, ne contava già più di dieci milioni. Le tracce e le orme dell’epoca coloniale erano scomparse. Era diventata una città spaventosa, con chilometri di torri. Avevo deciso di rivedere, non tanto la casa dove avevo abitato - che probabilmente non esisteva più -, ma almeno la strada che avevo percorso per anni. Invece, ho passato la mattinata bloccato nel traffico senza potervi arrivare».
È tornato dai suoi amici, gli indiani Caduveos, Bororó o Nambicuara che aveva studiato in Brasile?
«Nel 1985 Brasilia era una delle tappe del viaggio presidenziale. Il quotidiano O Estrado de Sao Paulo mi ha proposto di riportarmi presso i Bororó, un viaggio che nel 1935 m’era costato molta fatica ma che, in aereo, si poteva fare in qualche ora. Un mattino siamo quindi saliti su un piccolo aereo che poteva portare solo tre passeggeri: mia moglie, una collega brasiliana ed io. L’aereo ha sorvolato i territori Bororó, e abbiamo addirittura potuto scorgere alcuni villaggi con ancora le loro strutture circolari, ma ciascuno dotato, adesso, di un terreno d’atterraggio. Dopo averli sorvolati, il pilota ci ha detto: potrei atterrare, ma le piste sono così corte che forse non potrei ripartire! Abbiamo quindi rinunciato e siamo rientrati a Brasilia, attraversando un temporale spaventoso. Ho pensato che mai la nostra vita era stata così esposta al rischio, neanche all’epoca delle mie spedizioni. Tutto questo mostrava quanto il Paese fosse cambiato. Quindi, non ho rivisto i Bororó in carne ed ossa, ma il loro territorio; ho sorvolato quel Rio Vermelho, un affluente del fiume Paraguay, che avevo impiegato parecchi giorni a risalire in piroga e che, adesso, era costeggiato da una strada asfaltata».
Si può essere segnati fisicamente e per sempre da un Paese?
«Sicuramente. Come le dicevo, quello che mi ha colpito di più arrivando in Brasile è stata la natura, come la si poteva ancora contemplare sulle pendici della Serra do Mar; poi, quando ho potuto addentrarmi nell’interno, di nuovo, fu una natura così totalmente diversa da quella che avevo conosciuto... Ma esiste anche una dimensione alla quale non sempre prestiamo attenzione e che per me è stata capitale: quella del fenomeno urbano. Quando sono arrivato a San Paolo si diceva che veniva costruita una casa all’ora. E c’era una compagnia britannica che, da quattro o cinque anni soltanto, apriva i territori ad ovest dello Stato di San Paolo. Costruiva una linea ferroviaria e pianificava una città ogni 15 chilometri. Nella prima, la più antica, c’erano 15 mila abitanti, nella seconda cinquemila, nella terza mille, poi 90, poi 40 e, nella più recente, uno soltanto, un francese. In quel periodo, uno dei grandi privilegi del Brasile era di poter assistere, in modo quasi sperimentale, alla formazione di quel fantastico fenomeno umano che è una città. Da noi, la città è il risultato talvolta di una decisione dello Stato, ma soprattutto di milioni di piccole iniziative individuali prese nel corso dei secoli. Nel Brasile degli anni Trenta, tale processo era più breve, si verificava in qualche anno. Certo, poiché praticavo l’etnografia, gli indiani sono stati per me essenziali, ma questa esperienza urbana ha contato molto; un Brasile e l’altro coabitavano, però a debita distanza. Quando sono andato verso il Mato Grosso per la prima volta, Brasilia non esisteva ancora, ma c’era già stato un primo tentativo di creare una città dal nulla, Gioiania, che non è andato in porto. L’altopiano centrale, il Planalto, è magnifico: lì il cielo attrae più d’ogni cosa».
Mario de Andrade aveva immaginato con molto umorismo Macunaïma, un indiano Tapanhuma d’Amazzonia bugiardo e pigro: diventato con il matrimonio imperatore della foresta vergine, sbarcò nella città di San Paolo per recuperare un amuleto prima d’essere trasformato in costellazione, la Grande Orsa. Questo spirito indigeno, questo legame fra città, foresta e mito perdura ancora? Ha seguito la sua evoluzione?
«Seguo l’evoluzione degli indigeni, che allora avevo studiato regolarmente, con il pensiero, e grazie a colleghi molto più giovani di me, come quelli dell’università di Cuiaba, nel Mato Grosso, che fra l’altro lavorano presso i Nambicuara. Mi scrivono e mi mandano i loro lavori. Questi popoli hanno subito sofferenze terribili. Sono stati più o meno sterminati, al punto che solo il 5 o il 10 per cento della popolazione originale era sopravvissuta. Ma quel che accade oggi è d’immenso interesse. Questi popoli si sono messi in contatto fra loro. Ormai sanno quello che per lungo tempo hanno ignorato: non sono più soli sulla scena dell’universo. Sanno che in Nuova Zelanda, in Australia o in Melanesia esistono individui che, in epoche diverse, hanno attraversato le loro stesse difficoltà. Sono consapevoli della loro comune posizione nel mondo. Beninteso, l’etnografia non sarà mai più quella che ho ancora potuto praticare ai miei tempi, quando si trattava di ritrovare testimonianze di credenze, di formazioni sociali, d’istituzioni nate in completo isolamento rispetto alle nostre, che dunque costituivano un apporto insostituibile al patrimonio dell’umanità. Adesso siamo, per così dire, in un regime di "mutua compenetrazione". Andiamo verso una civiltà su scala mondiale, dove probabilmente appariranno certe differenze. Perlomeno, lo speriamo. Differenze che non saranno più le stesse, saranno interne e non più esterne».
La rapidità di spostamento, la velocità di propagazione delle culture, la comunicazione sono fattori determinanti...
«Una volta, con i miei colleghi prendevamo cargo misti che, dopo molti scali, impiegavano diciannove giorni per arrivare in Sud America, fermandosi lungo le coste spagnole, algerine, africane. Del resto, dell’Africa conosco soltanto i luoghi dove abbiamo sostato all’andata e al ritorno dal Brasile».
La fotografia, che lei ha praticato come testimoniano i suoi numerosi cliché pubblicati, può fissare questi mondi perduti?
«Non ho mai dato grande importanza alla fotografia. Fotografavo perché era necessario, ma sempre con la sensazione che fosse una perdita di tempo, una perdita d’attenzione. Eppure, da adolescente, ho amato la fotografia. Mio padre faceva il pittore e si occupava molto di fotografia. Per me, è un mestiere a parte. Il mio, è stato un lavoro da fotografo di livello zero. Nel 1994, ho pubblicato un libro di foto, Saudades do Brasil , che si può tradurre "Nostalgia del Brasile", perché sollecitato. L'editore ha scelto, fra tanti altri, un po’ meno di duecento cliché. Durante la prima spedizione presso i Bororó, mi ero portato una piccolissima cinepresa. Mi è capitato ogni tanto di premere il bottone e di riprendere qualche immagine, ma ben presto ne sono rimasto disgustato perché, con l’occhio dietro all’obbiettivo, non si vede cosa accade e ancor meno si capisce. Ne sono rimasti spezzoni che in totale corrispondono a un’ora di film. Sono stati ritrovati in Brasile, dove li avevo abbandonati, e una volta sono stati mostrati al Beaubourg. Devo confessarle che i film etnologici mi annoiano enormemente».
Lei è un melomane. Mitologiche comincia con un’ouverture e si conclude su un finale. Il Crudo e il cotto , il primo dei quattro volumi di Mitologiche , comincia con il racconto di un canto Bororó, il motivo dello scopritore d’uccelli. Ha analizzato la loro musica?
«No, non sono un etnomusicologo; non ho studiato i loro canti. A volte mi hanno colpito, altre commosso. Una delle mie prime emozioni risale alle cerimonie in occasione del mio arrivo presso i Bororó. Accompagnavano i loro canti agitando certi gingilli con un virtuosismo simile a quello di un grande direttore d’orchestra con la sua bacchetta. Mesi fa ho ricevuto la visita di due indiani Bororó in compagnia di due ricercatori dell’università di Campo Grande del Mato Grosso, dove insegnano. Di loro iniziativa, hanno voluto, nel mio ufficio al Collège de France, cantare e danzare. Ed ecco, appunto, uno dei paradossi in cui viviamo: quei colleghi Bororó conservavano in tutta la loro freschezza e autenticità canti e musiche che avevo udito settant’anni prima. Era veramente commovente. Detto questo, la musica è il più grande mistero con il quale ci confrontiamo. Ai miei tempi, la musica popolare brasiliana era molto gradevole».
Cosa può dirmi sul futuro?
«Non me lo chieda. Siamo in un mondo al quale già sento di non appartenere. Quello che ho conosciuto, che ho amato, aveva un miliardo e mezzo d’abitanti. Il mondo attuale ne conta sei. Non è più il mio. E quello di domani, con nove miliardi di uomini e donne - anche se ci assicurano, per consolarci, che si tratterà del punto più alto della parabola - mi proibisce di fare qualsiasi predizione».
Le Monde/The New York Times Syndicate/Agenzia Volpe
(Traduzione di Daniela Maggioni )
25 febbraio 2005
http://www.corriere.it/Primo_Piano/Esteri/2005/02_Febbraio/25/levistrauss.shtml
L'originale
Claude Lévi-Strauss, grand témoin de l'Année du Brésil
LE MONDE 21.02.05 15h12
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A la veille des célébrations du "pays du bois de braise" en France, l'auteur de "Tristes Tropiques" revient sur sa relation essentielle à ce pays, où il a fait ses premiers pas d'ethnologue. Aujourd'hui, souligne-t-il, la civilisation à l'échelle mondiale a mis fin à ce type de découverte.
L'imbrication de la France et du Brésil n'est-elle pas très ancienne ?
Cette Année du Brésil intervient presque exactement cinq cents ans après le premier contact entre la France et le Brésil lors du voyage du Normand Paulmier de Gonneville. Ce dernier touchait, en 1504, les côtes brésiliennes au sud, quatre ans à peine après le Portugais Pedro Alvares Cabral, qui les avait abordées près de Salvador de Bahia. Ainsi les témoignages les plus anciens que nous possédons sur le Brésil datent du XVIe siècle et sont français.
En 1555, il y eut l'entreprise de l'amiral Villegaignon pour établir une France antarctique, dont a témoigné André Thevet dans son grand ouvrage - Les Singularitez de la France Antarctique, publié en 1557 -. En 1578, Jean de Léry livre l'Histoire d'un voyage faict en la terre du Brésil. Puis, au XVIIe siècle, il y a, plus au nord, les tentatives d'installation de missionnaires. Plus tard, au XVIIIe siècle et au début du XIXe siècle, quand le Brésil devient un empire, on note la présence de peintres français - la mission artistique dépêchée à partir de 1815 par Louis XVIII, où figurait notamment Jean-Baptiste Debret -, qui nous ont laissé beaucoup d'illustrations de ce qu'était la vie à Rio de Janeiro et à l'intérieur du pays.
Bien sûr, il y eut des conflits entre la France et le Brésil, par exemple à propos des territoires voisins de la Guyane française que revendiquaient les deux pays. Mais la fondation de l'université de Sao Paulo au XXe siècle a permis de renouer des contacts très étroits.
C'est précisément à l'université de Sao Paulo que vous êtes allé enseigner la sociologie, dès 1935. Que signifie le Brésil pour vous aujourd'hui ?
Le Brésil représente l'expérience la plus importante de ma vie, à la fois par l'éloignement, le contraste, mais aussi parce qu'il a déterminé ma carrière. Je ressens à l'égard de ce pays une dette très profonde. Cela étant, j'ai quitté le Brésil au début de l'année 1939, et je ne l'ai revu très brièvement qu'en 1985, quand j'ai accompagné le président Mitterrand, qui y faisait une visite d'Etat de cinq jours. Bien que très court, ce séjour a produit en moi une véritable révolution mentale : le Brésil était devenu entièrement, totalement, un autre pays.
Ce Sao Paulo, que j'avais connu à une époque où il atteignait tout juste 1 million d'habitants, en comptait déjà plus de 10 millions. Les traces et les vestiges de l'époque coloniale avaient disparu. Sao Paulo était devenue une cité assez effrayante, hérissée de kilomètres de tours, à tel point que, désireux de revoir non pas la maison où j'avais habité - elle n'existait sans doute plus -, mais la rue où j'avais vécu pendant quelques années, j'ai passé la matinée bloqué dans des embouteillages sans pouvoir y arriver.
L'urbanisation de Sao Paulo en a fait disparaître la nature ; le fleuve Tietê, qui fut fondamental dans la conquête de l'intérieur du Brésil à partir de Sao Paulo, est moribond... Ce relâchement des liens entre l'homme et la nature n'est-il pas une caractéristique de notre époque ?
Même de mon temps, la nature de Sao Paulo avait déjà beaucoup changé. Il y avait eu l'époque du café, et tous les territoires alentour avaient été consacrés à cette industrie agroalimentaire. Mais, de cette nature si forte, il subsistait les flans de la Serra do Mar, entre Sao Paulo et le port de Santos. Et il y avait là, sur quelques kilomètres, une dénivellation de 800 mètres, tellement abrupte que la civilisation avait dédaigné l'endroit, au profit de la forêt vierge. De sorte que, lorsqu'on débarquait à Santos pour monter à Sao Paulo, on avait un contact bref, mais immédiat, avec ce que le Brésil de l'intérieur, à des milliers de kilomètres de là, pouvait encore réserver.
Le lien entre l'homme et la nature s'est peut-être rompu et, en même temps, on peut comprendre que le Brésil, qui s'est développé de manière si considérable, ait à l'égard de la nature la même politique que l'Europe au Moyen Age, c'est-à-dire la détruire pour installer une agriculture.
Etes-vous retourné chez vos amis les Indiens Caduveos, Bororos ou Nambikwaras, que vous aviez étudiés au Brésil ?
En 1985, Brasilia était l'une des étapes du voyage présidentiel. Le quotidien O Estado de Sao Paulo m'a proposé de me ramener chez les Bororos, un voyage qui m'avait beaucoup coûté en 1935, mais qui, en avion, pouvait se faire en quelques heures. Nous sommes donc montés un matin dans un petit avion qui ne pouvait prendre que trois passagers : ma femme, une collègue brésilienne et moi. L'avion est arrivé au-dessus des territoires bororos, nous avons même pu apercevoir quelques villages avec encore leur structure circulaire, mais chacun doté maintenant d'un terrain d'atterrissage. Et, après les avoir survolés, le pilote nous a dit : je pourrais y atterrir, mais les pistes sont si courtes que je ne pourrai peut-être pas repartir ! Nous avons donc renoncé, et nous sommes rentrés à Brasilia en traversant un orage épouvantable.
J'ai pensé que notre vie n'avait jamais été aussi exposée, même à l'époque de mes expéditions. Finalement, nous sommes arrivés juste à temps pour que ma femme se mette en robe du soir et moi en smoking pour assister au grand dîner offert par le président du Brésil au président français. Tout cela montrait à quel point le pays avait changé.
Je n'ai donc pas revu les Bororos en chair et en os, mais j'ai revu leur territoire, j'ai survolé ce Rio Vermelho, un affluent du fleuve Paraguay que j'avais mis plusieurs jours à remonter en pirogue, et j'ai constaté qu'il était maintenant longé par une route asphaltée.
Peut-on être marqué physiquement et à jamais par un pays ?
Sûrement. Mon premier choc en arrivant au Brésil, je vous l'ai dit, a été la nature, telle qu'on pouvait encore la contempler sur les flancs de la Serra do Mar ; puis, quand j'ai pu m'enfoncer dans l'intérieur, ce fut de nouveau une nature si totalement différente de celle que j'avais connue... Mais il y a aussi une dimension à laquelle on ne prête pas toujours attention et qui a été pour moi capitale : celle du phénomène urbain.
Quand je suis arrivé à Sao Paulo, on disait que l'on construisait une maison par heure. Et, à cette époque, il y avait une compagnie britannique qui, depuis quatre ou cinq ans seulement, ouvrait les territoires à l'ouest de l'Etat de Sao Paulo. Elle construisait une ligne de chemin de fer et aménageait une ville tous les 15 kilomètres. Dans la première, la plus ancienne, il y avait 15 000 habitants, dans la deuxième 5 000, dans la troisième 1 000, puis 90, puis 40, et dans la plus récente 1 seul - un Français.
A cette époque, l'un des grands privilèges du Brésil était de pouvoir assister, de manière quasi expérimentale, à la formation de ce fantastique phénomène humain qu'est une ville. Chez nous, la ville résulte certes parfois d'une décision de l'Etat, mais surtout de millions de petites initiatives individuelles prises au cours des siècles. Dans le Brésil des années 1930, on pouvait observer ce processus, raccourci, se produire en quelques années.
Bien sûr, et puisque je pratiquais l'ethnographie, les Indiens ont été pour moi essentiels, mais cette expérience urbaine a tenu une très grande place, et les deux Brésil cohabitaient, mais à bonne distance.
Quand je suis allé vers le Mato Grosso pour la première fois, Brasilia n'existait pas encore, mais il y avait eu une première tentative de créer une ville à partir de rien, Goiania, qui n'a pas abouti. Le plateau central, le Planalto, est magnifique : le ciel y prend toute son importance. C'est un autre ordre de grandeur.
Des romanciers tels qu'Euclides da Cunha - auteur d'Os Sertoes, traduit en français sous le titre de Hautes terres - ont magnifiquement décrit ce Brésil.
J'ai bien connu aussi Mario de Andrade - musicologue, poète, fondateur de la Société d'ethnographie et de folklore du Brésil - : il dirigeait le département culturel de la ville de Sao Paulo. Nous avons été très proches. Son roman Macunaïma est un grand livre.
Mario de Andrade avait imaginé avec beaucoup d'humour Macunaïma, un Indien Tapanhuma d'Amazonie plutôt menteur et paresseux, devenu par son mariage empereur de la forêt vierge, débarquant dans la ville de Sao Paulo pour récupérer une amulette avant d'être transformé en constellation - la Grande Ourse. Cet esprit indigène, ce lien entre ville, forêt et mythe, perdure-t-il ? Avez-vous suivi son évolution ?
Je suis l'évolution des indigènes que j'avais alors étudiés de façon très régulière, par la pensée, et grâce à mes collègues beaucoup plus jeunes que moi, notamment ceux de l'université de Cuiaba, dans le Mato Grosso, qui travaillent entre autres chez les Nambikwaras. Ils m'écrivent, m'envoient régulièrement leurs travaux. Ces peuples ont subi des épreuves terribles. Ils ont été plus ou moins exterminés, au point que seulement 5 % ou 10 % de la population originelle subsistaient. Mais ce qui se produit actuellement est d'un immense intérêt. Ces peuples ont pris des contacts les uns avec les autres. Ils savent désormais ce qu'ils ont longtemps ignoré : ils ne sont plus seuls sur la scène de l'Univers. En Nouvelle-Zélande, en Australie ou en Mélanésie, il existe des gens qui, à des époques différentes, ont traversé les mêmes épreuves qu'eux. Ils prennent donc conscience de leur position commune dans le monde.
Alors, bien entendu, l'ethnographie ne sera plus jamais celle que j'ai pu encore pratiquer de mon temps, où il s'agissait de retrouver des témoignages de croyances, de formations sociales, d'institutions nées en complet isolement par rapport aux nôtres, et constituant donc des apports irremplaçables au patrimoine de l'humanité. Maintenant, nous sommes, si je puis dire, dans un régime de "compénétration mutuelle". Nous allons vers une civilisation à l'échelle mondiale. Où probablement apparaîtront des différences - il faut du moins l'espérer. Mais ces différences ne seront plus de même nature, elles seront internes, non plus externes.
La rapidité de déplacement, la vitesse de propagation des cultures, la communication sont des facteurs déterminants...
Auparavant, nous prenions, mes collègues et moi, des cargos mixtes qui, après beaucoup d'escales, mettaient dix-neuf jours pour arriver en Amérique du Sud, en s'arrêtant sur les côtes espagnoles, algériennes, africaines. De l'Afrique, d'ailleurs, je ne connais vraiment que les haltes que j'y ai faites en allant et revenant du Brésil.
La photographie, que vous avez pratiquée, comme en témoignent vos nombreux clichés publiés, peut-elle fixer ces mondes perdus ?
Je n'ai jamais attaché beaucoup d'importance à la photographie. Je photographiais parce qu'il le fallait, mais avec toujours le sentiment que cela représentait une perte de temps, une perte d'attention. Pourtant, j'ai beaucoup aimé et pas mal pratiqué la photographie dans mon adolescence. Mon père était artiste peintre et bricolait beaucoup la photo. Mais la photographie constitue un métier à part, si je puis dire. Ce que j'ai fait est un travail de photographe au degré zéro. J'ai publié un livre de photos - Saudades do Brasil, que l'on peut traduire par "Nostalgie du Brésil", paru en 1994 - parce que, autour de moi, on a beaucoup insisté. L'éditeur a choisi un peu moins de 200 clichés parmi tant d'autres.
Lors de ma première expédition chez les Bororos, j'avais emporté une très petite caméra portative. Et il m'est arrivé de temps en temps de presser sur le bouton et de tirer quelques images, mais je m'en suis très vite dégoûté, parce que, quand on a l'œil derrière un objectif de caméra, on ne voit pas ce qui se passe et on comprend encore moins. Il en est resté des bribes qui font au total à peu près une heure de morceaux de films. Elles ont été retrouvées au Brésil, où je les avais abandonnées, et ont été montrées une fois au Centre Pompidou. D'ailleurs, je vais vous faire une confession : les films ethnologiques m'ennuient énormément.
Qu'en est-il du Musée de l'Homme ?
Le Musée de l'Homme va vers un nouveau destin. Il a été conçu selon une formule très ambitieuse, mais qui je crois ne répond plus aux réalités du moment. Son objet était d'unir la préhistoire, l'anthropologie physique, l'ethnographie, qui chacune ont depuis pris des voies divergentes. Pour ce qui est de l'ethnographie, le Musée de l'Homme prétendait montrer comment vivaient encore en 1920 et 1930 les peuples lointains qu'allaient étudier les ethnologues.
Cela ne répond plus au présent. Si on veut montrer comment vit aujourd'hui une population mélanésienne, encore inconnue en 1930, il faudrait mettre dans la vitrine des sacs de café, des Toyota à côté de quelques ustensiles traditionnels. Et ce serait une image mensongère. L'idée directrice du futur musée du quai Branly est de recueillir tout ce que ces civilisations ont produit de grand et de beau, en prenant en compte que ce sont des témoignages du passé.
Cela répond très bien au rapport que ces civilisations peuvent et doivent entretenir avec leur passé, et que nous pouvons aujourd'hui entretenir avec elles.
Peut-on considérer qu'un objet coupé de son contexte rituel, communautaire, garde son sens ?
Un masque qui a une fonction rituelle est aussi une œuvre d'art. L'approche esthétique ne me trouble pas du tout. Le Musée du Louvre est avant tout un musée des beaux-arts. Il a donc un esprit, une fonction esthétisants. Cela n'a jamais empêché l'histoire ni la sociologie de l'art de se développer, ni les conservateurs de ce musée d'être de très bons savants. Le fait de susciter l'intérêt ou l'émotion du public à travers de beaux objets ne m'inquiète pas du tout. L'esthétique est une des voies qui lui permettra de découvrir les civilisations qui les ont produits. Et ainsi certains deviendront des historiens, des observateurs, des savants qui se consacreront à ces civilisations.
Vous avez aimé et collectionné des objets au point de comparer les mythes, sujets de vos recherches, à de "très beaux objets que l'on ne se lasse pas de contempler". Les aimez-vous encore ?
J'aime toujours les objets, depuis l'enfance, le bric-à-brac. A une époque, les objets que nous appelions primitifs étaient accessibles aux petites bourses. Avec André Breton par exemple, quand nous étions aux Etats-Unis, nous savions que ces objets étaient aussi beaux que ceux des autres civilisations. Et qu'on pouvait les acquérir pour presque rien. Tous les objets ont maintenant un cours si élevé qu'on ne peut plus que les contempler de loin sans penser les posséder. Si les conditions étaient restées les mêmes, très certainement, je collectionnerais toujours. En 1950, j'ai eu des problèmes personnels et je devais à tout prix acheter un appartement. C'est ainsi que j'ai dû me séparer de ma collection.
Je vois aujourd'hui passer des objets qui m'ont appartenu. Le Quai Branly a acheté un haut de coiffure d'Indien de la côte nord-ouest du Canada, qui se trouvait, je ne sais pourquoi, dans une collection en province. Il y a au Louvre un masque à transformation kwaktiul. On va en revoir d'autres dans l'exposition organisée en mars dans le cadre de l'Année du Brésil au Grand Palais.
Il y aura là aussi des objets que j'ai collectés pour le Musée de l'Homme au cours de mes expéditions. Ceux-ci ont beaucoup souffert pendant la guerre, puis des mauvaises conditions de chauffage. Les coiffures de plumes se sont beaucoup abîmées, les plumes étaient collées avec de la résine ou de la cire. A l'époque où je ramenais mes collections, on s'imaginait qu'il fallait inonder mes boîtes d'un désinfectant dont les vapeurs dissolvent précisément ces résines.
Vous êtes mélomane, Mythologiques commence par une ouverture et se clôt sur un finale. Dans Le Cru et le Cuit, le premier des quatre volumes de Mythologiques, vous commencez par le récit d'un chant bororo - l'air du dénicheur d'oiseau. Avez-vous analysé leur musique ?
Non, pas du tout, je ne suis pas un ethnomusicologue ; je n'ai pas étudié leurs chants. Quelquefois ils m'ont frappé, parfois ils m'ont ému. D'ailleurs une de mes premières émotions a été les cérémonies qui se déroulaient quand je suis arrivé chez les Bororos. Ils accompagnaient leurs chants avec des hochets qu'ils manipulaient avec autant de virtuosité qu'un grand chef d'orchestre sa baguette.
Il se trouve qu'il y a quelques mois j'ai eu la visite de deux Indiens Bororos en compagnie de deux chercheurs de l'université de Campo Grande du Mato Grosso, la plus proche de leur territoire, et où eux-mêmes enseignent. Ils ont voulu pour moi, dans mon bureau du Collège de France, de leur propre initiative, chanter et danser. Eh bien là, c'est précisément l'un de ces paradoxes dans lesquels nous vivons : ces collègues bororos conservaient dans toute leur fraîcheur et toute leur authenticité des chants et une musique que j'avais entendus soixante-dix ans auparavant. C'était très émouvant.
Cela dit, la musique est le plus grand mystère auquel nous soyons confrontés. La musique populaire brésilienne de mon temps était d'ailleurs extrêmement savoureuse.
Que diriez-vous de l'avenir ?
Ne me demandez rien de ce genre. Nous sommes dans un monde auquel je n'appartiens déjà plus. Celui que j'ai connu, celui que j'ai aimé, avait 1,5 milliard d'habitants. Le monde actuel compte 6 milliards d'humains. Ce n'est plus le mien. Et celui de demain, peuplé de 9 milliards d'hommes et de femmes - même s'il s'agit d'un pic de population, comme on nous l'assure pour nous consoler - m'interdit toute prédiction...
Propos recueillis par Véronique Mortaigne
• ARTICLE PARU DANS L'EDITION DU 22.02.05
http://www.lemonde.fr/web/article/0,1-0@2-3246,36-398992,0.html
«Presto saremo nove miliardi. Questo pianeta che esplode mi disorienta»
di VERONIQUE MORTAIGNE
Claude Lévi-Strauss non voleva accordare un’intervista che riassumesse la sua carriera e il suo pensiero, ma, in occasione dell’Anno del Brasile in Francia, che comincerà in marzo, voleva tornare sul suo rapporto con il «Paese dal legno color brace». Con estrema cortesia, ci riceve nella sua biblioteca, in abito scuro e cravatta con nodo metallico ornato di motivi indigeni - «un banale artigianato», dice. Fra i volumi rilegati, un totem dell’Oceania, molti oggetti asiatici, un rotolo di preghiere tibetane.
Amazzonia: Claude Lévi-Strauss accampato sulla riva del Machado con la scimmietta Lucinda aggrappata alla gamba destra. L'immagine è tratta dal libro «Saudades do Brasil»: la raccolta di foto che l'antropologo scattò in Brasile tra il '35 e il '39, gli anni delle ricerch
Dal 1935, ha insegnato sociologia proprio all’Università di San Paolo. Cosa significa per lei oggi il Brasile?
«Rappresenta l’esperienza più importante della mia vita: per la lontananza e il contrasto, ma anche perché ha determinato la mia carriera. Mi sento profondamente in debito verso questo Paese. L’ho lasciato all’inizio del 1939 e l’ho rivisto solo nel 1985, quando ho accompagnato il presidente Mitterrand in una visita ufficiale di cinque giorni. Sebbene brevissimo, quel viaggio ha suscitato dentro di me una vera e propria rivoluzione mentale: il Brasile era diventato interamente, totalmente, un altro Paese. La città di San Paolo, che avevo conosciuto quando raggiungeva a stento un milione di abitanti, ne contava già più di dieci milioni. Le tracce e le orme dell’epoca coloniale erano scomparse. Era diventata una città spaventosa, con chilometri di torri. Avevo deciso di rivedere, non tanto la casa dove avevo abitato - che probabilmente non esisteva più -, ma almeno la strada che avevo percorso per anni. Invece, ho passato la mattinata bloccato nel traffico senza potervi arrivare».
È tornato dai suoi amici, gli indiani Caduveos, Bororó o Nambicuara che aveva studiato in Brasile?
«Nel 1985 Brasilia era una delle tappe del viaggio presidenziale. Il quotidiano O Estrado de Sao Paulo mi ha proposto di riportarmi presso i Bororó, un viaggio che nel 1935 m’era costato molta fatica ma che, in aereo, si poteva fare in qualche ora. Un mattino siamo quindi saliti su un piccolo aereo che poteva portare solo tre passeggeri: mia moglie, una collega brasiliana ed io. L’aereo ha sorvolato i territori Bororó, e abbiamo addirittura potuto scorgere alcuni villaggi con ancora le loro strutture circolari, ma ciascuno dotato, adesso, di un terreno d’atterraggio. Dopo averli sorvolati, il pilota ci ha detto: potrei atterrare, ma le piste sono così corte che forse non potrei ripartire! Abbiamo quindi rinunciato e siamo rientrati a Brasilia, attraversando un temporale spaventoso. Ho pensato che mai la nostra vita era stata così esposta al rischio, neanche all’epoca delle mie spedizioni. Tutto questo mostrava quanto il Paese fosse cambiato. Quindi, non ho rivisto i Bororó in carne ed ossa, ma il loro territorio; ho sorvolato quel Rio Vermelho, un affluente del fiume Paraguay, che avevo impiegato parecchi giorni a risalire in piroga e che, adesso, era costeggiato da una strada asfaltata».
Si può essere segnati fisicamente e per sempre da un Paese?
«Sicuramente. Come le dicevo, quello che mi ha colpito di più arrivando in Brasile è stata la natura, come la si poteva ancora contemplare sulle pendici della Serra do Mar; poi, quando ho potuto addentrarmi nell’interno, di nuovo, fu una natura così totalmente diversa da quella che avevo conosciuto... Ma esiste anche una dimensione alla quale non sempre prestiamo attenzione e che per me è stata capitale: quella del fenomeno urbano. Quando sono arrivato a San Paolo si diceva che veniva costruita una casa all’ora. E c’era una compagnia britannica che, da quattro o cinque anni soltanto, apriva i territori ad ovest dello Stato di San Paolo. Costruiva una linea ferroviaria e pianificava una città ogni 15 chilometri. Nella prima, la più antica, c’erano 15 mila abitanti, nella seconda cinquemila, nella terza mille, poi 90, poi 40 e, nella più recente, uno soltanto, un francese. In quel periodo, uno dei grandi privilegi del Brasile era di poter assistere, in modo quasi sperimentale, alla formazione di quel fantastico fenomeno umano che è una città. Da noi, la città è il risultato talvolta di una decisione dello Stato, ma soprattutto di milioni di piccole iniziative individuali prese nel corso dei secoli. Nel Brasile degli anni Trenta, tale processo era più breve, si verificava in qualche anno. Certo, poiché praticavo l’etnografia, gli indiani sono stati per me essenziali, ma questa esperienza urbana ha contato molto; un Brasile e l’altro coabitavano, però a debita distanza. Quando sono andato verso il Mato Grosso per la prima volta, Brasilia non esisteva ancora, ma c’era già stato un primo tentativo di creare una città dal nulla, Gioiania, che non è andato in porto. L’altopiano centrale, il Planalto, è magnifico: lì il cielo attrae più d’ogni cosa».
Mario de Andrade aveva immaginato con molto umorismo Macunaïma, un indiano Tapanhuma d’Amazzonia bugiardo e pigro: diventato con il matrimonio imperatore della foresta vergine, sbarcò nella città di San Paolo per recuperare un amuleto prima d’essere trasformato in costellazione, la Grande Orsa. Questo spirito indigeno, questo legame fra città, foresta e mito perdura ancora? Ha seguito la sua evoluzione?
«Seguo l’evoluzione degli indigeni, che allora avevo studiato regolarmente, con il pensiero, e grazie a colleghi molto più giovani di me, come quelli dell’università di Cuiaba, nel Mato Grosso, che fra l’altro lavorano presso i Nambicuara. Mi scrivono e mi mandano i loro lavori. Questi popoli hanno subito sofferenze terribili. Sono stati più o meno sterminati, al punto che solo il 5 o il 10 per cento della popolazione originale era sopravvissuta. Ma quel che accade oggi è d’immenso interesse. Questi popoli si sono messi in contatto fra loro. Ormai sanno quello che per lungo tempo hanno ignorato: non sono più soli sulla scena dell’universo. Sanno che in Nuova Zelanda, in Australia o in Melanesia esistono individui che, in epoche diverse, hanno attraversato le loro stesse difficoltà. Sono consapevoli della loro comune posizione nel mondo. Beninteso, l’etnografia non sarà mai più quella che ho ancora potuto praticare ai miei tempi, quando si trattava di ritrovare testimonianze di credenze, di formazioni sociali, d’istituzioni nate in completo isolamento rispetto alle nostre, che dunque costituivano un apporto insostituibile al patrimonio dell’umanità. Adesso siamo, per così dire, in un regime di "mutua compenetrazione". Andiamo verso una civiltà su scala mondiale, dove probabilmente appariranno certe differenze. Perlomeno, lo speriamo. Differenze che non saranno più le stesse, saranno interne e non più esterne».
La rapidità di spostamento, la velocità di propagazione delle culture, la comunicazione sono fattori determinanti...
«Una volta, con i miei colleghi prendevamo cargo misti che, dopo molti scali, impiegavano diciannove giorni per arrivare in Sud America, fermandosi lungo le coste spagnole, algerine, africane. Del resto, dell’Africa conosco soltanto i luoghi dove abbiamo sostato all’andata e al ritorno dal Brasile».
La fotografia, che lei ha praticato come testimoniano i suoi numerosi cliché pubblicati, può fissare questi mondi perduti?
«Non ho mai dato grande importanza alla fotografia. Fotografavo perché era necessario, ma sempre con la sensazione che fosse una perdita di tempo, una perdita d’attenzione. Eppure, da adolescente, ho amato la fotografia. Mio padre faceva il pittore e si occupava molto di fotografia. Per me, è un mestiere a parte. Il mio, è stato un lavoro da fotografo di livello zero. Nel 1994, ho pubblicato un libro di foto, Saudades do Brasil , che si può tradurre "Nostalgia del Brasile", perché sollecitato. L'editore ha scelto, fra tanti altri, un po’ meno di duecento cliché. Durante la prima spedizione presso i Bororó, mi ero portato una piccolissima cinepresa. Mi è capitato ogni tanto di premere il bottone e di riprendere qualche immagine, ma ben presto ne sono rimasto disgustato perché, con l’occhio dietro all’obbiettivo, non si vede cosa accade e ancor meno si capisce. Ne sono rimasti spezzoni che in totale corrispondono a un’ora di film. Sono stati ritrovati in Brasile, dove li avevo abbandonati, e una volta sono stati mostrati al Beaubourg. Devo confessarle che i film etnologici mi annoiano enormemente».
Lei è un melomane. Mitologiche comincia con un’ouverture e si conclude su un finale. Il Crudo e il cotto , il primo dei quattro volumi di Mitologiche , comincia con il racconto di un canto Bororó, il motivo dello scopritore d’uccelli. Ha analizzato la loro musica?
«No, non sono un etnomusicologo; non ho studiato i loro canti. A volte mi hanno colpito, altre commosso. Una delle mie prime emozioni risale alle cerimonie in occasione del mio arrivo presso i Bororó. Accompagnavano i loro canti agitando certi gingilli con un virtuosismo simile a quello di un grande direttore d’orchestra con la sua bacchetta. Mesi fa ho ricevuto la visita di due indiani Bororó in compagnia di due ricercatori dell’università di Campo Grande del Mato Grosso, dove insegnano. Di loro iniziativa, hanno voluto, nel mio ufficio al Collège de France, cantare e danzare. Ed ecco, appunto, uno dei paradossi in cui viviamo: quei colleghi Bororó conservavano in tutta la loro freschezza e autenticità canti e musiche che avevo udito settant’anni prima. Era veramente commovente. Detto questo, la musica è il più grande mistero con il quale ci confrontiamo. Ai miei tempi, la musica popolare brasiliana era molto gradevole».
Cosa può dirmi sul futuro?
«Non me lo chieda. Siamo in un mondo al quale già sento di non appartenere. Quello che ho conosciuto, che ho amato, aveva un miliardo e mezzo d’abitanti. Il mondo attuale ne conta sei. Non è più il mio. E quello di domani, con nove miliardi di uomini e donne - anche se ci assicurano, per consolarci, che si tratterà del punto più alto della parabola - mi proibisce di fare qualsiasi predizione».
Le Monde/The New York Times Syndicate/Agenzia Volpe
(Traduzione di Daniela Maggioni )
25 febbraio 2005
http://www.corriere.it/Primo_Piano/Esteri/2005/02_Febbraio/25/levistrauss.shtml
L'originale
Claude Lévi-Strauss, grand témoin de l'Année du Brésil
LE MONDE 21.02.05 15h12
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A la veille des célébrations du "pays du bois de braise" en France, l'auteur de "Tristes Tropiques" revient sur sa relation essentielle à ce pays, où il a fait ses premiers pas d'ethnologue. Aujourd'hui, souligne-t-il, la civilisation à l'échelle mondiale a mis fin à ce type de découverte.
L'imbrication de la France et du Brésil n'est-elle pas très ancienne ?
Cette Année du Brésil intervient presque exactement cinq cents ans après le premier contact entre la France et le Brésil lors du voyage du Normand Paulmier de Gonneville. Ce dernier touchait, en 1504, les côtes brésiliennes au sud, quatre ans à peine après le Portugais Pedro Alvares Cabral, qui les avait abordées près de Salvador de Bahia. Ainsi les témoignages les plus anciens que nous possédons sur le Brésil datent du XVIe siècle et sont français.
En 1555, il y eut l'entreprise de l'amiral Villegaignon pour établir une France antarctique, dont a témoigné André Thevet dans son grand ouvrage - Les Singularitez de la France Antarctique, publié en 1557 -. En 1578, Jean de Léry livre l'Histoire d'un voyage faict en la terre du Brésil. Puis, au XVIIe siècle, il y a, plus au nord, les tentatives d'installation de missionnaires. Plus tard, au XVIIIe siècle et au début du XIXe siècle, quand le Brésil devient un empire, on note la présence de peintres français - la mission artistique dépêchée à partir de 1815 par Louis XVIII, où figurait notamment Jean-Baptiste Debret -, qui nous ont laissé beaucoup d'illustrations de ce qu'était la vie à Rio de Janeiro et à l'intérieur du pays.
Bien sûr, il y eut des conflits entre la France et le Brésil, par exemple à propos des territoires voisins de la Guyane française que revendiquaient les deux pays. Mais la fondation de l'université de Sao Paulo au XXe siècle a permis de renouer des contacts très étroits.
C'est précisément à l'université de Sao Paulo que vous êtes allé enseigner la sociologie, dès 1935. Que signifie le Brésil pour vous aujourd'hui ?
Le Brésil représente l'expérience la plus importante de ma vie, à la fois par l'éloignement, le contraste, mais aussi parce qu'il a déterminé ma carrière. Je ressens à l'égard de ce pays une dette très profonde. Cela étant, j'ai quitté le Brésil au début de l'année 1939, et je ne l'ai revu très brièvement qu'en 1985, quand j'ai accompagné le président Mitterrand, qui y faisait une visite d'Etat de cinq jours. Bien que très court, ce séjour a produit en moi une véritable révolution mentale : le Brésil était devenu entièrement, totalement, un autre pays.
Ce Sao Paulo, que j'avais connu à une époque où il atteignait tout juste 1 million d'habitants, en comptait déjà plus de 10 millions. Les traces et les vestiges de l'époque coloniale avaient disparu. Sao Paulo était devenue une cité assez effrayante, hérissée de kilomètres de tours, à tel point que, désireux de revoir non pas la maison où j'avais habité - elle n'existait sans doute plus -, mais la rue où j'avais vécu pendant quelques années, j'ai passé la matinée bloqué dans des embouteillages sans pouvoir y arriver.
L'urbanisation de Sao Paulo en a fait disparaître la nature ; le fleuve Tietê, qui fut fondamental dans la conquête de l'intérieur du Brésil à partir de Sao Paulo, est moribond... Ce relâchement des liens entre l'homme et la nature n'est-il pas une caractéristique de notre époque ?
Même de mon temps, la nature de Sao Paulo avait déjà beaucoup changé. Il y avait eu l'époque du café, et tous les territoires alentour avaient été consacrés à cette industrie agroalimentaire. Mais, de cette nature si forte, il subsistait les flans de la Serra do Mar, entre Sao Paulo et le port de Santos. Et il y avait là, sur quelques kilomètres, une dénivellation de 800 mètres, tellement abrupte que la civilisation avait dédaigné l'endroit, au profit de la forêt vierge. De sorte que, lorsqu'on débarquait à Santos pour monter à Sao Paulo, on avait un contact bref, mais immédiat, avec ce que le Brésil de l'intérieur, à des milliers de kilomètres de là, pouvait encore réserver.
Le lien entre l'homme et la nature s'est peut-être rompu et, en même temps, on peut comprendre que le Brésil, qui s'est développé de manière si considérable, ait à l'égard de la nature la même politique que l'Europe au Moyen Age, c'est-à-dire la détruire pour installer une agriculture.
Etes-vous retourné chez vos amis les Indiens Caduveos, Bororos ou Nambikwaras, que vous aviez étudiés au Brésil ?
En 1985, Brasilia était l'une des étapes du voyage présidentiel. Le quotidien O Estado de Sao Paulo m'a proposé de me ramener chez les Bororos, un voyage qui m'avait beaucoup coûté en 1935, mais qui, en avion, pouvait se faire en quelques heures. Nous sommes donc montés un matin dans un petit avion qui ne pouvait prendre que trois passagers : ma femme, une collègue brésilienne et moi. L'avion est arrivé au-dessus des territoires bororos, nous avons même pu apercevoir quelques villages avec encore leur structure circulaire, mais chacun doté maintenant d'un terrain d'atterrissage. Et, après les avoir survolés, le pilote nous a dit : je pourrais y atterrir, mais les pistes sont si courtes que je ne pourrai peut-être pas repartir ! Nous avons donc renoncé, et nous sommes rentrés à Brasilia en traversant un orage épouvantable.
J'ai pensé que notre vie n'avait jamais été aussi exposée, même à l'époque de mes expéditions. Finalement, nous sommes arrivés juste à temps pour que ma femme se mette en robe du soir et moi en smoking pour assister au grand dîner offert par le président du Brésil au président français. Tout cela montrait à quel point le pays avait changé.
Je n'ai donc pas revu les Bororos en chair et en os, mais j'ai revu leur territoire, j'ai survolé ce Rio Vermelho, un affluent du fleuve Paraguay que j'avais mis plusieurs jours à remonter en pirogue, et j'ai constaté qu'il était maintenant longé par une route asphaltée.
Peut-on être marqué physiquement et à jamais par un pays ?
Sûrement. Mon premier choc en arrivant au Brésil, je vous l'ai dit, a été la nature, telle qu'on pouvait encore la contempler sur les flancs de la Serra do Mar ; puis, quand j'ai pu m'enfoncer dans l'intérieur, ce fut de nouveau une nature si totalement différente de celle que j'avais connue... Mais il y a aussi une dimension à laquelle on ne prête pas toujours attention et qui a été pour moi capitale : celle du phénomène urbain.
Quand je suis arrivé à Sao Paulo, on disait que l'on construisait une maison par heure. Et, à cette époque, il y avait une compagnie britannique qui, depuis quatre ou cinq ans seulement, ouvrait les territoires à l'ouest de l'Etat de Sao Paulo. Elle construisait une ligne de chemin de fer et aménageait une ville tous les 15 kilomètres. Dans la première, la plus ancienne, il y avait 15 000 habitants, dans la deuxième 5 000, dans la troisième 1 000, puis 90, puis 40, et dans la plus récente 1 seul - un Français.
A cette époque, l'un des grands privilèges du Brésil était de pouvoir assister, de manière quasi expérimentale, à la formation de ce fantastique phénomène humain qu'est une ville. Chez nous, la ville résulte certes parfois d'une décision de l'Etat, mais surtout de millions de petites initiatives individuelles prises au cours des siècles. Dans le Brésil des années 1930, on pouvait observer ce processus, raccourci, se produire en quelques années.
Bien sûr, et puisque je pratiquais l'ethnographie, les Indiens ont été pour moi essentiels, mais cette expérience urbaine a tenu une très grande place, et les deux Brésil cohabitaient, mais à bonne distance.
Quand je suis allé vers le Mato Grosso pour la première fois, Brasilia n'existait pas encore, mais il y avait eu une première tentative de créer une ville à partir de rien, Goiania, qui n'a pas abouti. Le plateau central, le Planalto, est magnifique : le ciel y prend toute son importance. C'est un autre ordre de grandeur.
Des romanciers tels qu'Euclides da Cunha - auteur d'Os Sertoes, traduit en français sous le titre de Hautes terres - ont magnifiquement décrit ce Brésil.
J'ai bien connu aussi Mario de Andrade - musicologue, poète, fondateur de la Société d'ethnographie et de folklore du Brésil - : il dirigeait le département culturel de la ville de Sao Paulo. Nous avons été très proches. Son roman Macunaïma est un grand livre.
Mario de Andrade avait imaginé avec beaucoup d'humour Macunaïma, un Indien Tapanhuma d'Amazonie plutôt menteur et paresseux, devenu par son mariage empereur de la forêt vierge, débarquant dans la ville de Sao Paulo pour récupérer une amulette avant d'être transformé en constellation - la Grande Ourse. Cet esprit indigène, ce lien entre ville, forêt et mythe, perdure-t-il ? Avez-vous suivi son évolution ?
Je suis l'évolution des indigènes que j'avais alors étudiés de façon très régulière, par la pensée, et grâce à mes collègues beaucoup plus jeunes que moi, notamment ceux de l'université de Cuiaba, dans le Mato Grosso, qui travaillent entre autres chez les Nambikwaras. Ils m'écrivent, m'envoient régulièrement leurs travaux. Ces peuples ont subi des épreuves terribles. Ils ont été plus ou moins exterminés, au point que seulement 5 % ou 10 % de la population originelle subsistaient. Mais ce qui se produit actuellement est d'un immense intérêt. Ces peuples ont pris des contacts les uns avec les autres. Ils savent désormais ce qu'ils ont longtemps ignoré : ils ne sont plus seuls sur la scène de l'Univers. En Nouvelle-Zélande, en Australie ou en Mélanésie, il existe des gens qui, à des époques différentes, ont traversé les mêmes épreuves qu'eux. Ils prennent donc conscience de leur position commune dans le monde.
Alors, bien entendu, l'ethnographie ne sera plus jamais celle que j'ai pu encore pratiquer de mon temps, où il s'agissait de retrouver des témoignages de croyances, de formations sociales, d'institutions nées en complet isolement par rapport aux nôtres, et constituant donc des apports irremplaçables au patrimoine de l'humanité. Maintenant, nous sommes, si je puis dire, dans un régime de "compénétration mutuelle". Nous allons vers une civilisation à l'échelle mondiale. Où probablement apparaîtront des différences - il faut du moins l'espérer. Mais ces différences ne seront plus de même nature, elles seront internes, non plus externes.
La rapidité de déplacement, la vitesse de propagation des cultures, la communication sont des facteurs déterminants...
Auparavant, nous prenions, mes collègues et moi, des cargos mixtes qui, après beaucoup d'escales, mettaient dix-neuf jours pour arriver en Amérique du Sud, en s'arrêtant sur les côtes espagnoles, algériennes, africaines. De l'Afrique, d'ailleurs, je ne connais vraiment que les haltes que j'y ai faites en allant et revenant du Brésil.
La photographie, que vous avez pratiquée, comme en témoignent vos nombreux clichés publiés, peut-elle fixer ces mondes perdus ?
Je n'ai jamais attaché beaucoup d'importance à la photographie. Je photographiais parce qu'il le fallait, mais avec toujours le sentiment que cela représentait une perte de temps, une perte d'attention. Pourtant, j'ai beaucoup aimé et pas mal pratiqué la photographie dans mon adolescence. Mon père était artiste peintre et bricolait beaucoup la photo. Mais la photographie constitue un métier à part, si je puis dire. Ce que j'ai fait est un travail de photographe au degré zéro. J'ai publié un livre de photos - Saudades do Brasil, que l'on peut traduire par "Nostalgie du Brésil", paru en 1994 - parce que, autour de moi, on a beaucoup insisté. L'éditeur a choisi un peu moins de 200 clichés parmi tant d'autres.
Lors de ma première expédition chez les Bororos, j'avais emporté une très petite caméra portative. Et il m'est arrivé de temps en temps de presser sur le bouton et de tirer quelques images, mais je m'en suis très vite dégoûté, parce que, quand on a l'œil derrière un objectif de caméra, on ne voit pas ce qui se passe et on comprend encore moins. Il en est resté des bribes qui font au total à peu près une heure de morceaux de films. Elles ont été retrouvées au Brésil, où je les avais abandonnées, et ont été montrées une fois au Centre Pompidou. D'ailleurs, je vais vous faire une confession : les films ethnologiques m'ennuient énormément.
Qu'en est-il du Musée de l'Homme ?
Le Musée de l'Homme va vers un nouveau destin. Il a été conçu selon une formule très ambitieuse, mais qui je crois ne répond plus aux réalités du moment. Son objet était d'unir la préhistoire, l'anthropologie physique, l'ethnographie, qui chacune ont depuis pris des voies divergentes. Pour ce qui est de l'ethnographie, le Musée de l'Homme prétendait montrer comment vivaient encore en 1920 et 1930 les peuples lointains qu'allaient étudier les ethnologues.
Cela ne répond plus au présent. Si on veut montrer comment vit aujourd'hui une population mélanésienne, encore inconnue en 1930, il faudrait mettre dans la vitrine des sacs de café, des Toyota à côté de quelques ustensiles traditionnels. Et ce serait une image mensongère. L'idée directrice du futur musée du quai Branly est de recueillir tout ce que ces civilisations ont produit de grand et de beau, en prenant en compte que ce sont des témoignages du passé.
Cela répond très bien au rapport que ces civilisations peuvent et doivent entretenir avec leur passé, et que nous pouvons aujourd'hui entretenir avec elles.
Peut-on considérer qu'un objet coupé de son contexte rituel, communautaire, garde son sens ?
Un masque qui a une fonction rituelle est aussi une œuvre d'art. L'approche esthétique ne me trouble pas du tout. Le Musée du Louvre est avant tout un musée des beaux-arts. Il a donc un esprit, une fonction esthétisants. Cela n'a jamais empêché l'histoire ni la sociologie de l'art de se développer, ni les conservateurs de ce musée d'être de très bons savants. Le fait de susciter l'intérêt ou l'émotion du public à travers de beaux objets ne m'inquiète pas du tout. L'esthétique est une des voies qui lui permettra de découvrir les civilisations qui les ont produits. Et ainsi certains deviendront des historiens, des observateurs, des savants qui se consacreront à ces civilisations.
Vous avez aimé et collectionné des objets au point de comparer les mythes, sujets de vos recherches, à de "très beaux objets que l'on ne se lasse pas de contempler". Les aimez-vous encore ?
J'aime toujours les objets, depuis l'enfance, le bric-à-brac. A une époque, les objets que nous appelions primitifs étaient accessibles aux petites bourses. Avec André Breton par exemple, quand nous étions aux Etats-Unis, nous savions que ces objets étaient aussi beaux que ceux des autres civilisations. Et qu'on pouvait les acquérir pour presque rien. Tous les objets ont maintenant un cours si élevé qu'on ne peut plus que les contempler de loin sans penser les posséder. Si les conditions étaient restées les mêmes, très certainement, je collectionnerais toujours. En 1950, j'ai eu des problèmes personnels et je devais à tout prix acheter un appartement. C'est ainsi que j'ai dû me séparer de ma collection.
Je vois aujourd'hui passer des objets qui m'ont appartenu. Le Quai Branly a acheté un haut de coiffure d'Indien de la côte nord-ouest du Canada, qui se trouvait, je ne sais pourquoi, dans une collection en province. Il y a au Louvre un masque à transformation kwaktiul. On va en revoir d'autres dans l'exposition organisée en mars dans le cadre de l'Année du Brésil au Grand Palais.
Il y aura là aussi des objets que j'ai collectés pour le Musée de l'Homme au cours de mes expéditions. Ceux-ci ont beaucoup souffert pendant la guerre, puis des mauvaises conditions de chauffage. Les coiffures de plumes se sont beaucoup abîmées, les plumes étaient collées avec de la résine ou de la cire. A l'époque où je ramenais mes collections, on s'imaginait qu'il fallait inonder mes boîtes d'un désinfectant dont les vapeurs dissolvent précisément ces résines.
Vous êtes mélomane, Mythologiques commence par une ouverture et se clôt sur un finale. Dans Le Cru et le Cuit, le premier des quatre volumes de Mythologiques, vous commencez par le récit d'un chant bororo - l'air du dénicheur d'oiseau. Avez-vous analysé leur musique ?
Non, pas du tout, je ne suis pas un ethnomusicologue ; je n'ai pas étudié leurs chants. Quelquefois ils m'ont frappé, parfois ils m'ont ému. D'ailleurs une de mes premières émotions a été les cérémonies qui se déroulaient quand je suis arrivé chez les Bororos. Ils accompagnaient leurs chants avec des hochets qu'ils manipulaient avec autant de virtuosité qu'un grand chef d'orchestre sa baguette.
Il se trouve qu'il y a quelques mois j'ai eu la visite de deux Indiens Bororos en compagnie de deux chercheurs de l'université de Campo Grande du Mato Grosso, la plus proche de leur territoire, et où eux-mêmes enseignent. Ils ont voulu pour moi, dans mon bureau du Collège de France, de leur propre initiative, chanter et danser. Eh bien là, c'est précisément l'un de ces paradoxes dans lesquels nous vivons : ces collègues bororos conservaient dans toute leur fraîcheur et toute leur authenticité des chants et une musique que j'avais entendus soixante-dix ans auparavant. C'était très émouvant.
Cela dit, la musique est le plus grand mystère auquel nous soyons confrontés. La musique populaire brésilienne de mon temps était d'ailleurs extrêmement savoureuse.
Que diriez-vous de l'avenir ?
Ne me demandez rien de ce genre. Nous sommes dans un monde auquel je n'appartiens déjà plus. Celui que j'ai connu, celui que j'ai aimé, avait 1,5 milliard d'habitants. Le monde actuel compte 6 milliards d'humains. Ce n'est plus le mien. Et celui de demain, peuplé de 9 milliards d'hommes et de femmes - même s'il s'agit d'un pic de population, comme on nous l'assure pour nous consoler - m'interdit toute prédiction...
Propos recueillis par Véronique Mortaigne
• ARTICLE PARU DANS L'EDITION DU 22.02.05
http://www.lemonde.fr/web/article/0,1-0@2-3246,36-398992,0.html
23.2.05
Spiati dal telefonino
ITALIE Record d'Europe des écoutes téléphoniques
250 000 Italiens espionnés chaque année
Rome : Richard Heuzé
[23 février 2005]
Ne parlez pas de langoustes ou d'olives sur vos téléphones italiens ! La police pourrait croire à un langage codé et ouvrira une enquête. C'est la mésaventure survenue à des magistrats et à des hommes politiques de premier plan, dans ce qui s'avère être la plus vaste affaire d'écoutes téléphoniques. L'affaire a été dévoilée par la compagnie du téléphone portable Tim. Dans une lettre au ministère de la Justice, cette société, qui fait partie du groupe de télécommunications Telecom Italia, fait valoir que les lignes de crédit destinées aux interceptions téléphoniques ont été épuisées. La lettre révèle non seulement l'ampleur du phénomène, mais aussi sa croissance exponentielle au cours des dernières années. Les téléphones de 12 000 à 13 000 personnes sont placés chaque jour sous contrôle judiciaire, à raison d'un maximum de quinze jours toléré par la loi. Chaque année, quelque 250 000 personnes seraient écoutées. De quoi faire pâlir de jalousie la «cellule de l'Élysée» qui avait espionné cent cinquante journalistes, politiciens et vedettes du spectacle pendant trois ans sous François Mitterrand.
Ni la sécurité nationale, ni la lutte contre le terrorisme italien ou étranger, ni même les grandes affaires de mafia et de corruption ne suffisent à justifier cette prolifération. Officiellement la Tim met 5 000 lignes par jour à la disposition de la justice. Ses concurrents en font autant. Le législateur impose d'obtenir la signature d'un magistrat au bas de chaque demande. Si l'on en croit des opérateurs du secteur, le numéro de téléphone du suspect est souvent laissé en blanc. A charge pour la police de compléter le formulaire.
L'an dernier, la justice italienne a déboursé 2,6 milliards d'euros en interceptions téléphoniques. C'est pourtant insuffisant, comme en témoigne une lettre envoyée au ministre de la Justice et pour copie à ceux de l'Économie et des Télécommunications. Son auteur, Pietro Guindani, président de l'association Astel des opérateurs du téléphone, fait valoir que les impayés de l'administration s'élè- vent à 200 millions d'euros. Il réclame une rencontre «urgente» pour «ne pas compromettre la gestion des demandes provenant des parquets». Autrement dit : pour ne pas suspendre les services d'interception et de décryptage, techniquement exécutés par les opérateurs, sous couvert du secret judiciaire.
Ces écoutes donnent parfois de bons résultats. Elles ont permis de démanteler plusieurs cellules d'al-Qaida en Italie. D'autres fois cependant, elles sont à l'origine de mésaventures sans fin. Du temps où il était ministre de l'Intérieur, l'ancien chef d'État démocrate-chrétien Francesco Cossiga était écouté parce qu'il était cousin du leader communiste Enrico Berlinguer. Du temps de la guerre froide, le leader communiste Armando Cossutta se savait espionné par «au moins douze services secrets, de l'Est comme de l'Ouest». Quant à un député sicilien de la majorité qui enquêtait récemment sur un scandale en Serbie, il s'est vu accuser de participer à un pseudo-trafic international de stupéfiants à la suite d'un échange banal de mots au téléphone.
http://www.lefigaro.fr/international/20050223.FIG0045.html
250 000 Italiens espionnés chaque année
Rome : Richard Heuzé
[23 février 2005]
Ne parlez pas de langoustes ou d'olives sur vos téléphones italiens ! La police pourrait croire à un langage codé et ouvrira une enquête. C'est la mésaventure survenue à des magistrats et à des hommes politiques de premier plan, dans ce qui s'avère être la plus vaste affaire d'écoutes téléphoniques. L'affaire a été dévoilée par la compagnie du téléphone portable Tim. Dans une lettre au ministère de la Justice, cette société, qui fait partie du groupe de télécommunications Telecom Italia, fait valoir que les lignes de crédit destinées aux interceptions téléphoniques ont été épuisées. La lettre révèle non seulement l'ampleur du phénomène, mais aussi sa croissance exponentielle au cours des dernières années. Les téléphones de 12 000 à 13 000 personnes sont placés chaque jour sous contrôle judiciaire, à raison d'un maximum de quinze jours toléré par la loi. Chaque année, quelque 250 000 personnes seraient écoutées. De quoi faire pâlir de jalousie la «cellule de l'Élysée» qui avait espionné cent cinquante journalistes, politiciens et vedettes du spectacle pendant trois ans sous François Mitterrand.
Ni la sécurité nationale, ni la lutte contre le terrorisme italien ou étranger, ni même les grandes affaires de mafia et de corruption ne suffisent à justifier cette prolifération. Officiellement la Tim met 5 000 lignes par jour à la disposition de la justice. Ses concurrents en font autant. Le législateur impose d'obtenir la signature d'un magistrat au bas de chaque demande. Si l'on en croit des opérateurs du secteur, le numéro de téléphone du suspect est souvent laissé en blanc. A charge pour la police de compléter le formulaire.
L'an dernier, la justice italienne a déboursé 2,6 milliards d'euros en interceptions téléphoniques. C'est pourtant insuffisant, comme en témoigne une lettre envoyée au ministre de la Justice et pour copie à ceux de l'Économie et des Télécommunications. Son auteur, Pietro Guindani, président de l'association Astel des opérateurs du téléphone, fait valoir que les impayés de l'administration s'élè- vent à 200 millions d'euros. Il réclame une rencontre «urgente» pour «ne pas compromettre la gestion des demandes provenant des parquets». Autrement dit : pour ne pas suspendre les services d'interception et de décryptage, techniquement exécutés par les opérateurs, sous couvert du secret judiciaire.
Ces écoutes donnent parfois de bons résultats. Elles ont permis de démanteler plusieurs cellules d'al-Qaida en Italie. D'autres fois cependant, elles sont à l'origine de mésaventures sans fin. Du temps où il était ministre de l'Intérieur, l'ancien chef d'État démocrate-chrétien Francesco Cossiga était écouté parce qu'il était cousin du leader communiste Enrico Berlinguer. Du temps de la guerre froide, le leader communiste Armando Cossutta se savait espionné par «au moins douze services secrets, de l'Est comme de l'Ouest». Quant à un député sicilien de la majorité qui enquêtait récemment sur un scandale en Serbie, il s'est vu accuser de participer à un pseudo-trafic international de stupéfiants à la suite d'un échange banal de mots au téléphone.
http://www.lefigaro.fr/international/20050223.FIG0045.html
La lingua batte dove l'Europa duole
IDA DOMINIJANNI
Da qualche giorno l'italiano non fa più parte del gruppo ristretto delle lingue stabili dell'Unione europea, nel quale restano solo l'inglese, il francese e il tedesco. Per decisione della portavoce di José Manuel Barroso, infatti, la nostra lingua è stata cancellata da tutte le conferenze stampa (salvo quelle del lunedì, unico giorno in cui è comunque garantita la traduzione nelle principali lingue dell'Unione) dei commissari della Ue. La notizia è di qualche giorno fa e ha suscitato sulla stampa nazionale grande scandalo e alti lai. Il presidente dell'Accademia della Crusca, Francesco Sabatini, intervistato venerdì scorso dal Corriere della Sera che è stato il primo giornale a lanciare l'allarme, ne deduce che il prestigio dell'italiano è in picchiata e denuncia l'assenza di una politica linguistica dell'Unione e di una politica del governo italiano di sostegno all'italiano: stante che le lingue europee sono venti, la Ue, sostiene Sabatini, dovrebbe «compensare» quelle che non vengono usate nelle sedi ufficiali finanziandone l'insegnamento e le traduzioni, mentre il governo italiano dovrebbe investire nel sostegno della lingua nazionale all'estero. Gianfranco Fini gli ha risposto assicurandolo che la promozione della lingua e dell'identità italiana nella Ue e in tutto il mondo è in cima alle priorità del suo ministero e degli istituti di cultura all'estero, che l'italiano rimane una delle lingue usate nelle riunuioni del Consiglio europeo, che la domanda di studio dell'italiano cresce ovunque nel mondo. Ma il problema ormai è sul piatto, e non riguarda solo le politiche di sostegno all'italiano: riguarda il rapporto fra lingua e identità nazionale per un verso, fra lingue e costruzione europea per l'altro. E spiace in verità che venga sollevato solo in termini di difesa identitaria e solo sulla base di un risentimento per l'esclusione della nostra lingua da una sede istituzionale. E' vero che, come ha scritto Raffaele Simone sul Messaggero, la cancellazione dell'italiano dalle lingue ufficiali dell'Unione rischia di depotenziare la comunicazione politica dei nostri rappresentanti; ed è vero che, come ha scritto Ernesto Galli della Loggia sul Corsera, quella cancellazione è segno di una perdita di peso politico dell'Italia nella costruzione europea, a vantaggio del peso della Gran Bretagna, della Francia e della Germania. In questa prospettiva, l'unica politica possibile per la nuova Europa sarebbe quella di un plurilinguismo sostenuto dai singoli stati e dalle istituzioni comunitarie, a garanzia di una Europa pluriculturale e pluriidentitaria, in cui la comunicazione, politica e sociale, resta affidata fondamentalmente a una continua opera di traduzione (che attualmente occupa un terzo dei laureati che lavorano nelle istiutuzioni Ue). Ma questa ipotesi non mancherebbe di sollevare, se non subito di qui a pochi anni, le obiezioni che già circolano oggi nei confronti dei modelli multiculturali anglosassone e olandese: troppe identità autoreferenziali, troppa poca mescolanza, troppo comunitarismo garantito dalle barriere linguistiche. C'è invece la possibilità di ribaltare l'ostacolo del plurilinguismo europeo in una opportunità di ibridazione e contatto fra culture e identità diverse?
Questa possibilità passa in primo luogo per il riconoscimento del problema. Il quale invece è stato, fin qui e malgrado l'anno europeo della lingua celebrato pochi anni fa, ignorato o rimosso, nel corso di un processo di costruzione europea ridotto alla pura dimensione istituzionale e costituzionale. Eppure, che l'esistenza di 11 lingue diverse, diventate 20 con l'allargamento ai paesi dell'est, fosse un problema difficilmente superabile nell'universalismo del linguaggio giuridico avrebbe dovuto essere chiaro. Come dovrebbe essere chiaro che nessuna politica protezionista e nessuna salvaguardia identitaria può reggere l'impatto con i processi sociali e culturali attraverso i quali una lingua si impone più di un'altra, o le giovani generazioni imparano più e meglio delle vecchie a comunicare in più lingue, via via che il romanzo di formazione europea si sostituirà al romanzo di formazione nazionale. Serve di più resistere a questi processi difendendo le barriere linguistiche e identitarie, o spingerli in avanti a costo di perdere ciascuno qualcosa, compreso l'agio della lingua materna? O meglio ancora, si può ripensare l'agio della lingua materna come qualcosa di irrinunciabile, ma a cui si può tornare per andare e andare per tornare, aprendosi al rischio della lingua dell'altro invece che rinserrandosi nella propria? Non è questa apertura, che passa anche e in primo luogo, l'unica strada per la costruzione di un'Europa aperta alla differenza, invece che arroccata sull'identità? Non vale la pena, per questo obiettivo, di correre qualche rischio di fraintendimento, invece di contare su un'intesa fredda garantita dagli esperti in traduzione?
http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/22-Febbraio-2005/art102.html
Da qualche giorno l'italiano non fa più parte del gruppo ristretto delle lingue stabili dell'Unione europea, nel quale restano solo l'inglese, il francese e il tedesco. Per decisione della portavoce di José Manuel Barroso, infatti, la nostra lingua è stata cancellata da tutte le conferenze stampa (salvo quelle del lunedì, unico giorno in cui è comunque garantita la traduzione nelle principali lingue dell'Unione) dei commissari della Ue. La notizia è di qualche giorno fa e ha suscitato sulla stampa nazionale grande scandalo e alti lai. Il presidente dell'Accademia della Crusca, Francesco Sabatini, intervistato venerdì scorso dal Corriere della Sera che è stato il primo giornale a lanciare l'allarme, ne deduce che il prestigio dell'italiano è in picchiata e denuncia l'assenza di una politica linguistica dell'Unione e di una politica del governo italiano di sostegno all'italiano: stante che le lingue europee sono venti, la Ue, sostiene Sabatini, dovrebbe «compensare» quelle che non vengono usate nelle sedi ufficiali finanziandone l'insegnamento e le traduzioni, mentre il governo italiano dovrebbe investire nel sostegno della lingua nazionale all'estero. Gianfranco Fini gli ha risposto assicurandolo che la promozione della lingua e dell'identità italiana nella Ue e in tutto il mondo è in cima alle priorità del suo ministero e degli istituti di cultura all'estero, che l'italiano rimane una delle lingue usate nelle riunuioni del Consiglio europeo, che la domanda di studio dell'italiano cresce ovunque nel mondo. Ma il problema ormai è sul piatto, e non riguarda solo le politiche di sostegno all'italiano: riguarda il rapporto fra lingua e identità nazionale per un verso, fra lingue e costruzione europea per l'altro. E spiace in verità che venga sollevato solo in termini di difesa identitaria e solo sulla base di un risentimento per l'esclusione della nostra lingua da una sede istituzionale. E' vero che, come ha scritto Raffaele Simone sul Messaggero, la cancellazione dell'italiano dalle lingue ufficiali dell'Unione rischia di depotenziare la comunicazione politica dei nostri rappresentanti; ed è vero che, come ha scritto Ernesto Galli della Loggia sul Corsera, quella cancellazione è segno di una perdita di peso politico dell'Italia nella costruzione europea, a vantaggio del peso della Gran Bretagna, della Francia e della Germania. In questa prospettiva, l'unica politica possibile per la nuova Europa sarebbe quella di un plurilinguismo sostenuto dai singoli stati e dalle istituzioni comunitarie, a garanzia di una Europa pluriculturale e pluriidentitaria, in cui la comunicazione, politica e sociale, resta affidata fondamentalmente a una continua opera di traduzione (che attualmente occupa un terzo dei laureati che lavorano nelle istiutuzioni Ue). Ma questa ipotesi non mancherebbe di sollevare, se non subito di qui a pochi anni, le obiezioni che già circolano oggi nei confronti dei modelli multiculturali anglosassone e olandese: troppe identità autoreferenziali, troppa poca mescolanza, troppo comunitarismo garantito dalle barriere linguistiche. C'è invece la possibilità di ribaltare l'ostacolo del plurilinguismo europeo in una opportunità di ibridazione e contatto fra culture e identità diverse?
Questa possibilità passa in primo luogo per il riconoscimento del problema. Il quale invece è stato, fin qui e malgrado l'anno europeo della lingua celebrato pochi anni fa, ignorato o rimosso, nel corso di un processo di costruzione europea ridotto alla pura dimensione istituzionale e costituzionale. Eppure, che l'esistenza di 11 lingue diverse, diventate 20 con l'allargamento ai paesi dell'est, fosse un problema difficilmente superabile nell'universalismo del linguaggio giuridico avrebbe dovuto essere chiaro. Come dovrebbe essere chiaro che nessuna politica protezionista e nessuna salvaguardia identitaria può reggere l'impatto con i processi sociali e culturali attraverso i quali una lingua si impone più di un'altra, o le giovani generazioni imparano più e meglio delle vecchie a comunicare in più lingue, via via che il romanzo di formazione europea si sostituirà al romanzo di formazione nazionale. Serve di più resistere a questi processi difendendo le barriere linguistiche e identitarie, o spingerli in avanti a costo di perdere ciascuno qualcosa, compreso l'agio della lingua materna? O meglio ancora, si può ripensare l'agio della lingua materna come qualcosa di irrinunciabile, ma a cui si può tornare per andare e andare per tornare, aprendosi al rischio della lingua dell'altro invece che rinserrandosi nella propria? Non è questa apertura, che passa anche e in primo luogo, l'unica strada per la costruzione di un'Europa aperta alla differenza, invece che arroccata sull'identità? Non vale la pena, per questo obiettivo, di correre qualche rischio di fraintendimento, invece di contare su un'intesa fredda garantita dagli esperti in traduzione?
http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/22-Febbraio-2005/art102.html
22.2.05
«Non c’è rancore. Usa ed Europa oggi possono spartirsi i compiti»
Cancelliere Schröder, come descriverebbe il rapporto personale con George W. Bush? «Ho sempre detto che mi piace discutere con il presidente Bush, è una persona con la quale si riesce a comunicare bene, indipendentemente dalle divergenze d’opinione che abbiamo avuto in passato. Non c'è alcun tipo di riserva personale tra noi».
Secondo i sondaggi molti tedeschi non si fidano di Bush. Si potrà invertire la tendenza?
«Non sono i sondaggi a orientare le relazioni tra Germania e Stati Uniti. Il nostro rapporto di collaborazione deve fondarsi sulla fiducia: è un imperativo imprescindibile per qualsiasi governo razionale. Il nostro è un governo razionale».
A che punto sono le relazioni transatlantiche?
«Sono convinto che oggi ciascuno conosca le reali aspettative e possibilità dell'altro. Non capita più che qualcuno si aspetti troppo o sottovaluti l'impegno della controparte. È, questa, un’ottima piattaforma sulla quale intavolare una discussione sulla spartizione internazionale dei compiti, oggi più realizzabile che mai. Prevedo che la visita di Bush avrà successo».
Nel dopoguerra in Germania raramente c’è stato un atteggiamento così negativo verso degli Usa. L’avversione all’America favorisce la popolarità politica?
«Questo ragionamento non funziona... Pensiamo ai sogni dei nostri ragazzi, dove studierebbero se potessero scegliere? La maggior parte in America. Mia figlia ascolta le canzoni in testa alle classifiche americane. Equiparare opposizione alla guerra in Iraq e antiamericanismo è totalmente sbagliato».
Il prossimo banco di prova delle relazioni Usa-Ue sarà l’Iran?
«Condividiamo gli stessi obiettivi con gli Stati Uniti. Soltanto gli strumenti con i quali realizzarli restano oggetto di discussione. Le potenze europee contano sui negoziati, credo che questo sia l’atteggiamento vincente. Perché i negoziati abbiano successo, occorre offrire qualcosa. Nel nostro caso, sono in gioco cooperazione economica e sicurezza».
Per molti americani, gli europei devono essere pronti ad assumere posizioni rigide con Teheran in caso di mancato rispetto dei patti e a trasmettere la questione iraniana al Consiglio di Sicurezza Onu.
«Il grilletto automatico è sempre pericoloso. Credo nel successo dei negoziati, ma non escludo ulteriori passaggi».
In quali circostanze riterrebbe giustificabile un'azione militare contro l'Iran?
«Sono contrario all'intervento militare, ma non amo fare speculazioni».
Perché Berlino è favorevole alla revoca dell'embargo sulle armi alla Cina, quando Taiwan è ancora sotto la minaccia militare cinese?
«Occorre comprendere perché l'Unione europea abbia posto l'embargo. Non per ragioni di politica estera o di sicurezza. Si trattò piuttosto di una reazione al massacro di piazza Tienanmen nel 1989. Dobbiamo domandarci se l'embargo sia ancora opportuno, viste le trasformazioni interne alla leadership di Pechino e i moderati progressi nel processo di liberalizzazione. Noi crediamo di no: l’embargo potrebbe essere revocato nella prima metà del 2005. Resta il fatto che non abbiamo la minima intenzione di procurare armi alla Cina».
I piani europei incontrano forti resistenze del Congresso Usa. La revoca inasprirà le relazioni transatlantiche?
«In America il dibattito è aperto. Non riesco a immaginare che i rapporti transatlantici ne possano risentire seriamente».
Ritiene si stia assistendo a una deriva antidemocratica in Russia?
«L'Occidente farebbe meglio a sforzarsi di comprendere la situazione nella quale si trova il presidente russo Vladimir Putin. Da cosa è partito? 75 anni di regime comunista, una fase di declino statale durata dieci anni. Ecco perché il suo primo obiettivo è restituire allo Stato un ruolo di garante della sicurezza per cittadini e investitori. Parimenti, si trova a dover gestire un conflitto (in Cecenia, ndr ) che non ha iniziato. Non bisogna sottovalutare la necessità di un’evoluzione democratica. Non posso fare a meno di pensare, tuttavia, che Vladimir Putin abbia raggiunto risultati apprezzabili, più di quanto l’Occidente non veda».
L’Occidente confonde questi tentativi di ricostruzione dello Stato con tendenze dispotiche?
«Nessuno allude a tendenze dispotiche».
Ha cambiato opinione sul conflitto iracheno?
«No e non lo farò, ma la guerra è ormai un pezzo di storia. Ciò che conta è quel che ne è venuto. Europa e America nutrono un comune interesse allo sviluppo democratico dell'Iraq. Interesse che condivido, anche se mi accusano d’incoerenza. Mi chiedo quali siano gli interessi del mio Paese. Sono convinto che dobbiamo contribuire alla stabilità di tutto il Medio Oriente».
Sarebbe contrario all'apertura di un ufficio dell'Ue a Bagdad?
«Se la Commissione Ue giudicherà di dover assicurare la propria presenza a Bagdad, non avremo nulla in contrario».
The Wall Street
Journal Europe
(traduzione
di Maria Serena Natale)
Marc Champion
-------------------------------------------------------------------------------------
George e Jacques insieme «Fuori i siriani dal Libano»
«Invitare Chirac nel mio ranch? Cerco un bravo cowboy» «Questa cena dimostra l’importanza del nostro rapporto»
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
BRUXELLES - Seduti uno accanto all’altro, davanti a un finto fondale di Bruxelles, i due presidenti fanno di tutto per sprigionare se non amicizia, almeno vera comprensione. Alla fine, dopo quasi due anni di recriminazioni reciproche, l’americano George Bush e il francese Jacques Chirac riescono addirittura a firmare una «nota congiunta». E’ un appello secco (Bush avrebbe preferito un’intimazione) alla Siria perché richiami le truppe dal Libano (oltre 14 mila soldati). L’inchiostro della Casa Bianca si riconosce nell’aggettivo «immediato» aggiunto alla parola «ritiro»; la penna dell’Eliseo, invece, è visibile in quel lungo riferimento alle Nazioni Unite, che avrebbe fatto venire l’orticaria al Bush I. «Sosteniamo l’inchiesta dell’Onu sull’attentato terroristico contro Rafik Hariri (ex premier libanese)», recita il comunicato, che, con tutta probabilità, oggi sarà sottoscritto dagli altri 24 capi di Stato e di governo europei. Ma Chirac si è preso la libertà di anticipare tutti, «rubando la scena» a Tony Blair e anche a Silvio Berlusconi, gli alleati del tempo di guerra iracheno, gli interlocutori privilegiati che solo oggi incontreranno, in privato, il presidente americano. Bush, rilassato e a suo agio nel salottino dell’ambasciata statunitense, a un certo punto se n’è uscito al naturale. Una giornalista chiede al presidente statunitense: «Visto che i vostri rapporti sono così buoni, inviterà Chirac nel suo ranch nel Texas?». Bush inclina leggermente la testa e accenna un sorriso: «In effetti sto cercando un buon cowboy». Sguardi interrogativi, mentre Chirac annuisce. E infatti, a fine serata, salta fuori che Washington e Parigi stanno preparando da tempo la visita di «Chirac-cow boy», negli Stati Uniti. Si stanno cercando spazi nelle agende, ma il viaggio dovrebbe avvenire entro la fine dell’anno. Bush, in fondo, ieri lo ha preparato con queste parole: «E’ la mia prima cena sul suolo europeo da quando sono stato rieletto e la faccio con Jacques Chirac: questo significa qualcosa no? Significa quanto sia importante questo rapporto per me, personalmente, e quanto lo sia per il mio Paese». Fuori si gela, ma da qualche ora quattromila manifestanti gridano da ore slogan cattivi («Bush assassino»), reggendo striscioni e cartelli che, nel 2003 e nel 2004, avrebbe potuto confezionare lo stesso Chirac («Stop Bush», «Americani via dall’Iraq»). Ora, però, il capo di Stato francese non ha altre scelte: se vuole davvero tornare al centro del gioco politico europeo, non può che riprendere il dialogo con gli Stati Uniti. Sarebbe stato tutto più facile se gli elettori americani gli avessero spedito John Kerry, ci ha sperato fino all’ultimo. Ma c’è ancora Bush e con Bush bisogna rimettersi a fare i conti.
Il lavorio diplomatico bilaterale, perfezionato con la visita del segretario di Stato Condoleezza Rice, sembra aver dato i frutti attesi. I due leader scartano accuratamente i dossier controversi e valorizzano i punti di intesa (fino all’anno scorso avrebbero fatto esattamente il contrario). Al centro dell’universo di Bush ci sono le esigenze del dopoguerra iracheno: ci vorrebbe più impegno dell’Europa, soldati, armi, attrezzature. Ma Chirac dice di essere disponibile, come sforzo massimo, a spendere 15 milioni di euro per addestrare 1.500 gendarmi, non a Bagdad, sia chiaro, ma nel confortevole Quatar. Inoltre Parigi consentirà oggi al segretario generale della Nato, Jaap de Hoop Sheffer di presentare come un grande successo il modesto aumento degli esperti (da 110 a 200-300) inviati per addestrare gli ufficiali dell’esercito iracheno. Anche Bush, per ora, si deve accontentare. Come dovrà fare pure per i programmi nucleari dell’Iran. Nel corso delle due orette passate a tavola, Chirac ha spiegato che i «negoziatori», cioè i ministri degli Esteri di Francia, Gran Bretagna e Germania, non hanno fretta, anche se gli americani vorrebbero tagliare corto. L’altra area di contrasto è l’embargo alla Cina. I due capi di Stato ne hanno accennato brevemente, poi hanno preferito prendere nota delle posizioni ancora distanti e «lasciare maturare» il confronto. Le visioni comuni, invece, «la musica» come l’ha definita Javier Solana, possono risultare efficaci altrove. Con la Russia, per esempio, nel Medio Oriente e, appunto sul nuovo fronte Siria-Libano. Le ricadute politiche del nuovo corso potrebbero dare una mano anche alla cooperazione economica, dove non mancano le grane, come l’ambiente, «lo sviluppo sostenibile». Bush e Chirac hanno solo elencato i titoli, rimandandoli al vertice G8 di luglio in Scozia. Si è fatto tardi: per Bush e Chirac è già andata bene così.
Giuseppe Sarcina
http://www.corriere.it/edicola/index.jsp?path=ESTERI&doc=CHIRAC
Secondo i sondaggi molti tedeschi non si fidano di Bush. Si potrà invertire la tendenza?
«Non sono i sondaggi a orientare le relazioni tra Germania e Stati Uniti. Il nostro rapporto di collaborazione deve fondarsi sulla fiducia: è un imperativo imprescindibile per qualsiasi governo razionale. Il nostro è un governo razionale».
A che punto sono le relazioni transatlantiche?
«Sono convinto che oggi ciascuno conosca le reali aspettative e possibilità dell'altro. Non capita più che qualcuno si aspetti troppo o sottovaluti l'impegno della controparte. È, questa, un’ottima piattaforma sulla quale intavolare una discussione sulla spartizione internazionale dei compiti, oggi più realizzabile che mai. Prevedo che la visita di Bush avrà successo».
Nel dopoguerra in Germania raramente c’è stato un atteggiamento così negativo verso degli Usa. L’avversione all’America favorisce la popolarità politica?
«Questo ragionamento non funziona... Pensiamo ai sogni dei nostri ragazzi, dove studierebbero se potessero scegliere? La maggior parte in America. Mia figlia ascolta le canzoni in testa alle classifiche americane. Equiparare opposizione alla guerra in Iraq e antiamericanismo è totalmente sbagliato».
Il prossimo banco di prova delle relazioni Usa-Ue sarà l’Iran?
«Condividiamo gli stessi obiettivi con gli Stati Uniti. Soltanto gli strumenti con i quali realizzarli restano oggetto di discussione. Le potenze europee contano sui negoziati, credo che questo sia l’atteggiamento vincente. Perché i negoziati abbiano successo, occorre offrire qualcosa. Nel nostro caso, sono in gioco cooperazione economica e sicurezza».
Per molti americani, gli europei devono essere pronti ad assumere posizioni rigide con Teheran in caso di mancato rispetto dei patti e a trasmettere la questione iraniana al Consiglio di Sicurezza Onu.
«Il grilletto automatico è sempre pericoloso. Credo nel successo dei negoziati, ma non escludo ulteriori passaggi».
In quali circostanze riterrebbe giustificabile un'azione militare contro l'Iran?
«Sono contrario all'intervento militare, ma non amo fare speculazioni».
Perché Berlino è favorevole alla revoca dell'embargo sulle armi alla Cina, quando Taiwan è ancora sotto la minaccia militare cinese?
«Occorre comprendere perché l'Unione europea abbia posto l'embargo. Non per ragioni di politica estera o di sicurezza. Si trattò piuttosto di una reazione al massacro di piazza Tienanmen nel 1989. Dobbiamo domandarci se l'embargo sia ancora opportuno, viste le trasformazioni interne alla leadership di Pechino e i moderati progressi nel processo di liberalizzazione. Noi crediamo di no: l’embargo potrebbe essere revocato nella prima metà del 2005. Resta il fatto che non abbiamo la minima intenzione di procurare armi alla Cina».
I piani europei incontrano forti resistenze del Congresso Usa. La revoca inasprirà le relazioni transatlantiche?
«In America il dibattito è aperto. Non riesco a immaginare che i rapporti transatlantici ne possano risentire seriamente».
Ritiene si stia assistendo a una deriva antidemocratica in Russia?
«L'Occidente farebbe meglio a sforzarsi di comprendere la situazione nella quale si trova il presidente russo Vladimir Putin. Da cosa è partito? 75 anni di regime comunista, una fase di declino statale durata dieci anni. Ecco perché il suo primo obiettivo è restituire allo Stato un ruolo di garante della sicurezza per cittadini e investitori. Parimenti, si trova a dover gestire un conflitto (in Cecenia, ndr ) che non ha iniziato. Non bisogna sottovalutare la necessità di un’evoluzione democratica. Non posso fare a meno di pensare, tuttavia, che Vladimir Putin abbia raggiunto risultati apprezzabili, più di quanto l’Occidente non veda».
L’Occidente confonde questi tentativi di ricostruzione dello Stato con tendenze dispotiche?
«Nessuno allude a tendenze dispotiche».
Ha cambiato opinione sul conflitto iracheno?
«No e non lo farò, ma la guerra è ormai un pezzo di storia. Ciò che conta è quel che ne è venuto. Europa e America nutrono un comune interesse allo sviluppo democratico dell'Iraq. Interesse che condivido, anche se mi accusano d’incoerenza. Mi chiedo quali siano gli interessi del mio Paese. Sono convinto che dobbiamo contribuire alla stabilità di tutto il Medio Oriente».
Sarebbe contrario all'apertura di un ufficio dell'Ue a Bagdad?
«Se la Commissione Ue giudicherà di dover assicurare la propria presenza a Bagdad, non avremo nulla in contrario».
The Wall Street
Journal Europe
(traduzione
di Maria Serena Natale)
Marc Champion
-------------------------------------------------------------------------------------
George e Jacques insieme «Fuori i siriani dal Libano»
«Invitare Chirac nel mio ranch? Cerco un bravo cowboy» «Questa cena dimostra l’importanza del nostro rapporto»
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
BRUXELLES - Seduti uno accanto all’altro, davanti a un finto fondale di Bruxelles, i due presidenti fanno di tutto per sprigionare se non amicizia, almeno vera comprensione. Alla fine, dopo quasi due anni di recriminazioni reciproche, l’americano George Bush e il francese Jacques Chirac riescono addirittura a firmare una «nota congiunta». E’ un appello secco (Bush avrebbe preferito un’intimazione) alla Siria perché richiami le truppe dal Libano (oltre 14 mila soldati). L’inchiostro della Casa Bianca si riconosce nell’aggettivo «immediato» aggiunto alla parola «ritiro»; la penna dell’Eliseo, invece, è visibile in quel lungo riferimento alle Nazioni Unite, che avrebbe fatto venire l’orticaria al Bush I. «Sosteniamo l’inchiesta dell’Onu sull’attentato terroristico contro Rafik Hariri (ex premier libanese)», recita il comunicato, che, con tutta probabilità, oggi sarà sottoscritto dagli altri 24 capi di Stato e di governo europei. Ma Chirac si è preso la libertà di anticipare tutti, «rubando la scena» a Tony Blair e anche a Silvio Berlusconi, gli alleati del tempo di guerra iracheno, gli interlocutori privilegiati che solo oggi incontreranno, in privato, il presidente americano. Bush, rilassato e a suo agio nel salottino dell’ambasciata statunitense, a un certo punto se n’è uscito al naturale. Una giornalista chiede al presidente statunitense: «Visto che i vostri rapporti sono così buoni, inviterà Chirac nel suo ranch nel Texas?». Bush inclina leggermente la testa e accenna un sorriso: «In effetti sto cercando un buon cowboy». Sguardi interrogativi, mentre Chirac annuisce. E infatti, a fine serata, salta fuori che Washington e Parigi stanno preparando da tempo la visita di «Chirac-cow boy», negli Stati Uniti. Si stanno cercando spazi nelle agende, ma il viaggio dovrebbe avvenire entro la fine dell’anno. Bush, in fondo, ieri lo ha preparato con queste parole: «E’ la mia prima cena sul suolo europeo da quando sono stato rieletto e la faccio con Jacques Chirac: questo significa qualcosa no? Significa quanto sia importante questo rapporto per me, personalmente, e quanto lo sia per il mio Paese». Fuori si gela, ma da qualche ora quattromila manifestanti gridano da ore slogan cattivi («Bush assassino»), reggendo striscioni e cartelli che, nel 2003 e nel 2004, avrebbe potuto confezionare lo stesso Chirac («Stop Bush», «Americani via dall’Iraq»). Ora, però, il capo di Stato francese non ha altre scelte: se vuole davvero tornare al centro del gioco politico europeo, non può che riprendere il dialogo con gli Stati Uniti. Sarebbe stato tutto più facile se gli elettori americani gli avessero spedito John Kerry, ci ha sperato fino all’ultimo. Ma c’è ancora Bush e con Bush bisogna rimettersi a fare i conti.
Il lavorio diplomatico bilaterale, perfezionato con la visita del segretario di Stato Condoleezza Rice, sembra aver dato i frutti attesi. I due leader scartano accuratamente i dossier controversi e valorizzano i punti di intesa (fino all’anno scorso avrebbero fatto esattamente il contrario). Al centro dell’universo di Bush ci sono le esigenze del dopoguerra iracheno: ci vorrebbe più impegno dell’Europa, soldati, armi, attrezzature. Ma Chirac dice di essere disponibile, come sforzo massimo, a spendere 15 milioni di euro per addestrare 1.500 gendarmi, non a Bagdad, sia chiaro, ma nel confortevole Quatar. Inoltre Parigi consentirà oggi al segretario generale della Nato, Jaap de Hoop Sheffer di presentare come un grande successo il modesto aumento degli esperti (da 110 a 200-300) inviati per addestrare gli ufficiali dell’esercito iracheno. Anche Bush, per ora, si deve accontentare. Come dovrà fare pure per i programmi nucleari dell’Iran. Nel corso delle due orette passate a tavola, Chirac ha spiegato che i «negoziatori», cioè i ministri degli Esteri di Francia, Gran Bretagna e Germania, non hanno fretta, anche se gli americani vorrebbero tagliare corto. L’altra area di contrasto è l’embargo alla Cina. I due capi di Stato ne hanno accennato brevemente, poi hanno preferito prendere nota delle posizioni ancora distanti e «lasciare maturare» il confronto. Le visioni comuni, invece, «la musica» come l’ha definita Javier Solana, possono risultare efficaci altrove. Con la Russia, per esempio, nel Medio Oriente e, appunto sul nuovo fronte Siria-Libano. Le ricadute politiche del nuovo corso potrebbero dare una mano anche alla cooperazione economica, dove non mancano le grane, come l’ambiente, «lo sviluppo sostenibile». Bush e Chirac hanno solo elencato i titoli, rimandandoli al vertice G8 di luglio in Scozia. Si è fatto tardi: per Bush e Chirac è già andata bene così.
Giuseppe Sarcina
http://www.corriere.it/edicola/index.jsp?path=ESTERI&doc=CHIRAC
20.2.05
Manifesto per la storia
Dal preteso «scontro di civiltà» alla concretissima crisi sociale, dalle angosce esistenziali alle chiusure identitarie, tutto spinge a rilanciare il lavoro degli storici per comprendere l'evoluzione degli esseri umani e delle società. Nel corso degli ultimi decenni, il relativismo, in campo storico, ha marciato spesso al ritmo del consenso politico. Al contrario, è tempo di «ricostruire un fronte della ragione» per promuovere una nuova concezione della storia. È l'invito di Eric Hobsbawm, uno dei più grandi storici contemporanei, di cui pubblichiamo il discorso pronunciato il 13 novembre 2004 a conclusione del seminario sulla storiografia marxista, tenutosi all'Accademia britannica.
Eric Hobsbawm
«I filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo; si tratta di trasformarlo». (1) Le due parti della celebre «tesi su Feuerbach» di Marx, riferite al filosofo tedesco, hanno ispirato due linee di sviluppo parallele della storiografia marxista. La maggior parte degli intellettuali che abbracciarono il marxismo a partire dagli anni 1880 (inclusi gli storici marxisti), volevano trasformare il mondo, in collaborazione con i movimenti operai e socialisti; movimenti che stavano diventando, grazie all'influenza del marxismo, forze politiche di massa. La cooperazione fra intellettuali e masse orientò gli storici che intendevano cambiare il mondo, verso determinati campi di studio, in particolare la storia del popolo o della popolazione operaia che, se attiravano naturalmente le persone di sinistra, non possedevano all'origine alcun rapporto particolare con una visione marxista. All'opposto, quando a partire dagli anni 1890 molti intellettuali smisero di essere dei rivoluzionari sociali, spesso cessarono anche di professarsi marxisti.
La rivoluzione sovietica dell'ottobre 1917 rinfocolò tale impegno.
Ricordiamoci, infatti, che il marxismo fu abbandonato formalmente dai principali partiti socialdemocratici dell'Europa continentale, solo negli anni '50, se non più tardi. La rivoluzione d'ottobre determinerà inoltre una storiografia marxista per così dire obbligatoria in Urss e negli stati posti in seguito sotto l'influenza del regime comunista.
La motivazione militante venne ulteriormente rafforzata durante il periodo dell'antifascismo. A partire dagli anni '50, tale tendenza si affievolì nei paesi sviluppati - ma non nel terzo mondo - sebbene l'evoluzione considerevole dell'insegnamento universitario e l'agitazione studentesca, daranno vita, durante gli anni '60, in seno all'Università, a un nuovo e importante contingente di persone decise a cambiare il mondo. Tuttavia, pur essendo radicali, molti dei contestatari non erano propriamente marxisti, alcuni - anzi - non lo erano affatto.
Questa risorgenza ideologica raggiunse l'acme negli anni '70, un po' prima che iniziasse - ancora una volta per ragioni essenzialmente politiche - una reazione di massa contro il marxismo. L'effetto principale di tale reazione fu di eliminare - tranne fra i neoliberali che vi aderiscono ancora - l'idea che si possa predire, con il sostegno dell'analisi storica, il successo di una particolare organizzazione della società umana. La storia è stata disgiunta dalla teleologia.
(2).
Considerate le incerte prospettive che si offrono ai movimenti socialdemocratici e social-rivoluzionari, risulta improbabile che si possa assistere a una nuova corsa verso il marxismo politicamente motivato. Ma facciamo attenzione a non cadere in una visione eccessivamente occidentalocentrica.
A giudicare dalla richiesta di cui sono oggetto le mie opere storiche, constato che la domanda si è sviluppata dopo gli anni 1980 in Corea del Sud e Taiwan, dopo gli anni 1990 in Turchia e che - secondo alcuni segnali - adesso aumenta nei paesi di lingua araba.
Ma che ne è stato del filone inerente alla «capacità di interpretare il mondo» del marxismo? La storia è un po' diversa, ma viaggia anche in parallelo all'altra dimensione. Riguarda la crescita di quella che si può definire la reazione anti-Ranke (3), di cui il marxismo ha rappresentato un elemento importante, anche se ciò non gli è stato sempre riconosciuto integralmente. S'è trattato, essenzialmente, di un doppio movimento.
Da una parte questa tendenza contestava l'idea positivista, secondo cui la struttura oggettiva della realtà era per così dire evidente: bastava applicare la metodologia scientifica, spiegare perché i fatti erano accaduti e come, per scoprire «wie es eigentlich gewesen» (come era andata realmente)... Per tutti gli storici, la storiografia è stata e rimane ancorata a una realtà oggettiva, ovvero la realtà di ciò che è accaduto nel passato. Tuttavia essa non parte dai fatti, ma dai problemi ed esige che si indaghi per comprendere perché e come questi problemi - paradigmi e concetti - siano stati formulati così all'interno di tradizioni storiche e ambienti socio-culturali differenti.
D'altra parte, questo movimento tentava di avvicinare le scienze sociali alla storia e di inglobarle, di conseguenza, in una disciplina generale in grado di spiegare le trasformazioni della società umana.
Per usare la formula di Lawrence Stone (4), l'oggetto della storia doveva consistere nel «porre le grandi questioni del"perché"». Questo «tornante sociale» non è derivato dalla storiografia ma dalle scienze sociali, alcune germinanti in quanto tali, che si affermavano all'epoca come discipline evoluzioniste, ovvero storiche.
Se Marx si può considerare il padre della sociologia della conoscenza, il marxismo - benché sia stato accusato, a torto, di un presunto oggettivismo cieco - ha contribuito, senza dubbio, al primo aspetto di questo movimento. Inoltre, l'impatto più noto delle idee marxiste - l'importanza attribuita ai fattori economici e sociali - non era specificamente marxista, benché l'analisi marxista abbia avuto un peso considerevolmente in questo orientamento. Tale impostazione si inscriveva in un movimento storiografico generale, evidente dagli anni 1890 e al culmine tra il 1950 e il 1960, a tutto vantaggio della mia generazione di storici, che ha avuto la fortuna di trasformare questa disciplina.
La suddetta corrente socio-economica travalicava il marxismo. La creazione di riviste e di istituzioni della storia economico-sociale è stata a volte, come in Germania, opera di socialdemocratici marxisti, come nel caso della rivista Vierteljahrschrift, nel 1893. Casi analoghi non si verificarono però in Gran Bretagna, in Francia o negli Stati uniti. Persino in Germania, la scuola di economia d'impronta fortemente storica, non aveva niente di marxista. Soltanto nel terzo mondo del XIX secolo (Russia e Balcani) e in quello del XX secolo, la storia economica ha assunto un orientamento prima di tutto socialrivoluzionario, al pari di ogni «scienza sociale».
Di conseguenza, tale disciplina è stata attratta fortemente da Marx.
In ogni caso l'interesse storico degli storici marxisti non è tanto rivolto alla «base» (l'infrastruttura economica), quanto al rapporto fra base e sovrastruttura. Gli storici dichiaratamente marxisti sono sempre stati relativamente poco numerosi. Marx ha influenzato principalmente la storia, mediante lo stratagemma degli storici e dei ricercatori in scienza sociale, che hanno ripreso le questioni che egli aveva posto - indipendentemente dal fatto che abbiano apportato loro altre risposte o meno. Da parte sua la storiografia marxista è notevolmente progredita, rispetto a ciò che era all'epoca di Kautsky e Georgy Plekanov (5), grazie al fertile innesto di altre discipline (in particolare l'antropologia sociale), e al contributo scientifico di pensatori influenzati da Marx, come Max Weber, che sono giunti a completarne il pensiero (6).
La svolta sociale Se qui sottolineo il carattere generale di questa corrente storiografica non è certo per minimizzare le divergenze latenti o dichiarate all'interno delle sue componenti. I modernizzatori della storia si sono posti le stesse domande e hanno voluto impegnarsi nelle stesse battaglie intellettuali: sia che traessero ispirazione dalla geografia umana, o dalla sociologia di Durkheim (7), o dalla statistica - utilizzate, in Francia, vuoi dagli Annali, vuoi da Labrousse - , sia che facessero riferimento alla sociologia weberiana, alla «Historische Sozialwissenschaft» della Germania federale, oppure al marxismo degli storici del Partito comunista, vettori della modernizzazione storica in Gran Bretagna o, quanto meno, fondatori della sua principale rivista. Gli uni e gli altri si considerano alleati contro il conservatorismo in campo storico, anche quando le loro posizioni politiche e ideologiche sono state antagoniste come nel caso di Michel Postan (8) e dei suoi allievi marxisti britannici. Tale coalizione progressista trovò la sua espressione esemplare nella rivista Past and Present, fondata nel 1952, che divenne riferimento autorevole nel mondo degli storici. La rivista ebbe successo perché i giovani marxisti che la fondarono rifiutarono deliberatamente l'esclusività ideologica, e così i giovani modernizzatori, provenienti da altri orizzonti ideologici, furono pronti a raggiungerli, consapevoli che le differenze ideologiche e politiche non avrebbero rappresentato un ostacolo alla reciproca collaborazione. Il fronte del progresso avanzò in modo spettacolare fra la fine della seconda guerra mondiale e gli anni 1970, in quello che Lawrence Stone definisce «un vasto insieme di sconvolgimenti nella natura del discorso storico». Il processo continuò fino alla crisi del 1985, che vide il passaggio dagli studi quantitativi agli studi qualitativi: dalla macro alla microstoria, dalle analisi strutturali ai racconti; dal sociale alle tematiche culturali...
Da allora, la coalizione modernizzatrice è sulla difensiva, persino nelle sue componenti non marxiste come la storia economica e sociale.
Negli anni '70, la corrente dominante in campo storico aveva subito un tale mutamento - per l'influenza, in particolare, delle «grandi questioni» poste alla maniera di Marx - , che io scrissi: «È spesso impossibile dire se un'opera è stata scritta da un marxista o da un non-marxista, a meno che l'autore non dichiari la sua posizione ideologica... Attendo con impazienza il giorno in cui più nessuno domanderà se gli autori sono o non sono marxisti!» Ma, come al contempo evidenziavo, eravamo lontani da una tale utopia. Da allora, l'esigenza di sottolineare l'apporto concreto del marxismo alla storiografia è diventata anzi più forte. Non avveniva così da molto tempo: sia perché la storia ha bisogno di essere difesa dagli attacchi di quanti negano la sua capacità di aiutarci a comprendere il mondo, e poi per via dei nuovi sviluppi scientifici che hanno scompigliato il calendario storiografico. Sul piano metodologico, il fenomeno negativo più rilevante è stato costruire un insieme di barriere tra ciò che è successo - o che accade - , nella storia, e la nostra capacità di osservare questi fatti e comprenderli. Questi blocchi derivano dal rifiuto di ammettere che esista una realtà oggettiva, che essa non è costruita dall'osservatore in rapporto a fini differenti e mutevoli né dovuta alla convinzione che non si possano oltrepassare i limiti del linguaggio, ovvero dei concetti che rappresentano il solo modo con cui possiamo parlare del mondo e del passato.
Una visione simile elimina la domanda se esistano schemi e regolarità nel passato, utili allo storico per formulare proposte significative.
Tuttavia, alcune ragioni meno teoriche spingono comunque a un tale rifiuto: si concluderà così che il corso del passato è troppo contingente, e cioè che le generalizzazioni sono escluse, poiché in pratica potrebbe succedere, o sarebbe potuto accadere, qualsiasi avvenimento. Questi argomenti riguardano implicitamente tutte le scienze.Tralasciamo i tentativi più futili di recuperare vecchie concezioni: attribuire il corso della storia a decisionisti politici o a militari di alto grado, all'onnipotenza delle idee o ai «valori»; oppure ridurre la dottrina storica alla ricerca, importante ma in sé insufficiente, di un'empatia con il passato... Il maggior pericolo politico immediato, che minaccia la storiografia attuale è costituito dall'«anti-universalismo» per cui «la mia verità è valida quanto la tua, quali che siano i fatti». L'anti-universalismo seduce naturalmente la storia dei gruppi identitari, nelle loro differenti forme, per cui oggetto essenziale della storia non è ciò che è accaduto, ma in che cosa ciò che è successo riguarda i membri di un gruppo particolare. In generale, ciò che conta per questo genere di storia, non è la spiegazione razionale, ma «il significato»; non quindi l'avvenimento che si è prodotto, ma il modo in cui i membri di una collettività, che si definisce in contrapposizione alle altre - in termini di religione, etnia, nazione, sesso, modo di vita, o altro - percepiscono quello che è avvenuto...
Il fascino del relativismo fa presa sulla storia dei gruppi identitari.
Per motivi diversi l'invenzione di massa delle controverità storiche e dei miti -che sono altrettante deformazioni dettate dall'emozione - ha conosciuto una vera e propria età dell'oro nel corso degli ultimi trent'anni. Alcuni di questi miti costituiscono un pericolo pubblico.
Si vedano paesi come l'India all'epoca del governo induista (9), gli Stati uniti e l'Italia di Silvio Berlusconi, per non parlare dei nuovi nazionalismi - spinti o meno dall'integralismo religioso.
Darwin e Marx In ogni caso, benché questo fenomeno, nei margini più lontani dalla storia, abbia generato abbagli e stupidaggini in certi gruppi particolari - nazionalisti, femministi, gay, neri ed altri - ha parimenti dato origine a sviluppi storici inediti e molto interessanti nell'ambito degli studi culturali, quali «il boom della memoria negli studi storici contemporanei», come lo definisce Jay Winter (10). La ricerca Les Lieux de mémoire («I luoghi della memoria»), coordinata da Pierre Nora (11) ne è un buon esempio.
Di fronte a simili derive, è tempo di ripristinare l'alleanza tra coloro che vogliono vedere nella storia una modalità razionale di indagine sulle trasformazioni umane: sia per contrastare chi la manipola a fini politici che, più in generale, per opporsi a relativisti e postmodernisti, ciechi a questa possibilità offerta dalla storia.
Fra i sunnominati relativisti, alcuni si considerano di sinistra e altri posmoderni. Sfaldature politiche inattese rischiano dunque di dividere gli storici attuali. L'approccio marxista si rivela perciò un elemento necessario per ricostruire il fronte della ragione, come già lo fu durante gli anni 1950 e 1960. Il contributo marxista risulta, infatti, ancora più pertinente oggi che altre componenti della coalizione di allora hanno abdicato. Fra queste la scuola delle Annales, con Fernand Braudel, e l'«antropologia sociale struttural-funzionale», la cui influenza è stata molto grande fra gli storici. Questa disciplina è stata particolarmente scossa dalla corsa verso la soggettività postmoderna.
Nel frattempo, mentre i postmodernisti negavano la possibilità di una comprensione storica, i progressi ottenuti nell'ambito delle scienze naturali, restituivano a una storia evoluzionista dell'umanità la piena attualità. Senza che gli storici se ne accorgessero veramente.
Ciò è avvenuto in due modi.
In primo luogo, l'analisi del Dna ha stabilito una cronologia più solida e precisa dello sviluppo, dall'apparizione dell'homo sapiens in quanto specie, in particolare per quanto riguarda la cronologia dell'espansione, nel resto del mondo, di questa specie originaria dell'Africa, e degli sviluppi che ne sono seguiti, prima che comparissero fonti scritte. Nello stesso tempo, questa scoperta ha rivelato la stupefacente brevità della storia umana - in base ai criteri geologici e paleontologici - e ha eliminato la soluzione riduzionista della sociobiologia darwiniana (12). Le trasformazioni della vita umana, sia collettiva che individuale, nel corso degli ultimi diecimila anni, e particolarmente nel corso delle ultime dieci generazioni, sono troppo rilevanti per spiegarsi, tramite i geni, secondo un meccanismo integralmente darwiniano. Le trasformazioni registrate corrispondono a un'accelerazione della trasmissione di caratteristiche acquisite, mediante meccanismi non genetici ma culturali. Si potrebbe affermare che si si tratta della rivincita di Lamarck (13) su Darwin, per il tramite della storia humana! Non serve a granché travestire il fenomeno con metafore biologiche, parlando di «memi» (14), piuttosto che di «geni». I patrimoni culturali e biologici non funzionano nello stesso modo.
Per riassumere, la rivoluzione del Dna richiede un metodo particolare, storico, per studiare l'evoluzione della specie umana. E, per inciso, essa fornisce anche un quadro razionale per una storia del mondo.
Una storia che considera il pianeta in tutta la sua complessità, come unità di studi storici, non come un contesto particolare o una regione circoscritta. In altri termini la storia è il proseguimento dell'evoluzione biologica dell'homo sapiens con altri mezzi...
In secondo luogo, la nuova biologia evoluzionista elimina la distinzione rigorosa fra storia e scienze naturali, già in gran parte cancellata dalla «storicizzazione « sistematica di queste scienze, negli ultimi decenni. Luigi Luca Cavalli-Sforza, uno dei pionieri multidisciplinari della rivoluzione del Dna, parla del «piacere intellettuale che si prova nel trovare tante analogie fra ambiti di studio disparati, alcuni dei quali appartengono tradizionalmente ai due poli opposti della cultura: la scienza e l'umanistica». In breve: la nuova biologia ci libera dal falso dibattito circa la questione della storia in quanto scienza o non scienza. In terzo luogo, questa disciplina ci riporta inevitabilmente all'approccio di base della evoluzione umana, adottata da archeologi e studiosi della preistoria, che consiste nello studio delle modalità di interazione (e controllo crescente) fra la nostra specie e l'ambiente. Riecco quindi le questioni poste da Karl Marx. I «modi di produzione» (comunque si vogliano definire), fondati su maggiori innovazioni della tecnologia produttiva, della comunicazione e dell'organizzazione sociale - ma anche sulla potenza militare - sono al centro dell'evoluzione umana.
Tali innovazioni, di cui Marx era consapevole, non sono sopraggiunte e non arriveranno certo da sole. Le forze materiali e culturali, e i rapporti di produzione, non sono scindibili. Rappresentano, infatti, le attività di uomini e donne artefici della propria storia, ma non nel vuoto, non al di fuori della vita materiale né del loro passato storico. Di conseguenza, le nuove prospettive per la storia, devono anche ricondurci a questo obiettivo essenziale - per quanto non sia mai completamente realizzabile - per chi studia il passato: «La storia totale» - non la «storia di tutto» ma la storia intesa come una tela indivisibile, nella quale tutte le attività umane sono interconnesse - è lo scopo della ricerca. I marxisti non sono i soli che hanno puntato a questo obiettivo. Anche Fernand Braudel si è posto questo scopo, ma sono i marxisti che l'hanno perseguito con maggiore tenacia, come ha precisato uno di loro, Pierre Vilar (15).
Fra le questioni importanti sollevate da queste nuove prospettive, quella che ci riconduce all'evoluzione storica dell'uomo è fondamentale.
Si tratta del conflitto che vede da una parte le forze responsabili della trasformazione dell'homo sapiens, a partire dall'umanità del neolitico fino all'umanità dell'epoca nucleare, dall'altra le forze che mantengono immutabili la riproduzione e la stabilità delle collettività umane, o dei contesti sociali, e che nella maggior parte del corso storico le hanno efficacemente neutralizzate. È un problema teorico è centrale. L'equilibrio delle forze pende in modo decisivo verso una direzione determinata.
Lo squilibrio, che forse va al di là dell'umana comprensione, supera certamente la capacità di controllo delle istituzioni sociali e politiche degli esseri umani. Gli storici marxisti, che non avevano compreso le conseguenze involontarie e indesiderabili dei progetti collettivi umani propri del XX secolo, questa volta, forti della loro esperienza pratica, potranno forse aiutarci a comprendere come siamo arrivati a questo punto.
note:
* Storico inglese. Autore di Il secolo breve, Rizzoli, 2000.
(1) Marx-Engels, Opere, V vol., Editori Riuniti
(2) Teleologia: dottrina che si fonda sull'idea di finalità.
(3) Reazione contro Leopold von Ranke (1795-1886), considerato il padre della principale scuola di storiografia universitaria, prima del 1914. Autore in particolare dei volumi Storia del popolo romano e germanico dal 1494 al 1535 (1824) e Histoire du monde (Weltgeschichte) (1881-1888- testo incompiuto).
(4) Lawrence Stone (1920-1990) una tra le più eminenti e influenti personalità della storia sociale. Fu autore, segnatamente dei volumi The cause of the English Revolution 1529-1642 (1972) (trad. it. Le cause della rivoluzione inglese, Einaudi, 2001) e The family, Sex and Marriage in England, 1500-1800 (1977).
(5) Furono dirigenti, l'uno della socialdemocrazia tedesca, l'altro della socialdemocrazia russa, all'inizio del XX secolo.
(6) Max Weber (1864-1920), sociologo tedesco.
(7) Dal nome di Emile Durkheim (1858-1917) che ha fondato Le regole del metodo sociologico (1895) Einaudi, 2001 e che è considerato, dunque, uno dei padri della sociologia moderna. Fu autore in particolare del saggio La divisione del lavoro sociale (1893) Einaudi, 1999 e della ricerca: Il suicidio (1897).
(8) Dal 1937 Michael Postan tiene la cattedra di storia economica all'Università di Cambridge. È stato ispiratore, insieme a Fernand Braudel, dell'Associazione internazionale di storia economica.
(9) Il partito Bharatiya Janata (Bjp) ha diretto il governo indiano dal 1999 fino a maggio del 2004.
(10) È professore all'Università di Columbia (New York), considerato uno dei grandi specialisti della storia delle guerre del XX secolo e soprattutto dei «luoghi della memoria».
(11) Cfr: Les Lieux de mémoire, Gallimard, Paris, 3 voll., 1984, 1986, 1993
(12) Dal nome di Charles Darwin (1809-1882), naturalista inglese che ha teorizzato l'evoluzione della specie fondata sulla selezione naturale.
(13) Jean-Baptiste Lamark (1744-1829), naturalista francese che, per primo, ha contestato l'idea della permanenza della specie.
(14) I «memi» secondo Richard Dawkins, uno dei capofila del neo-darwinismo, sono unità di base della memoria, considerati vettori della trasmissione e sopravvivenza culturale, così come i geni sono i vettori della sopravvivenza delle caratteristiche genetiche degli individui.
(15) Si legga, in proposito, Une histoire en construction: approche marxiste et problématique conjoncturelle, Gallimard-Seuil, Paris,1982.
(Traduzione di E.G.)
http://www.ilmanifesto.it/MondeDiplo/LeMonde-archivio/ultimo/0412lm01.02.html
Eric Hobsbawm
«I filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo; si tratta di trasformarlo». (1) Le due parti della celebre «tesi su Feuerbach» di Marx, riferite al filosofo tedesco, hanno ispirato due linee di sviluppo parallele della storiografia marxista. La maggior parte degli intellettuali che abbracciarono il marxismo a partire dagli anni 1880 (inclusi gli storici marxisti), volevano trasformare il mondo, in collaborazione con i movimenti operai e socialisti; movimenti che stavano diventando, grazie all'influenza del marxismo, forze politiche di massa. La cooperazione fra intellettuali e masse orientò gli storici che intendevano cambiare il mondo, verso determinati campi di studio, in particolare la storia del popolo o della popolazione operaia che, se attiravano naturalmente le persone di sinistra, non possedevano all'origine alcun rapporto particolare con una visione marxista. All'opposto, quando a partire dagli anni 1890 molti intellettuali smisero di essere dei rivoluzionari sociali, spesso cessarono anche di professarsi marxisti.
La rivoluzione sovietica dell'ottobre 1917 rinfocolò tale impegno.
Ricordiamoci, infatti, che il marxismo fu abbandonato formalmente dai principali partiti socialdemocratici dell'Europa continentale, solo negli anni '50, se non più tardi. La rivoluzione d'ottobre determinerà inoltre una storiografia marxista per così dire obbligatoria in Urss e negli stati posti in seguito sotto l'influenza del regime comunista.
La motivazione militante venne ulteriormente rafforzata durante il periodo dell'antifascismo. A partire dagli anni '50, tale tendenza si affievolì nei paesi sviluppati - ma non nel terzo mondo - sebbene l'evoluzione considerevole dell'insegnamento universitario e l'agitazione studentesca, daranno vita, durante gli anni '60, in seno all'Università, a un nuovo e importante contingente di persone decise a cambiare il mondo. Tuttavia, pur essendo radicali, molti dei contestatari non erano propriamente marxisti, alcuni - anzi - non lo erano affatto.
Questa risorgenza ideologica raggiunse l'acme negli anni '70, un po' prima che iniziasse - ancora una volta per ragioni essenzialmente politiche - una reazione di massa contro il marxismo. L'effetto principale di tale reazione fu di eliminare - tranne fra i neoliberali che vi aderiscono ancora - l'idea che si possa predire, con il sostegno dell'analisi storica, il successo di una particolare organizzazione della società umana. La storia è stata disgiunta dalla teleologia.
(2).
Considerate le incerte prospettive che si offrono ai movimenti socialdemocratici e social-rivoluzionari, risulta improbabile che si possa assistere a una nuova corsa verso il marxismo politicamente motivato. Ma facciamo attenzione a non cadere in una visione eccessivamente occidentalocentrica.
A giudicare dalla richiesta di cui sono oggetto le mie opere storiche, constato che la domanda si è sviluppata dopo gli anni 1980 in Corea del Sud e Taiwan, dopo gli anni 1990 in Turchia e che - secondo alcuni segnali - adesso aumenta nei paesi di lingua araba.
Ma che ne è stato del filone inerente alla «capacità di interpretare il mondo» del marxismo? La storia è un po' diversa, ma viaggia anche in parallelo all'altra dimensione. Riguarda la crescita di quella che si può definire la reazione anti-Ranke (3), di cui il marxismo ha rappresentato un elemento importante, anche se ciò non gli è stato sempre riconosciuto integralmente. S'è trattato, essenzialmente, di un doppio movimento.
Da una parte questa tendenza contestava l'idea positivista, secondo cui la struttura oggettiva della realtà era per così dire evidente: bastava applicare la metodologia scientifica, spiegare perché i fatti erano accaduti e come, per scoprire «wie es eigentlich gewesen» (come era andata realmente)... Per tutti gli storici, la storiografia è stata e rimane ancorata a una realtà oggettiva, ovvero la realtà di ciò che è accaduto nel passato. Tuttavia essa non parte dai fatti, ma dai problemi ed esige che si indaghi per comprendere perché e come questi problemi - paradigmi e concetti - siano stati formulati così all'interno di tradizioni storiche e ambienti socio-culturali differenti.
D'altra parte, questo movimento tentava di avvicinare le scienze sociali alla storia e di inglobarle, di conseguenza, in una disciplina generale in grado di spiegare le trasformazioni della società umana.
Per usare la formula di Lawrence Stone (4), l'oggetto della storia doveva consistere nel «porre le grandi questioni del"perché"». Questo «tornante sociale» non è derivato dalla storiografia ma dalle scienze sociali, alcune germinanti in quanto tali, che si affermavano all'epoca come discipline evoluzioniste, ovvero storiche.
Se Marx si può considerare il padre della sociologia della conoscenza, il marxismo - benché sia stato accusato, a torto, di un presunto oggettivismo cieco - ha contribuito, senza dubbio, al primo aspetto di questo movimento. Inoltre, l'impatto più noto delle idee marxiste - l'importanza attribuita ai fattori economici e sociali - non era specificamente marxista, benché l'analisi marxista abbia avuto un peso considerevolmente in questo orientamento. Tale impostazione si inscriveva in un movimento storiografico generale, evidente dagli anni 1890 e al culmine tra il 1950 e il 1960, a tutto vantaggio della mia generazione di storici, che ha avuto la fortuna di trasformare questa disciplina.
La suddetta corrente socio-economica travalicava il marxismo. La creazione di riviste e di istituzioni della storia economico-sociale è stata a volte, come in Germania, opera di socialdemocratici marxisti, come nel caso della rivista Vierteljahrschrift, nel 1893. Casi analoghi non si verificarono però in Gran Bretagna, in Francia o negli Stati uniti. Persino in Germania, la scuola di economia d'impronta fortemente storica, non aveva niente di marxista. Soltanto nel terzo mondo del XIX secolo (Russia e Balcani) e in quello del XX secolo, la storia economica ha assunto un orientamento prima di tutto socialrivoluzionario, al pari di ogni «scienza sociale».
Di conseguenza, tale disciplina è stata attratta fortemente da Marx.
In ogni caso l'interesse storico degli storici marxisti non è tanto rivolto alla «base» (l'infrastruttura economica), quanto al rapporto fra base e sovrastruttura. Gli storici dichiaratamente marxisti sono sempre stati relativamente poco numerosi. Marx ha influenzato principalmente la storia, mediante lo stratagemma degli storici e dei ricercatori in scienza sociale, che hanno ripreso le questioni che egli aveva posto - indipendentemente dal fatto che abbiano apportato loro altre risposte o meno. Da parte sua la storiografia marxista è notevolmente progredita, rispetto a ciò che era all'epoca di Kautsky e Georgy Plekanov (5), grazie al fertile innesto di altre discipline (in particolare l'antropologia sociale), e al contributo scientifico di pensatori influenzati da Marx, come Max Weber, che sono giunti a completarne il pensiero (6).
La svolta sociale Se qui sottolineo il carattere generale di questa corrente storiografica non è certo per minimizzare le divergenze latenti o dichiarate all'interno delle sue componenti. I modernizzatori della storia si sono posti le stesse domande e hanno voluto impegnarsi nelle stesse battaglie intellettuali: sia che traessero ispirazione dalla geografia umana, o dalla sociologia di Durkheim (7), o dalla statistica - utilizzate, in Francia, vuoi dagli Annali, vuoi da Labrousse - , sia che facessero riferimento alla sociologia weberiana, alla «Historische Sozialwissenschaft» della Germania federale, oppure al marxismo degli storici del Partito comunista, vettori della modernizzazione storica in Gran Bretagna o, quanto meno, fondatori della sua principale rivista. Gli uni e gli altri si considerano alleati contro il conservatorismo in campo storico, anche quando le loro posizioni politiche e ideologiche sono state antagoniste come nel caso di Michel Postan (8) e dei suoi allievi marxisti britannici. Tale coalizione progressista trovò la sua espressione esemplare nella rivista Past and Present, fondata nel 1952, che divenne riferimento autorevole nel mondo degli storici. La rivista ebbe successo perché i giovani marxisti che la fondarono rifiutarono deliberatamente l'esclusività ideologica, e così i giovani modernizzatori, provenienti da altri orizzonti ideologici, furono pronti a raggiungerli, consapevoli che le differenze ideologiche e politiche non avrebbero rappresentato un ostacolo alla reciproca collaborazione. Il fronte del progresso avanzò in modo spettacolare fra la fine della seconda guerra mondiale e gli anni 1970, in quello che Lawrence Stone definisce «un vasto insieme di sconvolgimenti nella natura del discorso storico». Il processo continuò fino alla crisi del 1985, che vide il passaggio dagli studi quantitativi agli studi qualitativi: dalla macro alla microstoria, dalle analisi strutturali ai racconti; dal sociale alle tematiche culturali...
Da allora, la coalizione modernizzatrice è sulla difensiva, persino nelle sue componenti non marxiste come la storia economica e sociale.
Negli anni '70, la corrente dominante in campo storico aveva subito un tale mutamento - per l'influenza, in particolare, delle «grandi questioni» poste alla maniera di Marx - , che io scrissi: «È spesso impossibile dire se un'opera è stata scritta da un marxista o da un non-marxista, a meno che l'autore non dichiari la sua posizione ideologica... Attendo con impazienza il giorno in cui più nessuno domanderà se gli autori sono o non sono marxisti!» Ma, come al contempo evidenziavo, eravamo lontani da una tale utopia. Da allora, l'esigenza di sottolineare l'apporto concreto del marxismo alla storiografia è diventata anzi più forte. Non avveniva così da molto tempo: sia perché la storia ha bisogno di essere difesa dagli attacchi di quanti negano la sua capacità di aiutarci a comprendere il mondo, e poi per via dei nuovi sviluppi scientifici che hanno scompigliato il calendario storiografico. Sul piano metodologico, il fenomeno negativo più rilevante è stato costruire un insieme di barriere tra ciò che è successo - o che accade - , nella storia, e la nostra capacità di osservare questi fatti e comprenderli. Questi blocchi derivano dal rifiuto di ammettere che esista una realtà oggettiva, che essa non è costruita dall'osservatore in rapporto a fini differenti e mutevoli né dovuta alla convinzione che non si possano oltrepassare i limiti del linguaggio, ovvero dei concetti che rappresentano il solo modo con cui possiamo parlare del mondo e del passato.
Una visione simile elimina la domanda se esistano schemi e regolarità nel passato, utili allo storico per formulare proposte significative.
Tuttavia, alcune ragioni meno teoriche spingono comunque a un tale rifiuto: si concluderà così che il corso del passato è troppo contingente, e cioè che le generalizzazioni sono escluse, poiché in pratica potrebbe succedere, o sarebbe potuto accadere, qualsiasi avvenimento. Questi argomenti riguardano implicitamente tutte le scienze.Tralasciamo i tentativi più futili di recuperare vecchie concezioni: attribuire il corso della storia a decisionisti politici o a militari di alto grado, all'onnipotenza delle idee o ai «valori»; oppure ridurre la dottrina storica alla ricerca, importante ma in sé insufficiente, di un'empatia con il passato... Il maggior pericolo politico immediato, che minaccia la storiografia attuale è costituito dall'«anti-universalismo» per cui «la mia verità è valida quanto la tua, quali che siano i fatti». L'anti-universalismo seduce naturalmente la storia dei gruppi identitari, nelle loro differenti forme, per cui oggetto essenziale della storia non è ciò che è accaduto, ma in che cosa ciò che è successo riguarda i membri di un gruppo particolare. In generale, ciò che conta per questo genere di storia, non è la spiegazione razionale, ma «il significato»; non quindi l'avvenimento che si è prodotto, ma il modo in cui i membri di una collettività, che si definisce in contrapposizione alle altre - in termini di religione, etnia, nazione, sesso, modo di vita, o altro - percepiscono quello che è avvenuto...
Il fascino del relativismo fa presa sulla storia dei gruppi identitari.
Per motivi diversi l'invenzione di massa delle controverità storiche e dei miti -che sono altrettante deformazioni dettate dall'emozione - ha conosciuto una vera e propria età dell'oro nel corso degli ultimi trent'anni. Alcuni di questi miti costituiscono un pericolo pubblico.
Si vedano paesi come l'India all'epoca del governo induista (9), gli Stati uniti e l'Italia di Silvio Berlusconi, per non parlare dei nuovi nazionalismi - spinti o meno dall'integralismo religioso.
Darwin e Marx In ogni caso, benché questo fenomeno, nei margini più lontani dalla storia, abbia generato abbagli e stupidaggini in certi gruppi particolari - nazionalisti, femministi, gay, neri ed altri - ha parimenti dato origine a sviluppi storici inediti e molto interessanti nell'ambito degli studi culturali, quali «il boom della memoria negli studi storici contemporanei», come lo definisce Jay Winter (10). La ricerca Les Lieux de mémoire («I luoghi della memoria»), coordinata da Pierre Nora (11) ne è un buon esempio.
Di fronte a simili derive, è tempo di ripristinare l'alleanza tra coloro che vogliono vedere nella storia una modalità razionale di indagine sulle trasformazioni umane: sia per contrastare chi la manipola a fini politici che, più in generale, per opporsi a relativisti e postmodernisti, ciechi a questa possibilità offerta dalla storia.
Fra i sunnominati relativisti, alcuni si considerano di sinistra e altri posmoderni. Sfaldature politiche inattese rischiano dunque di dividere gli storici attuali. L'approccio marxista si rivela perciò un elemento necessario per ricostruire il fronte della ragione, come già lo fu durante gli anni 1950 e 1960. Il contributo marxista risulta, infatti, ancora più pertinente oggi che altre componenti della coalizione di allora hanno abdicato. Fra queste la scuola delle Annales, con Fernand Braudel, e l'«antropologia sociale struttural-funzionale», la cui influenza è stata molto grande fra gli storici. Questa disciplina è stata particolarmente scossa dalla corsa verso la soggettività postmoderna.
Nel frattempo, mentre i postmodernisti negavano la possibilità di una comprensione storica, i progressi ottenuti nell'ambito delle scienze naturali, restituivano a una storia evoluzionista dell'umanità la piena attualità. Senza che gli storici se ne accorgessero veramente.
Ciò è avvenuto in due modi.
In primo luogo, l'analisi del Dna ha stabilito una cronologia più solida e precisa dello sviluppo, dall'apparizione dell'homo sapiens in quanto specie, in particolare per quanto riguarda la cronologia dell'espansione, nel resto del mondo, di questa specie originaria dell'Africa, e degli sviluppi che ne sono seguiti, prima che comparissero fonti scritte. Nello stesso tempo, questa scoperta ha rivelato la stupefacente brevità della storia umana - in base ai criteri geologici e paleontologici - e ha eliminato la soluzione riduzionista della sociobiologia darwiniana (12). Le trasformazioni della vita umana, sia collettiva che individuale, nel corso degli ultimi diecimila anni, e particolarmente nel corso delle ultime dieci generazioni, sono troppo rilevanti per spiegarsi, tramite i geni, secondo un meccanismo integralmente darwiniano. Le trasformazioni registrate corrispondono a un'accelerazione della trasmissione di caratteristiche acquisite, mediante meccanismi non genetici ma culturali. Si potrebbe affermare che si si tratta della rivincita di Lamarck (13) su Darwin, per il tramite della storia humana! Non serve a granché travestire il fenomeno con metafore biologiche, parlando di «memi» (14), piuttosto che di «geni». I patrimoni culturali e biologici non funzionano nello stesso modo.
Per riassumere, la rivoluzione del Dna richiede un metodo particolare, storico, per studiare l'evoluzione della specie umana. E, per inciso, essa fornisce anche un quadro razionale per una storia del mondo.
Una storia che considera il pianeta in tutta la sua complessità, come unità di studi storici, non come un contesto particolare o una regione circoscritta. In altri termini la storia è il proseguimento dell'evoluzione biologica dell'homo sapiens con altri mezzi...
In secondo luogo, la nuova biologia evoluzionista elimina la distinzione rigorosa fra storia e scienze naturali, già in gran parte cancellata dalla «storicizzazione « sistematica di queste scienze, negli ultimi decenni. Luigi Luca Cavalli-Sforza, uno dei pionieri multidisciplinari della rivoluzione del Dna, parla del «piacere intellettuale che si prova nel trovare tante analogie fra ambiti di studio disparati, alcuni dei quali appartengono tradizionalmente ai due poli opposti della cultura: la scienza e l'umanistica». In breve: la nuova biologia ci libera dal falso dibattito circa la questione della storia in quanto scienza o non scienza. In terzo luogo, questa disciplina ci riporta inevitabilmente all'approccio di base della evoluzione umana, adottata da archeologi e studiosi della preistoria, che consiste nello studio delle modalità di interazione (e controllo crescente) fra la nostra specie e l'ambiente. Riecco quindi le questioni poste da Karl Marx. I «modi di produzione» (comunque si vogliano definire), fondati su maggiori innovazioni della tecnologia produttiva, della comunicazione e dell'organizzazione sociale - ma anche sulla potenza militare - sono al centro dell'evoluzione umana.
Tali innovazioni, di cui Marx era consapevole, non sono sopraggiunte e non arriveranno certo da sole. Le forze materiali e culturali, e i rapporti di produzione, non sono scindibili. Rappresentano, infatti, le attività di uomini e donne artefici della propria storia, ma non nel vuoto, non al di fuori della vita materiale né del loro passato storico. Di conseguenza, le nuove prospettive per la storia, devono anche ricondurci a questo obiettivo essenziale - per quanto non sia mai completamente realizzabile - per chi studia il passato: «La storia totale» - non la «storia di tutto» ma la storia intesa come una tela indivisibile, nella quale tutte le attività umane sono interconnesse - è lo scopo della ricerca. I marxisti non sono i soli che hanno puntato a questo obiettivo. Anche Fernand Braudel si è posto questo scopo, ma sono i marxisti che l'hanno perseguito con maggiore tenacia, come ha precisato uno di loro, Pierre Vilar (15).
Fra le questioni importanti sollevate da queste nuove prospettive, quella che ci riconduce all'evoluzione storica dell'uomo è fondamentale.
Si tratta del conflitto che vede da una parte le forze responsabili della trasformazione dell'homo sapiens, a partire dall'umanità del neolitico fino all'umanità dell'epoca nucleare, dall'altra le forze che mantengono immutabili la riproduzione e la stabilità delle collettività umane, o dei contesti sociali, e che nella maggior parte del corso storico le hanno efficacemente neutralizzate. È un problema teorico è centrale. L'equilibrio delle forze pende in modo decisivo verso una direzione determinata.
Lo squilibrio, che forse va al di là dell'umana comprensione, supera certamente la capacità di controllo delle istituzioni sociali e politiche degli esseri umani. Gli storici marxisti, che non avevano compreso le conseguenze involontarie e indesiderabili dei progetti collettivi umani propri del XX secolo, questa volta, forti della loro esperienza pratica, potranno forse aiutarci a comprendere come siamo arrivati a questo punto.
note:
* Storico inglese. Autore di Il secolo breve, Rizzoli, 2000.
(1) Marx-Engels, Opere, V vol., Editori Riuniti
(2) Teleologia: dottrina che si fonda sull'idea di finalità.
(3) Reazione contro Leopold von Ranke (1795-1886), considerato il padre della principale scuola di storiografia universitaria, prima del 1914. Autore in particolare dei volumi Storia del popolo romano e germanico dal 1494 al 1535 (1824) e Histoire du monde (Weltgeschichte) (1881-1888- testo incompiuto).
(4) Lawrence Stone (1920-1990) una tra le più eminenti e influenti personalità della storia sociale. Fu autore, segnatamente dei volumi The cause of the English Revolution 1529-1642 (1972) (trad. it. Le cause della rivoluzione inglese, Einaudi, 2001) e The family, Sex and Marriage in England, 1500-1800 (1977).
(5) Furono dirigenti, l'uno della socialdemocrazia tedesca, l'altro della socialdemocrazia russa, all'inizio del XX secolo.
(6) Max Weber (1864-1920), sociologo tedesco.
(7) Dal nome di Emile Durkheim (1858-1917) che ha fondato Le regole del metodo sociologico (1895) Einaudi, 2001 e che è considerato, dunque, uno dei padri della sociologia moderna. Fu autore in particolare del saggio La divisione del lavoro sociale (1893) Einaudi, 1999 e della ricerca: Il suicidio (1897).
(8) Dal 1937 Michael Postan tiene la cattedra di storia economica all'Università di Cambridge. È stato ispiratore, insieme a Fernand Braudel, dell'Associazione internazionale di storia economica.
(9) Il partito Bharatiya Janata (Bjp) ha diretto il governo indiano dal 1999 fino a maggio del 2004.
(10) È professore all'Università di Columbia (New York), considerato uno dei grandi specialisti della storia delle guerre del XX secolo e soprattutto dei «luoghi della memoria».
(11) Cfr: Les Lieux de mémoire, Gallimard, Paris, 3 voll., 1984, 1986, 1993
(12) Dal nome di Charles Darwin (1809-1882), naturalista inglese che ha teorizzato l'evoluzione della specie fondata sulla selezione naturale.
(13) Jean-Baptiste Lamark (1744-1829), naturalista francese che, per primo, ha contestato l'idea della permanenza della specie.
(14) I «memi» secondo Richard Dawkins, uno dei capofila del neo-darwinismo, sono unità di base della memoria, considerati vettori della trasmissione e sopravvivenza culturale, così come i geni sono i vettori della sopravvivenza delle caratteristiche genetiche degli individui.
(15) Si legga, in proposito, Une histoire en construction: approche marxiste et problématique conjoncturelle, Gallimard-Seuil, Paris,1982.
(Traduzione di E.G.)
http://www.ilmanifesto.it/MondeDiplo/LeMonde-archivio/ultimo/0412lm01.02.html
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