Massimo Cacciari (l'Espresso)
Il 'rottamatore' ha lottato coi vecchi prìncipi a viso aperto e ha stravinto, spiazzando tutti. Ma una cosa è conquistare, un'altra è rifondare uno Stato in difficoltà. Per farlo serve una vera squadra di governo, non un seguito di fedeli e nominati. E sono necessarie relazioni non subalterne con i cosiddetti poteri 'forti'
Matteo Renzi “figura del futuro”? Difficile prevederlo, ma certo qualcosa di nuovo è successo, qualcosa che attiene alla storia, al carattere, al volto stesso dell’“eroe”. E non importa nulla se questo qualcosa può non piacere affatto (come non piace al sottoscritto) o addirittura dare scandalo. Anche gli scandali è necessario che avvengano.
È certo, anzitutto, che l’irresistibile ascesa di Renzi mai sarebbe potuta avvenire senza lo stupefacente cupio dissolvi messo in scena dall’anno mirabile ’89 in poi dalla cosidetta sinistra italiana e dal gruppo dirigente del Pd nell’ultima fase. Ma si tratta solo di un rex destruens? Alcune qualità dimostrate dal nostro fanno sperare che no. Intanto, al potere ci è andato senza l’aiuto di “armi straniere”; ha lottato coi vecchi prìncipi a viso aperto e ha stravinto. Ne ha sfruttato impietosamente amletismi, lotte intestine, fallimenti. Di contro a un ethos politico soffocato nell’arte del rimando, della mezza misura, del galleggiare, ha messo in campo una spregiudicatezza decisionistica, un gusto per la sfida e l’arrischio, che ha sorpreso e spiazzato tutti (me compreso).
Doti essenziali dell’animale politico: smisurata ambizione, volontà di potere, capacità di afferrare per il ciuffo l’Occasio quando passa, senza riflettere troppo sulle conseguenze: pensare frena, se non arresta – legge ben nota. Fare o non fare, questo il dilemma – essere o non essere è “filosofia”.
Non importa se l’uomo della sacralità delle primarie va al governo more prima repubblica; non importa se una settimana prima dichiarava di non essere interessato né a staffette né a rimpasti; non importa se ha finto primarie per la segreteria di un partito all’unico fine di giungere alla premiership. La maschera fa parte del gioco politico e anche l’inganno qui è elemento dell’“arte”. Avrebbe potuto attendere ancora? Necessario, allora, allearsi a Letta. E rimandare tutto a quando? Mentre la grande occasione passava: governo debolissimo, opposizione groggy nel Pd, Paese che sembra invocare un Capo dalle Alpi al Lilibeo.
Ammirevole soprattutto l’uno-due formidabile inflitto alla minoranza Pd: senza darle neppure il tempo di riflettere sulla propria catastrofe alle primarie, la costringe a defenestrare Letta e farsi votare la fiducia! Rovesciando le stesse palesi aspettative di Napolitano! Sì, qui qualcosa ha rotto tradizioni e costumi del politichese nostrano. I paralleli con personaggi e situazioni passate non reggono. Solo alcuni tratti della retorica avvicinano Renzi a Berlusconi, ma Berlusconi non è mai stato un “politico di professione”; catapultato al governo dallo sciagurato duetto Occhetto-Segni, ha trasformato in partito Mediaset mescolandolo a quarte file di Psi e Dc e “compromettendolo” ora con Lega, ora con ex-Msi.
Al di là delle apparenze Berlusconi è stato sempre un uomo di mediazioni, un prodotto della prima Repubblica nel suo stadio senile. Renzi no: il partito se l’è conquistato dall’interno e non pare ora disposto a fare molti prigionieri. Un po’ come Craxi. La sua linea e il suo stesso carattere esigono che tenti di combinare un partito a sua immagine e somiglianza. D’altra parte quello di prima neppure era nato. Ancor meno vale il parallelo con il D’Alema al governo. Prodi non era del partito di D’Alema, né erano stati i Democratici di Sinistra a farlo cadere. La novitas di un segretario di partito che sfiducia apertamente il governo retto da un proprio rappresentante, senza la benchè minima “condivisione” da parte di quest’ultimo (ma neppure, al momento, una vera reazione) è davvero, credo, qualcosa di inedito nella storia politica europea del dopoguerra. Di un D’Alema Renzi ha forse la stessa sfrenata ambizione, ma lo zavorrano meno letture, meno “anni di apprendistato” in campo politico e diplomatico.
D’Alema appartiene all’epoca de: «Il problema è complesso», «la questione è politica». Renzi a quella del linguaggio diretto, ultra-semplificato, ridotto a immagine,proprio dei nuovi media. Rappresentano epoche diverse e antropologicamente incompatibili. È nato un Capo? Le prime virtù di un innovatore Renzi ha mostrato di averle, e di queste si è parlato finora. Per prendere il potere, oltre naturalmente a molta fortuna e alla debolezza altrui, sono necessari “colpo d’occhio”, rapidità di decisione, semplicità e concretezza delle promesse con cui si mobilita il “popolo sovrano”.
Doti di cui nessun altro politico italiano attualmente sembra disporre. Ma che se esistono da sole portano inesorabilmente alla disfatta chi le possiede. Esse infatti inducono naturalmente all’impazienza, alla superbia, a una bulimica sacra fames di comando – insomma, a precipitare. Una cosa è conquistare, altra è costituire uno stato o rifondarlo. Si tratta di due virtù che dovrebbero sempre congiungersi nell’autentica vocazione politica, ma è assai arduo che ciò avvenga.
Per un Paese dissestato, per un sistema inetto a riformarsi come il nostro, il loro accordo sarebbe quanto mai necessario. Possibile anche? Renzi, liquidando Letta, non ha soltanto promesso, ma garantito agli italiani che lui ne sarà capace. Mossa coraggiosa. Aut-aut che liquida gli eterni e-e della politica italiana. Il “carattere” Renzi, o il suo “dèmone”, saranno all’altezza di questo compito, come lo sono stati nel rottamare la nomenklatura di uno psuedo-partito e un governo di esangue compromesso?
Lo sanno che sarà necessaria all’uopo una vera squadra di governo, e non solo un seguito di fedeli e nominati? Lo sanno che governare oggi, nell’epoca del tramonto del potere statuale, significa relazioni forti, ma non subalterne, con poteri che nulla hanno a che spartire con democrazie, primarie e le loro retoriche? Non ci resta che sperarlo.
La speranza è l’ultimo dei mali che ci hanno riservato gli dèi.
I link ai giornali degli articoli spesso cambiano e diventa difficile se non impossibile recuperare i testi ai quali si riferivano. Questo è l'archivio on-line del blog Giornale-NOTIZIEOGGI
21.2.14
Matteo Renzi, anatomia di un capo
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16.2.14
I costi della Pubblica Amministrazione Nomi e stipendi dei Paperoni di Stato
Nei ministeri, nei Comuni, nelle Regioni e nella Sanità dilaga un esercito di alti dirigenti che guadagnano in media molto più dei loro colleghi europei. Per loro, nessuna spending review
di Corrado Giustiniani
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L’unica certezza è che sono una vera armata, che avanza nella nebbia sopravvivendo a qualunque istanza di riforma o modernizzazione. I ranghi dei dirigenti della pubblica amministrazione italiana sono colossali. Sfuggono ai censimenti: le ultime stime mostrano una vera moltitudine, con poco meno di 200 mila tra superburocrati e quadri di seconda fila mantenuti dai contribuenti.
Una coda sterminata di poltrone e talvolta poltronissime, che si stende lungo l’intera penisola. Impossibile capire quanto guadagnino, perché resistono anche alle richieste ufficiali. Di sicuro, le figure al vertice hanno paghe di gran lunga superiori ai loro parigrado europei. Uno studio internazionale li ha indicati come i meglio retribuiti al mondo, spiazzando la competizione dei colleghi di qualunque nazione. Il costo totale è stratosferico: va da un minimo di 15 miliardi di euro l’anno fino a una stima di ben venti.
E inutile cercare parametri di merito e di produttività: ogni anno dichiarano di avere raggiunto gli obiettivi, anche se la percezione della loro efficienza è decisamente bassa. Sì, l’Italia è piena di dirigenti, uno status che quasi sempre dura tutta la vita, mentre l’efficienza dell’amministrazione di Stato, Regioni, Province e Comuni resta sotto gli occhi di tutti e ci allontana sempre più dall’Europa.
Un’elaborazione della Cisl-Fp, basata sul dossier della Corte dei Conti del 2013 sul costo del lavoro pubblico, arriva a contare 168 mila dirigenti e una spesa lorda per le loro retribuzioni di quasi 15 miliardi l’anno. Ma il confronto con un altro rapporto – realizzato dal professore Roberto Perotti per Lavoce.info – evidenzia una serie di lacune: dai 16 mila ufficiali delle forze armate ai 3987 dirigenti dei corpi di polizia, fino ai 9754 magistrati. Figure che, per ruolo e reddito, sicuramente vanno considerate nel novero della dirigenza. Integrando i rilevamenti, si arriva a quasi 200 mila. La spending review finora li ha solo sfiorati, incidendo più sui benefit - dalle auto blu alle missioni senza controllo - che sulla busta paga. Mentre la crisi falcia i compensi e spesso il posto di lavoro dei manager privati, loro non corrono rischi. La tutela della poltrona è totale: se anche le province venissero finalmente abolite, i 1406 burocrati di livello sarebbero subito riciclati. Quelli al vertice, ben 131, potranno ancora contare su 145 mila euro; gli altri ne riceveranno sempre 100 mila.
CENSIMENTO L’ultimo tentativo di fare chiarezza su numeri e stipendi è stato lanciato dall’Anac, l’Autorità anti corruzione e per la trasparenza. Entro il 31 gennaio tutti i siti web della pubblica amministrazione avrebbero dovuto mettere in Rete nomi e retribuzioni dei loro dirigenti. “L’Espresso” presenta in esclusiva i risultati di questa operazione, che ha lasciato ampie zone di opacità, ma permette di stilare una classifica dei “Paperoni di Stato” con i redditi più alti.
Abbiamo analizzato la trasparenza dei siti ministeriali, dove operano 3.168 dirigenti, per una spesa annuale di 325 milioni, secondo i dati 2013 della Corte dei conti. E poi quelli di due enti pubblici non economici, delle Authority e altre istituzioni. Il risultato non è incoraggiante. Molte amministrazioni non rispettano la legge, soprattutto per i vertici e gli organi di indirizzo politico, che dovrebbero rendere note non solo le retribuzioni, ma persino gli importi di missioni e viaggi.
CAMERA DEI PRIVILEGI A sorpresa la Camera dei deputati - che come organo costituzionale era esentata da quest’obbligo - ha fornito una tabella con i guadagni (imponibile fiscale più contributi) dei suoi funzionari. Il segretario generale Ugo Zampetti, ad esempio, ha un lordo complessivo di 478 mila 149 euro, ed è il secondo nella hit parade degli stipendiati pubblici. I suoi due vice sono Aurelio Speziale e Guido Letta, cugino di Enrico e nipote di Gianni: prendono 359 mila euro a testa. Ma ci sono altre otto retribuzioni da 300 mila euro in su. Quelle dei consiglieri parlamentari che sono a Montecitorio da più di trent’anni: sette di questi alti funzionari hanno un lordo di 375 mila euro e uno, che si sta avvicinando a 40 anni di servizio, è già a quota 402 mila. Se poi pensiamo che 82 consiglieri della Camera su 176, dunque quasi la metà, hanno un’anzianità compresa tra i 21 e i 30 anni (guadagnando per ora 269 mila euro), risulta chiaro che molti altri “trecentisti” crescono. Il Senato, invece, non ha pubblicato nessuna griglia: ma certo dà il suo pesante contributo a rinforzare il lotto dei super-ricchi.
CONSULTA D’ORO Un caso che fa discutere è quello della Corte Costituzionale. Lo sollevò “L’Espresso” già nel 2008, con un’inchiesta di Primo Di Nicola , lo ha ripreso di recente il professore Perotti, sottolineando come il presidente della Corte guadagni il triplo del suo corrispondente statunitense e il doppio del suo pari grado canadese. Il sito della Consulta non pubblica stipendi. Ma quelli dei giudici possono essere facilmente ricostruiti, perché definiti per legge. Anzitutto, la legge costituzionale numero 1 del 1953, che stabiliva “una retribuzione mensile che non può essere inferiore a quella del più alto magistrato della giurisdizione ordinaria”. Prendendo la norma alla lettera, si passò con un’altra legge dello stesso anno dal “non può essere inferiore” alla precisa equiparazione economica con il Primo presidente della Cassazione, attribuendo però in più al vertice “un’indennità di rappresentanza pari ad un quinto della retribuzione”.
Così hanno funzionato le cose, per cinquant’anni. Se quelle norme fossero ancora in vigore, lo stipendio dei giudici costituzionali sarebbe di 303 mila e il loro presidente veleggerebbe sui 454 mila. Ma, evidentemente, non bastavano. E così ecco che il secondo governo Berlusconi infila nella legge finanziaria 2003 la norma scandalo: prevede infatti che, ferma restando la maggiorazione per il Presidente, l’importo della retribuzione vada “aumentato della metà” rispetto a quello del più alto magistrato ordinario. Il risultato? Gaetano Silvestri è oggi a 545 mila euro lordi e i suoi 14 colleghi a 454 mila, per i nove anni del mandato. L’età media dei giudici (76 anni e solo perché l’unica donna del gruppo, Marta Cartabia, con i suoi 51 anni la abbassa di un biennio) suggerirebbe un atto di saggezza e di coraggio: che siano loro a proporre un ritorno alle norme del primo Dopoguerra, che certo non li metterebbero sul lastrico. Sarebbe questo un bel segnale, per un Paese che vive un momento drammatico. E una concreta lezione di diritto.
POVERI POMPIERI Il ministero dell’Interno si è messo in regola con il censimento nel giorno della scadenza, il 31 gennaio. Ma è necessario uno slalom online: dal sito si arriva agli stipendi in quattro mosse. Prima un clic in home page su “trasparenza amministrativa”, poi su ”personale”, quindi “dirigenti” e infine “compensi”. Ma c’è una curiosa particolarità: vengono pubblicate le singole voci retributive (stipendio tabellare, retribuzione di posizione, di risultato ecc.), ma poi è l’utente che deve fare la somma per arrivare al totale lordo. Scopriamo così - tra retribuzioni top e quelle dei dirigenti di prima fascia - che la polizia vale quasi il doppio dei vigili del fuoco. Alessandro Pansa, capo del Dipartimento di pubblica sicurezza, prende infatti 301 mila 344 euro mentre Alberto Di Pace, al vertice dei pompieri, ne guadagna 174 mila.
ECONOMIA DI CONTI Lo stesso principio - se vuoi sapere quanto guadagniamo, fatti da te le somme - è adottato dal ministero dell’Economia, che pubblica nomi e voci stipendiali. Il Ragioniere generale dello Stato, Daniele Franco, sfonda il tetto, con 303 mila e 300 euro. Fabrizio Barca è a 178 mila euro, centomila abbondanti in meno di Giuseppina Baffi, presidente della Consip, figlia dell’ex governatore della Banca d’Italia. Va bocciato il sito dell’Agenzia delle Entrate che non pubblica le tabelle nominative dei compensi, ma solo una schedina sommaria. Unica eccezione, il direttore Attilio Befera. Alla fine del suo curriculum vitae si chiarisce che guadagna quanto il primo presidente di Cassazione.
AGRICOLTURA AL NETTO Largamente incompleto il sito del ministero del Lavoro. Il clic sui nominativi della direzione generale Ammortizzatori sociali, ad esempio, ti rinvia a una pagina bianca. Al contrario, le Politiche agricole offrono un servizio chiavi in mano a chi lo consulta, perché calcolano addirittura il netto dei dirigenti. Lo stipendio più elevato, per la cronaca, è di Giuseppe Serino, 293 mila euro lordi, circa 150 mila netti: che sono 11 mila 500 euro per tredici mensilità.
NEL BUNKER DELLA DIFESA La palma del sito peggiore va al ministero della Difesa, seguito a ruota da quello degli Esteri. Nel primo se si va alla voce “incarichi amministrativi di vertice” si scopre che “la presente sezione è in corso di aggiornamento”, così come quella chiamata “accessibilità e dati aperti”. Si scrive poi che i curriculum sono aggiornati al 31 dicembre scorso, e invece alcuni risalgono al 2010. Non ci sono nomi e stipendi dei generali, ma una semplice schedina in cui si spiega che variano da 124 mila a 79 mila euro, ma poi si dice che andrebbero aggiunti straordinario e indennità accessorie, che però non è scritto a quanto ammontino. In definitiva vengono pubblicati solo gli stipendi dei dirigenti civili di seconda fascia. Solo i generali sono 445 e in più si contano 2300 colonnelli. Che godono di un privilegio in più: a 60 anni i graduati delle forze armate lasciano il servizio attivo ed entrano nell’ausiliaria, restando a disposizione delle pubbliche amministrazioni. Una voce che nel 2013 è costata 431 milioni di euro.
CARA DIPLOMAZIA La Farnesina se la cava con un anonimo schedone riassuntivo di funzioni, gradi e totale lordo. Come mai? «Non figurano i nomi dei singoli percettori a causa dell’alta mobilità tra Roma ed estero del personale del ministero degli Esteri», è la cortese risposta ufficiale che abbiamo ricevuto. Mobilità che però non impedisce a questi dirigenti di avere un Cud. Dalla griglia si capisce subito, tuttavia, che sono qui le posizioni più forti. Dietro al Segretario generale, fotografato a 301 mila 320 euro, ci sono posizioni da 273-263- 246 mila euro. Non sono pubblicati, in particolare, dati sugli ambasciatori, ma la fonte ci chiarisce quanto percepiscono quelli di rango (sono in 24, nel massimo grado della carriera): 5 mila euro netti circa di stipendio, più un’indennità di servizio all’estero che varia a seconda della sede (in base a costo della vita, fattori di rischio ecc.): a Budapest è di 12.175 euro netti al mese, a Parigi di 15.610, a Washington di 19.220, somme aumentate del 20 per cento per la moglie a carico e del 5 per cento per ogni figlio. Gli ambasciatori più importanti, con moglie e un figlio, possono dunque arrivare a 15 mila, 20 mila, persino 29 mila euro netti (attenzione: netti) al mese, e per le spese di rappresentanza sono coperti da un apposito assegno.
SUPERO I 200 Sfogliando le pagine dei vari siti pubblici, balza poi all’occhio che, senza arrivare agli incarichi apicali, svariate decine di dirigenti di prima fascia hanno una retribuzione superiore ai 200 mila euro lordi: più di venti soltanto alla Presidenza del Consiglio dove Franco Gabrielli, il capo della Protezione civile, arriva a sfiorare i 300 mila. Quanto alla seconda fascia, la media retributiva è attorno agli 85 mila euro, con alcune vigorose eccezioni. Come l’Agcom, l’Autorità di garanzia delle comunicazioni, dove nessuno dei circa 40 dirigenti ha un lordo inferiore ai 120 mila euro, comprensivi di compenso variabile. Marcello Cardani, presidente dell’Authority, si attesta sul tetto dei 302 mila euro.
COMPENSI ASSICURATI Ma anche all’Inail i dirigenti di seconda fascia stanno bene, perché sui 153 di cui il sito fornisce i dati, con chiarezza, soltanto due sono le retribuzioni sotto i 100 mila euro. Se è promosso il sito dell’Inail, è bocciato quello dell’Inps. Invece del tabellone con nominativi e compensi, presenta uno schema riassuntivo delle paghe dei 612 dirigenti e una torta multicolore che dà notizie sulla retribuzione di risultato. Dati fermi, per giunta, al 2011. Si arriva comunque allo stipendio del direttore generale, Mauro Nori: 302.937 euro l’anno, quasi 30 mila in più del direttore Inail, Giuseppe Lucibello.
CONTABILI EVASIVI La Corte dei Conti attesta sul proprio sito che il compenso economico del suo presidente, Raffaele Squitieri, è pari a 311.658 euro lordi. Il presidente aggiunto, Giorgio Clemente, ne percepisce 301 mila 320. La stragrande maggioranza dei consiglieri prende oltre i 240 mila euro. Un sito totalmente opaco è quello dell’Avvocatura dello Stato: se si clicca su “dirigenti” ci si trova davanti a una pagina bianca. Ma tutte le amministrazioni, nessuna esclusa, sono trasparenti al massimo quando si tratta di indicare nomi ed emolumenti dei collaboratori esterni. Eppure sarebbe facile avere tutte le retribuzioni dei dirigenti in Rete e senza ritardi. «Basterebbe che le cifre fossero fornite dalle direzioni del personale che predispongono i Cud», spiega Costanza Pera, direttore generale delle Politiche abitative al ministero delle Infrastrutture: «I dirigenti dovrebbero solo dichiarare nella stessa pagina gli eventuali proventi degli incarichi aggiuntivi». Ci vorrebbe l’obbligo di aggiornamento alla data della denuncia dei redditi, e tutto diventerebbe miracolosamente trasparente. Quel mare di regole, invece, sembra favorire l’opacità. Che confonde persino gli analisti economici internazionali.
CAPUT MUNDI Nello scorso novembre un dossier dell’Ocse, l’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo, ha presentato una tabella sconvolgente. I nostri superburocrati sono di gran lunga i meglio pagati del pianeta: svettano clamorosamente in tutte le comparazioni. Considerando contributi e straordinari, si superano i 600 mila dollari l’anno contro una media delle nazioni più evolute attestata sotto la metà. Gli italiani sono al top pure nel confronto con il reddito medio nazionale e persino nel paragone con gli stipendi dei laureati. Il ministero della Funzione pubblica ha subito rettificato: la rilevazione dell’Ocse riguarda solo sei ministeri e si basa sui dati 2011, prima che venisse introdotto il tetto dei 302 mila euro l’anno. Inoltre da noi i contributi pesano molto più che altrove. Certo, ma anche considerando queste correzioni l’asticella resta altissima.
PRODUTTIVITÀ BLUFF Non è altrettanto elevata la considerazione per l’efficienza dei nostri amministratori pubblici. Che però intascano sempre la “retribuzione di risultato”. A tutti i dirigenti viene pagata questa voce economica, nessuno escluso. L’importo varia da un minimo di 7mila a un massimo di 60 mila l’anno. Dipende dalle diverse amministrazioni, dagli obiettivi fissati all’inizio dell’anno, dal grado di raggiungimento degli stessi, e dalle diverse posizioni. E chi garantisce che gli obiettivi siano sempre sensati, e non talvolta indicati solo strumentalmente? L’impressione è che vi sia molto da fare, nella valutazione delle performance. Ma intanto teniamoci questa convinzione: tutti i dirigenti hanno un rendimento positivo. E questo per il cittadino è consolante. Anche se non sempre palpabile, a giudicare dal funzionamento di Stato, Regioni, Comuni e Province. Che tutti vorrebbero riformare, partendo da quelle più meridionali. Sarà mai fatto?
Una coda sterminata di poltrone e talvolta poltronissime, che si stende lungo l’intera penisola. Impossibile capire quanto guadagnino, perché resistono anche alle richieste ufficiali. Di sicuro, le figure al vertice hanno paghe di gran lunga superiori ai loro parigrado europei. Uno studio internazionale li ha indicati come i meglio retribuiti al mondo, spiazzando la competizione dei colleghi di qualunque nazione. Il costo totale è stratosferico: va da un minimo di 15 miliardi di euro l’anno fino a una stima di ben venti.
E inutile cercare parametri di merito e di produttività: ogni anno dichiarano di avere raggiunto gli obiettivi, anche se la percezione della loro efficienza è decisamente bassa. Sì, l’Italia è piena di dirigenti, uno status che quasi sempre dura tutta la vita, mentre l’efficienza dell’amministrazione di Stato, Regioni, Province e Comuni resta sotto gli occhi di tutti e ci allontana sempre più dall’Europa.
Un’elaborazione della Cisl-Fp, basata sul dossier della Corte dei Conti del 2013 sul costo del lavoro pubblico, arriva a contare 168 mila dirigenti e una spesa lorda per le loro retribuzioni di quasi 15 miliardi l’anno. Ma il confronto con un altro rapporto – realizzato dal professore Roberto Perotti per Lavoce.info – evidenzia una serie di lacune: dai 16 mila ufficiali delle forze armate ai 3987 dirigenti dei corpi di polizia, fino ai 9754 magistrati. Figure che, per ruolo e reddito, sicuramente vanno considerate nel novero della dirigenza. Integrando i rilevamenti, si arriva a quasi 200 mila. La spending review finora li ha solo sfiorati, incidendo più sui benefit - dalle auto blu alle missioni senza controllo - che sulla busta paga. Mentre la crisi falcia i compensi e spesso il posto di lavoro dei manager privati, loro non corrono rischi. La tutela della poltrona è totale: se anche le province venissero finalmente abolite, i 1406 burocrati di livello sarebbero subito riciclati. Quelli al vertice, ben 131, potranno ancora contare su 145 mila euro; gli altri ne riceveranno sempre 100 mila.
CENSIMENTO L’ultimo tentativo di fare chiarezza su numeri e stipendi è stato lanciato dall’Anac, l’Autorità anti corruzione e per la trasparenza. Entro il 31 gennaio tutti i siti web della pubblica amministrazione avrebbero dovuto mettere in Rete nomi e retribuzioni dei loro dirigenti. “L’Espresso” presenta in esclusiva i risultati di questa operazione, che ha lasciato ampie zone di opacità, ma permette di stilare una classifica dei “Paperoni di Stato” con i redditi più alti.
Abbiamo analizzato la trasparenza dei siti ministeriali, dove operano 3.168 dirigenti, per una spesa annuale di 325 milioni, secondo i dati 2013 della Corte dei conti. E poi quelli di due enti pubblici non economici, delle Authority e altre istituzioni. Il risultato non è incoraggiante. Molte amministrazioni non rispettano la legge, soprattutto per i vertici e gli organi di indirizzo politico, che dovrebbero rendere note non solo le retribuzioni, ma persino gli importi di missioni e viaggi.
CAMERA DEI PRIVILEGI A sorpresa la Camera dei deputati - che come organo costituzionale era esentata da quest’obbligo - ha fornito una tabella con i guadagni (imponibile fiscale più contributi) dei suoi funzionari. Il segretario generale Ugo Zampetti, ad esempio, ha un lordo complessivo di 478 mila 149 euro, ed è il secondo nella hit parade degli stipendiati pubblici. I suoi due vice sono Aurelio Speziale e Guido Letta, cugino di Enrico e nipote di Gianni: prendono 359 mila euro a testa. Ma ci sono altre otto retribuzioni da 300 mila euro in su. Quelle dei consiglieri parlamentari che sono a Montecitorio da più di trent’anni: sette di questi alti funzionari hanno un lordo di 375 mila euro e uno, che si sta avvicinando a 40 anni di servizio, è già a quota 402 mila. Se poi pensiamo che 82 consiglieri della Camera su 176, dunque quasi la metà, hanno un’anzianità compresa tra i 21 e i 30 anni (guadagnando per ora 269 mila euro), risulta chiaro che molti altri “trecentisti” crescono. Il Senato, invece, non ha pubblicato nessuna griglia: ma certo dà il suo pesante contributo a rinforzare il lotto dei super-ricchi.
CONSULTA D’ORO Un caso che fa discutere è quello della Corte Costituzionale. Lo sollevò “L’Espresso” già nel 2008, con un’inchiesta di Primo Di Nicola , lo ha ripreso di recente il professore Perotti, sottolineando come il presidente della Corte guadagni il triplo del suo corrispondente statunitense e il doppio del suo pari grado canadese. Il sito della Consulta non pubblica stipendi. Ma quelli dei giudici possono essere facilmente ricostruiti, perché definiti per legge. Anzitutto, la legge costituzionale numero 1 del 1953, che stabiliva “una retribuzione mensile che non può essere inferiore a quella del più alto magistrato della giurisdizione ordinaria”. Prendendo la norma alla lettera, si passò con un’altra legge dello stesso anno dal “non può essere inferiore” alla precisa equiparazione economica con il Primo presidente della Cassazione, attribuendo però in più al vertice “un’indennità di rappresentanza pari ad un quinto della retribuzione”.
Così hanno funzionato le cose, per cinquant’anni. Se quelle norme fossero ancora in vigore, lo stipendio dei giudici costituzionali sarebbe di 303 mila e il loro presidente veleggerebbe sui 454 mila. Ma, evidentemente, non bastavano. E così ecco che il secondo governo Berlusconi infila nella legge finanziaria 2003 la norma scandalo: prevede infatti che, ferma restando la maggiorazione per il Presidente, l’importo della retribuzione vada “aumentato della metà” rispetto a quello del più alto magistrato ordinario. Il risultato? Gaetano Silvestri è oggi a 545 mila euro lordi e i suoi 14 colleghi a 454 mila, per i nove anni del mandato. L’età media dei giudici (76 anni e solo perché l’unica donna del gruppo, Marta Cartabia, con i suoi 51 anni la abbassa di un biennio) suggerirebbe un atto di saggezza e di coraggio: che siano loro a proporre un ritorno alle norme del primo Dopoguerra, che certo non li metterebbero sul lastrico. Sarebbe questo un bel segnale, per un Paese che vive un momento drammatico. E una concreta lezione di diritto.
POVERI POMPIERI Il ministero dell’Interno si è messo in regola con il censimento nel giorno della scadenza, il 31 gennaio. Ma è necessario uno slalom online: dal sito si arriva agli stipendi in quattro mosse. Prima un clic in home page su “trasparenza amministrativa”, poi su ”personale”, quindi “dirigenti” e infine “compensi”. Ma c’è una curiosa particolarità: vengono pubblicate le singole voci retributive (stipendio tabellare, retribuzione di posizione, di risultato ecc.), ma poi è l’utente che deve fare la somma per arrivare al totale lordo. Scopriamo così - tra retribuzioni top e quelle dei dirigenti di prima fascia - che la polizia vale quasi il doppio dei vigili del fuoco. Alessandro Pansa, capo del Dipartimento di pubblica sicurezza, prende infatti 301 mila 344 euro mentre Alberto Di Pace, al vertice dei pompieri, ne guadagna 174 mila.
ECONOMIA DI CONTI Lo stesso principio - se vuoi sapere quanto guadagniamo, fatti da te le somme - è adottato dal ministero dell’Economia, che pubblica nomi e voci stipendiali. Il Ragioniere generale dello Stato, Daniele Franco, sfonda il tetto, con 303 mila e 300 euro. Fabrizio Barca è a 178 mila euro, centomila abbondanti in meno di Giuseppina Baffi, presidente della Consip, figlia dell’ex governatore della Banca d’Italia. Va bocciato il sito dell’Agenzia delle Entrate che non pubblica le tabelle nominative dei compensi, ma solo una schedina sommaria. Unica eccezione, il direttore Attilio Befera. Alla fine del suo curriculum vitae si chiarisce che guadagna quanto il primo presidente di Cassazione.
AGRICOLTURA AL NETTO Largamente incompleto il sito del ministero del Lavoro. Il clic sui nominativi della direzione generale Ammortizzatori sociali, ad esempio, ti rinvia a una pagina bianca. Al contrario, le Politiche agricole offrono un servizio chiavi in mano a chi lo consulta, perché calcolano addirittura il netto dei dirigenti. Lo stipendio più elevato, per la cronaca, è di Giuseppe Serino, 293 mila euro lordi, circa 150 mila netti: che sono 11 mila 500 euro per tredici mensilità.
NEL BUNKER DELLA DIFESA La palma del sito peggiore va al ministero della Difesa, seguito a ruota da quello degli Esteri. Nel primo se si va alla voce “incarichi amministrativi di vertice” si scopre che “la presente sezione è in corso di aggiornamento”, così come quella chiamata “accessibilità e dati aperti”. Si scrive poi che i curriculum sono aggiornati al 31 dicembre scorso, e invece alcuni risalgono al 2010. Non ci sono nomi e stipendi dei generali, ma una semplice schedina in cui si spiega che variano da 124 mila a 79 mila euro, ma poi si dice che andrebbero aggiunti straordinario e indennità accessorie, che però non è scritto a quanto ammontino. In definitiva vengono pubblicati solo gli stipendi dei dirigenti civili di seconda fascia. Solo i generali sono 445 e in più si contano 2300 colonnelli. Che godono di un privilegio in più: a 60 anni i graduati delle forze armate lasciano il servizio attivo ed entrano nell’ausiliaria, restando a disposizione delle pubbliche amministrazioni. Una voce che nel 2013 è costata 431 milioni di euro.
CARA DIPLOMAZIA La Farnesina se la cava con un anonimo schedone riassuntivo di funzioni, gradi e totale lordo. Come mai? «Non figurano i nomi dei singoli percettori a causa dell’alta mobilità tra Roma ed estero del personale del ministero degli Esteri», è la cortese risposta ufficiale che abbiamo ricevuto. Mobilità che però non impedisce a questi dirigenti di avere un Cud. Dalla griglia si capisce subito, tuttavia, che sono qui le posizioni più forti. Dietro al Segretario generale, fotografato a 301 mila 320 euro, ci sono posizioni da 273-263- 246 mila euro. Non sono pubblicati, in particolare, dati sugli ambasciatori, ma la fonte ci chiarisce quanto percepiscono quelli di rango (sono in 24, nel massimo grado della carriera): 5 mila euro netti circa di stipendio, più un’indennità di servizio all’estero che varia a seconda della sede (in base a costo della vita, fattori di rischio ecc.): a Budapest è di 12.175 euro netti al mese, a Parigi di 15.610, a Washington di 19.220, somme aumentate del 20 per cento per la moglie a carico e del 5 per cento per ogni figlio. Gli ambasciatori più importanti, con moglie e un figlio, possono dunque arrivare a 15 mila, 20 mila, persino 29 mila euro netti (attenzione: netti) al mese, e per le spese di rappresentanza sono coperti da un apposito assegno.
SUPERO I 200 Sfogliando le pagine dei vari siti pubblici, balza poi all’occhio che, senza arrivare agli incarichi apicali, svariate decine di dirigenti di prima fascia hanno una retribuzione superiore ai 200 mila euro lordi: più di venti soltanto alla Presidenza del Consiglio dove Franco Gabrielli, il capo della Protezione civile, arriva a sfiorare i 300 mila. Quanto alla seconda fascia, la media retributiva è attorno agli 85 mila euro, con alcune vigorose eccezioni. Come l’Agcom, l’Autorità di garanzia delle comunicazioni, dove nessuno dei circa 40 dirigenti ha un lordo inferiore ai 120 mila euro, comprensivi di compenso variabile. Marcello Cardani, presidente dell’Authority, si attesta sul tetto dei 302 mila euro.
COMPENSI ASSICURATI Ma anche all’Inail i dirigenti di seconda fascia stanno bene, perché sui 153 di cui il sito fornisce i dati, con chiarezza, soltanto due sono le retribuzioni sotto i 100 mila euro. Se è promosso il sito dell’Inail, è bocciato quello dell’Inps. Invece del tabellone con nominativi e compensi, presenta uno schema riassuntivo delle paghe dei 612 dirigenti e una torta multicolore che dà notizie sulla retribuzione di risultato. Dati fermi, per giunta, al 2011. Si arriva comunque allo stipendio del direttore generale, Mauro Nori: 302.937 euro l’anno, quasi 30 mila in più del direttore Inail, Giuseppe Lucibello.
CONTABILI EVASIVI La Corte dei Conti attesta sul proprio sito che il compenso economico del suo presidente, Raffaele Squitieri, è pari a 311.658 euro lordi. Il presidente aggiunto, Giorgio Clemente, ne percepisce 301 mila 320. La stragrande maggioranza dei consiglieri prende oltre i 240 mila euro. Un sito totalmente opaco è quello dell’Avvocatura dello Stato: se si clicca su “dirigenti” ci si trova davanti a una pagina bianca. Ma tutte le amministrazioni, nessuna esclusa, sono trasparenti al massimo quando si tratta di indicare nomi ed emolumenti dei collaboratori esterni. Eppure sarebbe facile avere tutte le retribuzioni dei dirigenti in Rete e senza ritardi. «Basterebbe che le cifre fossero fornite dalle direzioni del personale che predispongono i Cud», spiega Costanza Pera, direttore generale delle Politiche abitative al ministero delle Infrastrutture: «I dirigenti dovrebbero solo dichiarare nella stessa pagina gli eventuali proventi degli incarichi aggiuntivi». Ci vorrebbe l’obbligo di aggiornamento alla data della denuncia dei redditi, e tutto diventerebbe miracolosamente trasparente. Quel mare di regole, invece, sembra favorire l’opacità. Che confonde persino gli analisti economici internazionali.
CAPUT MUNDI Nello scorso novembre un dossier dell’Ocse, l’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo, ha presentato una tabella sconvolgente. I nostri superburocrati sono di gran lunga i meglio pagati del pianeta: svettano clamorosamente in tutte le comparazioni. Considerando contributi e straordinari, si superano i 600 mila dollari l’anno contro una media delle nazioni più evolute attestata sotto la metà. Gli italiani sono al top pure nel confronto con il reddito medio nazionale e persino nel paragone con gli stipendi dei laureati. Il ministero della Funzione pubblica ha subito rettificato: la rilevazione dell’Ocse riguarda solo sei ministeri e si basa sui dati 2011, prima che venisse introdotto il tetto dei 302 mila euro l’anno. Inoltre da noi i contributi pesano molto più che altrove. Certo, ma anche considerando queste correzioni l’asticella resta altissima.
PRODUTTIVITÀ BLUFF Non è altrettanto elevata la considerazione per l’efficienza dei nostri amministratori pubblici. Che però intascano sempre la “retribuzione di risultato”. A tutti i dirigenti viene pagata questa voce economica, nessuno escluso. L’importo varia da un minimo di 7mila a un massimo di 60 mila l’anno. Dipende dalle diverse amministrazioni, dagli obiettivi fissati all’inizio dell’anno, dal grado di raggiungimento degli stessi, e dalle diverse posizioni. E chi garantisce che gli obiettivi siano sempre sensati, e non talvolta indicati solo strumentalmente? L’impressione è che vi sia molto da fare, nella valutazione delle performance. Ma intanto teniamoci questa convinzione: tutti i dirigenti hanno un rendimento positivo. E questo per il cittadino è consolante. Anche se non sempre palpabile, a giudicare dal funzionamento di Stato, Regioni, Comuni e Province. Che tutti vorrebbero riformare, partendo da quelle più meridionali. Sarà mai fatto?
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9.2.14
Tra social media e democrazia non c’è nessun legame
di Andrea Matiz (limes)
Perché l'equazione "diffusione dei social media = probabilità di cambiamento sociale" non è valida. Negli Stati che più usano Internet, il vento della primavera araba ha spirato meno. Le quattro barriere dei regimi per difendersi dalla contestazione in Rete.
Media come armi (vai all'anteprima) | Social network nemici della democrazia

(Carta di Francesca La Barbera tratta da Limes Qs 1/2012 "Media come armi")
Media come armi (vai all'anteprima) | Social network nemici della democrazia

(Carta di Francesca La Barbera tratta da Limes Qs 1/2012 "Media come armi")
Internet, Facebook e Twitter sono considerati erroneamente gli artefici della primavera araba. In realtà sono soggetti a barriere tecnologiche, economiche e politiche che ne limitano l'influenza. Senza dimenticare che anche i regimi ne fanno uso. Il dilemma del dittatore.
Con lo sviluppo del web 2.0 e l'emergere dei social media come mezzo di comunicazione si è aperto il dibattito sull’influenza che essi possono avere sull’attività politica. Un tema che ha generato una florida letteratura è in particolare quello del rapporto tra Internet e dittature: il web è da considerarsi uno strumento capace di esportare la democrazia e produrre la fine dei regimi, oppure no?
Secondo una corrente di pensiero la risposta a questa domanda è senza dubbio sì. Mentre la popolarità dei social media aumentava a livello globale, si diffondeva la correlazione tra questi e i più importanti eventi di politica internazionale: nascevano definizioni come “il candidato di Internet” (Obama durante le primarie democratiche del 2008), “la rivoluzione di Twitter” (la rivolta iraniana del 2009), fino a giungere alla “social media revolution” con cui è stata battezzata l'intera primavera araba.
La ragione di tale parallelismo è da ricercare in due grandi doti di questi nuovi mezzi di comunicazione: quella di mobilitare, aggregare e diffondere informazioni e messaggi a una velocità superiore rispetto ai loro fratelli maggiori e quella di permetterne la rapida diffusione, grazie soprattutto alla tecnologia mobile.
Ma davvero il Web 2.0 è in grado di generare una rivoluzione? Oppure è solo un mezzo di comunicazione, capace di modificare le cose o di mantenere lo status quo a seconda di chi lo controlla? Se la prima ipotesi fosse vera, un corollario naturale sarebbe questo: maggiore è la diffusione di social media in uno Stato, più alte dovrebbero essere le probabilità di un cambiamento istituzionale.
Prendiamo in analisi proprio i cosiddetti paesi Mena (Middle East and North Africa), che nell’ultimo anno sono stati maggiormente interessati dai cambiamenti istituzionali prodotti - a detta di molti - da Internet. Nella tabella 1, accanto ad ogni paese sono riportati i dati relativi alla penetrazione di Internet broadband (a banda larga), Internet mobile, Facebook e Twitter.
Tabella 1. Penetrazione di Internet nei paesi Mena (1).
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La tabella mostra chiaramente che la convinzione di partenza non è accettabile. Gli Stati in cui Internet è più diffuso, ovvero quelli del Golfo, sono quelli dove il vento del cambiamento ha soffiato di meno. Con l'unica eccezione del Bahrein, che analizzeremo in seguito. Le nazioni che invece sono state, o sono tuttora, teatro di rivolte e tensioni spesso sfociate in guerre civili (Siria, Yemen, Libia) sono quelli dove è minore la presenza della rete. Vi è poi una fascia centrale composta sia da protagonisti della primavera araba (Tunisia ed Egitto) sia da Stati in cui la situazione è mutata meno – o in maniera meno clamorosa – come Marocco e Giordania.
È quindi necessario aggiungere un’altra variabile, quella relativa alla stabilità dei regimi nei paesi oggetto dell'analisi. Bisogna che ci siano delle condizioni favorevoli affinché, teoricamente, Internet possa produrre il cambiamento. Occorre analizzare la stabilità del regime, le condizioni economiche, le divisioni sociali e tribali, la condizione giovanile, il livello di disoccupazione all'interno di ogni paese.
Al fine di poter riassumere numericamente realtà e fattori complessi ed interconnessi, si è preso in considerazione l'Indice di rischio dei paesi del Medio Oriente e del Maghreb (2) realizzato a fine marzo 2011 da Equilibri.net. L'indice va da 1 (instabilità massima) a 10 (stabilità assoluta).
Tabella 2 Stabilità politica e penetrazione di Internet nei paesi Mena
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Dalla tabella appare chiaramente che l'equazione di base “alta penetrazione di internet e alta presenza sui social media = maggiore probabilità di cambio istituzionale” è errata.
I paesi con una minore penetrazione sono quelli con un indice di stabilità minore: significa che un eventuale cambiamento istituzionale è più facilmente dovuto a fattori di instabilità interna piuttosto che alla diffusione di Internet e all’utilizzo dei social media. Nei paesi più stabili, invece, la maggiore diffusione della rete non comporta automaticamente maggiori turbamenti di carattere politico. Non è un caso poi che quest’ultimi Stati siano i più ricchi dell'area Mena e quelli dai quali provengono le principali società di telecomunicazioni.
I paesi con una minore penetrazione sono quelli con un indice di stabilità minore: significa che un eventuale cambiamento istituzionale è più facilmente dovuto a fattori di instabilità interna piuttosto che alla diffusione di Internet e all’utilizzo dei social media. Nei paesi più stabili, invece, la maggiore diffusione della rete non comporta automaticamente maggiori turbamenti di carattere politico. Non è un caso poi che quest’ultimi Stati siano i più ricchi dell'area Mena e quelli dai quali provengono le principali società di telecomunicazioni.
Il rapporto tra business e politica è fondamentale per capire se la rete può essere un fattore di cambiamento istituzionale oppure no. Infatti, l’emergere dell’opportunità di fare affari in un settore emergente e in fortissima espansione come quello delle telecomunicazioni pone i governi di fronte alla necessità di dover mediare tra i propri interessi politici e quelli economici.
I paesi a minore indice di stabilità sono anche quelli in cui il rapporto tra politica e imprenditoria pende a favore della prima, mentre nei paesi più stabili il mondo del business può influenzare di più le scelte politiche. La ricerca dell'equilibrio tra istanze politiche ed economiche viene definita in letteratura “dilemma del dittatore” (3).
Questo dilemma si basa sul concetto di fondo per cui la globalizzazione e i mercati sempre più interconnessi obbligano i governi a scegliere se accettare di perdere il controllo diretto su questo tipo di telecomunicazioni oppure mantenerlo ma rischiare l’isolamento economico.
Il dilemma nasce dal fatto che anche i principali gruppi economici di quei paesi necessiteranno di essere presenti sul mercato delle telecomunicazioni, se vogliono continuare a fare affari. I governi quindi sono costretti ad accettare queste nuove forme di comunicazione; successivamente dovranno introdurre barriere di diversa natura per limitare l’attività degli utenti su tali strumenti, al fine di mantenere il più stabile possibile il proprio potere.
Se invece i regimi decidessero di non aprirsi, l’unica soluzione sarebbe quella di creare una realtà completamente chiusa e scollegata dal consesso internazionale, come accade per esempio in Corea del Nord. Inoltre non bisogna dimenticare che si tratta di opportunità economiche - sotto forma di investimenti interni e di capitali esteri - cui i governi difficilmente possono o vogliono rinunciare. Come riporta Howard, “il traffico Internet dentro e fuori uno Stato può essere bloccato disabilitando i principali nodi di connessione, ma facendolo ci sarebbero delle forti conseguenze per la stesse economie nazionali” (4).
La creazione delle suddette barriere e la loro incidenza deriva da come un regime decide di sciogliere il proprio dilemma del dittatore. Cadauna di queste barriere è correlata con le altre; nessuna di esse è un fattore a sé stante.
Le barriere possono essere di vari tipi: 1) economico: accedere a Internet è un lusso che solo una fascia molto piccola e molto ricca della società può permettersi; 2) tecnologico: la possibilità di connettersi è limitata solo ad alcune aree del territorio; 3) politico. Tra le barriere politiche possono rientrare il controllo governativo sui social media e il loro livello di credibilità agli occhi dei cittadini.
Per le barriere economiche, l'assioma di partenza è piuttosto scontato: più alto è il costo dell'accesso a Internet, minore è la popolazione che se lo può permettere, più facilmente chi possiede una connessione fa parte del blocco economico e politico che sostiene lo status quo.
Le barriere tecnologiche riguardano uno schema di diffusione della tecnologia all'interno di un paese in cui normalmente si parte dal centro - inteso come città e zone più ricche - per arrivare poi in periferia, in campagna e nelle aree più povere. Si avvantaggeranno così le élite al potere, i gruppi socio-economici più ricchi oppure le aree più favorevoli al regime, a discapito di quelle più povere oppure dove l’opposizione è maggiormente radicata.
Le barriere politiche sono declinabili in molteplici forme: dalla censura alla disinformazione, dal blocco di alcuni contenuti alla persecuzione di coloro che fanno attività di opposizione attraverso Internet. Sono barriere politiche anche il controllo governativo dei mezzi di comunicazione e la percezione di libertà e credibilità che ne ha la popolazione. Le barriere politiche sono quelle che in maniera più diretta mirano a determinare il grado di controllo governativo sulla rete.
Come affermato da Ronfeldt e Varda, “i cittadini non sono gli unici ad essere attivi nel cyberspazio. Lo sono anche i governi, che promuovono le proprie idee e limitano l’uso delle nuove tecnologie” (5).
Le innovazioni tecnologiche permettono di accedere a nuove fonti informative e produrre controinformazione, ma allo stesso tempo permettono ai governi di monitorare e influenzare il dibattito pubblico. Evgeny Morozov nel suo L'ingenuità della rete. Il lato oscuro della libertà di internet ha illustrato una serie di situazioni in cui i regimi dittatoriali operano online attivamente e non necessariamente ricorrendo alla censura o alla chiusura di siti e social media. Tale attività si collega anche al grado di fiducia che la fascia più ampia della popolazione, quella non attiva, ha di questi strumenti.
In Tunisia, per esempio, l’attività di opposizione al regime sul web risale a molti anni prima della primavera araba. Nel 2007 il regime di Ben Alì aveva bloccato l’uso di Facebook, Youtube e Dailymotion e aveva iniziato, analogamente ad altri, ad arrestare e perseguitare blogger e attivisti online; all'epoca non c'era stata una rivolta in quanto questi strumenti rimanevano sconosciuti a grande parte della popolazione.
Si è dovuto aspettare che assumessero un certo livello di credibilità agli occhi dell’opinione pubblica affinché potessero diventare veicoli forti del cambiamento. Non a caso gli attivisti egiziani hanno sempre sottolineato l’importanza della qualità dei video che documentano gli scontri: la “Youtube revolution” aveva bisogno di immagini chiare e inconfutabili per non dare adito a sospetti di contraffazione. I lanci e i riferimenti che il canale televisivo Aljazeera faceva al web mentre copriva gli avvenimenti dell’inizio dell’anno scorso hanno contribuito molto all'aumento della credibilità dei social media.
Esiste infine una quarta barriera che, a differenza delle tre precedenti, non è di natura interna ma esterna: si tratta della barriera geopolitica. A differenza delle altre barriere, tale ostacolo agisce in modo svincolato dagli altri e, cronologicamente, si inserisce nella fase finale dell'Internet revolution, quando questa ha già preso forma. Anche la barriera esterna deriva dal dilemma del dittatore, in quanto la decisione di autoescludersi o meno dal mondo globale non può prescindere dalle dinamiche geopolitiche e dalle relazioni internazionali di quello Stato.
Inizialmente avevamo notato l’eccezione rappresentata dal Bahrein: il regno, pur presentando a inizio 2011 un'altissima percentuale di penetrazione tecnologica e un indice di stabilità molto alto, è stato investito subito dalla primavera araba, ma di fatto nulla è cambiato. La ragione è da ricercarsi nella decisione dell’Arabia Saudita di non tollerare cambiamenti dello status quo ai suoi confini.
Riassumendo: l’efficacia dei cambiamenti portati dai social media è legata a una combinazione positiva di fattori che renda possibile la messa in moto della loro capacità di mobilitazione, all'interno di un contesto geopolitico ed economico favorevole e in una realtà dove tali strumenti siano da tempo riconosciuti come liberi rispetto al controllo statale e/o non sottoposti a controlli di censura da parte del governo.
I social media non si possono considerare portatori di cambiamento istituzionale, ma semplicemente canali attraverso i quali far convogliare le idee di cambiamento, come la stampa, la radio e la televisione in passato. Come i tradizionali mezzi di comunicazione, sono un’opportunità di aggregazione e di condivisione di idee; così come i loro “fratelli maggiori” possono solo influenzare l'opinione pubblica, allo stesso modo internet non è portatore per definizione di finalità democratiche o di cambiamento istituzionale.
Come afferma Lerry Diamond, “chiaramente, le tecnologie sono meramente degli strumenti, aperti allo stesso modo a fini nobili e non. Come la radio e la televisione possono essere veicoli di informazioni plurali e di dibattito razionale, così possono essere guidati da regimi totalitari al fine di promuovere mobilitazioni fanatiche o garantire il controllo statale” (6).
In conclusione, i social media non sono portatori di cambiamento istituzionale per tre ragioni: la prima riferita alla loro stessa natura, ovvero al fatto che essi nascono come strumenti neutri, dove l’utente viene chiamato a svolgere come compito primario quello di inserire dei contenuti, di qualunque genere esso siano. In secondo luogo perché non sono beni accessibili a tutti, visto che sono richieste capacità e possibilità che portano ad escludere ampie fasce della popolazione. In terzo luogo perché non sono realmente parte del territorio o del vissuto quotidiano: hanno sempre bisogno di un ulteriore passaggio, di un’entità fisica (gruppi, partiti, associazioni) che tramuti in fatti le aspirazioni virtuali.
Note:
(1) Tabella realizzata utilizzando i dati del Arab Media Outlook 2009-2013 Dubai Press Club. Una percentuale di internet mobile superiore a 100% indica che ogni persona possiede più di un cellulare o smartphone.
(3) Burkhart, Grey and Older, Susan The Information Revolution in the Middle East and North Africa, Washington, DC: Rand.
(4) Howard, Philip (2010) The Digital Origins of Dictatorship and Democracy: Information Technology and Political Islam, Oxford University Press, New York.
(5) Ronfeldt, David and Varda, Danielle (2008) The Prospects for Cybocrac.
(6) Diamond, Larry (2010) Liberation Technology, Journal of Democracy, vol.21, no.3: 69-83.
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31.1.14
L’Italia nelle mani di lor signori
Una legge elettorale peggiore del Porcellum. La “ghigliottina” per zittire il Parlamento. La vergogna del decreto IMU-Banca d’Italia. Un presidente della Repubblica non più super partes. Queste giornate di fine gennaio saranno ricordate come macchie scure nella vicenda del nostro sistema democratico.
di Angelo d’Orsi (MicroMega)
Ci lamentavamo di Bersani? Becchiamoci Renzi! Qualcuno annunciava la spaccatura del PD. Fassina e Cuperlo hanno appena aderito a tutto, il giovin Civati tace, mi pare. I bersaniani mordono il freno, forse, ma solo per odio a chi ha fatto cadere il loro ex leader. Gli altri “vecchi” della nomenclatura, attendono tempi migliori, badando a non esporsi troppo, usando parole vuote, ma piene di retorica. Come lo erano quelle che abbiamo udito da parte dei rappresentanti di M5S e dei loro contendenti PD, nelle deprimenti zuffe parlamentari: intendiamoci, che la signora Boldrini debba ora menare scandalo per quel che accade nel consesso da lei presieduto (certo, abbiamo avuto Irene Pivetti presidente, e dunque la Boldrini è una gran donna e una politica straordinaria, ma che pena, la sua retorica al servizio del potere!) suona bizzarro, avendo lei inferto un colpo quasi mortale alla dialettica parlamentare, con il ricorso alla “ghigliottina”, per bloccare il dibattito e far convertire in legge, obtorto collo, il vergognosissimo decreto IMU-Banca d’Italia.
Si era mai visto qualcosa di simile in quell’aula? A mia memoria, no. Mentre la storia parlamentare repubblicana è traboccante di incidenti, anche gravi, comprese ingiurie, colluttazioni e addirittura lanci di oggetti (narrano le cronache parlamentari di un deputato comunista che, negli anni Cinquanta, dopo aver con forza erculea divelto un seggio l’abbia scagliato verso i democristiani). Ma devo dire che di tutte le scenette a cui abbiamo assistito per me la più grottesca è stata il faccia a faccia tra due deputati, un PD e un M5S, che ripetevano, psittacisticamente, insomma, come due pappagalli ammaestrati, frasi senza senso, ossia di repertorio, che ricordavano i famigerati “Capra! Capra! Capra!” e via seguitando dell’orrido Sgarbi nei programmi spazzatura della televisione.
L’iterazione è, come si sa, un espediente cui si ricorre in mancanza di capacità argomentativa: certo, che l’onorevole Speranza, col suo faccino compunto da bravo scolaretto, che ripete con voce tesa al suo contendente il mantra “Voi state ostacolando la democrazia” appariva ridicolo, a dir poco: ma nessuno gli ha spiegato che l’ostruzionismo è una tattica parlamentare alle quali tutte le forze politiche hanno fatto e fanno ricorso? Nessuno gli ha detto che la sinistra è stata, lodevolmente, maestra in tale genere di tattica, per fermare provvedimenti liberticidi, o nemici delle classi popolari?
E che dire della reazione generale di scandalo, perché qualcuno osa dire che Napolitano si sta comportando più da capo di governo che da capo di Stato? Si tratta di una osservazione persino banale, che una gran parte dei commentatori indipendenti tanto in patria quanto all’estero ha avuto modo di fare. L’abbiamo scritto anche noi, di MicroMega, qui, più volte, su questo spazio; e l’ho sostenuto io stesso. E ancora per quanto concerne l’inclita signora Boldrini, sia consentito rilevare che, accanto alle solenni reprimende della certamente indecorosa seduta parlamentare, non ha trovato modo di dire una parola di solidarietà per la collega deputata (forse perché di M5S?) duramente colpita da un energumeno di “Scelta civica”, al quale forse si dovrebbe insegnare un po’ di civismo. Ma più ancora offende il fatto che ella, come del resto il presidente della Repubblica, e il presidente del Senato, si comportino come parte integrante dell’Esecutivo: la giustificazione data dalla Boldrini che il suo stop alla discussione aveva il solo scopo di impedire che “gli italiani” (quali? E in quale misura?), pagassero la seconda rata dell’IMU è una offesa alla decenza. E si potrebbe seguitare.
Stiamo, in sintesi, assistendo alla formazione di un blocco storico, mai visto nella vicenda nazionale, neppure ai tempi bui del fascismo: un blocco che cancella le differenze di ruoli tra le istituzioni (Esecutivo e Legislativo diventano tutt’uno), che elimina le diversità delle opzioni politiche (PD-FI e il resto della minuteria “moderata” ormai vanno verso una identità sostanziale, con leggere sfumature che hanno il mero scopo di preservare una identità ai fini elettorali), che toglie persino il velo alla relazione strettissima tra potentati economico-finanziari e apparati politici.
E ancora: come possiamo ancora distinguere la CGIL (di CISL e UIL manco vale la pena di parlare, tanto appiattiti sono ormai da anni sulle logiche padronali) dalla voce del padrone? Il decreto per la “ricapitalizzazione” della Banca d’Italia, che implica un gigantesco regalo alle grandi banche, è un esempio paradigmatico; come lo è il silenzio ossequiente verso le scellerate scelte “strategiche” di Marchionne e dell’”azionista di riferimento” Fiat (Agnelli-Elkann), che meriterebbero risposte adeguate, e così via, non dimenticando la vicenda degli F35 (appena dichiarati pericolosi e costosi dal Pentagono! Mentre il governo Letta, quello “virtuoso”, persevera nella politica delle commesse alle multinazionali produttrici di questi giocattoli di guerra), o quella del TAV, o del MUOS, eccetera eccetera.
Insomma, un catalogo di orrori che sta facendo toccare con mano quanto fossero esatte le funeste previsioni all’ascesa alla guida del PD del giovane rottamatore, che sta inanellando una vittoria dopo l’altra, nel silenzio complice o inerte degli uni, o nell’adesione convinta o necessitata degli altri. Ma le vittorie di Renzi sono altrettante sconfitte della democrazia. E le giornate di fine gennaio saranno ricordate come macchie scure nella vicenda dello stesso sistema liberal-democratico. E non certo per i chiassosi e spesso rozzi, spessissimo irritanti e ignoranti “grillini”, ma per il delitto perfetto che è stato consumato dai “democratici” Renzi e Letta, sotto la regia di Napolitano, con la benevolenza istituzionale dei presidenti delle Camere, e soprattutto la complicità attiva e interessatissima del riesumato Berlusconi e della sua gang.
Ora non paghi di una legge elettorale che, come è stato notato, è persino peggiore della precedente (il “Porcellum” da tanti vituperato, e ora imitato), e prelude a uno scenario cimiteriale, dove due partitoni indistinguibili, come sovente sono laburisti e conservatori in Gran Bretagna, democratici e repubblicani negli Usa, occuperanno l’intero panorama politico. E questa sarebbe la “moderna democrazia” a cui si vuole arrivare? Ma non basta: una nuova gioiosa macchina da guerra avanza. La guida il piccolo duce, alias Renzi, nello stupefatto balbettio della minoranza interna, nella soddisfazione di chi l’ha votato, stanco dell’immobilismo bersaniano, e, infine, nell’entusiasmo di chi lo chiama “Matteo” e lo acclama come la star da opporre finalmente al Berlusconi, e capace di fermare il “fenomeno Grillo”.
Guadagnato il fortilizio elettorale, con una ultima ignominiosa correzione per impedire che la Lega Nord (un partito che proclama la secessione dall’Italia!) esca dal giro, la macchina marcia verso la Costituzione, che da almeno tre decenni i soloni del “novitismo”, delle “riforme” e della “governabilità”, hanno classificato come “obsoleta”: e in quattro e quattr’otto lo si farà, recando una ferita che non sarà più possibile rimarginare, neppure quando ci si liberasse del Berluscone e del Berluschino. Occorrerà una rivoluzione (si penserà poi all’etichetta), per restituire dignità al Paese e valore alle sue leggi, rinnovando completamente la sua classe dirigente. Ma dietro l’angolo la rivoluzione non si vede: si vedono proteste, jacqueries, ribellioni, uno scontento generale e gigantesco che si traduce anche, per fortuna, in atti di resistenza, che, in realtà numerosissimi e diffusi, hanno il solo torto di non essere coordinati e spesso neppure conosciuti.
Il che vuol dire che davanti a questo sfascio, se si prende atto che l’alternativa tra PD e tutta l’ammucchiata di centrodestra è ormai fasulla, non solo ribellarsi è giusto ma è anche possibile. Lo è perché M5S non rappresenta l’alternativa, e al di là delle simpatie che si possano provare per il movimento, o quanto meno per talune delle sue istanze, o delle idiosincrasie per i due capetti che lo tengono (finora) in pugno, o del fastidio per tanti suoi ridicoli esponenti (basti pensare a Vito Crimi, degno del senatore Razzi imitato dal comico Crozza), ebbene, oggi solo questi ragazzacci stanno provando ad alzare la voce contro lo schifo, anche se poi essi stessi per tanti versi ne sono contaminati. Stanno “facendo ammuina”, certo, ed è poco, e spesso insopportabile nei modi, nelle volgarità, nelle manifestazioni di ignoranza; ma è meglio di nulla. E mentre siamo disgustati di aver sentito il canto di Bella ciao, sulle bocche dei deputati piddini, per difendere il decreto IMU-Bankitalia, certo non ci è piaciuto il “Boia chi molla!”, dei “grillini”, Eppure, come è stato osservato da Alessandro Gilioli: “È davvero notevole lo sforzo con cui il Pd, Forza Italia, Boldrini e Napolitano stanno trasportando verso il Movimento 5 Stelle anche gli italiani meno attratti da Grillo e Casaleggio”.
Ciò malgrado, noi, noi che, schierati da sempre contro il berlusconismo, cancro morale del Paese, noi che non siamo disposti ad andare all’abbraccio con Grillo e Casaleggio, noi che siamo schifati di tutte le scelte del Partito Democratico, noi che siamo delusi di un Vendola rimasto capace di affabulare solo se stesso allo specchio, noi che abbiamo atteso finora invano un gesto serio (di autocritica e di rilancio unitario) da parte dei responsabili della ”vera sinistra” rimasti in posizione perlopiù autoreferenziale, noi che faremo? Ci rifugeremo nell’astensionismo, decidendo di abbandonare le istituzioni nelle grinfie di lorsignori? O addirittura smetteremo di pensare politicamente, rifugiandoci ciascuno nel suo proprio cenobio?
Forse ora, non in attesa di tempi migliori, ma decisi a costruirli, quei tempi, ci tocca, ancora una volta, ricominciare il gramsciano lavorio lungo e tenace, a carattere culturale, ma non soltanto; occorre anche lavorare sul terreno sociale, dando ciascuno il suo modesto contributo per connettere le tante isole di opposizione allo schifo. Un’altra Italia esiste, insomma. E non è così piccola e debole, non ancora. Perciò anche se questa battaglia forse è già perduta, la guerra continua e il combattimento va rilanciato subito, prima che ci schiaccino completamente. E, resistendo allo scoramento, occorre provare ancora una volta a rimettere insieme i pezzi di ciò che sinistra significa o dovrebbe significare, mettendo da parte diffidenze e preclusioni, e sottolineando ciò che deve unire quanti sono contro lorsignori: la situazione è grave, non diamo una mano al nemico.
di Angelo d’Orsi (MicroMega)
Ci lamentavamo di Bersani? Becchiamoci Renzi! Qualcuno annunciava la spaccatura del PD. Fassina e Cuperlo hanno appena aderito a tutto, il giovin Civati tace, mi pare. I bersaniani mordono il freno, forse, ma solo per odio a chi ha fatto cadere il loro ex leader. Gli altri “vecchi” della nomenclatura, attendono tempi migliori, badando a non esporsi troppo, usando parole vuote, ma piene di retorica. Come lo erano quelle che abbiamo udito da parte dei rappresentanti di M5S e dei loro contendenti PD, nelle deprimenti zuffe parlamentari: intendiamoci, che la signora Boldrini debba ora menare scandalo per quel che accade nel consesso da lei presieduto (certo, abbiamo avuto Irene Pivetti presidente, e dunque la Boldrini è una gran donna e una politica straordinaria, ma che pena, la sua retorica al servizio del potere!) suona bizzarro, avendo lei inferto un colpo quasi mortale alla dialettica parlamentare, con il ricorso alla “ghigliottina”, per bloccare il dibattito e far convertire in legge, obtorto collo, il vergognosissimo decreto IMU-Banca d’Italia.
Si era mai visto qualcosa di simile in quell’aula? A mia memoria, no. Mentre la storia parlamentare repubblicana è traboccante di incidenti, anche gravi, comprese ingiurie, colluttazioni e addirittura lanci di oggetti (narrano le cronache parlamentari di un deputato comunista che, negli anni Cinquanta, dopo aver con forza erculea divelto un seggio l’abbia scagliato verso i democristiani). Ma devo dire che di tutte le scenette a cui abbiamo assistito per me la più grottesca è stata il faccia a faccia tra due deputati, un PD e un M5S, che ripetevano, psittacisticamente, insomma, come due pappagalli ammaestrati, frasi senza senso, ossia di repertorio, che ricordavano i famigerati “Capra! Capra! Capra!” e via seguitando dell’orrido Sgarbi nei programmi spazzatura della televisione.
L’iterazione è, come si sa, un espediente cui si ricorre in mancanza di capacità argomentativa: certo, che l’onorevole Speranza, col suo faccino compunto da bravo scolaretto, che ripete con voce tesa al suo contendente il mantra “Voi state ostacolando la democrazia” appariva ridicolo, a dir poco: ma nessuno gli ha spiegato che l’ostruzionismo è una tattica parlamentare alle quali tutte le forze politiche hanno fatto e fanno ricorso? Nessuno gli ha detto che la sinistra è stata, lodevolmente, maestra in tale genere di tattica, per fermare provvedimenti liberticidi, o nemici delle classi popolari?
E che dire della reazione generale di scandalo, perché qualcuno osa dire che Napolitano si sta comportando più da capo di governo che da capo di Stato? Si tratta di una osservazione persino banale, che una gran parte dei commentatori indipendenti tanto in patria quanto all’estero ha avuto modo di fare. L’abbiamo scritto anche noi, di MicroMega, qui, più volte, su questo spazio; e l’ho sostenuto io stesso. E ancora per quanto concerne l’inclita signora Boldrini, sia consentito rilevare che, accanto alle solenni reprimende della certamente indecorosa seduta parlamentare, non ha trovato modo di dire una parola di solidarietà per la collega deputata (forse perché di M5S?) duramente colpita da un energumeno di “Scelta civica”, al quale forse si dovrebbe insegnare un po’ di civismo. Ma più ancora offende il fatto che ella, come del resto il presidente della Repubblica, e il presidente del Senato, si comportino come parte integrante dell’Esecutivo: la giustificazione data dalla Boldrini che il suo stop alla discussione aveva il solo scopo di impedire che “gli italiani” (quali? E in quale misura?), pagassero la seconda rata dell’IMU è una offesa alla decenza. E si potrebbe seguitare.
Stiamo, in sintesi, assistendo alla formazione di un blocco storico, mai visto nella vicenda nazionale, neppure ai tempi bui del fascismo: un blocco che cancella le differenze di ruoli tra le istituzioni (Esecutivo e Legislativo diventano tutt’uno), che elimina le diversità delle opzioni politiche (PD-FI e il resto della minuteria “moderata” ormai vanno verso una identità sostanziale, con leggere sfumature che hanno il mero scopo di preservare una identità ai fini elettorali), che toglie persino il velo alla relazione strettissima tra potentati economico-finanziari e apparati politici.
E ancora: come possiamo ancora distinguere la CGIL (di CISL e UIL manco vale la pena di parlare, tanto appiattiti sono ormai da anni sulle logiche padronali) dalla voce del padrone? Il decreto per la “ricapitalizzazione” della Banca d’Italia, che implica un gigantesco regalo alle grandi banche, è un esempio paradigmatico; come lo è il silenzio ossequiente verso le scellerate scelte “strategiche” di Marchionne e dell’”azionista di riferimento” Fiat (Agnelli-Elkann), che meriterebbero risposte adeguate, e così via, non dimenticando la vicenda degli F35 (appena dichiarati pericolosi e costosi dal Pentagono! Mentre il governo Letta, quello “virtuoso”, persevera nella politica delle commesse alle multinazionali produttrici di questi giocattoli di guerra), o quella del TAV, o del MUOS, eccetera eccetera.
Insomma, un catalogo di orrori che sta facendo toccare con mano quanto fossero esatte le funeste previsioni all’ascesa alla guida del PD del giovane rottamatore, che sta inanellando una vittoria dopo l’altra, nel silenzio complice o inerte degli uni, o nell’adesione convinta o necessitata degli altri. Ma le vittorie di Renzi sono altrettante sconfitte della democrazia. E le giornate di fine gennaio saranno ricordate come macchie scure nella vicenda dello stesso sistema liberal-democratico. E non certo per i chiassosi e spesso rozzi, spessissimo irritanti e ignoranti “grillini”, ma per il delitto perfetto che è stato consumato dai “democratici” Renzi e Letta, sotto la regia di Napolitano, con la benevolenza istituzionale dei presidenti delle Camere, e soprattutto la complicità attiva e interessatissima del riesumato Berlusconi e della sua gang.
Ora non paghi di una legge elettorale che, come è stato notato, è persino peggiore della precedente (il “Porcellum” da tanti vituperato, e ora imitato), e prelude a uno scenario cimiteriale, dove due partitoni indistinguibili, come sovente sono laburisti e conservatori in Gran Bretagna, democratici e repubblicani negli Usa, occuperanno l’intero panorama politico. E questa sarebbe la “moderna democrazia” a cui si vuole arrivare? Ma non basta: una nuova gioiosa macchina da guerra avanza. La guida il piccolo duce, alias Renzi, nello stupefatto balbettio della minoranza interna, nella soddisfazione di chi l’ha votato, stanco dell’immobilismo bersaniano, e, infine, nell’entusiasmo di chi lo chiama “Matteo” e lo acclama come la star da opporre finalmente al Berlusconi, e capace di fermare il “fenomeno Grillo”.
Guadagnato il fortilizio elettorale, con una ultima ignominiosa correzione per impedire che la Lega Nord (un partito che proclama la secessione dall’Italia!) esca dal giro, la macchina marcia verso la Costituzione, che da almeno tre decenni i soloni del “novitismo”, delle “riforme” e della “governabilità”, hanno classificato come “obsoleta”: e in quattro e quattr’otto lo si farà, recando una ferita che non sarà più possibile rimarginare, neppure quando ci si liberasse del Berluscone e del Berluschino. Occorrerà una rivoluzione (si penserà poi all’etichetta), per restituire dignità al Paese e valore alle sue leggi, rinnovando completamente la sua classe dirigente. Ma dietro l’angolo la rivoluzione non si vede: si vedono proteste, jacqueries, ribellioni, uno scontento generale e gigantesco che si traduce anche, per fortuna, in atti di resistenza, che, in realtà numerosissimi e diffusi, hanno il solo torto di non essere coordinati e spesso neppure conosciuti.
Il che vuol dire che davanti a questo sfascio, se si prende atto che l’alternativa tra PD e tutta l’ammucchiata di centrodestra è ormai fasulla, non solo ribellarsi è giusto ma è anche possibile. Lo è perché M5S non rappresenta l’alternativa, e al di là delle simpatie che si possano provare per il movimento, o quanto meno per talune delle sue istanze, o delle idiosincrasie per i due capetti che lo tengono (finora) in pugno, o del fastidio per tanti suoi ridicoli esponenti (basti pensare a Vito Crimi, degno del senatore Razzi imitato dal comico Crozza), ebbene, oggi solo questi ragazzacci stanno provando ad alzare la voce contro lo schifo, anche se poi essi stessi per tanti versi ne sono contaminati. Stanno “facendo ammuina”, certo, ed è poco, e spesso insopportabile nei modi, nelle volgarità, nelle manifestazioni di ignoranza; ma è meglio di nulla. E mentre siamo disgustati di aver sentito il canto di Bella ciao, sulle bocche dei deputati piddini, per difendere il decreto IMU-Bankitalia, certo non ci è piaciuto il “Boia chi molla!”, dei “grillini”, Eppure, come è stato osservato da Alessandro Gilioli: “È davvero notevole lo sforzo con cui il Pd, Forza Italia, Boldrini e Napolitano stanno trasportando verso il Movimento 5 Stelle anche gli italiani meno attratti da Grillo e Casaleggio”.
Ciò malgrado, noi, noi che, schierati da sempre contro il berlusconismo, cancro morale del Paese, noi che non siamo disposti ad andare all’abbraccio con Grillo e Casaleggio, noi che siamo schifati di tutte le scelte del Partito Democratico, noi che siamo delusi di un Vendola rimasto capace di affabulare solo se stesso allo specchio, noi che abbiamo atteso finora invano un gesto serio (di autocritica e di rilancio unitario) da parte dei responsabili della ”vera sinistra” rimasti in posizione perlopiù autoreferenziale, noi che faremo? Ci rifugeremo nell’astensionismo, decidendo di abbandonare le istituzioni nelle grinfie di lorsignori? O addirittura smetteremo di pensare politicamente, rifugiandoci ciascuno nel suo proprio cenobio?
Forse ora, non in attesa di tempi migliori, ma decisi a costruirli, quei tempi, ci tocca, ancora una volta, ricominciare il gramsciano lavorio lungo e tenace, a carattere culturale, ma non soltanto; occorre anche lavorare sul terreno sociale, dando ciascuno il suo modesto contributo per connettere le tante isole di opposizione allo schifo. Un’altra Italia esiste, insomma. E non è così piccola e debole, non ancora. Perciò anche se questa battaglia forse è già perduta, la guerra continua e il combattimento va rilanciato subito, prima che ci schiaccino completamente. E, resistendo allo scoramento, occorre provare ancora una volta a rimettere insieme i pezzi di ciò che sinistra significa o dovrebbe significare, mettendo da parte diffidenze e preclusioni, e sottolineando ciò che deve unire quanti sono contro lorsignori: la situazione è grave, non diamo una mano al nemico.
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La legge elettorale salva-Casta e la rottamazione della democrazia
Raniero La Valle (MicroMega)
Ha fatto presto Berlusconi a innalzare il suo trofeo: queste – ha detto – non sono le riforme di Renzi, sono le mie riforme, che io perseguo da vent’anni, fin dalla mia discesa in campo. E Renzi si è vantato di aver fatto in un mese ciò che gli altri non erano riusciti a fare per vent’anni; gli altri, cioè, appunto, Berlusconi.
Sicché non a torto i costituzionalisti, criticando la legge elettorale presentata dai due, e giudicandola peggiore del “Porcellum”, hanno scritto che “l’abilità del segretario del PD è consistita nell’essere riuscito a far accettare alla destra più o meno la vecchia legge elettorale da essa varata nel 2005 e oggi dichiarata incostituzionale”.
Nel trofeo innalzato dall’uno e dall’altro non c’è però solo la legge elettorale, c’è anche l’abolizione del Senato e la modifica dell’ordinamento costituzionale delle Regioni. Che poi davvero queste tre riforme vadano in porto è tutto da vedere: gli emendamenti piovono copiosi, l’accordo PD-Forza Italia è presentato come un prendere o lasciare, e con questi metodi prepotenti così lontani dalla mediazione politica, diventa molto probabile che si sfasci tutto, a cominciare dal governo.
In ogni caso, fatta la legge, c’è chi vorrebbe subito usarla per andare a votare; ma questa legge non lo permette, a meno di sprofondare nel caos. Ancora nessuno lo ha detto, ma finché c’è il Senato, che ha un elettorato diverso per età da quello della Camera, c’è il rischio di due risultati difformi nei due rami del Parlamento: o che il premio di maggioranza nella Camera dei deputati vada a una coalizione diversa ed opposta rispetto a quella del Senato, o che scatti al primo turno per una Camera e solo col ballottaggio per l’altra: altro che sapere la sera stessa delle elezioni chi ha vinto e governa!
A noi interessa però guardare un po’ più lontano nel futuro, e intanto cercare di capire perché Berlusconi, Renzi e il Partito Democratico abbiano concordato e fatto proprie queste tre riforme.
Per quanto riguarda Berlusconi è chiaro. Il “Porcellum” è un diritto illegittimo, perché in contrasto con la Costituzione; ma solo con un diritto illegittimo, che trasforma una minoranza nell’unica forza dominante in Parlamento, a fronte di un’opposizione ridotta di numero e resa impotente, si può realizzare il progetto di un capo populista della destra che diventa padrone di tutto lo Stato. Il cosiddetto “Italicum”, ad onta della sentenza della Corte costituzionale, riproduce, aggravato, questo modello di diritto illegittimo.
Anche nella forma esso non si presenta come una nuova legge elettorale, ma come la vecchia legge corretta per via di emendamenti; come tale lascia intatta la logica del “Porcellum”, e in particolare lascia in vigore l’art. 14 bis che tendeva a ridurre la costellazione politica, sia pure bipolare, a due soli partiti. Infatti esso pretende che i partiti che confluiscono in una coalizione perdano qualsiasi identità ed autonomia: essi devono avere lo stesso programma del partito maggiore, lo stesso capo (anche se interdetto?) e se non superano una certa soglia di voti non hanno diritto ad entrare con propri rappresentanti in Parlamento. Insomma Alfano deve avere per capo Berlusconi e Vendola Renzi.
Salvo modifiche che possano essere portate all’ultima ora (ma dai suoi proponenti il testo è stato presentato come blindato) il progetto Renzi-Berlusconi innalza la soglia di sbarramento per i partiti coalizzati dal 2 al 5 per cento[1], e quella per i partiti non coalizzati al livello proibitivo dell’8 per cento dei voti (impossibile da raggiungere anche per la Lega). Le coalizioni, poi, per essere ammesse alla ripartizione dei seggi, dovrebbero avere almeno il 12 per cento dei suffragi, che altrimenti diventano inutili.
A questa prima distorsione del risultato si aggiunge il premio di maggioranza che sarebbe dato, al primo turno o al ballottaggio, al partito o alla coalizione che abbia raggiunto il 35 per cento dei voti (che Berlusconi non vuole alzare perché conta di vincere al primo turno[2]) e che otterrebbe tra il 53 e il 55 per cento dei seggi. Ciò renderebbe del tutto sproporzionato, contro la sentenza della Corte, il rapporto tra voti conseguiti e seggi assegnati, alterando irrimediabilmente la rappresentanza. Di più, nel nuovo “Porcellum” c’è la conferma delle liste bloccate, anche se più corte, senza alcuna possibilità di scelta da parte dei cittadini.
Così configurata, la nuova legge elettorale distrugge il pluralismo politico, e cioè lo specifico della democrazia; non solo toglie i cespugli, cioè – come dice Renzi – libera i partiti maggiori dal “ricatto dei piccoli partiti”, ma toglie tutti gli alberi del bosco lasciandone solo uno a dominare il deserto e un altro, mutilato e umiliato, a riceverne l’ombra come parte di un unico sistema. In tal modo le elezioni invece che essere una scelta tra diverse opzioni politiche per il governo del Paese, si trasformano in una successione ereditaria per la quale il potere già esistente perpetua se stesso aggiornando di volta in volta per cooptazione le nomenclature al comando nei due partiti. Dopo tante invettive contro la casta una legge più castale di così non si poteva immaginare.
Quanto al Senato è evidente l’interesse di Berlusconi ad abolirlo: dal suo punto di vista non solo la Camera Alta, ma tutto il Parlamento è una spesa inutile; per la Camera aveva già detto che basterebbe che si riunissero i capigruppo per decidere ogni cosa, e quanto al rapporto di fiducia col governo non c’è nessun bisogno del Parlamento, basta la fiducia dei cittadini. Riguardo poi al titolo V della Costituzione se il Senato e i partiti sono enti inutili, figurarsi se ci si può far scrupolo delle Regioni, che di tutto il sistema sono le peggio riuscite.
Ma se per Berlusconi le ragioni di queste scelte sono chiare, non lo sono affatto per Renzi. La sua dovrebbe essere un’altra cultura; certo potrebbero influire l’inesperienza dell’età, la presunzione del narcisismo, la malagrazia nei rapporti personali, soprattutto con i dissenzienti, l’azzardo del gioco politico, ma un segretario del PD che d’accordo con Berlusconi crei le condizioni per l’instaurazione del regime berlusconiano non è spiegabile. Finora ciò è stato impedito dalla resistenza della Costituzione, dal controllo di legittimità della magistratura, dalle scelte, anche referendarie, dell’elettorato, dall’opposizione delle forze democratiche e dello stesso PD; ed ecco che ora al regime interdetto viene di nuovo spalancata la porta del potere: “con questa legge – ha detto Brunetta – stravinciamo”.
Probabilmente ciò di cui è vittima Renzi è la sindrome del Truman-show, del reality, per cui crede che quello che appare in televisione c’è nella realtà; e in televisione c’è il mito Renzi, il vincitore, e crede che questo mito non possa avere smentite.
Resta da chiedersi perché il Partito Democratico è entrato in questa fase di rottamazione. Non è vero che la sua classe dirigente anelasse da anni a queste riforme per restare sola al comando. C’era anzi l’idea di essere eredi di un’investitura nobiliare da salvatori della democrazia. Però si è aperto un vuoto. C’è stata una rottura più forte di quella provocata dalla “vocazione maggioritaria” di Veltroni, c’è stata la perdita delle sue culture. Il Partito Democratico ne aveva raccolte due: della cultura comunista aveva buttato l’acqua sporca insieme al bambino, restando privo di economia politica; della cultura cattolica aveva intercettato solo i residui della versione democristiana, restando irraggiungibile dalle novità della Chiesa conciliare e tanto più, ora dalla critica di sistema di papa Francesco.
Se queste sono le ragioni del disastro, le ragioni della rinascita possono essere solo nell’avvento di nuove culture politiche e di nuovi partiti. Senza cultura e senza partiti la democrazia non si fa. Ma essi devono essere all’altezza di una vocazione europea e mondiale e pari alla sfida della incalzante controrivoluzione postnovecentesca.
NOTE
[1] Un ulteriore accordo tra Renzi e Berlusconi ha previsto un piccolo sconto in questo sbarramento, dal 5 al 4,5 per cento.
[2] Nel nuovo accordo con Renzi Berlusconi ha concesso di portare la soglia per il premio di maggioranza dal 35 al 37 per cento.
Ha fatto presto Berlusconi a innalzare il suo trofeo: queste – ha detto – non sono le riforme di Renzi, sono le mie riforme, che io perseguo da vent’anni, fin dalla mia discesa in campo. E Renzi si è vantato di aver fatto in un mese ciò che gli altri non erano riusciti a fare per vent’anni; gli altri, cioè, appunto, Berlusconi.
Sicché non a torto i costituzionalisti, criticando la legge elettorale presentata dai due, e giudicandola peggiore del “Porcellum”, hanno scritto che “l’abilità del segretario del PD è consistita nell’essere riuscito a far accettare alla destra più o meno la vecchia legge elettorale da essa varata nel 2005 e oggi dichiarata incostituzionale”.
Nel trofeo innalzato dall’uno e dall’altro non c’è però solo la legge elettorale, c’è anche l’abolizione del Senato e la modifica dell’ordinamento costituzionale delle Regioni. Che poi davvero queste tre riforme vadano in porto è tutto da vedere: gli emendamenti piovono copiosi, l’accordo PD-Forza Italia è presentato come un prendere o lasciare, e con questi metodi prepotenti così lontani dalla mediazione politica, diventa molto probabile che si sfasci tutto, a cominciare dal governo.
In ogni caso, fatta la legge, c’è chi vorrebbe subito usarla per andare a votare; ma questa legge non lo permette, a meno di sprofondare nel caos. Ancora nessuno lo ha detto, ma finché c’è il Senato, che ha un elettorato diverso per età da quello della Camera, c’è il rischio di due risultati difformi nei due rami del Parlamento: o che il premio di maggioranza nella Camera dei deputati vada a una coalizione diversa ed opposta rispetto a quella del Senato, o che scatti al primo turno per una Camera e solo col ballottaggio per l’altra: altro che sapere la sera stessa delle elezioni chi ha vinto e governa!
A noi interessa però guardare un po’ più lontano nel futuro, e intanto cercare di capire perché Berlusconi, Renzi e il Partito Democratico abbiano concordato e fatto proprie queste tre riforme.
Per quanto riguarda Berlusconi è chiaro. Il “Porcellum” è un diritto illegittimo, perché in contrasto con la Costituzione; ma solo con un diritto illegittimo, che trasforma una minoranza nell’unica forza dominante in Parlamento, a fronte di un’opposizione ridotta di numero e resa impotente, si può realizzare il progetto di un capo populista della destra che diventa padrone di tutto lo Stato. Il cosiddetto “Italicum”, ad onta della sentenza della Corte costituzionale, riproduce, aggravato, questo modello di diritto illegittimo.
Anche nella forma esso non si presenta come una nuova legge elettorale, ma come la vecchia legge corretta per via di emendamenti; come tale lascia intatta la logica del “Porcellum”, e in particolare lascia in vigore l’art. 14 bis che tendeva a ridurre la costellazione politica, sia pure bipolare, a due soli partiti. Infatti esso pretende che i partiti che confluiscono in una coalizione perdano qualsiasi identità ed autonomia: essi devono avere lo stesso programma del partito maggiore, lo stesso capo (anche se interdetto?) e se non superano una certa soglia di voti non hanno diritto ad entrare con propri rappresentanti in Parlamento. Insomma Alfano deve avere per capo Berlusconi e Vendola Renzi.
Salvo modifiche che possano essere portate all’ultima ora (ma dai suoi proponenti il testo è stato presentato come blindato) il progetto Renzi-Berlusconi innalza la soglia di sbarramento per i partiti coalizzati dal 2 al 5 per cento[1], e quella per i partiti non coalizzati al livello proibitivo dell’8 per cento dei voti (impossibile da raggiungere anche per la Lega). Le coalizioni, poi, per essere ammesse alla ripartizione dei seggi, dovrebbero avere almeno il 12 per cento dei suffragi, che altrimenti diventano inutili.
A questa prima distorsione del risultato si aggiunge il premio di maggioranza che sarebbe dato, al primo turno o al ballottaggio, al partito o alla coalizione che abbia raggiunto il 35 per cento dei voti (che Berlusconi non vuole alzare perché conta di vincere al primo turno[2]) e che otterrebbe tra il 53 e il 55 per cento dei seggi. Ciò renderebbe del tutto sproporzionato, contro la sentenza della Corte, il rapporto tra voti conseguiti e seggi assegnati, alterando irrimediabilmente la rappresentanza. Di più, nel nuovo “Porcellum” c’è la conferma delle liste bloccate, anche se più corte, senza alcuna possibilità di scelta da parte dei cittadini.
Così configurata, la nuova legge elettorale distrugge il pluralismo politico, e cioè lo specifico della democrazia; non solo toglie i cespugli, cioè – come dice Renzi – libera i partiti maggiori dal “ricatto dei piccoli partiti”, ma toglie tutti gli alberi del bosco lasciandone solo uno a dominare il deserto e un altro, mutilato e umiliato, a riceverne l’ombra come parte di un unico sistema. In tal modo le elezioni invece che essere una scelta tra diverse opzioni politiche per il governo del Paese, si trasformano in una successione ereditaria per la quale il potere già esistente perpetua se stesso aggiornando di volta in volta per cooptazione le nomenclature al comando nei due partiti. Dopo tante invettive contro la casta una legge più castale di così non si poteva immaginare.
Quanto al Senato è evidente l’interesse di Berlusconi ad abolirlo: dal suo punto di vista non solo la Camera Alta, ma tutto il Parlamento è una spesa inutile; per la Camera aveva già detto che basterebbe che si riunissero i capigruppo per decidere ogni cosa, e quanto al rapporto di fiducia col governo non c’è nessun bisogno del Parlamento, basta la fiducia dei cittadini. Riguardo poi al titolo V della Costituzione se il Senato e i partiti sono enti inutili, figurarsi se ci si può far scrupolo delle Regioni, che di tutto il sistema sono le peggio riuscite.
Ma se per Berlusconi le ragioni di queste scelte sono chiare, non lo sono affatto per Renzi. La sua dovrebbe essere un’altra cultura; certo potrebbero influire l’inesperienza dell’età, la presunzione del narcisismo, la malagrazia nei rapporti personali, soprattutto con i dissenzienti, l’azzardo del gioco politico, ma un segretario del PD che d’accordo con Berlusconi crei le condizioni per l’instaurazione del regime berlusconiano non è spiegabile. Finora ciò è stato impedito dalla resistenza della Costituzione, dal controllo di legittimità della magistratura, dalle scelte, anche referendarie, dell’elettorato, dall’opposizione delle forze democratiche e dello stesso PD; ed ecco che ora al regime interdetto viene di nuovo spalancata la porta del potere: “con questa legge – ha detto Brunetta – stravinciamo”.
Probabilmente ciò di cui è vittima Renzi è la sindrome del Truman-show, del reality, per cui crede che quello che appare in televisione c’è nella realtà; e in televisione c’è il mito Renzi, il vincitore, e crede che questo mito non possa avere smentite.
Resta da chiedersi perché il Partito Democratico è entrato in questa fase di rottamazione. Non è vero che la sua classe dirigente anelasse da anni a queste riforme per restare sola al comando. C’era anzi l’idea di essere eredi di un’investitura nobiliare da salvatori della democrazia. Però si è aperto un vuoto. C’è stata una rottura più forte di quella provocata dalla “vocazione maggioritaria” di Veltroni, c’è stata la perdita delle sue culture. Il Partito Democratico ne aveva raccolte due: della cultura comunista aveva buttato l’acqua sporca insieme al bambino, restando privo di economia politica; della cultura cattolica aveva intercettato solo i residui della versione democristiana, restando irraggiungibile dalle novità della Chiesa conciliare e tanto più, ora dalla critica di sistema di papa Francesco.
Se queste sono le ragioni del disastro, le ragioni della rinascita possono essere solo nell’avvento di nuove culture politiche e di nuovi partiti. Senza cultura e senza partiti la democrazia non si fa. Ma essi devono essere all’altezza di una vocazione europea e mondiale e pari alla sfida della incalzante controrivoluzione postnovecentesca.
NOTE
[1] Un ulteriore accordo tra Renzi e Berlusconi ha previsto un piccolo sconto in questo sbarramento, dal 5 al 4,5 per cento.
[2] Nel nuovo accordo con Renzi Berlusconi ha concesso di portare la soglia per il premio di maggioranza dal 35 al 37 per cento.
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29.1.14
L'urlo dell'Ucraina, il silenzio dell'Europa
Barbara Spinelli (repubblica.it)
A prima vista sembra un vasto e violento tumulto in favore dell'Europa, quello che da mesi sconvolge l'Ucraina. Un tumulto che ci sorprende, ci scombussola: possibile che l'Unione accenda le brame furiose di un popolo, proprio ora che tanti nostri cittadini la rigettano?
È possibile, ma a condizione di decifrare l'insurrezione: di esplorarne i buchi neri, gli anfratti. Di capire che la dimissione del premier Azarov non metterà fine alla rabbia, all'anarchia. A condizione di non consegnare l'Ucraina al nero della solitudine e mantenere però la mente fredda: che analizza, distingue la superficie visibile dai sottofondi. A condizione che l'Europa sappia di essere non solo simbolo, ma pretesto per abbattere il regime di Kiev. Che diventi motore degli eventi, smettendo di vedere se stessa come Empireo immune da difetti che abbraccia i cieli inferiori ma senza responsabilità. Lo sguardo europeo è attratto dagli esotismi, ed esoticamente lontana è Piazza-Europa, chiamata dagli ucrainiEuromaidan. Incapace di far politica, l'Unione commenta con pietrificati sermoni sui propri valori il film atroce, fatto d'incendi e lividi paesaggi, che vediamo in Tv.
Abbiamo alle spalle anni di esperienze esotiche finite nel caos: le primavere arabe, la Libia, la Siria. Le primavere svegliarono euforie democratiche degenerate in carneficine. Un'analisi di questo radicale fallimento neppure è cominciata: né in Usa né in Europa. Fondata è l'accusa dello scrittore polacco Andrzej Stasiuk sulla Welt: viviamo, noi europei, nella paura di perdere la "roba" e nell'endogamia. La nostra risposta agli squassi ucraini è una patologica coazione a ripetere.
I trattati di psicologia insegnano: sempre ricadiamo nell'identica perversa letargia, intrappolati e sorpresi dagli eventi, quando non riconosciamo di esserne autori. La passività di fronte alla disperazione ucraina ripete quel che non sappiamo: imparare, fare autocritica, trasformarci.
Eppure gli elementi dell'immane complicazione di Kiev sono visibili. Sempre più, la protesta contro il regime di Yanukovich assume tratti spurî, inevitabili in un paese immerso in guerre civili perché reietto. L'ira esplose il 21 novembre, quando Kiev rinunciò al trattato di associazione con l'Unione per timore di perdere Putin, che sarà un semi-dittatore ma garantiva più aiuti dell'Europa, e contratti promettenti in materie vitali: le forniture d'energia. Dopodiché tutto s'è sbrindellato sfociando nel sangue, proprio come nelle primavere arabe (4 attivisti morti). L'insurrezione è senza leader e programmi stabili.
Nel suo torrente nuotano anche gli ultra-nazionalisti, raccontano i reporter, ma l'aggettivo è eufemistico. Anche se minoritarie, due destre estreme sono protagoniste: la formazione Svoboda, nata da un partito neonazista che inneggia a Stepan Bandera (collaborazionista di Hitler nella guerra) e che ancora nel 2004 si definiva social-nazionale, avendo come emblema una specie di svastica; e il "Settore di destra" (Pravi Sektor), che rischia di alterare un movimento in principio liberal-democratico. La russofobia, dunque il razzismo, le impregna. Mark Ferretti del Sunday Times lo scrive sulla Stampa: per tanti, "l'integrazione nell'Unione europea non è la priorità". Non basterà la revoca, ieri, delle leggi liberticide del 16 gennaio.
L'inerzia dell'Unione europea risale ai tempi dell'allargamento. Già allora ci si concentrò su regole finanziarie e giuridiche, e mancò la politica come sintesi: che difendesse la natura federale dell'Unione in modo da frenare i nazionalismi dell'Est, e costruisse un rapporto non sconclusionato con la Russia e le zone di mezzo fra lei e noi (l'"estero vicino", si chiama a Mosca: è "estero vicino" anche per noi). Una Russia influenzata certo dal passato (Putin ritiene una "catastrofe storica" la fine dell'impero sovietico, che sogna di restaurare), ma un paese mutante, col quale nessun discorso serio si apre perché sempre l'Europa aspetta - per comoda abulia, per vizi contratti in guerra fredda - che la prima mossa sia americana.
Quel che colpisce nel no di Kiev a Bruxelles dovrebbe farci pensare: proprio perché nuovo, frastornante. Perché il tumulto non ci dà automaticamente ragione, se l'Europa è un pretesto. Inutile perdersi in descrizioni di un'Ucraina ancora erede dell'ex Urss, e malefico sarebbe tollerare passioni torbide come la russofobia. Utile è riconoscere invece che l'era degli allargamenti è conclusa, che le adesioni o associazioni esterne fanno oggi problema. Perché quel che offre l'Unione, in tempi di recessione e di crisi che non sa sormontare, attrae enormemente ma anche respinge: sono così lontani, i frutti. L'Europa innalza muri di cinta e la Russia no, quali che siano i suoi colonialismi. C'è poco da compiacersi. La disfatta è nostra.
Se l'Unione è colma di vizi di costruzione, è perché alcune domande essenziali neanche se le pone, neanche sospetta che interrogarsi e mettersi in questione sia già un inizio di buona risposta. Ad esempio: dove finisce l'Europa e dove precisamente comincia l'Est? Cosa vuol dire confine, e l'Estero Vicino? E quali sono i criteri che permettono di affrontare il dramma di un popolo che vuole l'Europa ma in parte anche la respinge, temendo di accentuare la propria crisi infilandosi nella sua orbita?
Qui è il guaio: l'Europa assiste a simili terremoti come se fosse non un attore politico ma un semplice contenitore, una sorta di hotel degli Stati e dei popoli. L'allargamento nel 2004-2007 avvenne inscatolando, non integrando, e l'Unione non ne uscì rafforzata ma svuotata. I nuovi Stati, esclusa la Polonia a partire dal 2010, non hanno capito l'Unione in cui entravano: la scambiarono appunto per un recipiente, che invitava a trasferire sovranità nazionali verso l'ignoto, non verso un'autorità comune, solidale, forte di un'autentica politica estera. L'Ucraina è piena di buchi neri, ma anche noi. Ha vinto la ricetta britannica: mera custode di parametri finanziari, l'Unione è un'area di libero scambio, non una potenza politica.
Non stupisce che gli inviati europei a Kiev (Catherine Ashton, incaricata dei rapporti esterni, è una delle persone più scialbe dell'Unione)siano completamente muti. Che Van Rompuy, A parte questo: nulla. Sono andati alla Piazza di Kiev politici Usa (Victoria Nuland vice segretario di Stato, i senatori John McCain, Chris Murphy) ma nessun politico europeo di rilievo. Non per questo gli Stati dell'Unione sono assenti. Angela Merkel è molto attiva: sostiene un oppositore del regime di Kiev, l'ex pugile Vitaly Klitschko, ma solo per immetterlo nel Partito popolare europeo e punzecchiare Putin senza un piano generale. Ancora una volta non è l'Unione a muoversi, ma il paese geopoliticamente più interessato, e forte.
In Europa si coltiva l'idea, esiziale, che prima viene l'economia, e chissà quando la politica estera. È una delle sue più gravi menomazioni. Avere
una politica estera, nel Mediterraneo e in una Russia pensata oltre Putin, implica collocarsi nel mondo come soggetto politico, non come finanziere o commerciante. Accodarsi a Washington significa condividere un destino di guerre perse, di potenza non più egemonica e solo nazionalista, impreparata a pensare un mondo i cui attori sono oggi molteplici. Un destino che mescola valori altisonanti e calcoli economici, creando guazzabugli. Da questa gabbia conviene uscire al più presto.
A prima vista sembra un vasto e violento tumulto in favore dell'Europa, quello che da mesi sconvolge l'Ucraina. Un tumulto che ci sorprende, ci scombussola: possibile che l'Unione accenda le brame furiose di un popolo, proprio ora che tanti nostri cittadini la rigettano?
È possibile, ma a condizione di decifrare l'insurrezione: di esplorarne i buchi neri, gli anfratti. Di capire che la dimissione del premier Azarov non metterà fine alla rabbia, all'anarchia. A condizione di non consegnare l'Ucraina al nero della solitudine e mantenere però la mente fredda: che analizza, distingue la superficie visibile dai sottofondi. A condizione che l'Europa sappia di essere non solo simbolo, ma pretesto per abbattere il regime di Kiev. Che diventi motore degli eventi, smettendo di vedere se stessa come Empireo immune da difetti che abbraccia i cieli inferiori ma senza responsabilità. Lo sguardo europeo è attratto dagli esotismi, ed esoticamente lontana è Piazza-Europa, chiamata dagli ucrainiEuromaidan. Incapace di far politica, l'Unione commenta con pietrificati sermoni sui propri valori il film atroce, fatto d'incendi e lividi paesaggi, che vediamo in Tv.
Abbiamo alle spalle anni di esperienze esotiche finite nel caos: le primavere arabe, la Libia, la Siria. Le primavere svegliarono euforie democratiche degenerate in carneficine. Un'analisi di questo radicale fallimento neppure è cominciata: né in Usa né in Europa. Fondata è l'accusa dello scrittore polacco Andrzej Stasiuk sulla Welt: viviamo, noi europei, nella paura di perdere la "roba" e nell'endogamia. La nostra risposta agli squassi ucraini è una patologica coazione a ripetere.
I trattati di psicologia insegnano: sempre ricadiamo nell'identica perversa letargia, intrappolati e sorpresi dagli eventi, quando non riconosciamo di esserne autori. La passività di fronte alla disperazione ucraina ripete quel che non sappiamo: imparare, fare autocritica, trasformarci.
Eppure gli elementi dell'immane complicazione di Kiev sono visibili. Sempre più, la protesta contro il regime di Yanukovich assume tratti spurî, inevitabili in un paese immerso in guerre civili perché reietto. L'ira esplose il 21 novembre, quando Kiev rinunciò al trattato di associazione con l'Unione per timore di perdere Putin, che sarà un semi-dittatore ma garantiva più aiuti dell'Europa, e contratti promettenti in materie vitali: le forniture d'energia. Dopodiché tutto s'è sbrindellato sfociando nel sangue, proprio come nelle primavere arabe (4 attivisti morti). L'insurrezione è senza leader e programmi stabili.
Nel suo torrente nuotano anche gli ultra-nazionalisti, raccontano i reporter, ma l'aggettivo è eufemistico. Anche se minoritarie, due destre estreme sono protagoniste: la formazione Svoboda, nata da un partito neonazista che inneggia a Stepan Bandera (collaborazionista di Hitler nella guerra) e che ancora nel 2004 si definiva social-nazionale, avendo come emblema una specie di svastica; e il "Settore di destra" (Pravi Sektor), che rischia di alterare un movimento in principio liberal-democratico. La russofobia, dunque il razzismo, le impregna. Mark Ferretti del Sunday Times lo scrive sulla Stampa: per tanti, "l'integrazione nell'Unione europea non è la priorità". Non basterà la revoca, ieri, delle leggi liberticide del 16 gennaio.
L'inerzia dell'Unione europea risale ai tempi dell'allargamento. Già allora ci si concentrò su regole finanziarie e giuridiche, e mancò la politica come sintesi: che difendesse la natura federale dell'Unione in modo da frenare i nazionalismi dell'Est, e costruisse un rapporto non sconclusionato con la Russia e le zone di mezzo fra lei e noi (l'"estero vicino", si chiama a Mosca: è "estero vicino" anche per noi). Una Russia influenzata certo dal passato (Putin ritiene una "catastrofe storica" la fine dell'impero sovietico, che sogna di restaurare), ma un paese mutante, col quale nessun discorso serio si apre perché sempre l'Europa aspetta - per comoda abulia, per vizi contratti in guerra fredda - che la prima mossa sia americana.
Quel che colpisce nel no di Kiev a Bruxelles dovrebbe farci pensare: proprio perché nuovo, frastornante. Perché il tumulto non ci dà automaticamente ragione, se l'Europa è un pretesto. Inutile perdersi in descrizioni di un'Ucraina ancora erede dell'ex Urss, e malefico sarebbe tollerare passioni torbide come la russofobia. Utile è riconoscere invece che l'era degli allargamenti è conclusa, che le adesioni o associazioni esterne fanno oggi problema. Perché quel che offre l'Unione, in tempi di recessione e di crisi che non sa sormontare, attrae enormemente ma anche respinge: sono così lontani, i frutti. L'Europa innalza muri di cinta e la Russia no, quali che siano i suoi colonialismi. C'è poco da compiacersi. La disfatta è nostra.
Se l'Unione è colma di vizi di costruzione, è perché alcune domande essenziali neanche se le pone, neanche sospetta che interrogarsi e mettersi in questione sia già un inizio di buona risposta. Ad esempio: dove finisce l'Europa e dove precisamente comincia l'Est? Cosa vuol dire confine, e l'Estero Vicino? E quali sono i criteri che permettono di affrontare il dramma di un popolo che vuole l'Europa ma in parte anche la respinge, temendo di accentuare la propria crisi infilandosi nella sua orbita?
Qui è il guaio: l'Europa assiste a simili terremoti come se fosse non un attore politico ma un semplice contenitore, una sorta di hotel degli Stati e dei popoli. L'allargamento nel 2004-2007 avvenne inscatolando, non integrando, e l'Unione non ne uscì rafforzata ma svuotata. I nuovi Stati, esclusa la Polonia a partire dal 2010, non hanno capito l'Unione in cui entravano: la scambiarono appunto per un recipiente, che invitava a trasferire sovranità nazionali verso l'ignoto, non verso un'autorità comune, solidale, forte di un'autentica politica estera. L'Ucraina è piena di buchi neri, ma anche noi. Ha vinto la ricetta britannica: mera custode di parametri finanziari, l'Unione è un'area di libero scambio, non una potenza politica.
Non stupisce che gli inviati europei a Kiev (Catherine Ashton, incaricata dei rapporti esterni, è una delle persone più scialbe dell'Unione)siano completamente muti. Che Van Rompuy, A parte questo: nulla. Sono andati alla Piazza di Kiev politici Usa (Victoria Nuland vice segretario di Stato, i senatori John McCain, Chris Murphy) ma nessun politico europeo di rilievo. Non per questo gli Stati dell'Unione sono assenti. Angela Merkel è molto attiva: sostiene un oppositore del regime di Kiev, l'ex pugile Vitaly Klitschko, ma solo per immetterlo nel Partito popolare europeo e punzecchiare Putin senza un piano generale. Ancora una volta non è l'Unione a muoversi, ma il paese geopoliticamente più interessato, e forte.
In Europa si coltiva l'idea, esiziale, che prima viene l'economia, e chissà quando la politica estera. È una delle sue più gravi menomazioni. Avere
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