Il «Fiscal Compact» è dietro l’angolo, un gigante difficilmente aggirabile
di Andrea Del Monaco [esperto di norme e fondi europei] (Il Manifesto)
Merkel e Juncker imporranno a Matteo Renzi tagli per 27 miliardi. Le misure in Legge di Stabilità non si possono finanziare a debito: nel 2016 il Fiscal Compact impone un rapporto Deficit/ Pil dell’1,4%. Renzi vuole sforare quasi dell’1%: vediamo perché è impossibile.
Il commissario Katainen ha già bocciato lo sforamento dello 0,2% per la gestione degli immigrati.
Mentre anche l’altra richiesta italiana, sforare dello 0,3% (5 miliardi di cofinanziamento italiano ai programmi Ue) per la clausola investimenti è poco credibile: infatti quei 5 miliardi potrebbero essere esclusi dal computo del deficit se nel 2016 spendessimo 10 miliardi di programmi cofinanziati dai fondi UE. Poiché al 31 maggio 2015 abbiamo ancora 15 miliardi da spendere dei vecchi programmi 2007–2013 è risibile che l’Italia faccia tale richiesta.
Infine, Padoan vuole sforare un altro 0,4% di Pil (6,4 miliardi) per le presunte «riforme strutturali»; ma il governo Renzi, avendo già invocato tale clausola riforme per il 2015 non può invocarla una seconda volta. Il taglio strutturale delle tasse, in quanto strutturale, non può essere coperto dalla clausola riforme che è una tantum, infatti il commissario europeo Moscovici (a Lucia Annunziata nella trasmissione in 1/2 Ora su Rai 3) ha ricordato che «se il Governo italiano decide riduzioni fiscali» deve fare tagli corrispondenti nel bilancio dello stato. Altrimenti Renzi metterà nuove tasse per sostituire le imposte che vuole abolire.
Partiamo dalla Tasi: il suo gettito nel 2014 è stato di 4,6 miliardi. Come Berlusconi, Renzi prospetta ai contribuenti un risparmio immediato.
Secondo il Servizio Politiche Territoriali della Uil, in valori assoluti il risparmio maggiore sarebbe a Torino, mediamente 403 euro a famiglia; a Roma 391 euro; a Napoli 318 euro e a Milano 300 euro. Ma se Renzi tagliasse la Tasi, quanto dovrebbe versare nelle casse dei singoli comuni? L’assegno per Roma dovrebbe ammontare a 524 milioni di euro; per Milano 205 milioni; per Torino 114 milioni; per Napoli 63 milioni. Qualora il governo Renzi non versasse questi singoli assegni alle municipalità, i Comuni inventeranno l’ennesima tassa locale.
In conclusione, l’abolizione della Tasi ha senso solo se i comuni non mettono nuove tasse e mantengono invariati i servizi. Possibile? Solo se Renzi taglia altre spese oppure si indebita. Purtroppo però il Fiscal Compact impedisce ulteriore debito.
E non è finita qui.
Il governo scherza con le norme di salvaguardia ma prima o poi lo scherzo finisce
Renzi deve trovare altri 22 miliardi per mantenere le sue promesse: 1,5 miliardi per estendere al 2016 la decontribuzione totale a beneficio delle aziende che assumono a tempo indeterminato; 2,1 miliardi per permettere la reindicizzazione delle pensioni e il rinnovo dei contratti dei lavoratori del pubblico impiego (lo impongono le ultime sentenze della Corte Costituzionale); 18,8 miliardi per sterilizzare le clausole di salvaguardia ed evitare nel 2016 gli aumenti delle accise sui carburanti, l’incremento degli acconti Irpef e Ires, e, l’aumento dell’Iva.
L’Ufficio Studi della Cgia di Mestre ha fatto qualche calcolo.
Una prima clausola di salvaguardia sarebbe scaduta il 30 settembre ed è stata introdotta qualche mese fa poiché l’Ue non ha autorizzato l’estensione del «Reverse charge» alla grande distribuzione.
Una seconda clausola (la cui prima scadenza era il 30 settembre) fu introdotta ad agosto 2013 con il DL 102/2013. L’allora presidente Letta, quando confermò l’abolizione della prima rata dell’Imu del 2013, ricorse al gettito incassato dalla sanatoria accordata ai concessionari dei giochi (definizione agevolata dei giudizi di responsabilità amministrativa per i concessionari dei giochi) e al maggior gettito Iva generato dal pagamento dei debiti pregressi della Pubblica amministrazione. Malgrado fossero attesi da queste misure 1,52 miliardi di euro, alla fine furono incassati solo 880 milioni.
E così per trovare i rimanenti 640 milioni di euro fu introdotta una clausola di salvaguardia basata su due provvedimenti: l’aumento degli acconti Ires e Irap di 1,5 punti percentuali; l’incremento delle accise a partire dal primo gennaio 2015, per un importo complessivo di 671,1 milioni di euro.
Quando divenne premier, Matteo Renzi volle evitare l’aumento delle accise e puntò sulla «Voluntary Disclosure» con il DL 192/2014. Temendo di non avere un gettito sufficiente, il governo italiano ha prorogato i termini della «Voluntary Disclosure» dal 30 settembre al 30 novembre.
Infine, occorre trovare altri 16 miliardi: in caso contrario il primo gennaio 2016 l’Iva ordinaria passerà dal 22 al 24%, l’aliquota Iva ridotta salirà dal 10 al 12% e aumenteranno le accise sui carburanti (valore 12,8 miliardi); inoltre verranno ridotte detrazioni e agevolazioni fiscali, saranno aumentate aliquote di imposte se non verranno fatti tagli per altri 3,2 miliardi.
Tutto ciò solo per il 2016. Fino al 2018 per disinnescare le clausole di salvaguardia ed evitare l’Iva al 25,5% il Governo dovrà tagliare 75 miliardi. Lo farà dove è più semplice: sanità, scuola, welfare e lavoratori dipendenti.
I link ai giornali degli articoli spesso cambiano e diventa difficile se non impossibile recuperare i testi ai quali si riferivano. Questo è l'archivio on-line del blog Giornale-NOTIZIEOGGI
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20.10.15
Ma la Commissione non concederà più flessibilità all’Italia - Europa. Renzi dovrà tagliare 27 miliardi
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7.6.15
Anche se sembra non siamo un popolo di disonesti
Piero Ostellino (Il Giornale)
Siamo il popolo più disonesto al mondo? Certamente non lo siamo, anche se – a giudicare dalle cronache quotidiane - facciamo di tutto per dimostrarlo. In altri Paesi la corruzione non è inferiore a quella presente da noi. Ma è, come si suol dire, il contesto quello che, da noi, conta, cioè il ruolo che la politica svolge anche nel campo dell'economia e delle transazioni di mercato. Il fatto è che, da noi, l'intermediazione politica occupa un posto di preminenza rispetto a quello che altrove occupa il mercato. E dove la politica ha a che fare con i soldi è pressoché inevitabile che qualcuno ne approfitti, perché la politica non va tanto per il sottile quando si tratta di conquistare consenso e il consenso è spesso strettamente associato ai quattrini di cui si può disporre.
La regola politica è questa. Più quattrini hai da spendere, maggiore è il consenso che puoi ottenere. Se, poi, i quattrini non sono neppure i tuoi, ma di coloro i quali li usano e li spendono in funzione dei loro interessi politici, allora, l'equazione «politica e quattrini uguale corruzione» funzionerà alla perfezione. Le cronache parlano molto degli scandali collegati a tale uso dei quattrini, peraltro senza spiegarne le ragioni, ma non è un problema che preoccupi il mondo della politica perché in gioco non è l'onestà personale dei politici, che non interessa nessuno, ma la natura strutturale del nostro sistema. Non abbiamo la classe politica più corrotta al mondo; abbiamo solo la classe politica più esposta alle tentazioni. E, come è noto, sono le occasioni che fanno l'uomo ladro. Come ho detto, quando l'intermediazione politica prevale sulle logiche del mercato e che qualcuno, sul versante politico, ne approfitti è nella logica delle cose. Questa è anche la ragione per la quale tutti i governi che si sono ripromessi di riformare il Paese e i suo sistema politico non ce l'hanno fatta. Non ce l'ha fatta Berlusconi; non ce la fa Renzi malgrado predichi ogni giorno l'intenzione di cambiare l'Italia.
Da mesi andavo scrivendo che l'immigrazione si era trasformata nell'«industria dell'immigrazione» in quanto l'arrivo di migliaia di immigrati era diventata l'occasione, per la politica, di utilizzare i quattrini stanziati per l'accoglienza dei nuovi arrivati a proprio esclusivo beneficio e delle proprie organizzazioni sociali. Sembrava una mia fissazione. Invece, gli scandali scoppiati in successione ai margini del fenomeno hanno confermato che non si è ancora regolamentata l'immigrazione perché non conviene a chi ci fa sopra dei guadagni più o meno leciti. Lasciamo perdere gli scafisti – che sono dei veri e propri criminali – e chiediamoci se la solidarietà di certi ambienti cattolici e di sinistra non sia pelosa: gli immigrati sono manodopera a basso costo che le cooperative che prosperano attorno al mondo cattolico e della sinistra hanno finora utilizzato impedendo qualsiasi tentativo di regolamentarne l'arrivo. È perfettamente inutile approvare marchingegni burocratici che dovrebbero impedire la suddetta speculazione. Prima o poi diventano essi stessi occasione di corruzione perché dove è possibile evitare monitoraggi e controlli è pressoché certo che la politica troverà il modo di eluderli. Finora è quello che è accaduto ed è probabile che l'andazzo non cambi. Potrebbe esserci qualche speranza di cambiamento se i media facessero il loro mestiere di cani da guardia del potere politico e, perché no, anche di quello economico. Se la proprietà, o il controllo, dei media serve da moneta di scambio con la politica per goderne del sostegno, è evidente che la politica prevarrà sempre a dispetto delle migliori intenzioni perché eludere monitoraggi e controlli conviene a troppa gente. Non è col moralismo a basso prezzo che si moralizza il Paese, bensì con riforme che ne mutino radicalmente la struttura, eliminando l'eccesso di intermediazione politica. Ma toglietevi dalla testa che Renzi le faccia. Continuerà a prometterle, senza farle.
La furba retorica del presidente del Consiglio ha incominciato a deludere gli italiani, anche quelli che gli credevano, e il consenso di cui ha goduto sta calando. C'è anche un'altra regola che presiede a quest'ultimo fenomeno: non si possono imbrogliare tutti e sempre.
Siamo il popolo più disonesto al mondo? Certamente non lo siamo, anche se – a giudicare dalle cronache quotidiane - facciamo di tutto per dimostrarlo. In altri Paesi la corruzione non è inferiore a quella presente da noi. Ma è, come si suol dire, il contesto quello che, da noi, conta, cioè il ruolo che la politica svolge anche nel campo dell'economia e delle transazioni di mercato. Il fatto è che, da noi, l'intermediazione politica occupa un posto di preminenza rispetto a quello che altrove occupa il mercato. E dove la politica ha a che fare con i soldi è pressoché inevitabile che qualcuno ne approfitti, perché la politica non va tanto per il sottile quando si tratta di conquistare consenso e il consenso è spesso strettamente associato ai quattrini di cui si può disporre.
La regola politica è questa. Più quattrini hai da spendere, maggiore è il consenso che puoi ottenere. Se, poi, i quattrini non sono neppure i tuoi, ma di coloro i quali li usano e li spendono in funzione dei loro interessi politici, allora, l'equazione «politica e quattrini uguale corruzione» funzionerà alla perfezione. Le cronache parlano molto degli scandali collegati a tale uso dei quattrini, peraltro senza spiegarne le ragioni, ma non è un problema che preoccupi il mondo della politica perché in gioco non è l'onestà personale dei politici, che non interessa nessuno, ma la natura strutturale del nostro sistema. Non abbiamo la classe politica più corrotta al mondo; abbiamo solo la classe politica più esposta alle tentazioni. E, come è noto, sono le occasioni che fanno l'uomo ladro. Come ho detto, quando l'intermediazione politica prevale sulle logiche del mercato e che qualcuno, sul versante politico, ne approfitti è nella logica delle cose. Questa è anche la ragione per la quale tutti i governi che si sono ripromessi di riformare il Paese e i suo sistema politico non ce l'hanno fatta. Non ce l'ha fatta Berlusconi; non ce la fa Renzi malgrado predichi ogni giorno l'intenzione di cambiare l'Italia.
Da mesi andavo scrivendo che l'immigrazione si era trasformata nell'«industria dell'immigrazione» in quanto l'arrivo di migliaia di immigrati era diventata l'occasione, per la politica, di utilizzare i quattrini stanziati per l'accoglienza dei nuovi arrivati a proprio esclusivo beneficio e delle proprie organizzazioni sociali. Sembrava una mia fissazione. Invece, gli scandali scoppiati in successione ai margini del fenomeno hanno confermato che non si è ancora regolamentata l'immigrazione perché non conviene a chi ci fa sopra dei guadagni più o meno leciti. Lasciamo perdere gli scafisti – che sono dei veri e propri criminali – e chiediamoci se la solidarietà di certi ambienti cattolici e di sinistra non sia pelosa: gli immigrati sono manodopera a basso costo che le cooperative che prosperano attorno al mondo cattolico e della sinistra hanno finora utilizzato impedendo qualsiasi tentativo di regolamentarne l'arrivo. È perfettamente inutile approvare marchingegni burocratici che dovrebbero impedire la suddetta speculazione. Prima o poi diventano essi stessi occasione di corruzione perché dove è possibile evitare monitoraggi e controlli è pressoché certo che la politica troverà il modo di eluderli. Finora è quello che è accaduto ed è probabile che l'andazzo non cambi. Potrebbe esserci qualche speranza di cambiamento se i media facessero il loro mestiere di cani da guardia del potere politico e, perché no, anche di quello economico. Se la proprietà, o il controllo, dei media serve da moneta di scambio con la politica per goderne del sostegno, è evidente che la politica prevarrà sempre a dispetto delle migliori intenzioni perché eludere monitoraggi e controlli conviene a troppa gente. Non è col moralismo a basso prezzo che si moralizza il Paese, bensì con riforme che ne mutino radicalmente la struttura, eliminando l'eccesso di intermediazione politica. Ma toglietevi dalla testa che Renzi le faccia. Continuerà a prometterle, senza farle.
La furba retorica del presidente del Consiglio ha incominciato a deludere gli italiani, anche quelli che gli credevano, e il consenso di cui ha goduto sta calando. C'è anche un'altra regola che presiede a quest'ultimo fenomeno: non si possono imbrogliare tutti e sempre.
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27.2.15
Freccero: «Piccola Rai, Mediaset sfiderà Murdoch»
Intervista. «Renzi vuole una tv pubblica come la Treccani. Viale Mazzini come la Bbc? Non basta fare un corso di inglese ai giornalisti assunti con le clientele». «Il Biscione punta lontano. Berlusconi abbandona la politica e torna protagonista della televisione, con le torri si guadagnano molti soldi»
Daniela Preziosi (Il Manifesto)
Mai come adesso Mediaset stava vivendo come un pachiderma, come una televisione che riprende programmi da un catalogo della tv commerciale ormai vecchio, antico, per nostalgici degli anni 80: l’Isola dei famosi, il Karaoke che andrà in onda più in là. Invece, con questa Opa, diventa un nuovo competitore del mercato». Carlo Freccero, uomo di tv e di comunicazione, nella sua lunga carriera è stato dirigente Rai e Fininvest. Ragiona sull’opa di Mediaset su Rai way, l’infrastruttura delle torri Rai. Qualcosa non gli torna. «Così Mediaset si scrolla di dosso l’immobilità per muoversi con sicurezza sul mercato. Perché?».
Perché, Freccero?
Mediaset da tempo ha perso la battaglia dei contenuti perché i nostri prodotti non possono competere con i colossi americani. Oggi il prodotto vince sulla tv generalista. Ora quindi si muove su altri fronti. Se davvero il patto del Nazareno è rotto, Berlusconi lascia la politica e torna il protagonista della tv. L’Opa sulla struttura, quelle che io chiamo ’le autostrade della comunicazione’, è un modo per dire: almeno controllerò il pedaggio ai nuovi che arrivano. Di più: io, cioè Mediaset, mi aggiorno su un fatto cruciale, la convergenza. La nuova tv lavora sulla convergenza fra tv telefonia e internet.
La tv generalista però da noi va ancora forte.
Perché viviamo in un paese dominato dall’Auditel, che è fatto in quota proprio come le torri. Ma ormai, nel nuovo scenario, il prodotto vince sulla linea editoria. E quindi chi non ha la possibilità di aggiornarsi cerca una presenza massiccia sulle ’autostrade’. E guadagna un sacco di soldi. E poi c’è anche un piano B.
Qual è il piano B?
Credo che Mediaset abbia in testa un patto con Telecom. Anche Telecom ha messo in vendita i suoi siti e le sue torri. E in Telecom c’è il gruppo Bolloré che a sua volta è azionista di Havas, colosso della comunicazione. Che a sua volta è azionista di Canal Plus, che si occupa di contenuti. Ecco la furbizia: farà concorrenza a Murdoch, il vero nemico di Pier Silvio Berlusconi. Anche perché Murdoch sta per scendere dal satellite sul free, perché l’Italia ha un tetto di abbonati oltre in quale non si può andare. Lo ha già fatto con l’informazione. E la Rai per Berlusconi non è un avversario, neanche un alleato: ha un’audience vecchia. Berlusconi deve trovarsi un alleato. E Canal Plus è il nemico acerrimo di Murdoch.
Mediaset punta dunque a fare concorrenza a Murdoch. E la Rai?
Da tutto questo il servizio esce completamente ridimensionato. Vede, nel capitalismo le crisi periodiche hanno la funzione specifica di ripulire il mercato dei rentier dalla rendita parassitaria e riportare tutte le risorse sul mercato degli investimenti. Oggi la crisi ha un compito diverso: privatizzare, tagliare ogni risorsa al pubblico per riversare tutte le risorse sul mercato. Non a caso ai paesi in crisi si offrono finanziamenti in cambio di privatizzazioni, vedi la Grecia. Il modello europeo del secolo scorso aveva come valori lo stato sociale, il servizio pubblico anche radiotv, la scuola pubblica. Oggi invece il ’pubblico’ è diventato sinonimo di spreco, casta, di abuso della politica. Quindi anche i governi che si proclamano di sinistra vogliono privatizzare, tagliare. Il piano per la Rai è tagliare i tg e cioè il pluralismo. Ma il pluralismo è un elemento creativo, era l’unica cosa che rimaneva alla Rai. La verità è che la Rai viene dimensionata, e la politica di Renzi è la privatizzazione.
Ma modello Bbc, di cui si parla oggi, è pluralista ma anche senza sprechi.
Ho letto che Milena Gabanelli propone difare come la Bbc. Ma tu ce li vedi i giornalisti entrati per clientela che si trasformano in giornalisti inglesi? Non è che con un corso di inglese fanno la Bbc. Mi sembra utopia.
Come si dovrebbero nominare i vertici Rai?
È inutile che io dia suggerimenti a Renzi, so che manda sms ai suoi amici e solo quelli legge. Vedo che vuole trasformare la Rai nell’istituto Treccani. Una Rai che già non conta niente verrà ancora ridotta.
Scusi, ma proprio lei che è stato allontanato dalle reti Rai sostiene che l’attuale Rai è pluralista?
Se dovessero dare a me la riforma della Rai, inizierei potenziando il pluralismo. La tv ci condiziona, ci plasma. Molte ricerche dicono che chi è esposto di più a certi programmi tv — cronaca, nera — è più esposto alla paura e all’insicurezza. Questa tv spinge a destra: il successo di Salvini è il tipico prodotto della nostra tv localistica e generalista. Invece oggi più che mai serve un una tv critica, che difenda lo spettatore dalla manipolazione, che è il vero tema della comunicazione. In internet il vero e il falso sono lo stesso. E la manipolazione passa per gli algoritmi di internet. Serve una tv che crei spettatori avvertiti, quindi intelligenti. E infatti la fiction dei grandi colossi americani è fiction di critica,che ti fa vedere per esempio che la giustizia è uno strumento in mano ai più forti. Cosa vuol fare Renzi della Rai? Dice parole vaghe: la bellezza, l’arte. Puttanate. Vuole solo privatizzare.
Daniela Preziosi (Il Manifesto)
Mai come adesso Mediaset stava vivendo come un pachiderma, come una televisione che riprende programmi da un catalogo della tv commerciale ormai vecchio, antico, per nostalgici degli anni 80: l’Isola dei famosi, il Karaoke che andrà in onda più in là. Invece, con questa Opa, diventa un nuovo competitore del mercato». Carlo Freccero, uomo di tv e di comunicazione, nella sua lunga carriera è stato dirigente Rai e Fininvest. Ragiona sull’opa di Mediaset su Rai way, l’infrastruttura delle torri Rai. Qualcosa non gli torna. «Così Mediaset si scrolla di dosso l’immobilità per muoversi con sicurezza sul mercato. Perché?».
Perché, Freccero?
Mediaset da tempo ha perso la battaglia dei contenuti perché i nostri prodotti non possono competere con i colossi americani. Oggi il prodotto vince sulla tv generalista. Ora quindi si muove su altri fronti. Se davvero il patto del Nazareno è rotto, Berlusconi lascia la politica e torna il protagonista della tv. L’Opa sulla struttura, quelle che io chiamo ’le autostrade della comunicazione’, è un modo per dire: almeno controllerò il pedaggio ai nuovi che arrivano. Di più: io, cioè Mediaset, mi aggiorno su un fatto cruciale, la convergenza. La nuova tv lavora sulla convergenza fra tv telefonia e internet.
La tv generalista però da noi va ancora forte.
Perché viviamo in un paese dominato dall’Auditel, che è fatto in quota proprio come le torri. Ma ormai, nel nuovo scenario, il prodotto vince sulla linea editoria. E quindi chi non ha la possibilità di aggiornarsi cerca una presenza massiccia sulle ’autostrade’. E guadagna un sacco di soldi. E poi c’è anche un piano B.
Qual è il piano B?
Credo che Mediaset abbia in testa un patto con Telecom. Anche Telecom ha messo in vendita i suoi siti e le sue torri. E in Telecom c’è il gruppo Bolloré che a sua volta è azionista di Havas, colosso della comunicazione. Che a sua volta è azionista di Canal Plus, che si occupa di contenuti. Ecco la furbizia: farà concorrenza a Murdoch, il vero nemico di Pier Silvio Berlusconi. Anche perché Murdoch sta per scendere dal satellite sul free, perché l’Italia ha un tetto di abbonati oltre in quale non si può andare. Lo ha già fatto con l’informazione. E la Rai per Berlusconi non è un avversario, neanche un alleato: ha un’audience vecchia. Berlusconi deve trovarsi un alleato. E Canal Plus è il nemico acerrimo di Murdoch.
Mediaset punta dunque a fare concorrenza a Murdoch. E la Rai?
Da tutto questo il servizio esce completamente ridimensionato. Vede, nel capitalismo le crisi periodiche hanno la funzione specifica di ripulire il mercato dei rentier dalla rendita parassitaria e riportare tutte le risorse sul mercato degli investimenti. Oggi la crisi ha un compito diverso: privatizzare, tagliare ogni risorsa al pubblico per riversare tutte le risorse sul mercato. Non a caso ai paesi in crisi si offrono finanziamenti in cambio di privatizzazioni, vedi la Grecia. Il modello europeo del secolo scorso aveva come valori lo stato sociale, il servizio pubblico anche radiotv, la scuola pubblica. Oggi invece il ’pubblico’ è diventato sinonimo di spreco, casta, di abuso della politica. Quindi anche i governi che si proclamano di sinistra vogliono privatizzare, tagliare. Il piano per la Rai è tagliare i tg e cioè il pluralismo. Ma il pluralismo è un elemento creativo, era l’unica cosa che rimaneva alla Rai. La verità è che la Rai viene dimensionata, e la politica di Renzi è la privatizzazione.
Ma modello Bbc, di cui si parla oggi, è pluralista ma anche senza sprechi.
Ho letto che Milena Gabanelli propone difare come la Bbc. Ma tu ce li vedi i giornalisti entrati per clientela che si trasformano in giornalisti inglesi? Non è che con un corso di inglese fanno la Bbc. Mi sembra utopia.
Come si dovrebbero nominare i vertici Rai?
È inutile che io dia suggerimenti a Renzi, so che manda sms ai suoi amici e solo quelli legge. Vedo che vuole trasformare la Rai nell’istituto Treccani. Una Rai che già non conta niente verrà ancora ridotta.
Scusi, ma proprio lei che è stato allontanato dalle reti Rai sostiene che l’attuale Rai è pluralista?
Se dovessero dare a me la riforma della Rai, inizierei potenziando il pluralismo. La tv ci condiziona, ci plasma. Molte ricerche dicono che chi è esposto di più a certi programmi tv — cronaca, nera — è più esposto alla paura e all’insicurezza. Questa tv spinge a destra: il successo di Salvini è il tipico prodotto della nostra tv localistica e generalista. Invece oggi più che mai serve un una tv critica, che difenda lo spettatore dalla manipolazione, che è il vero tema della comunicazione. In internet il vero e il falso sono lo stesso. E la manipolazione passa per gli algoritmi di internet. Serve una tv che crei spettatori avvertiti, quindi intelligenti. E infatti la fiction dei grandi colossi americani è fiction di critica,che ti fa vedere per esempio che la giustizia è uno strumento in mano ai più forti. Cosa vuol fare Renzi della Rai? Dice parole vaghe: la bellezza, l’arte. Puttanate. Vuole solo privatizzare.
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Contro l'apatia della democrazia
A guidare le società moderne sempre più plebisciti tecnocratici e sempre meno politica
di Barbara Spinelli* (Il Sole 24 Ore)
Nel 1998 il presidente della Bundesbank Hans Tietmeyer descrisse i due «plebisciti» su cui poggiano le democrazie: quello delle urne, e il «plebiscito permanente dei mercati». La coincidenza con l'adozione di lì a poco dell'euro è significativa.
La moneta unica nasce alla fine degli anni '90 senza Stato: per i mercati il suo conclamato vizio d'origine si trasforma in virtù. Le parole di Tietmeyer e i modi di funzionamento dell'euro segnano l'avvio ufficiale del processo che viene chiamato decostituzionalizzazione – o deparlamentarizzazione – delle democrazie.
Il fenomeno si è acutizzato con la crisi cominciata nel 2007, ma già nel 1975 un rapporto scritto per la Commissione Trilaterale denunciava gli «eccessi» delle democrazie parlamentari postbelliche e affermava il primato della stabilità e della governabilità sulla rappresentatività e il pluralismo, giungendo sino a esaltare l'apatia degli elettori: «Il funzionamento efficace di un sistema democratico necessita di un livello di apatia da parte di individui e gruppi. In passato ogni società democratica ha avuto una popolazione di dimensioni variabili che stava ai margini, che non partecipava alla politica. Ciò è intrinsecamente anti-democratico, ma è stato anche uno dei fattori che ha permesso alla democrazia di funzionare bene».
Oggi viviamo all'ombra di quel plebiscito dei mercati mondiali, che non conosce scadenze o prove di falsificazione. Un po' come la guerra permanente al terrorismo. Ambedue producono un continuo stato di eccezione, dove gli equilibri delle democrazie costituzionali saltano per ricomporsi in maniera accentrata. Dominano gli esperti monetari, le élite finanziarie internazionali, i grandi istituti di credito, i complessi militari-industriali, e pochi Stati a torto considerati onnipotenti. L'efficienza e la rapidità delle decisioni economiche prevalgono su processi democratici ritenuti troppo lenti e incompetenti.
Gli effetti di questa decostituzionalizzazione li tocchiamo con mano in Italia. Il Piano di rinascita democratica di Gelli (redatto forse non a caso in concomitanza con il rapporto della Trilaterale) è stato fatto proprio da Craxi, poi da Berlusconi, infine da Matteo Renzi. Conta più che mai la governabilità, a scapito della rappresentatività e degli organi intermedi che aiutano la società a non cadere nell'apatia e nell'impotenza. È rivelatore anche l'uso di certe terminologie. Le riforme strutturali o di “efficientamento”, si tratta non di deliberarle attraverso discussioni democratiche, ma di “portarle a casa”. Portare a casa le riforme rimanda all'immagine di una caccia predatoria. Si parte verso territori infestati da nemici che possono intralciare la scorreria (contropoteri, organi intermedi, sindacati, spazi pubblici) per mettere in salvo il bottino nel fortilizio chiuso, e soprattutto privato, che è la “casa”. (Notiamo en passant che economia nei primordi è proprio questo: la legge, nòmos, della casa, oîkos. Saranno la politica e poi la democrazia a oltrepassare il perimetro casalingo.)
Sotto il plebiscito permanente dei mercati globali, la politica di per sé non scompare; si adatta, mutando natura. Ma scompare l'essenza della democrazia costituzionale, e cioè l'obbligo di separare le decisioni, nella consapevolezza che qualsiasi potere, se non controbilanciato da poteri altrettanto forti e autonomi, tende a divenire assoluto.
Il prosciugamento della democrazia colpisce anche le istituzioni europee, indebolendo radicalmente la funzione dell'Unione, che dovrebbe servire da filtro fra politica e mercati, fra Stati sempre meno padroni di sé e finanza globale sempre più sregolata e invadente. L'approdo temuto da Habermas è il «federalismo degli esecutivi»: una rivoluzione dall'alto, compiuta su ambedue i piani, nazionale ed europeo. Il dato tecnico-contabile prevale su ogni altra considerazione, svuotando anche nell'Unione organi di controllo quali il Parlamento europeo o la Corte di giustizia.
Da pochi mesi sono deputato europeo, e constato come quotidianamente vengano disattese promesse, violati articoli del Trattato di Lisbona e soprattutto della Carta dei diritti fondamentali, che pure dovrebbe essere vincolante per i ventotto Stati membri. Ricordo la sostituzione di Mare Nostrum con la missione europea Triton: in pratica si è deciso di rinunciare alle operazioni di ricerca e soccorso in mare dei migranti, contravvenendo a precisi regolamenti del Consiglio e del Parlamento europeo emanati nel 2014, alla Carta dei diritti e perfino al diritto del mare.
Ma oltre a Triton, molti altri articoli della Carta sono violati: sempre parlando di migranti, la proibizione delle espulsioni collettive e in particolare del rimpatrio laddove esista un rischio serio di subire la pena di morte o la tortura (art. 19); il diritto di asilo ai rifugiati sulla base della convenzione di Ginevra del 1951 (art. 18); il diritto alla vita (art. 2). Quanto alla politica economica e sociale, sono calpestati i diritti europei che tutelano le azioni collettive in difesa dei propri interessi (compreso lo sciopero), la tutela in caso di licenziamento ingiustificato, il diritto a condizioni di lavoro sane, sicure e dignitose (articoli 28, 30, 31), oltre al diritto dei giovani ammessi al lavoro di beneficiare di «condizioni lavorative appropriate alla loro età» e di essere «protetti contro lo sfruttamento economico o contro ogni lavoro che possa minarne la sicurezza, la salute, lo sviluppo fisico, mentale, morale o sociale o che possa mettere a rischio la loro istruzione» (art. 32).
Lo stesso trattato di Lisbona è aggirato. Non è rispettato l'art. 2 che esige il rispetto delle minoranze (si pensi ai Rom). È tolta la garanzia contenuta nel preambolo di «attuare politiche volte a garantire che i progressi compiuti sulla via dell'integrazione economica si accompagnino a paralleli progressi in altri settori». Evapora anche l'impegno, ribadito nell'art. 3, a fare in modo che la competitività «miri alla piena occupazione e al progresso sociale» e si basi «su un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell'ambiente».
Questi e altri diritti sono sospesi, accampando come pretesto la crisi economica e le sue emergenze. È in questo quadro che il magistrato Giuseppe Bronzini parla di diritto emergenziale dell'Unione europea, divenuto cogente a seguito dell'introduzione di una serie di norme e accordi inter-statali stipulati sulla scia del dissesto economico del 2007-2008: un reticolato di leggi e normative che non si incardinano né nel diritto nazionale né in quello europeo, e che vengono così sottratte al controllo sia dei Parlamenti nazionali sia del Parlamento europeo. Sono state adottate dal direttorio degli esecutivi, gestite in comune da Commissione, Banca Centrale e l'organo estraneo all'Unione che è il Fondo monetario, e danno corpo, dentro l'Unione, a una zona di non-diritto. La Grecia è stata la vittima e lo spettacolare laboratorio della creazione deliberata di un limbo giuridico dentro l'Europa, tale da decostituzionalizzare al tempo stesso l'Unione che impone l'austerità e lo Stato membro che riceve l'ordine di applicarla. Lo ha ammesso il commissario Jyrki Katainen il 17 settembre 2014 in risposta a una domanda in merito agli effetti del programma di austerità sui diritti fondamentali garantiti dalla Carta: «I documenti del programma non sono legge europea, ma strumenti concordati tra la Grecia e i suoi creditori: pertanto la Carta non può essere usata come riferimento, e spetta alla Grecia assicurare che i propri obblighi sui diritti fondamentali siano rispettati».
In Italia, l'acme è stato raggiunto con la lettera di Trichet e Draghi del 5 agosto 2011. Essa conferma in pieno l'esistenza del diritto emergenziale: lo Stato membro è giudicato incapace di autogovernarsi e di ristabilire la fiducia degli investitori, ed è così che l'istituzione sovranazionale (in tal caso la Bce) interviene entrando nei dettagli di politiche che legalmente non dovrebbero pertenerle. È trasmodando che essa fissa non solo gli obiettivi ma anche le modalità per raggiungerli, reclamando: più efficienza del mercato del lavoro; piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali e dei servizi professionali, tramite privatizzazioni su larga scala; accordi a livello di impresa che soppiantino i contratti collettivi; revisione delle norme che regolano l'assunzione e il licenziamento dei dipendenti; interventi ulteriori nel sistema pensionistico; abbassamento significativo dei costi del pubblico impiego anche riducendo gli stipendi; tagli orizzontali alle spese pubbliche; uso di indicatori di performance (soprattutto nei sistemi sanitario, giudiziario e dell'istruzione). Per evitare lungaggini democratiche, ciascuna di queste misure va presa «il prima possibile per decreto legge». Abbiamo quindi ad opera dell'Unione una decostituzionalizzazione della democrazia, e contestualmente una sua deparlamentarizzazione.
Non sorprende che la lettera sia stata vissuta come un colpo di mano, se non di Stato, compiuto dalle oligarchie al comando in Europa. Non servono la presenza fisica della troika o i memorandum per imporre dall'alto un comando che agisce allo stesso modo. La cosa apparve evidente agli addetti ai lavori, e nei giorni in cui la Bce mandava la sua missiva Mario Monti scrisse che l'Italia era stata di fatto commissariata da un “podestà forestiero” (Corriere della sera, 7 agosto 2011).
Un discorso a parte merita la corruzione. La sua incidenza sullo sviluppo economico e sul debito pubblico è macroscopica. Ma è segno dei tempi che né il Fiscal Compact, né i memorandum, né le troike, né le lettere della Bce giudichino opportuno soffermarsi su quello che Alexis Tsipras ha chiamato il «patto fra cleptocrazie nazionali, mercati internazionali ed élite europee». È segno dei tempi che non figurino nelle raccomandazioni di queste élite la lotta all'evasione fiscale né quella alle mafie, come se non esistesse un rapporto fra finanza e malavita. Avendo ormai un raggio d'azione e poteri globali, corruzione e criminalità organizzata contribuiscono allo svuotamento delle democrazie europee. Giocano un ruolo essenziale, ma che sistematicamente viene occultato.
In un saggio del magistrato Roberto Scarpinato (La legalità materiale, Micromega, ottobre 2014) si denuncia la «decostruzione progressiva dello Stato liberal-democratico di diritto», e un «complesso processo di reingegnerizzazione del potere, che trasferisce le sedi decisionali strategiche fuori dai parlamenti e dagli esecutivi nazionali, prima trasmigrandole all'interno di organi sovranazionali non elettivi, privi di rappresentatività democratica – quali la Bce e la Commissione europea – e poi da questi in organizzazioni internazionali come la troika, proiezioni istituzionali delle oligarchie finanziarie globali». Asservire la giustizia, e renderla inerme di fronte a una criminalità mondializzata, fa parte di questa reingegnerizzazione.
Allo stesso modo ne fa parte la decisione di devitalizzare il welfare, piuttosto che l'evasione di massa facilitata da quella criminalità. Scrive in proposito Scarpinato: «La corruzione opera come selettore in negativo della qualità degli investimenti internazionali e veicolo di occulta colonizzazione a basso costo di larghi settori dell'economia nazionale da parte del capitale globale sovranazionale più spregiudicato». È opinione diffusa che gli investitori esteri siano scoraggiati dalle lentezze della giustizia italiana e dalla corruzione, ma «i più accreditati studi in materia evidenziano una realtà più complessa. Le aziende globali privilegiano per i loro investimenti i paesi la cui legalità debole non solo consente di minimizzare i costi di produzione (minori tutele per l'ambiente, per i diritti dei lavoratori, maggiori possibilità di evasione fiscale), ma anche di conquistare posizioni di vantaggio e di oligopolio in vari settori di mercato grazie alla permeabilità a pratiche corruttive dei ceti dirigenti locali, talora remunerati pronto cassa, talora cooptati come soci occulti».
Che fare, in simili circostanze? Dal momento che tornare alle sovranità nazionali assolute non si può (la sovranità è in larga parte e da tempo perduta, l'Europa dovrebbe servire a restaurarla), il compito consiste nel ricostituzionalizzare sia il livello nazionale che quello europeo. Consiste nel porsi il problema della sovranità, anziché eluderlo. Nell'espandere i diritti, piuttosto che ridurli. La ricetta è sempre quella di Tocqueville: uscire con più democrazia dalla crisi della democrazia.
Vorrei menzionare tre battaglie minime, da fare prima di accingersi alla grande opera di ricostituzionalizzazione. Primo: vanno estese le libertà e le tutele garantite dalle vecchie Costituzioni, adattandole a nuove figure di cittadinanza partecipativa come i whistleblower. È uno scandalo che persone come Edward Snowden o Hervé Falciani o come il giornalista tedesco Udo Ulfkotte siano descritte rispettivamente come spie, o ladri (di dati), o traditori dell'Occidente perché denunciano la sottomissione dei media a strategie di guerre illegali. Sono i cani da guardia di democrazie pericolanti, di giornali asserviti al potere. Ne abbiamo bisogno per divenire cittadini non apatici, ma informati. Urge uno statuto che aiuti i whistleblower a uscire allo scoperto in presenza di corruzione, di violazione di diritti, di disinformazione.
Seconda battaglia: evitare che l'accordo commerciale con gli Stati Uniti (il TTIP) sfoci in un collettivo atto di abiura europeo: in una consapevole ritrattazione giurata di norme che l'Unione si è data lungo i decenni a tutela della salute, dell'ambiente, del benessere dei propri cittadini, dell'autonomia delle proprie corti. È il plebiscito permanente dei mercati che, se non contrastato, ancora una volta ci schiaccia.
La terza battaglia porta sulla moltiplicazione degli strumenti di democrazia e di controllo. Il Trattato di Lisbona prescrive ad esempio, nell'articolo 6, che l'Unione aderisca alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo. Ma per salvaguardare le proprie competenze ed evitare incursioni nel proprio campo, la Corte europea di giustizia ha decretato nel dicembre scorso che le due Carte non sono “compatibili”. Nella sostanza, l'Unione europea si comporta come i vecchi sovrani assoluti: non riconosce autorità alcuna sopra la propria. Giunge sino all'assurdo di non accettare giudizi della Corte di Strasburgo, ossia del Consiglio d'Europa, in ambiti – la politica estera e di sicurezza, cioè la pace e la guerra – su cui lei stessa non ha, per trattato, diritto di parola.
Ecco l'Europa che abitiamo: un'Unione che infrange le regole che essa stessa si è data e ha la faccia tosta di vietare intrusioni di altre Convenzioni e altre Corti. Forse perché teme giudizi malevoli di nazioni europee ritenute inferiori, come la Russia. Di certo per scongiurare l'uscita dall'apatia – giuridica, politica, democratica – che è il principale dei nostri mali presenti.
*Barbaro Spinelli è deputato europeo dell'Altro Europa con Tsipras
di Barbara Spinelli* (Il Sole 24 Ore)
Nel 1998 il presidente della Bundesbank Hans Tietmeyer descrisse i due «plebisciti» su cui poggiano le democrazie: quello delle urne, e il «plebiscito permanente dei mercati». La coincidenza con l'adozione di lì a poco dell'euro è significativa.
La moneta unica nasce alla fine degli anni '90 senza Stato: per i mercati il suo conclamato vizio d'origine si trasforma in virtù. Le parole di Tietmeyer e i modi di funzionamento dell'euro segnano l'avvio ufficiale del processo che viene chiamato decostituzionalizzazione – o deparlamentarizzazione – delle democrazie.
Il fenomeno si è acutizzato con la crisi cominciata nel 2007, ma già nel 1975 un rapporto scritto per la Commissione Trilaterale denunciava gli «eccessi» delle democrazie parlamentari postbelliche e affermava il primato della stabilità e della governabilità sulla rappresentatività e il pluralismo, giungendo sino a esaltare l'apatia degli elettori: «Il funzionamento efficace di un sistema democratico necessita di un livello di apatia da parte di individui e gruppi. In passato ogni società democratica ha avuto una popolazione di dimensioni variabili che stava ai margini, che non partecipava alla politica. Ciò è intrinsecamente anti-democratico, ma è stato anche uno dei fattori che ha permesso alla democrazia di funzionare bene».
Oggi viviamo all'ombra di quel plebiscito dei mercati mondiali, che non conosce scadenze o prove di falsificazione. Un po' come la guerra permanente al terrorismo. Ambedue producono un continuo stato di eccezione, dove gli equilibri delle democrazie costituzionali saltano per ricomporsi in maniera accentrata. Dominano gli esperti monetari, le élite finanziarie internazionali, i grandi istituti di credito, i complessi militari-industriali, e pochi Stati a torto considerati onnipotenti. L'efficienza e la rapidità delle decisioni economiche prevalgono su processi democratici ritenuti troppo lenti e incompetenti.
Gli effetti di questa decostituzionalizzazione li tocchiamo con mano in Italia. Il Piano di rinascita democratica di Gelli (redatto forse non a caso in concomitanza con il rapporto della Trilaterale) è stato fatto proprio da Craxi, poi da Berlusconi, infine da Matteo Renzi. Conta più che mai la governabilità, a scapito della rappresentatività e degli organi intermedi che aiutano la società a non cadere nell'apatia e nell'impotenza. È rivelatore anche l'uso di certe terminologie. Le riforme strutturali o di “efficientamento”, si tratta non di deliberarle attraverso discussioni democratiche, ma di “portarle a casa”. Portare a casa le riforme rimanda all'immagine di una caccia predatoria. Si parte verso territori infestati da nemici che possono intralciare la scorreria (contropoteri, organi intermedi, sindacati, spazi pubblici) per mettere in salvo il bottino nel fortilizio chiuso, e soprattutto privato, che è la “casa”. (Notiamo en passant che economia nei primordi è proprio questo: la legge, nòmos, della casa, oîkos. Saranno la politica e poi la democrazia a oltrepassare il perimetro casalingo.)
Sotto il plebiscito permanente dei mercati globali, la politica di per sé non scompare; si adatta, mutando natura. Ma scompare l'essenza della democrazia costituzionale, e cioè l'obbligo di separare le decisioni, nella consapevolezza che qualsiasi potere, se non controbilanciato da poteri altrettanto forti e autonomi, tende a divenire assoluto.
Il prosciugamento della democrazia colpisce anche le istituzioni europee, indebolendo radicalmente la funzione dell'Unione, che dovrebbe servire da filtro fra politica e mercati, fra Stati sempre meno padroni di sé e finanza globale sempre più sregolata e invadente. L'approdo temuto da Habermas è il «federalismo degli esecutivi»: una rivoluzione dall'alto, compiuta su ambedue i piani, nazionale ed europeo. Il dato tecnico-contabile prevale su ogni altra considerazione, svuotando anche nell'Unione organi di controllo quali il Parlamento europeo o la Corte di giustizia.
Da pochi mesi sono deputato europeo, e constato come quotidianamente vengano disattese promesse, violati articoli del Trattato di Lisbona e soprattutto della Carta dei diritti fondamentali, che pure dovrebbe essere vincolante per i ventotto Stati membri. Ricordo la sostituzione di Mare Nostrum con la missione europea Triton: in pratica si è deciso di rinunciare alle operazioni di ricerca e soccorso in mare dei migranti, contravvenendo a precisi regolamenti del Consiglio e del Parlamento europeo emanati nel 2014, alla Carta dei diritti e perfino al diritto del mare.
Ma oltre a Triton, molti altri articoli della Carta sono violati: sempre parlando di migranti, la proibizione delle espulsioni collettive e in particolare del rimpatrio laddove esista un rischio serio di subire la pena di morte o la tortura (art. 19); il diritto di asilo ai rifugiati sulla base della convenzione di Ginevra del 1951 (art. 18); il diritto alla vita (art. 2). Quanto alla politica economica e sociale, sono calpestati i diritti europei che tutelano le azioni collettive in difesa dei propri interessi (compreso lo sciopero), la tutela in caso di licenziamento ingiustificato, il diritto a condizioni di lavoro sane, sicure e dignitose (articoli 28, 30, 31), oltre al diritto dei giovani ammessi al lavoro di beneficiare di «condizioni lavorative appropriate alla loro età» e di essere «protetti contro lo sfruttamento economico o contro ogni lavoro che possa minarne la sicurezza, la salute, lo sviluppo fisico, mentale, morale o sociale o che possa mettere a rischio la loro istruzione» (art. 32).
Lo stesso trattato di Lisbona è aggirato. Non è rispettato l'art. 2 che esige il rispetto delle minoranze (si pensi ai Rom). È tolta la garanzia contenuta nel preambolo di «attuare politiche volte a garantire che i progressi compiuti sulla via dell'integrazione economica si accompagnino a paralleli progressi in altri settori». Evapora anche l'impegno, ribadito nell'art. 3, a fare in modo che la competitività «miri alla piena occupazione e al progresso sociale» e si basi «su un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell'ambiente».
Questi e altri diritti sono sospesi, accampando come pretesto la crisi economica e le sue emergenze. È in questo quadro che il magistrato Giuseppe Bronzini parla di diritto emergenziale dell'Unione europea, divenuto cogente a seguito dell'introduzione di una serie di norme e accordi inter-statali stipulati sulla scia del dissesto economico del 2007-2008: un reticolato di leggi e normative che non si incardinano né nel diritto nazionale né in quello europeo, e che vengono così sottratte al controllo sia dei Parlamenti nazionali sia del Parlamento europeo. Sono state adottate dal direttorio degli esecutivi, gestite in comune da Commissione, Banca Centrale e l'organo estraneo all'Unione che è il Fondo monetario, e danno corpo, dentro l'Unione, a una zona di non-diritto. La Grecia è stata la vittima e lo spettacolare laboratorio della creazione deliberata di un limbo giuridico dentro l'Europa, tale da decostituzionalizzare al tempo stesso l'Unione che impone l'austerità e lo Stato membro che riceve l'ordine di applicarla. Lo ha ammesso il commissario Jyrki Katainen il 17 settembre 2014 in risposta a una domanda in merito agli effetti del programma di austerità sui diritti fondamentali garantiti dalla Carta: «I documenti del programma non sono legge europea, ma strumenti concordati tra la Grecia e i suoi creditori: pertanto la Carta non può essere usata come riferimento, e spetta alla Grecia assicurare che i propri obblighi sui diritti fondamentali siano rispettati».
In Italia, l'acme è stato raggiunto con la lettera di Trichet e Draghi del 5 agosto 2011. Essa conferma in pieno l'esistenza del diritto emergenziale: lo Stato membro è giudicato incapace di autogovernarsi e di ristabilire la fiducia degli investitori, ed è così che l'istituzione sovranazionale (in tal caso la Bce) interviene entrando nei dettagli di politiche che legalmente non dovrebbero pertenerle. È trasmodando che essa fissa non solo gli obiettivi ma anche le modalità per raggiungerli, reclamando: più efficienza del mercato del lavoro; piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali e dei servizi professionali, tramite privatizzazioni su larga scala; accordi a livello di impresa che soppiantino i contratti collettivi; revisione delle norme che regolano l'assunzione e il licenziamento dei dipendenti; interventi ulteriori nel sistema pensionistico; abbassamento significativo dei costi del pubblico impiego anche riducendo gli stipendi; tagli orizzontali alle spese pubbliche; uso di indicatori di performance (soprattutto nei sistemi sanitario, giudiziario e dell'istruzione). Per evitare lungaggini democratiche, ciascuna di queste misure va presa «il prima possibile per decreto legge». Abbiamo quindi ad opera dell'Unione una decostituzionalizzazione della democrazia, e contestualmente una sua deparlamentarizzazione.
Non sorprende che la lettera sia stata vissuta come un colpo di mano, se non di Stato, compiuto dalle oligarchie al comando in Europa. Non servono la presenza fisica della troika o i memorandum per imporre dall'alto un comando che agisce allo stesso modo. La cosa apparve evidente agli addetti ai lavori, e nei giorni in cui la Bce mandava la sua missiva Mario Monti scrisse che l'Italia era stata di fatto commissariata da un “podestà forestiero” (Corriere della sera, 7 agosto 2011).
Un discorso a parte merita la corruzione. La sua incidenza sullo sviluppo economico e sul debito pubblico è macroscopica. Ma è segno dei tempi che né il Fiscal Compact, né i memorandum, né le troike, né le lettere della Bce giudichino opportuno soffermarsi su quello che Alexis Tsipras ha chiamato il «patto fra cleptocrazie nazionali, mercati internazionali ed élite europee». È segno dei tempi che non figurino nelle raccomandazioni di queste élite la lotta all'evasione fiscale né quella alle mafie, come se non esistesse un rapporto fra finanza e malavita. Avendo ormai un raggio d'azione e poteri globali, corruzione e criminalità organizzata contribuiscono allo svuotamento delle democrazie europee. Giocano un ruolo essenziale, ma che sistematicamente viene occultato.
In un saggio del magistrato Roberto Scarpinato (La legalità materiale, Micromega, ottobre 2014) si denuncia la «decostruzione progressiva dello Stato liberal-democratico di diritto», e un «complesso processo di reingegnerizzazione del potere, che trasferisce le sedi decisionali strategiche fuori dai parlamenti e dagli esecutivi nazionali, prima trasmigrandole all'interno di organi sovranazionali non elettivi, privi di rappresentatività democratica – quali la Bce e la Commissione europea – e poi da questi in organizzazioni internazionali come la troika, proiezioni istituzionali delle oligarchie finanziarie globali». Asservire la giustizia, e renderla inerme di fronte a una criminalità mondializzata, fa parte di questa reingegnerizzazione.
Allo stesso modo ne fa parte la decisione di devitalizzare il welfare, piuttosto che l'evasione di massa facilitata da quella criminalità. Scrive in proposito Scarpinato: «La corruzione opera come selettore in negativo della qualità degli investimenti internazionali e veicolo di occulta colonizzazione a basso costo di larghi settori dell'economia nazionale da parte del capitale globale sovranazionale più spregiudicato». È opinione diffusa che gli investitori esteri siano scoraggiati dalle lentezze della giustizia italiana e dalla corruzione, ma «i più accreditati studi in materia evidenziano una realtà più complessa. Le aziende globali privilegiano per i loro investimenti i paesi la cui legalità debole non solo consente di minimizzare i costi di produzione (minori tutele per l'ambiente, per i diritti dei lavoratori, maggiori possibilità di evasione fiscale), ma anche di conquistare posizioni di vantaggio e di oligopolio in vari settori di mercato grazie alla permeabilità a pratiche corruttive dei ceti dirigenti locali, talora remunerati pronto cassa, talora cooptati come soci occulti».
Che fare, in simili circostanze? Dal momento che tornare alle sovranità nazionali assolute non si può (la sovranità è in larga parte e da tempo perduta, l'Europa dovrebbe servire a restaurarla), il compito consiste nel ricostituzionalizzare sia il livello nazionale che quello europeo. Consiste nel porsi il problema della sovranità, anziché eluderlo. Nell'espandere i diritti, piuttosto che ridurli. La ricetta è sempre quella di Tocqueville: uscire con più democrazia dalla crisi della democrazia.
Vorrei menzionare tre battaglie minime, da fare prima di accingersi alla grande opera di ricostituzionalizzazione. Primo: vanno estese le libertà e le tutele garantite dalle vecchie Costituzioni, adattandole a nuove figure di cittadinanza partecipativa come i whistleblower. È uno scandalo che persone come Edward Snowden o Hervé Falciani o come il giornalista tedesco Udo Ulfkotte siano descritte rispettivamente come spie, o ladri (di dati), o traditori dell'Occidente perché denunciano la sottomissione dei media a strategie di guerre illegali. Sono i cani da guardia di democrazie pericolanti, di giornali asserviti al potere. Ne abbiamo bisogno per divenire cittadini non apatici, ma informati. Urge uno statuto che aiuti i whistleblower a uscire allo scoperto in presenza di corruzione, di violazione di diritti, di disinformazione.
Seconda battaglia: evitare che l'accordo commerciale con gli Stati Uniti (il TTIP) sfoci in un collettivo atto di abiura europeo: in una consapevole ritrattazione giurata di norme che l'Unione si è data lungo i decenni a tutela della salute, dell'ambiente, del benessere dei propri cittadini, dell'autonomia delle proprie corti. È il plebiscito permanente dei mercati che, se non contrastato, ancora una volta ci schiaccia.
La terza battaglia porta sulla moltiplicazione degli strumenti di democrazia e di controllo. Il Trattato di Lisbona prescrive ad esempio, nell'articolo 6, che l'Unione aderisca alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo. Ma per salvaguardare le proprie competenze ed evitare incursioni nel proprio campo, la Corte europea di giustizia ha decretato nel dicembre scorso che le due Carte non sono “compatibili”. Nella sostanza, l'Unione europea si comporta come i vecchi sovrani assoluti: non riconosce autorità alcuna sopra la propria. Giunge sino all'assurdo di non accettare giudizi della Corte di Strasburgo, ossia del Consiglio d'Europa, in ambiti – la politica estera e di sicurezza, cioè la pace e la guerra – su cui lei stessa non ha, per trattato, diritto di parola.
Ecco l'Europa che abitiamo: un'Unione che infrange le regole che essa stessa si è data e ha la faccia tosta di vietare intrusioni di altre Convenzioni e altre Corti. Forse perché teme giudizi malevoli di nazioni europee ritenute inferiori, come la Russia. Di certo per scongiurare l'uscita dall'apatia – giuridica, politica, democratica – che è il principale dei nostri mali presenti.
*Barbaro Spinelli è deputato europeo dell'Altro Europa con Tsipras
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5.1.15
Furbizia o solo ignoranza?
La norma «Salva Berlusconi» e il problema della trasparenza
di Luigi Ferrarella (Corriere)
Al supermercato c’è la tracciabilità del cotechino e si può sapere tutto della filiera di provenienza di un kiwi: nei Consigli dei ministri del governo di Matteo Renzi, invece, sembra difettare la tracciabilità delle norme «orfane» o «desaparecide». Soprattutto nei decreti legislativi, dove deleghe troppo generiche ed estese conferiscono all’esecutivo un potere sottratto a un effettivo controllo parlamentare, persino superiore a quello dei già troppo abusati decreti legge. Sempre più spesso nelle sedute di governo non si capisce chi e perché faccia sparire in uscita norme che in entrata c’erano; o chi invece infili e faccia votare a distratti ministri norme che in entrata non c’erano, e che all’uscita nessuno più nel governo sembra riconoscere o addirittura conoscere. È successo già tre volte solo nell’ultimo mese. Sull’applicabilità o meno della licenziabilità del Jobs act ai dipendenti pubblici si sono visti un influente senatore (Ichino) affermare che in Consiglio dei ministri fosse entrata una norma poi depennata, due ministri (Madia e Poletti) smentirlo e assicurare che mai vi fosse stata una norma del genere, e infine il premier ammettere che sì, insomma, la norma c’era ma era poi stata tolta in vista di un altro più coerente contenitore legislativo. Pochi giorni prima, quando il governo aveva (per ora solo) annunciato una già striminzita legge anticorruzione, in Consiglio dei ministri era entrata, ma misteriosamente non era più uscita per mano di non si sa chi, una norma premiale per il primo tra corrotto e corruttore che spezzasse il vincolo d’omertà e denunciasse il complice. E adesso, dopo due casi di norme «desaparecide», eccone uno di legge «orfana»: cinque parole che, nell’attuazione delle delega sui reati fiscali, alla vigilia di Natale paracadutano una inedita «clausola di non punibilità» che, per una serie di rimbalzi procedurali, di sponda avrebbe l’effetto finale di dare a Berlusconi la chance di chiedere la revoca della condanna definitiva per frode fiscale sui diritti tv Mediaset e ritornare alla politica sinora preclusagli da quella legge Severino che come presupposto ha appunto l’esistenza di una condanna definitiva. Ora Renzi, che in conferenza stampa aveva magnificato il decreto legislativo sorvolando su questa norma, nel più classico degli schemi lideristici annuncia, quasi parlasse di un meteorite piovuto chissà da quale galassia, che lo fermerà e farà riesaminare in un nuovo Cdm. Sarà interessante vedere come, giacché il dichiarato intento governativo - un fisco amichevole che non usi più il bastone penale su chi tutte le tasse non paga non perché voglia evaderle ma perché non ce la fa per la crisi - pareva già ampiamente (anche troppo) soddisfatto dalle modifiche che nelle singole fattispecie di reati fiscali rendono non punibili la «dichiarazione infedele» fino a 150.000 euro, l’«omessa dichiarazione» fino a 50.000 euro, la «dichiarazione fraudolenta mediante artifici» fino a 30.000 euro di imposta evasa e 1 milione e mezzo di imponibile sottratto al fisco o 5 per cento di elementi attivi indicati, e la «dichiarazione fraudolenta mediante fatture per operazioni inesistenti» fino a 1.000 euro l’anno. Ecco perché ora non può finire solo con il ritiro dell’articolo 19-bis, ibrida «clausola di non punibilità» che, «per tutti i reati del presente decreto», metteva al riparo chi evade in una modica quantità (come la droga) stabilita in un per nulla modico 3% dell’imponibile dichiarato. Clausola che nel passato calza a pennello alla sentenza di Berlusconi, e che per il futuro equivale tra l’altro anche ad autorizzare (e quasi incentivare) una media-grande impresa, ad esempio da 50 milioni di imponibile, ad accantonare impunemente un milione e mezzo di «fondi neri» utilizzabili per alimentare poi tangenti. Delle due l’una: o Palazzo Chigi sapeva bene cosa stesse approvando e allora non si capisce perché oggi Renzi faccia precipitosa marcia indietro; oppure non lo sapeva, e allora c’è da preoccuparsi. Come antidoto alla tossicità di questo procedere opaco di legiferare, infatti, un governo che non lesina tweet fatui, e proclama trasparenza online sul buongoverno.it , dovrebbe anche rendere pubblico quali ministri o burocrati o consulenti hanno scritto o interpolato o veicolato quell’articolo 19-bis; quali motivazioni, magari serie, lo argomentavano; chi e dove e quando ha valutato i pro e contro della norma; quali posizioni hanno assunto sul punto i ministri più interessati (Economia, Giustizia, Rapporti col Parlamento, presidenza del Consiglio). Perché si può fare tutto, anche depenalizzare questo o quel reato, magari pure con benefici indiretti per questo o quel soggetto: ma alla luce del sole, con trasparenza dei percorsi e consapevolezza dei risultati. Per migliorare i quali, forse, ogni tanto non guasterebbe qualche sfottuto «professorone» in più, e qualche fedele ma incompetente in meno. ] Al supermercato c’è la tracciabilità del cotechino e si può sapere tutto della filiera di provenienza di un kiwi: nei Consigli dei ministri del governo di Matteo Renzi, invece, sembra difettare la tracciabilità delle norme «orfane» o «desaparecide». Soprattutto nei decreti legislativi, dove deleghe troppo generiche ed estese conferiscono all’esecutivo un potere sottratto a un effettivo controllo parlamentare, persino superiore a quello dei già troppo abusati decreti legge. Sempre più spesso nelle sedute di governo non si capisce chi e perché faccia sparire in uscita norme che in entrata c’erano; o chi invece infili e faccia votare a distratti ministri norme che in entrata non c’erano, e che all’uscita nessuno più nel governo sembra riconoscere o addirittura conoscere.
È successo già tre volte solo nell’ultimo mese. Sull’applicabilità o meno della licenziabilità del Jobs act ai dipendenti pubblici si sono visti un influente senatore (Ichino) affermare che in Consiglio dei ministri fosse entrata una norma poi depennata, due ministri (Madia e Poletti) smentirlo e assicurare che mai vi fosse stata una norma del genere, e infine il premier ammettere che sì, insomma, la norma c’era ma era poi stata tolta in vista di un altro più coerente contenitore legislativo.
Pochi giorni prima, quando il governo aveva (per ora solo) annunciato una già striminzita legge anticorruzione, in Consiglio dei ministri era entrata, ma misteriosamente non era più uscita per mano di non si sa chi, una norma premiale per il primo tra corrotto e corruttore che spezzasse il vincolo d’omertà e denunciasse il complice. E adesso, dopo due casi di norme «desaparecide», eccone uno di legge «orfana»: cinque parole che, nell’attuazione delle delega sui reati fiscali, alla vigilia di Natale paracadutano una inedita «clausola di non punibilità» che, per una serie di rimbalzi procedurali, di sponda avrebbe l’effetto finale di dare a Berlusconi la chance di chiedere la revoca della condanna definitiva per frode fiscale sui diritti tv Mediaset e ritornare alla politica sinora preclusagli da quella legge Severino che come presupposto ha appunto l’esistenza di una condanna definitiva.
Ora Renzi, che in conferenza stampa aveva magnificato il decreto legislativo sorvolando su questa norma, nel più classico degli schemi lideristici annuncia, quasi parlasse di un meteorite piovuto chissà da quale galassia, che lo fermerà e farà riesaminare in un nuovo Cdm.
Sarà interessante vedere come, giacché il dichiarato intento governativo - un fisco amichevole che non usi più il bastone penale su chi tutte le tasse non paga non perché voglia evaderle ma perché non ce la fa per la crisi - pareva già ampiamente (anche troppo) soddisfatto dalle modifiche che nelle singole fattispecie di reati fiscali rendono non punibili la «dichiarazione infedele» fino a 150.000 euro, l’«omessa dichiarazione» fino a 50.000 euro, la «dichiarazione fraudolenta mediante artifici» fino a 30.000 euro di imposta evasa e 1 milione e mezzo di imponibile sottratto al fisco o 5 per cento di elementi attivi indicati, e la «dichiarazione fraudolenta mediante fatture per operazioni inesistenti» fino a 1.000 euro l’anno.
Ecco perché ora non può finire solo con il ritiro dell’articolo 19-bis, ibrida «clausola di non punibilità» che, «per tutti i reati del presente decreto», metteva al riparo chi evade in una modica quantità (come la droga) stabilita in un per nulla modico 3% dell’imponibile dichiarato. Clausola che nel passato calza a pennello alla sentenza di Berlusconi, e che per il futuro equivale tra l’altro anche ad autorizzare (e quasi incentivare) una media-grande impresa, ad esempio da 50 milioni di imponibile, ad accantonare impunemente un milione e mezzo di «fondi neri» utilizzabili per alimentare poi tangenti.
Delle due l’una: o Palazzo Chigi sapeva bene cosa stesse approvando e allora non si capisce perché oggi Renzi faccia precipitosa marcia indietro; oppure non lo sapeva, e allora c’è da preoccuparsi. Come antidoto alla tossicità di questo procedere opaco di legiferare, infatti, un governo che non lesina tweet fatui, e proclama trasparenza online sul buongoverno.it , dovrebbe anche rendere pubblico quali ministri o burocrati o consulenti hanno scritto o interpolato o veicolato quell’articolo 19-bis; quali motivazioni, magari serie, lo argomentavano; chi e dove e quando ha valutato i pro e contro della norma; quali posizioni hanno assunto sul punto i ministri più interessati (Economia, Giustizia, Rapporti col Parlamento, presidenza del Consiglio).
Perché si può fare tutto, anche depenalizzare questo o quel reato, magari pure con benefici indiretti per questo o quel soggetto: ma alla luce del sole, con trasparenza dei percorsi e consapevolezza dei risultati. Per migliorare i quali, forse, ogni tanto non guasterebbe qualche sfottuto «professorone» in più, e qualche fedele ma incompetente in meno.
di Luigi Ferrarella (Corriere)
Al supermercato c’è la tracciabilità del cotechino e si può sapere tutto della filiera di provenienza di un kiwi: nei Consigli dei ministri del governo di Matteo Renzi, invece, sembra difettare la tracciabilità delle norme «orfane» o «desaparecide». Soprattutto nei decreti legislativi, dove deleghe troppo generiche ed estese conferiscono all’esecutivo un potere sottratto a un effettivo controllo parlamentare, persino superiore a quello dei già troppo abusati decreti legge. Sempre più spesso nelle sedute di governo non si capisce chi e perché faccia sparire in uscita norme che in entrata c’erano; o chi invece infili e faccia votare a distratti ministri norme che in entrata non c’erano, e che all’uscita nessuno più nel governo sembra riconoscere o addirittura conoscere. È successo già tre volte solo nell’ultimo mese. Sull’applicabilità o meno della licenziabilità del Jobs act ai dipendenti pubblici si sono visti un influente senatore (Ichino) affermare che in Consiglio dei ministri fosse entrata una norma poi depennata, due ministri (Madia e Poletti) smentirlo e assicurare che mai vi fosse stata una norma del genere, e infine il premier ammettere che sì, insomma, la norma c’era ma era poi stata tolta in vista di un altro più coerente contenitore legislativo. Pochi giorni prima, quando il governo aveva (per ora solo) annunciato una già striminzita legge anticorruzione, in Consiglio dei ministri era entrata, ma misteriosamente non era più uscita per mano di non si sa chi, una norma premiale per il primo tra corrotto e corruttore che spezzasse il vincolo d’omertà e denunciasse il complice. E adesso, dopo due casi di norme «desaparecide», eccone uno di legge «orfana»: cinque parole che, nell’attuazione delle delega sui reati fiscali, alla vigilia di Natale paracadutano una inedita «clausola di non punibilità» che, per una serie di rimbalzi procedurali, di sponda avrebbe l’effetto finale di dare a Berlusconi la chance di chiedere la revoca della condanna definitiva per frode fiscale sui diritti tv Mediaset e ritornare alla politica sinora preclusagli da quella legge Severino che come presupposto ha appunto l’esistenza di una condanna definitiva. Ora Renzi, che in conferenza stampa aveva magnificato il decreto legislativo sorvolando su questa norma, nel più classico degli schemi lideristici annuncia, quasi parlasse di un meteorite piovuto chissà da quale galassia, che lo fermerà e farà riesaminare in un nuovo Cdm. Sarà interessante vedere come, giacché il dichiarato intento governativo - un fisco amichevole che non usi più il bastone penale su chi tutte le tasse non paga non perché voglia evaderle ma perché non ce la fa per la crisi - pareva già ampiamente (anche troppo) soddisfatto dalle modifiche che nelle singole fattispecie di reati fiscali rendono non punibili la «dichiarazione infedele» fino a 150.000 euro, l’«omessa dichiarazione» fino a 50.000 euro, la «dichiarazione fraudolenta mediante artifici» fino a 30.000 euro di imposta evasa e 1 milione e mezzo di imponibile sottratto al fisco o 5 per cento di elementi attivi indicati, e la «dichiarazione fraudolenta mediante fatture per operazioni inesistenti» fino a 1.000 euro l’anno. Ecco perché ora non può finire solo con il ritiro dell’articolo 19-bis, ibrida «clausola di non punibilità» che, «per tutti i reati del presente decreto», metteva al riparo chi evade in una modica quantità (come la droga) stabilita in un per nulla modico 3% dell’imponibile dichiarato. Clausola che nel passato calza a pennello alla sentenza di Berlusconi, e che per il futuro equivale tra l’altro anche ad autorizzare (e quasi incentivare) una media-grande impresa, ad esempio da 50 milioni di imponibile, ad accantonare impunemente un milione e mezzo di «fondi neri» utilizzabili per alimentare poi tangenti. Delle due l’una: o Palazzo Chigi sapeva bene cosa stesse approvando e allora non si capisce perché oggi Renzi faccia precipitosa marcia indietro; oppure non lo sapeva, e allora c’è da preoccuparsi. Come antidoto alla tossicità di questo procedere opaco di legiferare, infatti, un governo che non lesina tweet fatui, e proclama trasparenza online sul buongoverno.it , dovrebbe anche rendere pubblico quali ministri o burocrati o consulenti hanno scritto o interpolato o veicolato quell’articolo 19-bis; quali motivazioni, magari serie, lo argomentavano; chi e dove e quando ha valutato i pro e contro della norma; quali posizioni hanno assunto sul punto i ministri più interessati (Economia, Giustizia, Rapporti col Parlamento, presidenza del Consiglio). Perché si può fare tutto, anche depenalizzare questo o quel reato, magari pure con benefici indiretti per questo o quel soggetto: ma alla luce del sole, con trasparenza dei percorsi e consapevolezza dei risultati. Per migliorare i quali, forse, ogni tanto non guasterebbe qualche sfottuto «professorone» in più, e qualche fedele ma incompetente in meno. ] Al supermercato c’è la tracciabilità del cotechino e si può sapere tutto della filiera di provenienza di un kiwi: nei Consigli dei ministri del governo di Matteo Renzi, invece, sembra difettare la tracciabilità delle norme «orfane» o «desaparecide». Soprattutto nei decreti legislativi, dove deleghe troppo generiche ed estese conferiscono all’esecutivo un potere sottratto a un effettivo controllo parlamentare, persino superiore a quello dei già troppo abusati decreti legge. Sempre più spesso nelle sedute di governo non si capisce chi e perché faccia sparire in uscita norme che in entrata c’erano; o chi invece infili e faccia votare a distratti ministri norme che in entrata non c’erano, e che all’uscita nessuno più nel governo sembra riconoscere o addirittura conoscere.
È successo già tre volte solo nell’ultimo mese. Sull’applicabilità o meno della licenziabilità del Jobs act ai dipendenti pubblici si sono visti un influente senatore (Ichino) affermare che in Consiglio dei ministri fosse entrata una norma poi depennata, due ministri (Madia e Poletti) smentirlo e assicurare che mai vi fosse stata una norma del genere, e infine il premier ammettere che sì, insomma, la norma c’era ma era poi stata tolta in vista di un altro più coerente contenitore legislativo.
Pochi giorni prima, quando il governo aveva (per ora solo) annunciato una già striminzita legge anticorruzione, in Consiglio dei ministri era entrata, ma misteriosamente non era più uscita per mano di non si sa chi, una norma premiale per il primo tra corrotto e corruttore che spezzasse il vincolo d’omertà e denunciasse il complice. E adesso, dopo due casi di norme «desaparecide», eccone uno di legge «orfana»: cinque parole che, nell’attuazione delle delega sui reati fiscali, alla vigilia di Natale paracadutano una inedita «clausola di non punibilità» che, per una serie di rimbalzi procedurali, di sponda avrebbe l’effetto finale di dare a Berlusconi la chance di chiedere la revoca della condanna definitiva per frode fiscale sui diritti tv Mediaset e ritornare alla politica sinora preclusagli da quella legge Severino che come presupposto ha appunto l’esistenza di una condanna definitiva.
Ora Renzi, che in conferenza stampa aveva magnificato il decreto legislativo sorvolando su questa norma, nel più classico degli schemi lideristici annuncia, quasi parlasse di un meteorite piovuto chissà da quale galassia, che lo fermerà e farà riesaminare in un nuovo Cdm.
Sarà interessante vedere come, giacché il dichiarato intento governativo - un fisco amichevole che non usi più il bastone penale su chi tutte le tasse non paga non perché voglia evaderle ma perché non ce la fa per la crisi - pareva già ampiamente (anche troppo) soddisfatto dalle modifiche che nelle singole fattispecie di reati fiscali rendono non punibili la «dichiarazione infedele» fino a 150.000 euro, l’«omessa dichiarazione» fino a 50.000 euro, la «dichiarazione fraudolenta mediante artifici» fino a 30.000 euro di imposta evasa e 1 milione e mezzo di imponibile sottratto al fisco o 5 per cento di elementi attivi indicati, e la «dichiarazione fraudolenta mediante fatture per operazioni inesistenti» fino a 1.000 euro l’anno.
Ecco perché ora non può finire solo con il ritiro dell’articolo 19-bis, ibrida «clausola di non punibilità» che, «per tutti i reati del presente decreto», metteva al riparo chi evade in una modica quantità (come la droga) stabilita in un per nulla modico 3% dell’imponibile dichiarato. Clausola che nel passato calza a pennello alla sentenza di Berlusconi, e che per il futuro equivale tra l’altro anche ad autorizzare (e quasi incentivare) una media-grande impresa, ad esempio da 50 milioni di imponibile, ad accantonare impunemente un milione e mezzo di «fondi neri» utilizzabili per alimentare poi tangenti.
Delle due l’una: o Palazzo Chigi sapeva bene cosa stesse approvando e allora non si capisce perché oggi Renzi faccia precipitosa marcia indietro; oppure non lo sapeva, e allora c’è da preoccuparsi. Come antidoto alla tossicità di questo procedere opaco di legiferare, infatti, un governo che non lesina tweet fatui, e proclama trasparenza online sul buongoverno.it , dovrebbe anche rendere pubblico quali ministri o burocrati o consulenti hanno scritto o interpolato o veicolato quell’articolo 19-bis; quali motivazioni, magari serie, lo argomentavano; chi e dove e quando ha valutato i pro e contro della norma; quali posizioni hanno assunto sul punto i ministri più interessati (Economia, Giustizia, Rapporti col Parlamento, presidenza del Consiglio).
Perché si può fare tutto, anche depenalizzare questo o quel reato, magari pure con benefici indiretti per questo o quel soggetto: ma alla luce del sole, con trasparenza dei percorsi e consapevolezza dei risultati. Per migliorare i quali, forse, ogni tanto non guasterebbe qualche sfottuto «professorone» in più, e qualche fedele ma incompetente in meno.
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25.10.14
Su la testa
Norma Rangeri (il manifesto)
Il passato e il futuro, i sindacalisti e gli imprenditori, le tute blu e le camicie bianche, i pezzi da museo e la modernità, gli spin doctor e i comitati centrali, lo storytelling e il comunicato stampa. Sarà più o meno raccontata così questa giornata particolare.
Eppure, per segnare la differenza e la distanza tra chi oggi sarà in piazza San Giovanni a Roma e chi andrà ad applaudire Renzi alle ex stazione Leopolda di Firenze si potrebbe più semplicemente dire che da una parte sfilerà l’opposizione dall’altra il governo o, se preferite, da una parte la sinistra e dall’altra la destra. Parole che stavolta si possono declinare sulla linea Maginot della difesa dei lavoratori.
E’ sinistra chi per uguale lavoro chiede uguale retribuzione, è destra chi con il Jobs act prevede il demansionamento. E’ sinistra chi al contratto a termine pone il vincolo di una causale, è destra chi toglie anche quella. E’ sinistra chi per il licenziamento prevede una giusta causa, è destra chi la cancella. E’ sinistra chi misura con il salario operaio la diseguaglianza sociale, è destra chi sceglie l’impresa come riferimento. Per una volta siamo pienamente d’accordo con la sempre sorridente ministra Elena Boschi, madrina della kermesse renziana, quando sottolinea orgogliosamente «noi siamo un’altra Italia rispetto alla Cgil».
Ma il Pd di governo che si riunisce a Firenze per celebrare il suo 40 per cento farebbe bene a riflettere su un piccolo problema. Molti, moltissimi di quelli che oggi sfileranno in corteo per le strade della capitale sono elettori dello stesso partito di Boschi e compagni. Anche se è vero, come ci dicono gli esperti di sondaggi, che il fenomenale consenso di Renzi sfonda grazie a un elettorato di centrodestra con abbandoni nel mondo di sinistra. In ogni caso siamo in presenza di una plateale spaccatura — fisica, politica, culturale — tra il raduno fiorentino e la manifestazione sindacale. Una divisione a lungo costruita con un netto spostamento del partito democratico verso i sogni della Confindustria, contro le lotte del sindacato.
Naturalmente non sarà solo tutto potere e finanza ad animare l’incontro fiorentino, né solo oro quello che brillerà in piazza San Giovanni. L’imprenditore non è sinonimo di Marchionne, e i lavoratori non sono tutti iscritti alla Cgil o alla Fiom. D’altra parte la Cgil non è stata in questi anni un sindacato capace di interpretare lo sconvolgimento del mercato del lavoro, né di rappresentare l’immenso esercito di riserva del precariato. Come del resto ha ammesso la stessa segretaria Camusso («è stato un grave errore di valutazione, non pensavamo che il precariato sarebbe dilatato in questo modo»). E un sindacato che non capisce l’arrivo della tempesta, fatalmente non riesce poi nemmeno a farsi argine e a rilanciare la battaglia del lavoro sulla nuova frontiera della micidiale globalizzazione.
Tuttavia c’è un milione di ragioni per essere oggi in piazza. Ragioni contingenti (la manovra economica e le pessime leggi sul mercato del lavoro), ragioni ideali (una memoria da custodire e un futuro da costruire), ragioni politiche (una sinistra da rifondare).
Noi del manifesto saremo tra i manifestanti con il nostro giornale in edizione speciale. Saremo in edicola come sempre, ma anche in piazza con decine di “strilloni” per diffondere insieme al manifesto anche un inserto di otto pagine (che distribuiremo gratuitamente) dedicato all’articolo 18, con interviste, analisi, testimonianze: un diritto di chi lo ha usato per difendere il posto di lavoro, di chi, precario, non ce l’ha ma lo vorrebbe e oggi è in piazza per difenderlo. Un contributo alla battaglia comune, un gesto concreto di solidarietà e di vicinanza, frutto dell’impegno del nostro gruppo di lavoro. Un piccolo contributo per una grande, decisiva battaglia di democrazia.
E un contributo anche contro la disinformazione. Perché sui quotidiani amici di Renzi (tanti, troppi), sui telegiornali proni (tanti, troppi) nei confronti del premier si è voluto far passare l’idea che l’articolo 18 è un affare di pochi, mentre il governo vuole estendere i diritti ai più. Questa è una falsità, una bugia, una presa in giro. Siamo anche pronti a scommettere che la Leopolda verrà raccontata dai media nazionali e locali per filo e per segno, con articoli di gossip, retroscena, curiosità. Sapremo tutto sui sorrisi e sugli abbracci, sui twitter del premier, sui parvenu filo renziani in cerca di uno strapuntino, sui «mi si nota di più se ci vado o se non ci vado», ma che poi preferiscono esserci perché lì, a Firenze, c’è il nuovo potere e non si sa mai.
Noi del manifesto, più modestamente, riporteremo le voci di chi solitamente è senza voce. Delle donne e degli uomini, dei giovani e degli anziani che si battono per la loro dignità. E per quella di tutti. Compresi i leopoldini.
Il passato e il futuro, i sindacalisti e gli imprenditori, le tute blu e le camicie bianche, i pezzi da museo e la modernità, gli spin doctor e i comitati centrali, lo storytelling e il comunicato stampa. Sarà più o meno raccontata così questa giornata particolare.
Eppure, per segnare la differenza e la distanza tra chi oggi sarà in piazza San Giovanni a Roma e chi andrà ad applaudire Renzi alle ex stazione Leopolda di Firenze si potrebbe più semplicemente dire che da una parte sfilerà l’opposizione dall’altra il governo o, se preferite, da una parte la sinistra e dall’altra la destra. Parole che stavolta si possono declinare sulla linea Maginot della difesa dei lavoratori.
E’ sinistra chi per uguale lavoro chiede uguale retribuzione, è destra chi con il Jobs act prevede il demansionamento. E’ sinistra chi al contratto a termine pone il vincolo di una causale, è destra chi toglie anche quella. E’ sinistra chi per il licenziamento prevede una giusta causa, è destra chi la cancella. E’ sinistra chi misura con il salario operaio la diseguaglianza sociale, è destra chi sceglie l’impresa come riferimento. Per una volta siamo pienamente d’accordo con la sempre sorridente ministra Elena Boschi, madrina della kermesse renziana, quando sottolinea orgogliosamente «noi siamo un’altra Italia rispetto alla Cgil».
Ma il Pd di governo che si riunisce a Firenze per celebrare il suo 40 per cento farebbe bene a riflettere su un piccolo problema. Molti, moltissimi di quelli che oggi sfileranno in corteo per le strade della capitale sono elettori dello stesso partito di Boschi e compagni. Anche se è vero, come ci dicono gli esperti di sondaggi, che il fenomenale consenso di Renzi sfonda grazie a un elettorato di centrodestra con abbandoni nel mondo di sinistra. In ogni caso siamo in presenza di una plateale spaccatura — fisica, politica, culturale — tra il raduno fiorentino e la manifestazione sindacale. Una divisione a lungo costruita con un netto spostamento del partito democratico verso i sogni della Confindustria, contro le lotte del sindacato.
Naturalmente non sarà solo tutto potere e finanza ad animare l’incontro fiorentino, né solo oro quello che brillerà in piazza San Giovanni. L’imprenditore non è sinonimo di Marchionne, e i lavoratori non sono tutti iscritti alla Cgil o alla Fiom. D’altra parte la Cgil non è stata in questi anni un sindacato capace di interpretare lo sconvolgimento del mercato del lavoro, né di rappresentare l’immenso esercito di riserva del precariato. Come del resto ha ammesso la stessa segretaria Camusso («è stato un grave errore di valutazione, non pensavamo che il precariato sarebbe dilatato in questo modo»). E un sindacato che non capisce l’arrivo della tempesta, fatalmente non riesce poi nemmeno a farsi argine e a rilanciare la battaglia del lavoro sulla nuova frontiera della micidiale globalizzazione.
Tuttavia c’è un milione di ragioni per essere oggi in piazza. Ragioni contingenti (la manovra economica e le pessime leggi sul mercato del lavoro), ragioni ideali (una memoria da custodire e un futuro da costruire), ragioni politiche (una sinistra da rifondare).
Noi del manifesto saremo tra i manifestanti con il nostro giornale in edizione speciale. Saremo in edicola come sempre, ma anche in piazza con decine di “strilloni” per diffondere insieme al manifesto anche un inserto di otto pagine (che distribuiremo gratuitamente) dedicato all’articolo 18, con interviste, analisi, testimonianze: un diritto di chi lo ha usato per difendere il posto di lavoro, di chi, precario, non ce l’ha ma lo vorrebbe e oggi è in piazza per difenderlo. Un contributo alla battaglia comune, un gesto concreto di solidarietà e di vicinanza, frutto dell’impegno del nostro gruppo di lavoro. Un piccolo contributo per una grande, decisiva battaglia di democrazia.
E un contributo anche contro la disinformazione. Perché sui quotidiani amici di Renzi (tanti, troppi), sui telegiornali proni (tanti, troppi) nei confronti del premier si è voluto far passare l’idea che l’articolo 18 è un affare di pochi, mentre il governo vuole estendere i diritti ai più. Questa è una falsità, una bugia, una presa in giro. Siamo anche pronti a scommettere che la Leopolda verrà raccontata dai media nazionali e locali per filo e per segno, con articoli di gossip, retroscena, curiosità. Sapremo tutto sui sorrisi e sugli abbracci, sui twitter del premier, sui parvenu filo renziani in cerca di uno strapuntino, sui «mi si nota di più se ci vado o se non ci vado», ma che poi preferiscono esserci perché lì, a Firenze, c’è il nuovo potere e non si sa mai.
Noi del manifesto, più modestamente, riporteremo le voci di chi solitamente è senza voce. Delle donne e degli uomini, dei giovani e degli anziani che si battono per la loro dignità. E per quella di tutti. Compresi i leopoldini.
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24.9.14
Il nemico allo specchio
Ferruccio De Bortoli (Corriere della Sera)
Devo essere sincero: Renzi non mi convince. Non tanto per le idee e il coraggio: apprezzabili, specie in materia di lavoro. Quanto per come gestisce il potere. Se vorrà veramente cambiare verso a questo Paese dovrà guardarsi dal più temibile dei suoi nemici: se stesso. Una personalità egocentrica è irrinunciabile per un leader. Quella del presidente del Consiglio è ipertrofica. Ora, avendo un uomo solo al comando del Paese (e del principale partito), senza veri rivali, la cosa non è irrilevante.
Renzi ha energia leonina, tuttavia non può pensare di far tutto da solo. La sua squadra di governo è in qualche caso di una debolezza disarmante. Si faranno, si dice. Il sospetto diffuso è che alcuni ministri siano stati scelti per non far ombra al premier. La competenza appare un criterio secondario. L’esperienza un intralcio, non una necessità. Persino il ruolo del ministro dell’Economia, l’ottimo Padoan, è svilito dai troppi consulenti di Palazzo Chigi. Il dissenso (Delrio?) è guardato con sospetto. L’irruenza può essere una virtù, scuote la palude, ma non sempre è preferibile alla saggezza negoziale. La muscolarità tradisce a volte la debolezza delle idee, la superficialità degli slogan. Un profluvio di tweet non annulla la fatica di scrivere un buon decreto. Circondarsi di forze giovanili è un grande merito. Lo è meno se la fedeltà (diversa dalla lealtà) fa premio sulla preparazione, sulla conoscenza dei dossier. E se addirittura a prevalere è la toscanità, il dubbio è fondato.
L’oratoria del premier è straordinaria, nondimeno il fascino che emana stinge facilmente nel fastidio se la comunicazione, pur brillante, è fine a se stessa. Il marketing della politica se è sostanza è utile, se è solo cosmesi è dannoso. In Europa, meno inclini di noi a scambiare la simpatia e la parlantina per strumenti di governo, se ne sono già accorti. Le controfigure renziane abbondano anche nella nuova segreteria del Pd, quasi un partito personale, simile a quello del suo antico rivale, l’ex Cavaliere. E qui sorge l’interrogativo più spinoso. Il patto del Nazareno finirà per eleggere anche il nuovo presidente della Repubblica, forse a inizio 2015. Sarebbe opportuno conoscerne tutti i reali contenuti. Liberandolo da vari sospetti (riguarda anche la Rai?) e, non ultimo, dallo stantio odore di massoneria. Auguriamo a Renzi di farcela e di correggere in corsa i propri errori. Non può fallire perché falliremmo anche noi. Un consiglio: quando si specchia al mattino, indossando una camicia bianca, pensi che dietro di lui c’è un Paese che non vuol rischiare di alzare nessuna bandiera straniera (leggi troika). E tantomeno quella bianca. Buon lavoro, di squadra.
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5.9.14
Il Ballo del Blabla
Marco Travaglio (il Fatto Quotidiano)
Sguazzare nel magico mondo di Matteo Renzi è impresa faticosa e noiosa, ma istruttiva. Catalogare annunci, promesse, impegni, imperativi, scadenze, ultimatum, slogan, parole d’ordine, slide, tweet, hashtag, post, persino sms è un modo come un altro per studiare l’Italia e gli italiani del 2014. Dopo le mille balle blu berlusconiane, siamo tutti in una comunità di recupero per disintossicarci con terapia omeopatica e graduale: drogati da quattro lustri di patacche e bufale, rischiamo la crisi se ce le tolgono di colpo. Renzi è il metadone: l’oppioide che surroga sostanze psicotrope più forti e previene l’astinenza. Non bastasse l’annuncite che lui stesso ha confessato (negandola) l’altro giorno, quando ha annunciato “basta annunci” annunciandone di nuovi, ad aggravarla provvede la cosiddetta informazione.
Che, come già con Monti & Letta, puntella il terzo governo estraneo agli elettori con un surplus di promesse, di solito su progetti segretissimi, anche per chi dovrebbe averli partoriti. Quando Renzi dice “i giornali sono pieni di progetti segreti del governo, talmente segreti che non li conosce nemmeno il governo”, ha le sue buone ragioni. Ma ha il torto di accorgersene tardi: quando aveva il vento in poppa e tutti i poteri forti ai suoi piedi con stampa e tv al seguito, sull’annuncite marciava felice. Intanto generava illusioni che neppure un incrocio fra Cavour, Roosevelt e De Gaulle avrebbe mai potuto soddisfare, dunque destinate a trasformarsi in delusioni. Ora che l’elastico torna indietro, lui tenta la fuga verso la normalità. Mille giorni al posto di cento (“una riforma al mese”). “Passodopopasso ” anziché “tuttoquisubito”. Ma doveva pensarci prima. Sei mesi di populismo e futurismo alla fiorentina, pancia in dentro petto in fuori, yeyé e brumbrum, ha inoculato nel Paese un’ansia da prestazione che ora gli si ritorce contro. Nessuno, a parte B., aveva tanto personalizzato la politica in una sola faccia, un solo corpo, una sola bocca perennemente aperta. E dire che all’inizio Renzi pareva saperlo che a metter troppa carne al fuoco si produce tanto fumo da oscurare le poche cose davvero fatte: “Basta spot, tanti fatti e pochi annunci. Concretezza da sindaci. I miei ministri devono lavorare e tacere” (22-2). “Voglio uscire dal Truman Show, siamo qui per parlare il linguaggio della franchezza, al limite della brutalità” (24-2). Ma erano annunci, pure quelli. Poi, come scrisse Panorama, partì il Ballo del Blabla. Articolo 18. “Non parlo dell’articolo 18” (Giuliano Poletti, Pd, ministro del Lavoro, 26-2). “Abolire l’articolo 18 entro fine agosto” (Angelino Alfano, Ncd, ministro dell’Interno, 11-8). “L’articolo 18 è un totem ideologico, inutile discuterne: bisogna riscrivere tutto lo Statuto dei lavoratori” (Renzi, 12-8). “Taglio di 3 anni per i nuovi assunti. Primo passo per cambiare l’articolo 18” (Corriere, 14-8). “Via l’articolo 18” (Enrico Zanetti, Sc, sottosegretario Economia, Libero, 14-8). “Poletti: non serve abolire l’articolo 18. Basta il contratto di inserimento” (Corriere, 17-8). “Il problema non è l’articolo 18, riguarda 3 mila persone” (Renzi, 1-9). Nel ddl delega “Jobs Act” c’è solo un accenno al “contratto a tutele crescenti”. Auto blu. “Le auto blu andranno all’asta come abbiamo fatto a Firenze. Dal 26 marzo diremo ‘venghino signori venghino’” (Renzi, 12-3). “Vendesi auto quasi nuova colore blu. 100 auto blu all’asta online dal 26 marzo” (slide di Renzi, 12-3). “Le autoblu su eBay dovrebbero fruttare 370 mila euro” (28-4). “L’auto blu piace usata e su internet scatta la corsa all’acquisto” (Repubblica, 28-3). “Pazzi per le auto blu: boom di offerte e prezzi più alti della media” (Corriere, 6-4). “Sono state vendute tutte le 52 auto blu messe all’asta su eBay” (Palazzo Chigi, 18-4). In realtà ne sono state vendute solo 7 e hanno fruttato appena 50 mila euro.
BUROCRAZIA. “Decreto ‘licenzierà’ i consiglieri di Stato” (Repubblica, 24-2). “Ora una violenta lotta alla burocrazia” (Renzi, 11-4). “Il piano anti-burocrazia. Renzi: ‘Entro mille giorni tutti i certificati online o inviati a casa entro 48 ore’” (Repubblica, 11-7).“Certificati online per dire addio alle code” (Stampa, 11-7). Tutto fermo.
CARCERI. “Non è possibile un nuovo indulto-amnistia dopo 7 anni dall’ultimo. Non serio, non educativo e non responsabile. Sarebbe un autogol e un vulnus al principio di legalità che la gente non capirebbe” (Renzi, 12-10-2013). “Approvato in Senato il decreto carceri: risarcimenti e sconti di pena ai detenuti in celle sovraffollate, stretta sulla custodia cautelare, niente carcere se la pena non supererà i 3 anni. Lega e M5S: ‘Indulto mascherato’” (Stampa, 3-8). “La polizia ad Alfano: ‘Con lo svuotacarceri dimezzati gli arresti degli spacciatori’” (Repubblica, 18-8). CASA. “Piano casa da 1 miliardo e mezzo” (Stampa, 1-3). “Arriva il piano casa con affitto e riscatto” (Repubblica, 2-3). “Riforma del catasto a breve” (Corriere, 5-6). “Altolà di Padoan alle spese: il pacchetto casa a rischio” (Repubblica, 26-8). “Sconto fiscale per chi affitta alloggi nuovi” (Corriere, 28-8). Bloccato quasi tutto per mancanza di fondi.
CONFLITTO DI INTERESSI. “Occorre una legge sul conflitto di interessi” (Delrio, 23-2). Mai vista. CORRUZIONE. “Caro Roberto… un’altra emergenza, strettamente connessa a quelle delle mafie, pure da affrontare – come ci ha di recente ricordato l’Unione europea – è la corruzione il cui costo ammonta a 60 miliardi ogni anno, pari al 4% del Pil italiano, circa metà dei danni provocati in tutta Europa” (Renzi, lettera aperta a Roberto Saviano, Repubblica, 2-3). “Senato, il ddl anticorruzione slitta al 10 giugno” (Messaggero, 27-5). “Renzi: Daspo a vita contro i corrotti. Stretta nel codice etico dei Dem” (Repubblica, 11-6). Il 16 giugno il ddl Grasso anticorruzione, discusso in commissione per un anno ed emendato da partiti e governo, è pronto per l’approvazione alla Camera. Ma il governo, previo colloquio di Renzi con B. e Verdini, lo blocca annunciandone uno nuovo. Che per ora non c’è né è all’ordine del giorno.
COSTI DELLA CASTA. “Dimezzare subito il numero e le indennità dei parlamentari. E vogliamo sceglierli noi con i voti, non farli scegliere a Roma con gli inchini al potente di turno” (Renzi, 18-10-2010). Con l’Italicum e il Senato delle Autonomie, i parlamentari non si dimezzano, ma scendono da 950 a 730, e le indennità dei 630 deputati restano intatte. “Io da sindaco di Firenze guadagno 50 mila euro netti l’anno. Perché un parlamentare o un consigliere regionale deve guadagnare molto più di me?” (18-7-2011). Ma con le sue riforme i deputati continueranno a guadagnare molto più dei sindaci. “Ridurre gli stipendi e dimezzare il numero dei parlamentari e abolire tutti i tipi di privilegi che fanno credere alla gente che i politici siano tutti uguali” (7-11-2012). Ora anche i sindaci e i consiglieri regionali nominati senatori avranno un privilegio in più: l’immunità parlamentare. CRESCITA DEL PIL. “La domanda interna si rianima, il calo dei prezzi aiuta i redditi più bassi” (Mario Draghi, presidente Bce, 23-2). “Con misure serie, irreversibili, legate non solo alla revisione della spesa, nel primo semestre 2014 avremo già i primi risultati” (Renzi, 24-2). “‘Il taglio dell’Irpef può aumentare la crescita dello 0,4%’: per gli economisti tra 5 e 6 miliardi in più l’effetto sui consumi” (Stampa, 14-3). “Alimentari, trasporti e abiti: le famiglie spenderanno così 9 miliardi del bonus Irpef” (Repubblica, 16-3). “Il governo accelera sul Def. Sale la stima sul Pil: potrebbe salire all’1,1%” (Repubblica, 24-3). “La crescita del Pil quest’anno potrebbe arrivare fino all’1%” (Ignazio Visco, governatore Bankitalia, 12-4). “Abbiamo abbassato le previsioni di crescita del Pil rispetto al governo Letta. Sono prudenti, ma saranno smentite. Lo prometto” (Renzi, 8-5. Letta prevedeva un +1% annuo, Renzi un +0,8 annuo: verranno entrambi smentiti, ma al ribasso). “Arriva il rimbalzino del Pil: secondo trimestre positivo. Attesa una crescita compresa tra lo 0,1 e lo 0,4%” (Stampa, 31-5). “Che la crescita sia 0,4 o 0,8 o 1,5% non cambia niente per la vita quotidiana delle persone” (Renzi, 24-7). “Renzi: ‘Difficile confermare il Pil a +0,8% del Def’” (Repubblica, 25-7). “Il Pil non me lo aspettavo così giù. La ripresa non arriva: avevamo previsto lo 0,8, invece sarà inferiore” (Renzi, 30-7). “Renzi: l’Italia non fallirà” (Corriere, 26-8). A fine anno si prevede una crescita negativa. Consumi ancora giù. Consumatori sempre più pessimisti.
DEBITI DELLA PA. “Sblocco totale e non parziale dei debiti delle PA per dare uno choc” (24-2). Ma 22,5 miliardi il Tesoro li ha già pagati; altri 25 li ha già stanziati e coperti Letta; gli altri 47 sono fuori bilancio, mai certificati. “Entro 15 giorni il decreto per sbloccare 60 miliardi alle imprese” (Renzi, 25-2). Poi si scopre che non è un decreto, ma un disegno di legge. “Entro luglio pagheremo tutti i debiti della PA: oltre ai 22 miliardi già pagati, 68 miliardi totali” (Renzi, 12-3). “Il premier: subito 60 miliardi per pagare le imprese. Ma Padoan non è convinto” (Stampa, 26-2). “Così il governo restituirà grazie a Cdp 60 miliardi alle aziende creditrici” (Repubblica, 27-2). “Renzi si accorda con le banche per dare 60 miliardi alle imprese” (Libero, 5-3). “Crediti alle imprese, lo Stato paga tutto” (Repubblica, 8-3). “Caro Vespa, scommettiamo che rimborseremo alle aziende tutti i debiti della PA entro il 21 settembre, il mio onomastico? Se perde lei va in pellegrinaggio a piedi al santuario di Monte Senario, ma se perdo io sa dove mi mandano gli italiani?” (Renzi, 13-3). “Il grosso dei pagamenti avverrà nel 2015” (Delrio, 14-5). “Padoan: debiti PA a 6 miliardi: ‘Entro l’estate paghiamo’. Per Bankitalia sono 91 miliardi, Confindustria li stima in 100, il governo ne certifica molti meno” (Repubblica, 29-5). “Entro il 21 settembre dovremmo riuscire a pagare tutti i debiti della PA” (Renzi, 24-7). Al 21-7, sul sito del Tesoro, risultano pagati 26,1 miliardi, più 30,1 di risorse rese disponibili agli enti debitori ma non ancora pagate (totale: il 63% degli stanziamenti 2013). Il governo Renzi ha stanziato 13 miliardi. E adesso ha passato la palla a Cassa Depositi e Prestiti e alle banche.
DEBITO PUBBLICO. “Nessuna preoccupazione sui conti pubblici” (Renzi, 2-8). “Debito pubblico record: 2168 miliardi. In 6 mesi 100 miliardi in più” (Stampa, 14-8). EUROPA. “Non sforeremo il 3%” (Renzi, 15-3). “L’intesa tra Obama e Renzi: ‘Giusto cambiare l’Europa’” (Repubblica, 28-3). “Renzi a Obama: ‘Convincere la Merkel a cambiare verso’” (Repubblica, 28-3). “L’Europa ci darà più tempo per rispettare il Fiscal compact sul debito: nell’apparato di sorveglianza europeo ci sono margini” (Padoan, 2-4). “Asse tra Renzi e Cameron per rivedere i trattati Ue” (Corriere, 3-4). “L’Europa deve cambiare. Ora contiamo come Berlino” (Renzi, 27-5). “Prima sfida Renzi-Merkel” (Stampa, 28-5). “Stimo la Merkel, non è un nemico. Ma basta austerità” (Renzi, Stampa, 31-5). “Non temo le pagelle Ue, ma vanno cambiate le regole. Basta con gli eurotecnocrati” (Renzi, 1-6). “Merkel frena la sfida con Renzi” (Stampa, 5-7). “Non prendo ordini dall’Ue” (Renzi, Stampa, 10-8). “Le riforme in Italia le decido io, non Troika, Bce e Commissione” (Renzi, 10-8). “Sulle riforme condivido dalla A alla Z le parole di Draghi” (Renzi, 12-8). “Riforme, Renzi rassicura Draghi. Due ore di incontro informale” (Stampa, 14-8). “Sforiamo il 3%” (Enrico Zanetti, sottosegretario Economia, Libero, 14-8). “Zanetti parla a titolo personale” (Padoan, 14-8). “Renzi prepara la battaglia: ‘La crisi colpisce tutti, non siamo noi il problema dell’Ue, la Merkel si ammorbidirà’” (Repubblica, 15-8). Nei fatti, il governo non contesta alcun trattato: rispetta il 3% e vuole rinviare il pareggio di bilancio strutturale al 2016.
EVASIONE FISCALE. “Avanti con la lotta all’evasione: non con i blitz a Cortina o Ponte Vecchio, ma con la tecnologia” (Renzi, 9-4). “Fisco, anche le bollette per la caccia agli evasori. Nel piano l’incrocio delle banche dati, dai conti correnti alle utenze” (Corriere, 10-4). “L’evasione non si combatte con nuove norme. Serve la volontà politica. Più controlli? È una logica parziale, rafforza l’idea che l’Agenzia delle Entrate è il nemico. Invece dev’essere un partner, un amico” (Renzi, 20-4). Nessun cambiamento fissato o previsto in materia.
FAMIGLIE. “Ora aiuti alle famiglie” (Renzi, Repubblica, 20-4). “Arriva lo sconto fiscale per le mamme lavoratrici: ecco gli aiuti alle famiglie. Il governo prepara l’intervento sul ‘quoziente’” (Repubblica, 22-4). “Sul bonus alle famiglie stop del Tesoro” (Corriere, 31-5). “Rinvio sul bonus alle famiglie numerose” (Corriere, 4-6). Nulla, non c’è un euro.
FISCO. “Maggio, riforma del fisco” (Renzi, 17-2). “Ora nuovo fisco” (Pierpaolo Baretta, Pd, sottosegretario all’Economia, l’Unità, 1-6). “Scontrini detraibili, il 730 sarà precompilato” Corriere, 28-2). “Nuovo catasto e 730 precompilato, parte la riforma delle tasse” (Corriere, 2-6). “Tasse e fatture digitali. Fisco più semplice” (Corriere, 21-7). Tutto fermo in attesa dei decreti alla delega fiscale.
FLESSIBILITÀ. “Ue: più riforme più flessibilità. Renzi: vertice tosto ma è un successo. Accordo molto buono” (l’Unità, 28-6). “(La flessibilità ottenuta da Renzi in Europa) non è poco… Quando si calcola il deficit non viene considerata, o meglio viene considerata flessibile, una parte della spesa. Di fatto si allenta il Patto di Stabilità. Parliamo di circa 7 miliardi di euro” (Graziano Delrio, Corriere, 30-6). “Renzi non ha mai chiesto maggiore flessibilità” (Wolfgang Schäuble, ministro delle Finanze tedesco, Financial Times, 30-6). “Flessibilità, la sfida di Renzi” (Stampa, 3-7). “La crescita di Renzi spacca la Ue” (l’Unità, 3-7). “Renzi, scontro con i tedeschi sulla flessibilità” (Repubblica, 3-7). “Matteo snobba i falchi: ‘Il patto è con la Merkel, flessibilità o Juncker salta’” (Repubblica, 3-7). “La Bundesbank non si intrometta, non ci fa paura: decide la Merkel e la sua linea è un’altra” (Renzi, 4-7). “La flessibilità serve a tutti, non solo a noi” (Renzi, 4-7). “Duello Renzi-Ecofin sulla flessibilità. Padoan crede nella vittoria sui falchi: ‘Eviteremo manovra e infrazione’” (Repubblica, 9-7). “Governo-Ue, patto sulla flessibilità. Sul tavolo uno ‘sconto’ da 5 miliardi” (Repubblica, 17-8). “Sconto all’Italia, apertura Ue. Spiraglio da Bruxelles: sul tavolo in autunno” (Repubblica, 18-8). “La Commissione Ue frena: la trattativa sulla flessibilità? Solo una congettura” (Stampa, 18-8). “‘Flessibilità a chi fa riforme’. Renzi trova la sponda Bce” (Repubblica, 24-8). Nessun accordo raggiunto, nessun negoziato formale, solo il rinvio unilaterale del pareggio di bilancio al 2016 da parte dell’Italia. F35. “Sì ai supercaccia F35, ma sui numeri il governo glisserà” (Stampa, 27-3). “Renzi a Obama: ‘L’Italia taglierà le spese militari’” (Repubblica, 28-3). “Difesa, il rebus dei tagli. Renzi: ‘Anche sugli F35’. Ma Pinotti rassicura i militari: ‘Sono necessari alla sicurezza’” (Repubblica, 29-3). “ ‘Le spese militari non vanno ridotte’ : pressing di Obama” (Stampa, 29-3). “Gli Usa confermano: ‘Dall’Italia nessun taglio alla fornitura di F35’ ” (Stampa, 6-4). “Taglio agli F35. Il governo insiste: 150 milioni in meno” (Stampa, 18-4). “Ecco il piano segreto per tagliare gli F35: via metà degli aerei. Il governo ha deciso: ne acquisterà solo 45” (Repubblica, 22-4). “Il Pentagono lascia a terra gli F35. Mogherini: discussione aperta. Inchiesta Usa sulla sicurezza dopo l’incendio a bordo di uno dei jet” (Corriere, 5-7). “F35, dopo i guasti la Pinotti frena: ‘Non compreremo niente che non sia sicuro e non funzioni perfettamente’” (Repubblica, 16-7). Nessuna riduzione degli acquisti di F35.
GIUSTIZIA. “Entro giugno faremo un pacchetto organico di revisione della giustizia che non lasci fuori niente” (Renzi, 17-2). “Basta con i nostri derby ideologici: fare della giustizia un asset reale per lo sviluppo del Paese” (Renzi, 24-2). “Caro Roberto… quello che va aggredito, hai ragione, è la ‘Mafia SpA’, presente in ogni comparto economico e finanziario del Paese… Gli appartenenti alle organizzazioni criminali sanno di non rischiare molto sul piano penale, anche perché manca il reato di autoriciclaggio. Il paradosso di un estorsore o uno spacciatore di droga che non viene punito se da solo ricicla o reimpiega il provento dei suoi delitti sarà superato con assoluta urgenza attraverso l’introduzione del delitto di autoriciclaggio. Aggredire i patrimoni mafiosi può essere una delle grandi risposte che il governo è in grado di dare, dal punto di vista economico, per fronteggiare la crisi” (Renzi, lettera aperta a Roberto Saviano, Repubblica, 2-3). “La riforma della giustizia si fa entro giugno” (Renzi 30-5, 31-5, 1-6, 7-6, 13-6, 14-6). “Giustizia, riforma a tappe. Pronto il testo che introduce l’autoriciclaggio” (Corriere, 22-4). “A giugno la riforma della giustizia, partendo dai Tar” (Renzi, Repubblica, 20-4). “La riforma della giustizia sarà al Consiglio dei ministri del 30 giugno” (Boschi, 20-6. In realtà il 30 giugno vengono presentate 12 righe di generiche “linee guida”). “Nessuna stretta sulle intercettazioni” (Andrea Orlando, Pd, ministro della Giustizia, 26-6). “Stretta sulle intercettazioni” (Repubblica, 1-7). “Intercettazioni e privacy, quel testo segreto contro l’Italia degli origliatori. Processo alla gogna” (Foglio, 1-7). “Giustizia, la ricetta del governo in 12 punti” (Corriere, 1-7). “Renzi: processo civile in un anno” (Stampa, 1-7). “Ho incontrato Renzi e mi ha assicurato che i 12 punti della giustizia li scriveremo insieme” (Silvio Berlusconi, 3-7). “Riforma della giustizia entro il 20 agosto” (Orlando, 26-7). “Processo civile, boom dell’online e tempi giù del 62%” (Repubblica, 2-8). “Per cambiare la giustizia ci confronteremo anche con le opposizioni” (Orlando, Repubblica, 3-8). “Giro di vite sull’azione disciplinare contro le toghe del Tar” (Corriere, 15-8). “Giustizia, il governo accelera sulla prescrizione” (Repubblica, 17-8). “Accelerazione sulla giustizia. Orlando da Napolitano, che raccomanda: ‘Massima attenzione ai temi divisivi’: intercettazioni, prescrizione e falso in bilancio” (Corriere, 19-8). “Giustizia, scontro sulle intercettazioni” (Repubblica, 20-8). “Giustizia, si parte subito da civile e dalla responsabilità delle toghe” (Corriere, 20-8). “Giustizia, primo via libera. Ma serve più tempo per Csm e intercettazioni” (Corriere, 21-8). “Orlando vuole procuratori-manager” (Repubblica, 21-8). “Limiti ai pm e mini-bavaglio ai giornali. Stretta in arrivo sulle intercettazioni” (Repubblica, 22-8). “Giustizia, il piano del governo. Non solo il processo civile: subito anche la prescrizione” (Corriere, 22-8). “Il Guardasigilli assicura: niente rinvii” (Corriere, 26-8). “Prescrizione congelata e meno ricorsi in appello: ecco la riforma della giustizia” (Repubblica, 27-8). “Giustizia, il governo stringe sulla responsabilità dei giudici” (Corriere, 27-8). “Giustizia, ecco la riforma. Ma sulle intercettazioni è scontro nel governo” (Repubblica, 28-8). “Sì alla stretta sugli ascolti dei non indagati” (Repubblica, 28-8). “La giustizia torna a dividere. FI attacca su intercettazioni e prescrizioni” (Corriere, 28-8). “Prescrizione congelata solo per i nuovi processi” (Repubblica, 29-8). “Giustizia, Alfano porta a casa la stretta sulle intercettazioni” (Stampa, 29-8). “Processo civile, subito un decreto. Sul penale il governo prende tempo: legge delega sui temi più dibattuti. Novità sulla prescrizione” (Corriere, 29-8). “Pensiamo a un tribunale con competenze più ampie per le imprese” (Renzi, 29-8. Ma il Tribunale delle Imprese l’aveva già istituito il governo Monti nel maggio 2012). “Intercettazioni, nella riforma le linee guida” (Stampa, 30-8). “Renzi: giudici, chi sbaglia paga” (Stampa, 30-8). “La ‘rivoluzione’ giustizia: prescrizione congelata, nuovo falso in bilancio e vacanze dimezzate” (Repubblica, 30-8). “Ferie dei giudici, Orlando frena il premier” (Repubblica, 31-8). “Le 7 mosse ‘sblocca-giustizia’: un decreto e 6 ddl per recuperare efficienza” (Sole 24 Ore, 31-8). Per il governo è urgente solo il processo civile (decreto); non invece prescrizione, falso in bilancio e autoriciclaggio (ddl solo annunciati, senza una maggioranza in Parlamento che li voti).
IMMIGRATI.“Cie, Alfano studia il taglio dei tempi di permanenza e pensa di abbassare il limite di 18 a 4-6 mesi” (l’Unità, 26-3). “Profughi nelle caserme di tutte le Regioni: ecco il piano Alfano” (Repubblica, 15-6). “Al via operazione Spiagge Sicure. Gli italiani stanchi di essere insolentiti da orde di vu’ cumprà, dobbiamo radere al suolo la contraffazione” (Alfano, 11-8). “Alfano: pronti a fermare Mare Nostrum” (Repubblica, 25-8). Approvata una legge delega sui Cie. Per il resto zero. ITALICUM. “Occorre una legge elettorale per scegliere direttamente gli eletti e un tetto di tre mandati parlamentari, senza eccezioni” (Renzi, 3-4-2011. Ma, con le sue “riforme”, i partiti continueranno a nominarsi i deputati e per il Senato si aboliscono addirittura le elezioni. Nessuna traccia dei tre mandati). “Il Porcellum è la peggior legge elettorale possibile, in cui i parlamentari sono nominati” (Renzi, 15-4-2011). Infatti sostituisce la peggior legge elettorale possibile con la peggior legge elettorale possibile, in cui i parlamentari sono più nominati di prima. “Vogliamo una legge elettorale che consenta ai cittadini di scegliere il presidente del Consiglio e i parlamentari in modo libero, come succede nei Comuni. I partiti devono consentire alla gente di scegliersi le persone, perché un cittadino possa guardare in faccia i propri rappresentanti. Poi se fanno bene li conferma, se fanno male li manda a casa e magari i politici proveranno l’ebbrezza di tornare a lavorare” (Renzi, 26-4-2012). “Facciano quel che gli pare, purché lo facciano e che a scegliere siano i cittadini” (Renzi, 1-10-2012). “L’importante è dare ai cittadini la possibilità di scegliere liberamente, non necessariamente di incasellarsi in destra o sinistra. Comunque la pensi, puoi scegliere chi votare di volta in volta in base alla personalità di chi si candida, delle idee che esprime, del programma” (Renzi, 7-11-2012). Ma con le sue “riforme” i partiti seguiteranno a impedire alla gente di scegliere e guardare in faccia i propri rappresentanti. “Il Porcellum non è il male assoluto, peggio c’è solo il proporzionale puro. Ma è molto meglio il Mattarellum: almeno vedi in faccia i parlamentari, perché con queste liste elettorali possono mettere dentro di tutto” (Renzi, 19-11-2013). Ora, con le liste dell’Italicum, Renzi potrà mettere dentro di tutto. “Il Mattarellum è senz’altro migliore del Porcellum: se, per garantire la governabilità, si aggiungesse un premio di maggioranza del 25%, sarebbe perfetto. Ma la soluzione migliore sarebbe la legge elettorale per l’elezione dei sindaci” (Renzi, 22-11-2013). Sia il Mattarellum sia la legge dei sindaci consentono ai cittadini di scegliere: Renzi preferisce l’Italicum, che non lo consente. “Berlusconi e Grillo fanno le larghe intese per conservare il Porcellum” (Renzi, 19-11-2013). PoilelargheinteseconB.lehafatteRenzi per conservare il peggio del Porcellum nell’Italicum. “Nonostante i gufi, la legge elettorale è passata alla Camera ed entro settembre sarà approvata: non ci saranno mai più larghe intese e chi vince governa 5 anni. È una rivoluzione impressionante, chi vince governa. Politica 1 – Disfattismo 0” (Renzi, 12-3-2014). “Italicum entro l’anno” (Renzi, 2-8). Approvato dalla Camera, l’Italicum è uscito dall’agenda parlamentare: insanabili dissensi fra tutti i partiti.
LAVORO. “Il 17 marzo, all’incontro con la Merkel, avrò pronto il piano sul lavoro” (Renzi, 26-2). “Renzi: ora un Jobs Act da 100 miliardi” (l’Unità, 28-2). “Sussidio disoccupazione anche per i precari: 1.000 euro al mese per chi perde il posto. Il piano costerà 8,8 miliardi” (Repubblica, 28-2). “Ecco il Jobs Act targato Renzi: sussidio di disoccupazione anche per i precari. Col Naspi circa 1.000 euro al mese per chi perde il posto” (Repubblica, 1-3). “Il Jobs Act va bene così: tra 10 mesi vedrete i risultati” (Giuliano Poletti, Pd, ministro del Lavoro, Repubblica, 16-3). “Slitta a settembre il Jobs Act” (Corriere, 18-7). Il Jobs Act è un ddl delega spiaggiato in Parlamento. Ora il governo promette di approvarlo entro il 2014. Per i decreti attuativi passerebbe un altro anno.
MAFIA. “Caro Roberto, so che… vi aspettate che la lotta alla criminalità organizzata diventi per davvero la priorità del governo. Questo impegno io lo assumo… Il cuore delle organizzazioni criminali è negli affari… e anche in quel confine sottile, sottilissimo, che esiste tra lecito e illecito con l’appoggio, con il consenso, con la collusione e qualche volta semplicemente col silenzio di chi ha ruoli di responsabilità nella politica, nelle amministrazioni e nell’economia. Sono questi i legami che dobbiamo smascherare e recidere. Faremo un lavoro serio e puntiglioso… per adottare le misure necessarie sul piano legislativo e amministrativo. Con una proposta organica in base al lavoro della commissione istituita a Palazzo Chigi con Cantone e Gratteri per elaborare strumenti e contributi per rendere più incisiva la lotta alla criminalità organizzata… Porterò questi temi anche sui tavoli del semestre Ue. C’è tanto lavoro da fare” (Renzi, lettera aperta a Saviano, Repubblica, 2-3). Niente di fatto, né di annunciato.
MANAGER PUBBLICI. “Abbassando il tetto degli stipendi lordi a quanto guadagna il presidente della Repubblica, circa 250 mila euro l’anno, risparmieremo 500 milioni” (Renzi, 14-3). “Manager di Stato, 500 milioni in meno: tetto a 248 mila euro senza deroghe” (Repubblica, 14-3). “Ecco il ‘tetto’ agli stipendi dei manager pubblici. Da aprile scatta il limite: non oltre 311 mila euro lordi” (l’Unità, 29-3). “Tagli ai manager, mossa del Tesoro. Da aprile scattano i primi risparmi” (Corriere, 25-3). “Da aprile tetto agli stipendi dei manager” (Repubblica, 29-3). “Stretta sui manager pubblici” (Corriere, 29-3). “Stipendi ai manager, subito i tagli” (Corriere, 29-3). “Arriva la stretta sui manager di Stato” (Stampa, 29-3). “Manager, nuova stretta del governo. Stipendi, tetto per tutti i dirigenti: taglio del 25% nelle società quotate” (Repubblica, 30-3). “Il tetto agli stipendi pubblici? Salito di 37 mila euro. Le retribuzioni dei burocrati ancorata alla Cassazione” (Corriere, 6-4). “La sforbiciata sui dirigenti può valere un miliardo l’anno” (Stampa, 8-4). “Gli stipendi dei dirigenti saranno agganciati al Pil. Palazzo Chigi apripista” (Repubblica, 8-4). “Per i superdirigenti il taglio dello stipendio vale fino a 65 mila euro l’anno” (Stampa, 10-4). “Stipendi ridotti a 238 mila euro, ma non per tutti” (Repubblica, 15-4). “Pronto il tetto agli stipendi. I dirigenti divisi in quattro fasce. Riduzioni anche per Bankitalia e Consulta” (Stampa, 18-4). “Dirigenti e manager di Stato, sorpresa di Pasqua amara: nuovo taglio di stipendi. La scure dei 240 mila euro su chi si era salvato dal primo tetto. Ora sacrifici anche in Rai, Ragioneria e vertici Polizia” (Repubblica, 20-4). La norma è passata, ma la platea degli interessati è molto più ristretta del previsto con risparmi di meno di 200 milioni, anziché di 500.
Sguazzare nel magico mondo di Matteo Renzi è impresa faticosa e noiosa, ma istruttiva. Catalogare annunci, promesse, impegni, imperativi, scadenze, ultimatum, slogan, parole d’ordine, slide, tweet, hashtag, post, persino sms è un modo come un altro per studiare l’Italia e gli italiani del 2014. Dopo le mille balle blu berlusconiane, siamo tutti in una comunità di recupero per disintossicarci con terapia omeopatica e graduale: drogati da quattro lustri di patacche e bufale, rischiamo la crisi se ce le tolgono di colpo. Renzi è il metadone: l’oppioide che surroga sostanze psicotrope più forti e previene l’astinenza. Non bastasse l’annuncite che lui stesso ha confessato (negandola) l’altro giorno, quando ha annunciato “basta annunci” annunciandone di nuovi, ad aggravarla provvede la cosiddetta informazione.
Che, come già con Monti & Letta, puntella il terzo governo estraneo agli elettori con un surplus di promesse, di solito su progetti segretissimi, anche per chi dovrebbe averli partoriti. Quando Renzi dice “i giornali sono pieni di progetti segreti del governo, talmente segreti che non li conosce nemmeno il governo”, ha le sue buone ragioni. Ma ha il torto di accorgersene tardi: quando aveva il vento in poppa e tutti i poteri forti ai suoi piedi con stampa e tv al seguito, sull’annuncite marciava felice. Intanto generava illusioni che neppure un incrocio fra Cavour, Roosevelt e De Gaulle avrebbe mai potuto soddisfare, dunque destinate a trasformarsi in delusioni. Ora che l’elastico torna indietro, lui tenta la fuga verso la normalità. Mille giorni al posto di cento (“una riforma al mese”). “Passodopopasso ” anziché “tuttoquisubito”. Ma doveva pensarci prima. Sei mesi di populismo e futurismo alla fiorentina, pancia in dentro petto in fuori, yeyé e brumbrum, ha inoculato nel Paese un’ansia da prestazione che ora gli si ritorce contro. Nessuno, a parte B., aveva tanto personalizzato la politica in una sola faccia, un solo corpo, una sola bocca perennemente aperta. E dire che all’inizio Renzi pareva saperlo che a metter troppa carne al fuoco si produce tanto fumo da oscurare le poche cose davvero fatte: “Basta spot, tanti fatti e pochi annunci. Concretezza da sindaci. I miei ministri devono lavorare e tacere” (22-2). “Voglio uscire dal Truman Show, siamo qui per parlare il linguaggio della franchezza, al limite della brutalità” (24-2). Ma erano annunci, pure quelli. Poi, come scrisse Panorama, partì il Ballo del Blabla. Articolo 18. “Non parlo dell’articolo 18” (Giuliano Poletti, Pd, ministro del Lavoro, 26-2). “Abolire l’articolo 18 entro fine agosto” (Angelino Alfano, Ncd, ministro dell’Interno, 11-8). “L’articolo 18 è un totem ideologico, inutile discuterne: bisogna riscrivere tutto lo Statuto dei lavoratori” (Renzi, 12-8). “Taglio di 3 anni per i nuovi assunti. Primo passo per cambiare l’articolo 18” (Corriere, 14-8). “Via l’articolo 18” (Enrico Zanetti, Sc, sottosegretario Economia, Libero, 14-8). “Poletti: non serve abolire l’articolo 18. Basta il contratto di inserimento” (Corriere, 17-8). “Il problema non è l’articolo 18, riguarda 3 mila persone” (Renzi, 1-9). Nel ddl delega “Jobs Act” c’è solo un accenno al “contratto a tutele crescenti”. Auto blu. “Le auto blu andranno all’asta come abbiamo fatto a Firenze. Dal 26 marzo diremo ‘venghino signori venghino’” (Renzi, 12-3). “Vendesi auto quasi nuova colore blu. 100 auto blu all’asta online dal 26 marzo” (slide di Renzi, 12-3). “Le autoblu su eBay dovrebbero fruttare 370 mila euro” (28-4). “L’auto blu piace usata e su internet scatta la corsa all’acquisto” (Repubblica, 28-3). “Pazzi per le auto blu: boom di offerte e prezzi più alti della media” (Corriere, 6-4). “Sono state vendute tutte le 52 auto blu messe all’asta su eBay” (Palazzo Chigi, 18-4). In realtà ne sono state vendute solo 7 e hanno fruttato appena 50 mila euro.
BUROCRAZIA. “Decreto ‘licenzierà’ i consiglieri di Stato” (Repubblica, 24-2). “Ora una violenta lotta alla burocrazia” (Renzi, 11-4). “Il piano anti-burocrazia. Renzi: ‘Entro mille giorni tutti i certificati online o inviati a casa entro 48 ore’” (Repubblica, 11-7).“Certificati online per dire addio alle code” (Stampa, 11-7). Tutto fermo.
CARCERI. “Non è possibile un nuovo indulto-amnistia dopo 7 anni dall’ultimo. Non serio, non educativo e non responsabile. Sarebbe un autogol e un vulnus al principio di legalità che la gente non capirebbe” (Renzi, 12-10-2013). “Approvato in Senato il decreto carceri: risarcimenti e sconti di pena ai detenuti in celle sovraffollate, stretta sulla custodia cautelare, niente carcere se la pena non supererà i 3 anni. Lega e M5S: ‘Indulto mascherato’” (Stampa, 3-8). “La polizia ad Alfano: ‘Con lo svuotacarceri dimezzati gli arresti degli spacciatori’” (Repubblica, 18-8). CASA. “Piano casa da 1 miliardo e mezzo” (Stampa, 1-3). “Arriva il piano casa con affitto e riscatto” (Repubblica, 2-3). “Riforma del catasto a breve” (Corriere, 5-6). “Altolà di Padoan alle spese: il pacchetto casa a rischio” (Repubblica, 26-8). “Sconto fiscale per chi affitta alloggi nuovi” (Corriere, 28-8). Bloccato quasi tutto per mancanza di fondi.
CONFLITTO DI INTERESSI. “Occorre una legge sul conflitto di interessi” (Delrio, 23-2). Mai vista. CORRUZIONE. “Caro Roberto… un’altra emergenza, strettamente connessa a quelle delle mafie, pure da affrontare – come ci ha di recente ricordato l’Unione europea – è la corruzione il cui costo ammonta a 60 miliardi ogni anno, pari al 4% del Pil italiano, circa metà dei danni provocati in tutta Europa” (Renzi, lettera aperta a Roberto Saviano, Repubblica, 2-3). “Senato, il ddl anticorruzione slitta al 10 giugno” (Messaggero, 27-5). “Renzi: Daspo a vita contro i corrotti. Stretta nel codice etico dei Dem” (Repubblica, 11-6). Il 16 giugno il ddl Grasso anticorruzione, discusso in commissione per un anno ed emendato da partiti e governo, è pronto per l’approvazione alla Camera. Ma il governo, previo colloquio di Renzi con B. e Verdini, lo blocca annunciandone uno nuovo. Che per ora non c’è né è all’ordine del giorno.
COSTI DELLA CASTA. “Dimezzare subito il numero e le indennità dei parlamentari. E vogliamo sceglierli noi con i voti, non farli scegliere a Roma con gli inchini al potente di turno” (Renzi, 18-10-2010). Con l’Italicum e il Senato delle Autonomie, i parlamentari non si dimezzano, ma scendono da 950 a 730, e le indennità dei 630 deputati restano intatte. “Io da sindaco di Firenze guadagno 50 mila euro netti l’anno. Perché un parlamentare o un consigliere regionale deve guadagnare molto più di me?” (18-7-2011). Ma con le sue riforme i deputati continueranno a guadagnare molto più dei sindaci. “Ridurre gli stipendi e dimezzare il numero dei parlamentari e abolire tutti i tipi di privilegi che fanno credere alla gente che i politici siano tutti uguali” (7-11-2012). Ora anche i sindaci e i consiglieri regionali nominati senatori avranno un privilegio in più: l’immunità parlamentare. CRESCITA DEL PIL. “La domanda interna si rianima, il calo dei prezzi aiuta i redditi più bassi” (Mario Draghi, presidente Bce, 23-2). “Con misure serie, irreversibili, legate non solo alla revisione della spesa, nel primo semestre 2014 avremo già i primi risultati” (Renzi, 24-2). “‘Il taglio dell’Irpef può aumentare la crescita dello 0,4%’: per gli economisti tra 5 e 6 miliardi in più l’effetto sui consumi” (Stampa, 14-3). “Alimentari, trasporti e abiti: le famiglie spenderanno così 9 miliardi del bonus Irpef” (Repubblica, 16-3). “Il governo accelera sul Def. Sale la stima sul Pil: potrebbe salire all’1,1%” (Repubblica, 24-3). “La crescita del Pil quest’anno potrebbe arrivare fino all’1%” (Ignazio Visco, governatore Bankitalia, 12-4). “Abbiamo abbassato le previsioni di crescita del Pil rispetto al governo Letta. Sono prudenti, ma saranno smentite. Lo prometto” (Renzi, 8-5. Letta prevedeva un +1% annuo, Renzi un +0,8 annuo: verranno entrambi smentiti, ma al ribasso). “Arriva il rimbalzino del Pil: secondo trimestre positivo. Attesa una crescita compresa tra lo 0,1 e lo 0,4%” (Stampa, 31-5). “Che la crescita sia 0,4 o 0,8 o 1,5% non cambia niente per la vita quotidiana delle persone” (Renzi, 24-7). “Renzi: ‘Difficile confermare il Pil a +0,8% del Def’” (Repubblica, 25-7). “Il Pil non me lo aspettavo così giù. La ripresa non arriva: avevamo previsto lo 0,8, invece sarà inferiore” (Renzi, 30-7). “Renzi: l’Italia non fallirà” (Corriere, 26-8). A fine anno si prevede una crescita negativa. Consumi ancora giù. Consumatori sempre più pessimisti.
DEBITI DELLA PA. “Sblocco totale e non parziale dei debiti delle PA per dare uno choc” (24-2). Ma 22,5 miliardi il Tesoro li ha già pagati; altri 25 li ha già stanziati e coperti Letta; gli altri 47 sono fuori bilancio, mai certificati. “Entro 15 giorni il decreto per sbloccare 60 miliardi alle imprese” (Renzi, 25-2). Poi si scopre che non è un decreto, ma un disegno di legge. “Entro luglio pagheremo tutti i debiti della PA: oltre ai 22 miliardi già pagati, 68 miliardi totali” (Renzi, 12-3). “Il premier: subito 60 miliardi per pagare le imprese. Ma Padoan non è convinto” (Stampa, 26-2). “Così il governo restituirà grazie a Cdp 60 miliardi alle aziende creditrici” (Repubblica, 27-2). “Renzi si accorda con le banche per dare 60 miliardi alle imprese” (Libero, 5-3). “Crediti alle imprese, lo Stato paga tutto” (Repubblica, 8-3). “Caro Vespa, scommettiamo che rimborseremo alle aziende tutti i debiti della PA entro il 21 settembre, il mio onomastico? Se perde lei va in pellegrinaggio a piedi al santuario di Monte Senario, ma se perdo io sa dove mi mandano gli italiani?” (Renzi, 13-3). “Il grosso dei pagamenti avverrà nel 2015” (Delrio, 14-5). “Padoan: debiti PA a 6 miliardi: ‘Entro l’estate paghiamo’. Per Bankitalia sono 91 miliardi, Confindustria li stima in 100, il governo ne certifica molti meno” (Repubblica, 29-5). “Entro il 21 settembre dovremmo riuscire a pagare tutti i debiti della PA” (Renzi, 24-7). Al 21-7, sul sito del Tesoro, risultano pagati 26,1 miliardi, più 30,1 di risorse rese disponibili agli enti debitori ma non ancora pagate (totale: il 63% degli stanziamenti 2013). Il governo Renzi ha stanziato 13 miliardi. E adesso ha passato la palla a Cassa Depositi e Prestiti e alle banche.
DEBITO PUBBLICO. “Nessuna preoccupazione sui conti pubblici” (Renzi, 2-8). “Debito pubblico record: 2168 miliardi. In 6 mesi 100 miliardi in più” (Stampa, 14-8). EUROPA. “Non sforeremo il 3%” (Renzi, 15-3). “L’intesa tra Obama e Renzi: ‘Giusto cambiare l’Europa’” (Repubblica, 28-3). “Renzi a Obama: ‘Convincere la Merkel a cambiare verso’” (Repubblica, 28-3). “L’Europa ci darà più tempo per rispettare il Fiscal compact sul debito: nell’apparato di sorveglianza europeo ci sono margini” (Padoan, 2-4). “Asse tra Renzi e Cameron per rivedere i trattati Ue” (Corriere, 3-4). “L’Europa deve cambiare. Ora contiamo come Berlino” (Renzi, 27-5). “Prima sfida Renzi-Merkel” (Stampa, 28-5). “Stimo la Merkel, non è un nemico. Ma basta austerità” (Renzi, Stampa, 31-5). “Non temo le pagelle Ue, ma vanno cambiate le regole. Basta con gli eurotecnocrati” (Renzi, 1-6). “Merkel frena la sfida con Renzi” (Stampa, 5-7). “Non prendo ordini dall’Ue” (Renzi, Stampa, 10-8). “Le riforme in Italia le decido io, non Troika, Bce e Commissione” (Renzi, 10-8). “Sulle riforme condivido dalla A alla Z le parole di Draghi” (Renzi, 12-8). “Riforme, Renzi rassicura Draghi. Due ore di incontro informale” (Stampa, 14-8). “Sforiamo il 3%” (Enrico Zanetti, sottosegretario Economia, Libero, 14-8). “Zanetti parla a titolo personale” (Padoan, 14-8). “Renzi prepara la battaglia: ‘La crisi colpisce tutti, non siamo noi il problema dell’Ue, la Merkel si ammorbidirà’” (Repubblica, 15-8). Nei fatti, il governo non contesta alcun trattato: rispetta il 3% e vuole rinviare il pareggio di bilancio strutturale al 2016.
EVASIONE FISCALE. “Avanti con la lotta all’evasione: non con i blitz a Cortina o Ponte Vecchio, ma con la tecnologia” (Renzi, 9-4). “Fisco, anche le bollette per la caccia agli evasori. Nel piano l’incrocio delle banche dati, dai conti correnti alle utenze” (Corriere, 10-4). “L’evasione non si combatte con nuove norme. Serve la volontà politica. Più controlli? È una logica parziale, rafforza l’idea che l’Agenzia delle Entrate è il nemico. Invece dev’essere un partner, un amico” (Renzi, 20-4). Nessun cambiamento fissato o previsto in materia.
FAMIGLIE. “Ora aiuti alle famiglie” (Renzi, Repubblica, 20-4). “Arriva lo sconto fiscale per le mamme lavoratrici: ecco gli aiuti alle famiglie. Il governo prepara l’intervento sul ‘quoziente’” (Repubblica, 22-4). “Sul bonus alle famiglie stop del Tesoro” (Corriere, 31-5). “Rinvio sul bonus alle famiglie numerose” (Corriere, 4-6). Nulla, non c’è un euro.
FISCO. “Maggio, riforma del fisco” (Renzi, 17-2). “Ora nuovo fisco” (Pierpaolo Baretta, Pd, sottosegretario all’Economia, l’Unità, 1-6). “Scontrini detraibili, il 730 sarà precompilato” Corriere, 28-2). “Nuovo catasto e 730 precompilato, parte la riforma delle tasse” (Corriere, 2-6). “Tasse e fatture digitali. Fisco più semplice” (Corriere, 21-7). Tutto fermo in attesa dei decreti alla delega fiscale.
FLESSIBILITÀ. “Ue: più riforme più flessibilità. Renzi: vertice tosto ma è un successo. Accordo molto buono” (l’Unità, 28-6). “(La flessibilità ottenuta da Renzi in Europa) non è poco… Quando si calcola il deficit non viene considerata, o meglio viene considerata flessibile, una parte della spesa. Di fatto si allenta il Patto di Stabilità. Parliamo di circa 7 miliardi di euro” (Graziano Delrio, Corriere, 30-6). “Renzi non ha mai chiesto maggiore flessibilità” (Wolfgang Schäuble, ministro delle Finanze tedesco, Financial Times, 30-6). “Flessibilità, la sfida di Renzi” (Stampa, 3-7). “La crescita di Renzi spacca la Ue” (l’Unità, 3-7). “Renzi, scontro con i tedeschi sulla flessibilità” (Repubblica, 3-7). “Matteo snobba i falchi: ‘Il patto è con la Merkel, flessibilità o Juncker salta’” (Repubblica, 3-7). “La Bundesbank non si intrometta, non ci fa paura: decide la Merkel e la sua linea è un’altra” (Renzi, 4-7). “La flessibilità serve a tutti, non solo a noi” (Renzi, 4-7). “Duello Renzi-Ecofin sulla flessibilità. Padoan crede nella vittoria sui falchi: ‘Eviteremo manovra e infrazione’” (Repubblica, 9-7). “Governo-Ue, patto sulla flessibilità. Sul tavolo uno ‘sconto’ da 5 miliardi” (Repubblica, 17-8). “Sconto all’Italia, apertura Ue. Spiraglio da Bruxelles: sul tavolo in autunno” (Repubblica, 18-8). “La Commissione Ue frena: la trattativa sulla flessibilità? Solo una congettura” (Stampa, 18-8). “‘Flessibilità a chi fa riforme’. Renzi trova la sponda Bce” (Repubblica, 24-8). Nessun accordo raggiunto, nessun negoziato formale, solo il rinvio unilaterale del pareggio di bilancio al 2016 da parte dell’Italia. F35. “Sì ai supercaccia F35, ma sui numeri il governo glisserà” (Stampa, 27-3). “Renzi a Obama: ‘L’Italia taglierà le spese militari’” (Repubblica, 28-3). “Difesa, il rebus dei tagli. Renzi: ‘Anche sugli F35’. Ma Pinotti rassicura i militari: ‘Sono necessari alla sicurezza’” (Repubblica, 29-3). “ ‘Le spese militari non vanno ridotte’ : pressing di Obama” (Stampa, 29-3). “Gli Usa confermano: ‘Dall’Italia nessun taglio alla fornitura di F35’ ” (Stampa, 6-4). “Taglio agli F35. Il governo insiste: 150 milioni in meno” (Stampa, 18-4). “Ecco il piano segreto per tagliare gli F35: via metà degli aerei. Il governo ha deciso: ne acquisterà solo 45” (Repubblica, 22-4). “Il Pentagono lascia a terra gli F35. Mogherini: discussione aperta. Inchiesta Usa sulla sicurezza dopo l’incendio a bordo di uno dei jet” (Corriere, 5-7). “F35, dopo i guasti la Pinotti frena: ‘Non compreremo niente che non sia sicuro e non funzioni perfettamente’” (Repubblica, 16-7). Nessuna riduzione degli acquisti di F35.
GIUSTIZIA. “Entro giugno faremo un pacchetto organico di revisione della giustizia che non lasci fuori niente” (Renzi, 17-2). “Basta con i nostri derby ideologici: fare della giustizia un asset reale per lo sviluppo del Paese” (Renzi, 24-2). “Caro Roberto… quello che va aggredito, hai ragione, è la ‘Mafia SpA’, presente in ogni comparto economico e finanziario del Paese… Gli appartenenti alle organizzazioni criminali sanno di non rischiare molto sul piano penale, anche perché manca il reato di autoriciclaggio. Il paradosso di un estorsore o uno spacciatore di droga che non viene punito se da solo ricicla o reimpiega il provento dei suoi delitti sarà superato con assoluta urgenza attraverso l’introduzione del delitto di autoriciclaggio. Aggredire i patrimoni mafiosi può essere una delle grandi risposte che il governo è in grado di dare, dal punto di vista economico, per fronteggiare la crisi” (Renzi, lettera aperta a Roberto Saviano, Repubblica, 2-3). “La riforma della giustizia si fa entro giugno” (Renzi 30-5, 31-5, 1-6, 7-6, 13-6, 14-6). “Giustizia, riforma a tappe. Pronto il testo che introduce l’autoriciclaggio” (Corriere, 22-4). “A giugno la riforma della giustizia, partendo dai Tar” (Renzi, Repubblica, 20-4). “La riforma della giustizia sarà al Consiglio dei ministri del 30 giugno” (Boschi, 20-6. In realtà il 30 giugno vengono presentate 12 righe di generiche “linee guida”). “Nessuna stretta sulle intercettazioni” (Andrea Orlando, Pd, ministro della Giustizia, 26-6). “Stretta sulle intercettazioni” (Repubblica, 1-7). “Intercettazioni e privacy, quel testo segreto contro l’Italia degli origliatori. Processo alla gogna” (Foglio, 1-7). “Giustizia, la ricetta del governo in 12 punti” (Corriere, 1-7). “Renzi: processo civile in un anno” (Stampa, 1-7). “Ho incontrato Renzi e mi ha assicurato che i 12 punti della giustizia li scriveremo insieme” (Silvio Berlusconi, 3-7). “Riforma della giustizia entro il 20 agosto” (Orlando, 26-7). “Processo civile, boom dell’online e tempi giù del 62%” (Repubblica, 2-8). “Per cambiare la giustizia ci confronteremo anche con le opposizioni” (Orlando, Repubblica, 3-8). “Giro di vite sull’azione disciplinare contro le toghe del Tar” (Corriere, 15-8). “Giustizia, il governo accelera sulla prescrizione” (Repubblica, 17-8). “Accelerazione sulla giustizia. Orlando da Napolitano, che raccomanda: ‘Massima attenzione ai temi divisivi’: intercettazioni, prescrizione e falso in bilancio” (Corriere, 19-8). “Giustizia, scontro sulle intercettazioni” (Repubblica, 20-8). “Giustizia, si parte subito da civile e dalla responsabilità delle toghe” (Corriere, 20-8). “Giustizia, primo via libera. Ma serve più tempo per Csm e intercettazioni” (Corriere, 21-8). “Orlando vuole procuratori-manager” (Repubblica, 21-8). “Limiti ai pm e mini-bavaglio ai giornali. Stretta in arrivo sulle intercettazioni” (Repubblica, 22-8). “Giustizia, il piano del governo. Non solo il processo civile: subito anche la prescrizione” (Corriere, 22-8). “Il Guardasigilli assicura: niente rinvii” (Corriere, 26-8). “Prescrizione congelata e meno ricorsi in appello: ecco la riforma della giustizia” (Repubblica, 27-8). “Giustizia, il governo stringe sulla responsabilità dei giudici” (Corriere, 27-8). “Giustizia, ecco la riforma. Ma sulle intercettazioni è scontro nel governo” (Repubblica, 28-8). “Sì alla stretta sugli ascolti dei non indagati” (Repubblica, 28-8). “La giustizia torna a dividere. FI attacca su intercettazioni e prescrizioni” (Corriere, 28-8). “Prescrizione congelata solo per i nuovi processi” (Repubblica, 29-8). “Giustizia, Alfano porta a casa la stretta sulle intercettazioni” (Stampa, 29-8). “Processo civile, subito un decreto. Sul penale il governo prende tempo: legge delega sui temi più dibattuti. Novità sulla prescrizione” (Corriere, 29-8). “Pensiamo a un tribunale con competenze più ampie per le imprese” (Renzi, 29-8. Ma il Tribunale delle Imprese l’aveva già istituito il governo Monti nel maggio 2012). “Intercettazioni, nella riforma le linee guida” (Stampa, 30-8). “Renzi: giudici, chi sbaglia paga” (Stampa, 30-8). “La ‘rivoluzione’ giustizia: prescrizione congelata, nuovo falso in bilancio e vacanze dimezzate” (Repubblica, 30-8). “Ferie dei giudici, Orlando frena il premier” (Repubblica, 31-8). “Le 7 mosse ‘sblocca-giustizia’: un decreto e 6 ddl per recuperare efficienza” (Sole 24 Ore, 31-8). Per il governo è urgente solo il processo civile (decreto); non invece prescrizione, falso in bilancio e autoriciclaggio (ddl solo annunciati, senza una maggioranza in Parlamento che li voti).
IMMIGRATI.“Cie, Alfano studia il taglio dei tempi di permanenza e pensa di abbassare il limite di 18 a 4-6 mesi” (l’Unità, 26-3). “Profughi nelle caserme di tutte le Regioni: ecco il piano Alfano” (Repubblica, 15-6). “Al via operazione Spiagge Sicure. Gli italiani stanchi di essere insolentiti da orde di vu’ cumprà, dobbiamo radere al suolo la contraffazione” (Alfano, 11-8). “Alfano: pronti a fermare Mare Nostrum” (Repubblica, 25-8). Approvata una legge delega sui Cie. Per il resto zero. ITALICUM. “Occorre una legge elettorale per scegliere direttamente gli eletti e un tetto di tre mandati parlamentari, senza eccezioni” (Renzi, 3-4-2011. Ma, con le sue “riforme”, i partiti continueranno a nominarsi i deputati e per il Senato si aboliscono addirittura le elezioni. Nessuna traccia dei tre mandati). “Il Porcellum è la peggior legge elettorale possibile, in cui i parlamentari sono nominati” (Renzi, 15-4-2011). Infatti sostituisce la peggior legge elettorale possibile con la peggior legge elettorale possibile, in cui i parlamentari sono più nominati di prima. “Vogliamo una legge elettorale che consenta ai cittadini di scegliere il presidente del Consiglio e i parlamentari in modo libero, come succede nei Comuni. I partiti devono consentire alla gente di scegliersi le persone, perché un cittadino possa guardare in faccia i propri rappresentanti. Poi se fanno bene li conferma, se fanno male li manda a casa e magari i politici proveranno l’ebbrezza di tornare a lavorare” (Renzi, 26-4-2012). “Facciano quel che gli pare, purché lo facciano e che a scegliere siano i cittadini” (Renzi, 1-10-2012). “L’importante è dare ai cittadini la possibilità di scegliere liberamente, non necessariamente di incasellarsi in destra o sinistra. Comunque la pensi, puoi scegliere chi votare di volta in volta in base alla personalità di chi si candida, delle idee che esprime, del programma” (Renzi, 7-11-2012). Ma con le sue “riforme” i partiti seguiteranno a impedire alla gente di scegliere e guardare in faccia i propri rappresentanti. “Il Porcellum non è il male assoluto, peggio c’è solo il proporzionale puro. Ma è molto meglio il Mattarellum: almeno vedi in faccia i parlamentari, perché con queste liste elettorali possono mettere dentro di tutto” (Renzi, 19-11-2013). Ora, con le liste dell’Italicum, Renzi potrà mettere dentro di tutto. “Il Mattarellum è senz’altro migliore del Porcellum: se, per garantire la governabilità, si aggiungesse un premio di maggioranza del 25%, sarebbe perfetto. Ma la soluzione migliore sarebbe la legge elettorale per l’elezione dei sindaci” (Renzi, 22-11-2013). Sia il Mattarellum sia la legge dei sindaci consentono ai cittadini di scegliere: Renzi preferisce l’Italicum, che non lo consente. “Berlusconi e Grillo fanno le larghe intese per conservare il Porcellum” (Renzi, 19-11-2013). PoilelargheinteseconB.lehafatteRenzi per conservare il peggio del Porcellum nell’Italicum. “Nonostante i gufi, la legge elettorale è passata alla Camera ed entro settembre sarà approvata: non ci saranno mai più larghe intese e chi vince governa 5 anni. È una rivoluzione impressionante, chi vince governa. Politica 1 – Disfattismo 0” (Renzi, 12-3-2014). “Italicum entro l’anno” (Renzi, 2-8). Approvato dalla Camera, l’Italicum è uscito dall’agenda parlamentare: insanabili dissensi fra tutti i partiti.
LAVORO. “Il 17 marzo, all’incontro con la Merkel, avrò pronto il piano sul lavoro” (Renzi, 26-2). “Renzi: ora un Jobs Act da 100 miliardi” (l’Unità, 28-2). “Sussidio disoccupazione anche per i precari: 1.000 euro al mese per chi perde il posto. Il piano costerà 8,8 miliardi” (Repubblica, 28-2). “Ecco il Jobs Act targato Renzi: sussidio di disoccupazione anche per i precari. Col Naspi circa 1.000 euro al mese per chi perde il posto” (Repubblica, 1-3). “Il Jobs Act va bene così: tra 10 mesi vedrete i risultati” (Giuliano Poletti, Pd, ministro del Lavoro, Repubblica, 16-3). “Slitta a settembre il Jobs Act” (Corriere, 18-7). Il Jobs Act è un ddl delega spiaggiato in Parlamento. Ora il governo promette di approvarlo entro il 2014. Per i decreti attuativi passerebbe un altro anno.
MAFIA. “Caro Roberto, so che… vi aspettate che la lotta alla criminalità organizzata diventi per davvero la priorità del governo. Questo impegno io lo assumo… Il cuore delle organizzazioni criminali è negli affari… e anche in quel confine sottile, sottilissimo, che esiste tra lecito e illecito con l’appoggio, con il consenso, con la collusione e qualche volta semplicemente col silenzio di chi ha ruoli di responsabilità nella politica, nelle amministrazioni e nell’economia. Sono questi i legami che dobbiamo smascherare e recidere. Faremo un lavoro serio e puntiglioso… per adottare le misure necessarie sul piano legislativo e amministrativo. Con una proposta organica in base al lavoro della commissione istituita a Palazzo Chigi con Cantone e Gratteri per elaborare strumenti e contributi per rendere più incisiva la lotta alla criminalità organizzata… Porterò questi temi anche sui tavoli del semestre Ue. C’è tanto lavoro da fare” (Renzi, lettera aperta a Saviano, Repubblica, 2-3). Niente di fatto, né di annunciato.
MANAGER PUBBLICI. “Abbassando il tetto degli stipendi lordi a quanto guadagna il presidente della Repubblica, circa 250 mila euro l’anno, risparmieremo 500 milioni” (Renzi, 14-3). “Manager di Stato, 500 milioni in meno: tetto a 248 mila euro senza deroghe” (Repubblica, 14-3). “Ecco il ‘tetto’ agli stipendi dei manager pubblici. Da aprile scatta il limite: non oltre 311 mila euro lordi” (l’Unità, 29-3). “Tagli ai manager, mossa del Tesoro. Da aprile scattano i primi risparmi” (Corriere, 25-3). “Da aprile tetto agli stipendi dei manager” (Repubblica, 29-3). “Stretta sui manager pubblici” (Corriere, 29-3). “Stipendi ai manager, subito i tagli” (Corriere, 29-3). “Arriva la stretta sui manager di Stato” (Stampa, 29-3). “Manager, nuova stretta del governo. Stipendi, tetto per tutti i dirigenti: taglio del 25% nelle società quotate” (Repubblica, 30-3). “Il tetto agli stipendi pubblici? Salito di 37 mila euro. Le retribuzioni dei burocrati ancorata alla Cassazione” (Corriere, 6-4). “La sforbiciata sui dirigenti può valere un miliardo l’anno” (Stampa, 8-4). “Gli stipendi dei dirigenti saranno agganciati al Pil. Palazzo Chigi apripista” (Repubblica, 8-4). “Per i superdirigenti il taglio dello stipendio vale fino a 65 mila euro l’anno” (Stampa, 10-4). “Stipendi ridotti a 238 mila euro, ma non per tutti” (Repubblica, 15-4). “Pronto il tetto agli stipendi. I dirigenti divisi in quattro fasce. Riduzioni anche per Bankitalia e Consulta” (Stampa, 18-4). “Dirigenti e manager di Stato, sorpresa di Pasqua amara: nuovo taglio di stipendi. La scure dei 240 mila euro su chi si era salvato dal primo tetto. Ora sacrifici anche in Rai, Ragioneria e vertici Polizia” (Repubblica, 20-4). La norma è passata, ma la platea degli interessati è molto più ristretta del previsto con risparmi di meno di 200 milioni, anziché di 500.
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2.3.14
Giro di boa per il Pd
Rossana Rossanda (sbilanciamoci.info)
Affermare – come ha fatto Matteo Renzi nell'introduzione alla nuova edizione di "Destra e sinistra" di Norberto Bobbio – che il Pd non intende più collocarsi a sinistra conclude l'ultimo giro di boa del partito democratico. Simbolico, ma fa impressione che questo arrivi proprio quando in Italia si superano i 4 milioni di senza lavoro
Si conclude, con il nuovo governo e la sua carta di identità allegata su Repubblica da Matteo Renzi, l’ultimo giro di boa simbolico del Pd. Simbolico, perché nelle scelte concrete era già consumato da un pezzo, ma dare il vero nome ai fatti non è cosa da poco (non è passatempo da giorni festivi, come verseggia Eliot a proposito del nome da dare al proprio gatto). Che il Pd precisi come la sua immagine non debba più essere a sinistra, o di sinistra, riconoscendo come sola discriminante culturale e sociale “il nuovo e il vecchio” non è una gran novità, il concetto ci svolazza attorno da un bel pezzo, ma affermare che il Pd non intende più collocarsi a sinistra resta uno scatto simbolico rilevante. Non solo infatti, come taluni vagheggiavano, non è più in grado di compiere scelte di sinistra, poniamo, da Monti, ma neppure mira più a farle e a questo scopo ha scelto come proprio leader “Matteo” per chiarirlo una volta per tutte. Non in parlamento – nessuno, a cominciare da Giorgio Napolitano ha tempo da perdere – ma su un giornale amico e a governo varato.
Lo fa prendendosi qualche licenza culturale, come citare Norberto Bobbio contro Bobbio esempio di chi, se aveva ragione in passato, non l’avrebbe più oggi, quando la distinzione tra destra e sinistra non avrebbe più senso. Pazienza, oggi ne vediamo di ben altre. Fra le innovazioni trionfanti c’è che ciascuno riveste o spoglia dei panni che più gli aggrada il defunto scelto come ispiratore. Più significativo è che il concetto archiviato indicava il peso assegnato da ogni partito alla questione sociale e dichiararla superata proprio mentre si sfiorano e forse si superano i quattro milioni di senza lavoro, fa impressione. Forse per questo l’ex sindaco di Firenze si era scordato di informarci su quel job act che doveva presentare entro gennaio; ma in primo luogo non risulta che durante le consultazioni qualcuno glielo abbia ricordato, in secondo luogo nel governo se ne occuperà la ministra Guidi, donna imprenditrice esperta in quanto allevata dal padre confindustriale.
Sappiamo dunque che dobbiamo attenderci con il nuovo esecutivo e dobbiamo al Pd tutto il peso, visto che né la sua presidenza né la sua minoranza gli hanno opposto il proprio corpo, al contrario hanno sgombrato il campo sussurrando come il melvilliano Bartleby “preferirei di no”. Della stessa pasta la stampa, affaccendata dal sottolineare lo storico approdo delle donne a metà del governo sottolineando il colore delle giacche e il livello dei tacchi, cosa che dovrebbe far riflettere le leader di “Se non ora quando”. Eccola qui l’Ora, ragazze, non si vede dove stia la differenza.
Il nuovo che avanza ha rilanciato anche Berlusconi, primo interpellato da Renzi per incardinare tutta l’operazione. Condannato da mesi per squallidi reati contro la cosa pubblica ad astenersi dalla politica è stato ricevuto non già dai giudici di sorveglianza, bensì dal capo dello stato per illustrargli quello che pensa e intende fare sul futuro del paese. Per ora appoggia Renzi, rassicurando i suoi che non è un comunista.
Affermare – come ha fatto Matteo Renzi nell'introduzione alla nuova edizione di "Destra e sinistra" di Norberto Bobbio – che il Pd non intende più collocarsi a sinistra conclude l'ultimo giro di boa del partito democratico. Simbolico, ma fa impressione che questo arrivi proprio quando in Italia si superano i 4 milioni di senza lavoro
Si conclude, con il nuovo governo e la sua carta di identità allegata su Repubblica da Matteo Renzi, l’ultimo giro di boa simbolico del Pd. Simbolico, perché nelle scelte concrete era già consumato da un pezzo, ma dare il vero nome ai fatti non è cosa da poco (non è passatempo da giorni festivi, come verseggia Eliot a proposito del nome da dare al proprio gatto). Che il Pd precisi come la sua immagine non debba più essere a sinistra, o di sinistra, riconoscendo come sola discriminante culturale e sociale “il nuovo e il vecchio” non è una gran novità, il concetto ci svolazza attorno da un bel pezzo, ma affermare che il Pd non intende più collocarsi a sinistra resta uno scatto simbolico rilevante. Non solo infatti, come taluni vagheggiavano, non è più in grado di compiere scelte di sinistra, poniamo, da Monti, ma neppure mira più a farle e a questo scopo ha scelto come proprio leader “Matteo” per chiarirlo una volta per tutte. Non in parlamento – nessuno, a cominciare da Giorgio Napolitano ha tempo da perdere – ma su un giornale amico e a governo varato.
Lo fa prendendosi qualche licenza culturale, come citare Norberto Bobbio contro Bobbio esempio di chi, se aveva ragione in passato, non l’avrebbe più oggi, quando la distinzione tra destra e sinistra non avrebbe più senso. Pazienza, oggi ne vediamo di ben altre. Fra le innovazioni trionfanti c’è che ciascuno riveste o spoglia dei panni che più gli aggrada il defunto scelto come ispiratore. Più significativo è che il concetto archiviato indicava il peso assegnato da ogni partito alla questione sociale e dichiararla superata proprio mentre si sfiorano e forse si superano i quattro milioni di senza lavoro, fa impressione. Forse per questo l’ex sindaco di Firenze si era scordato di informarci su quel job act che doveva presentare entro gennaio; ma in primo luogo non risulta che durante le consultazioni qualcuno glielo abbia ricordato, in secondo luogo nel governo se ne occuperà la ministra Guidi, donna imprenditrice esperta in quanto allevata dal padre confindustriale.
Sappiamo dunque che dobbiamo attenderci con il nuovo esecutivo e dobbiamo al Pd tutto il peso, visto che né la sua presidenza né la sua minoranza gli hanno opposto il proprio corpo, al contrario hanno sgombrato il campo sussurrando come il melvilliano Bartleby “preferirei di no”. Della stessa pasta la stampa, affaccendata dal sottolineare lo storico approdo delle donne a metà del governo sottolineando il colore delle giacche e il livello dei tacchi, cosa che dovrebbe far riflettere le leader di “Se non ora quando”. Eccola qui l’Ora, ragazze, non si vede dove stia la differenza.
Il nuovo che avanza ha rilanciato anche Berlusconi, primo interpellato da Renzi per incardinare tutta l’operazione. Condannato da mesi per squallidi reati contro la cosa pubblica ad astenersi dalla politica è stato ricevuto non già dai giudici di sorveglianza, bensì dal capo dello stato per illustrargli quello che pensa e intende fare sul futuro del paese. Per ora appoggia Renzi, rassicurando i suoi che non è un comunista.
21.2.14
Matteo Renzi, anatomia di un capo
Massimo Cacciari (l'Espresso)
Il 'rottamatore' ha lottato coi vecchi prìncipi a viso aperto e ha stravinto, spiazzando tutti. Ma una cosa è conquistare, un'altra è rifondare uno Stato in difficoltà. Per farlo serve una vera squadra di governo, non un seguito di fedeli e nominati. E sono necessarie relazioni non subalterne con i cosiddetti poteri 'forti'
Matteo Renzi “figura del futuro”? Difficile prevederlo, ma certo qualcosa di nuovo è successo, qualcosa che attiene alla storia, al carattere, al volto stesso dell’“eroe”. E non importa nulla se questo qualcosa può non piacere affatto (come non piace al sottoscritto) o addirittura dare scandalo. Anche gli scandali è necessario che avvengano.
È certo, anzitutto, che l’irresistibile ascesa di Renzi mai sarebbe potuta avvenire senza lo stupefacente cupio dissolvi messo in scena dall’anno mirabile ’89 in poi dalla cosidetta sinistra italiana e dal gruppo dirigente del Pd nell’ultima fase. Ma si tratta solo di un rex destruens? Alcune qualità dimostrate dal nostro fanno sperare che no. Intanto, al potere ci è andato senza l’aiuto di “armi straniere”; ha lottato coi vecchi prìncipi a viso aperto e ha stravinto. Ne ha sfruttato impietosamente amletismi, lotte intestine, fallimenti. Di contro a un ethos politico soffocato nell’arte del rimando, della mezza misura, del galleggiare, ha messo in campo una spregiudicatezza decisionistica, un gusto per la sfida e l’arrischio, che ha sorpreso e spiazzato tutti (me compreso).
Doti essenziali dell’animale politico: smisurata ambizione, volontà di potere, capacità di afferrare per il ciuffo l’Occasio quando passa, senza riflettere troppo sulle conseguenze: pensare frena, se non arresta – legge ben nota. Fare o non fare, questo il dilemma – essere o non essere è “filosofia”.
Non importa se l’uomo della sacralità delle primarie va al governo more prima repubblica; non importa se una settimana prima dichiarava di non essere interessato né a staffette né a rimpasti; non importa se ha finto primarie per la segreteria di un partito all’unico fine di giungere alla premiership. La maschera fa parte del gioco politico e anche l’inganno qui è elemento dell’“arte”. Avrebbe potuto attendere ancora? Necessario, allora, allearsi a Letta. E rimandare tutto a quando? Mentre la grande occasione passava: governo debolissimo, opposizione groggy nel Pd, Paese che sembra invocare un Capo dalle Alpi al Lilibeo.
Ammirevole soprattutto l’uno-due formidabile inflitto alla minoranza Pd: senza darle neppure il tempo di riflettere sulla propria catastrofe alle primarie, la costringe a defenestrare Letta e farsi votare la fiducia! Rovesciando le stesse palesi aspettative di Napolitano! Sì, qui qualcosa ha rotto tradizioni e costumi del politichese nostrano. I paralleli con personaggi e situazioni passate non reggono. Solo alcuni tratti della retorica avvicinano Renzi a Berlusconi, ma Berlusconi non è mai stato un “politico di professione”; catapultato al governo dallo sciagurato duetto Occhetto-Segni, ha trasformato in partito Mediaset mescolandolo a quarte file di Psi e Dc e “compromettendolo” ora con Lega, ora con ex-Msi.
Al di là delle apparenze Berlusconi è stato sempre un uomo di mediazioni, un prodotto della prima Repubblica nel suo stadio senile. Renzi no: il partito se l’è conquistato dall’interno e non pare ora disposto a fare molti prigionieri. Un po’ come Craxi. La sua linea e il suo stesso carattere esigono che tenti di combinare un partito a sua immagine e somiglianza. D’altra parte quello di prima neppure era nato. Ancor meno vale il parallelo con il D’Alema al governo. Prodi non era del partito di D’Alema, né erano stati i Democratici di Sinistra a farlo cadere. La novitas di un segretario di partito che sfiducia apertamente il governo retto da un proprio rappresentante, senza la benchè minima “condivisione” da parte di quest’ultimo (ma neppure, al momento, una vera reazione) è davvero, credo, qualcosa di inedito nella storia politica europea del dopoguerra. Di un D’Alema Renzi ha forse la stessa sfrenata ambizione, ma lo zavorrano meno letture, meno “anni di apprendistato” in campo politico e diplomatico.
D’Alema appartiene all’epoca de: «Il problema è complesso», «la questione è politica». Renzi a quella del linguaggio diretto, ultra-semplificato, ridotto a immagine,proprio dei nuovi media. Rappresentano epoche diverse e antropologicamente incompatibili. È nato un Capo? Le prime virtù di un innovatore Renzi ha mostrato di averle, e di queste si è parlato finora. Per prendere il potere, oltre naturalmente a molta fortuna e alla debolezza altrui, sono necessari “colpo d’occhio”, rapidità di decisione, semplicità e concretezza delle promesse con cui si mobilita il “popolo sovrano”.
Doti di cui nessun altro politico italiano attualmente sembra disporre. Ma che se esistono da sole portano inesorabilmente alla disfatta chi le possiede. Esse infatti inducono naturalmente all’impazienza, alla superbia, a una bulimica sacra fames di comando – insomma, a precipitare. Una cosa è conquistare, altra è costituire uno stato o rifondarlo. Si tratta di due virtù che dovrebbero sempre congiungersi nell’autentica vocazione politica, ma è assai arduo che ciò avvenga.
Per un Paese dissestato, per un sistema inetto a riformarsi come il nostro, il loro accordo sarebbe quanto mai necessario. Possibile anche? Renzi, liquidando Letta, non ha soltanto promesso, ma garantito agli italiani che lui ne sarà capace. Mossa coraggiosa. Aut-aut che liquida gli eterni e-e della politica italiana. Il “carattere” Renzi, o il suo “dèmone”, saranno all’altezza di questo compito, come lo sono stati nel rottamare la nomenklatura di uno psuedo-partito e un governo di esangue compromesso?
Lo sanno che sarà necessaria all’uopo una vera squadra di governo, e non solo un seguito di fedeli e nominati? Lo sanno che governare oggi, nell’epoca del tramonto del potere statuale, significa relazioni forti, ma non subalterne, con poteri che nulla hanno a che spartire con democrazie, primarie e le loro retoriche? Non ci resta che sperarlo.
La speranza è l’ultimo dei mali che ci hanno riservato gli dèi.
Il 'rottamatore' ha lottato coi vecchi prìncipi a viso aperto e ha stravinto, spiazzando tutti. Ma una cosa è conquistare, un'altra è rifondare uno Stato in difficoltà. Per farlo serve una vera squadra di governo, non un seguito di fedeli e nominati. E sono necessarie relazioni non subalterne con i cosiddetti poteri 'forti'
Matteo Renzi “figura del futuro”? Difficile prevederlo, ma certo qualcosa di nuovo è successo, qualcosa che attiene alla storia, al carattere, al volto stesso dell’“eroe”. E non importa nulla se questo qualcosa può non piacere affatto (come non piace al sottoscritto) o addirittura dare scandalo. Anche gli scandali è necessario che avvengano.
È certo, anzitutto, che l’irresistibile ascesa di Renzi mai sarebbe potuta avvenire senza lo stupefacente cupio dissolvi messo in scena dall’anno mirabile ’89 in poi dalla cosidetta sinistra italiana e dal gruppo dirigente del Pd nell’ultima fase. Ma si tratta solo di un rex destruens? Alcune qualità dimostrate dal nostro fanno sperare che no. Intanto, al potere ci è andato senza l’aiuto di “armi straniere”; ha lottato coi vecchi prìncipi a viso aperto e ha stravinto. Ne ha sfruttato impietosamente amletismi, lotte intestine, fallimenti. Di contro a un ethos politico soffocato nell’arte del rimando, della mezza misura, del galleggiare, ha messo in campo una spregiudicatezza decisionistica, un gusto per la sfida e l’arrischio, che ha sorpreso e spiazzato tutti (me compreso).
Doti essenziali dell’animale politico: smisurata ambizione, volontà di potere, capacità di afferrare per il ciuffo l’Occasio quando passa, senza riflettere troppo sulle conseguenze: pensare frena, se non arresta – legge ben nota. Fare o non fare, questo il dilemma – essere o non essere è “filosofia”.
Non importa se l’uomo della sacralità delle primarie va al governo more prima repubblica; non importa se una settimana prima dichiarava di non essere interessato né a staffette né a rimpasti; non importa se ha finto primarie per la segreteria di un partito all’unico fine di giungere alla premiership. La maschera fa parte del gioco politico e anche l’inganno qui è elemento dell’“arte”. Avrebbe potuto attendere ancora? Necessario, allora, allearsi a Letta. E rimandare tutto a quando? Mentre la grande occasione passava: governo debolissimo, opposizione groggy nel Pd, Paese che sembra invocare un Capo dalle Alpi al Lilibeo.
Ammirevole soprattutto l’uno-due formidabile inflitto alla minoranza Pd: senza darle neppure il tempo di riflettere sulla propria catastrofe alle primarie, la costringe a defenestrare Letta e farsi votare la fiducia! Rovesciando le stesse palesi aspettative di Napolitano! Sì, qui qualcosa ha rotto tradizioni e costumi del politichese nostrano. I paralleli con personaggi e situazioni passate non reggono. Solo alcuni tratti della retorica avvicinano Renzi a Berlusconi, ma Berlusconi non è mai stato un “politico di professione”; catapultato al governo dallo sciagurato duetto Occhetto-Segni, ha trasformato in partito Mediaset mescolandolo a quarte file di Psi e Dc e “compromettendolo” ora con Lega, ora con ex-Msi.
Al di là delle apparenze Berlusconi è stato sempre un uomo di mediazioni, un prodotto della prima Repubblica nel suo stadio senile. Renzi no: il partito se l’è conquistato dall’interno e non pare ora disposto a fare molti prigionieri. Un po’ come Craxi. La sua linea e il suo stesso carattere esigono che tenti di combinare un partito a sua immagine e somiglianza. D’altra parte quello di prima neppure era nato. Ancor meno vale il parallelo con il D’Alema al governo. Prodi non era del partito di D’Alema, né erano stati i Democratici di Sinistra a farlo cadere. La novitas di un segretario di partito che sfiducia apertamente il governo retto da un proprio rappresentante, senza la benchè minima “condivisione” da parte di quest’ultimo (ma neppure, al momento, una vera reazione) è davvero, credo, qualcosa di inedito nella storia politica europea del dopoguerra. Di un D’Alema Renzi ha forse la stessa sfrenata ambizione, ma lo zavorrano meno letture, meno “anni di apprendistato” in campo politico e diplomatico.
D’Alema appartiene all’epoca de: «Il problema è complesso», «la questione è politica». Renzi a quella del linguaggio diretto, ultra-semplificato, ridotto a immagine,proprio dei nuovi media. Rappresentano epoche diverse e antropologicamente incompatibili. È nato un Capo? Le prime virtù di un innovatore Renzi ha mostrato di averle, e di queste si è parlato finora. Per prendere il potere, oltre naturalmente a molta fortuna e alla debolezza altrui, sono necessari “colpo d’occhio”, rapidità di decisione, semplicità e concretezza delle promesse con cui si mobilita il “popolo sovrano”.
Doti di cui nessun altro politico italiano attualmente sembra disporre. Ma che se esistono da sole portano inesorabilmente alla disfatta chi le possiede. Esse infatti inducono naturalmente all’impazienza, alla superbia, a una bulimica sacra fames di comando – insomma, a precipitare. Una cosa è conquistare, altra è costituire uno stato o rifondarlo. Si tratta di due virtù che dovrebbero sempre congiungersi nell’autentica vocazione politica, ma è assai arduo che ciò avvenga.
Per un Paese dissestato, per un sistema inetto a riformarsi come il nostro, il loro accordo sarebbe quanto mai necessario. Possibile anche? Renzi, liquidando Letta, non ha soltanto promesso, ma garantito agli italiani che lui ne sarà capace. Mossa coraggiosa. Aut-aut che liquida gli eterni e-e della politica italiana. Il “carattere” Renzi, o il suo “dèmone”, saranno all’altezza di questo compito, come lo sono stati nel rottamare la nomenklatura di uno psuedo-partito e un governo di esangue compromesso?
Lo sanno che sarà necessaria all’uopo una vera squadra di governo, e non solo un seguito di fedeli e nominati? Lo sanno che governare oggi, nell’epoca del tramonto del potere statuale, significa relazioni forti, ma non subalterne, con poteri che nulla hanno a che spartire con democrazie, primarie e le loro retoriche? Non ci resta che sperarlo.
La speranza è l’ultimo dei mali che ci hanno riservato gli dèi.
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31.1.14
La legge elettorale salva-Casta e la rottamazione della democrazia
Raniero La Valle (MicroMega)
Ha fatto presto Berlusconi a innalzare il suo trofeo: queste – ha detto – non sono le riforme di Renzi, sono le mie riforme, che io perseguo da vent’anni, fin dalla mia discesa in campo. E Renzi si è vantato di aver fatto in un mese ciò che gli altri non erano riusciti a fare per vent’anni; gli altri, cioè, appunto, Berlusconi.
Sicché non a torto i costituzionalisti, criticando la legge elettorale presentata dai due, e giudicandola peggiore del “Porcellum”, hanno scritto che “l’abilità del segretario del PD è consistita nell’essere riuscito a far accettare alla destra più o meno la vecchia legge elettorale da essa varata nel 2005 e oggi dichiarata incostituzionale”.
Nel trofeo innalzato dall’uno e dall’altro non c’è però solo la legge elettorale, c’è anche l’abolizione del Senato e la modifica dell’ordinamento costituzionale delle Regioni. Che poi davvero queste tre riforme vadano in porto è tutto da vedere: gli emendamenti piovono copiosi, l’accordo PD-Forza Italia è presentato come un prendere o lasciare, e con questi metodi prepotenti così lontani dalla mediazione politica, diventa molto probabile che si sfasci tutto, a cominciare dal governo.
In ogni caso, fatta la legge, c’è chi vorrebbe subito usarla per andare a votare; ma questa legge non lo permette, a meno di sprofondare nel caos. Ancora nessuno lo ha detto, ma finché c’è il Senato, che ha un elettorato diverso per età da quello della Camera, c’è il rischio di due risultati difformi nei due rami del Parlamento: o che il premio di maggioranza nella Camera dei deputati vada a una coalizione diversa ed opposta rispetto a quella del Senato, o che scatti al primo turno per una Camera e solo col ballottaggio per l’altra: altro che sapere la sera stessa delle elezioni chi ha vinto e governa!
A noi interessa però guardare un po’ più lontano nel futuro, e intanto cercare di capire perché Berlusconi, Renzi e il Partito Democratico abbiano concordato e fatto proprie queste tre riforme.
Per quanto riguarda Berlusconi è chiaro. Il “Porcellum” è un diritto illegittimo, perché in contrasto con la Costituzione; ma solo con un diritto illegittimo, che trasforma una minoranza nell’unica forza dominante in Parlamento, a fronte di un’opposizione ridotta di numero e resa impotente, si può realizzare il progetto di un capo populista della destra che diventa padrone di tutto lo Stato. Il cosiddetto “Italicum”, ad onta della sentenza della Corte costituzionale, riproduce, aggravato, questo modello di diritto illegittimo.
Anche nella forma esso non si presenta come una nuova legge elettorale, ma come la vecchia legge corretta per via di emendamenti; come tale lascia intatta la logica del “Porcellum”, e in particolare lascia in vigore l’art. 14 bis che tendeva a ridurre la costellazione politica, sia pure bipolare, a due soli partiti. Infatti esso pretende che i partiti che confluiscono in una coalizione perdano qualsiasi identità ed autonomia: essi devono avere lo stesso programma del partito maggiore, lo stesso capo (anche se interdetto?) e se non superano una certa soglia di voti non hanno diritto ad entrare con propri rappresentanti in Parlamento. Insomma Alfano deve avere per capo Berlusconi e Vendola Renzi.
Salvo modifiche che possano essere portate all’ultima ora (ma dai suoi proponenti il testo è stato presentato come blindato) il progetto Renzi-Berlusconi innalza la soglia di sbarramento per i partiti coalizzati dal 2 al 5 per cento[1], e quella per i partiti non coalizzati al livello proibitivo dell’8 per cento dei voti (impossibile da raggiungere anche per la Lega). Le coalizioni, poi, per essere ammesse alla ripartizione dei seggi, dovrebbero avere almeno il 12 per cento dei suffragi, che altrimenti diventano inutili.
A questa prima distorsione del risultato si aggiunge il premio di maggioranza che sarebbe dato, al primo turno o al ballottaggio, al partito o alla coalizione che abbia raggiunto il 35 per cento dei voti (che Berlusconi non vuole alzare perché conta di vincere al primo turno[2]) e che otterrebbe tra il 53 e il 55 per cento dei seggi. Ciò renderebbe del tutto sproporzionato, contro la sentenza della Corte, il rapporto tra voti conseguiti e seggi assegnati, alterando irrimediabilmente la rappresentanza. Di più, nel nuovo “Porcellum” c’è la conferma delle liste bloccate, anche se più corte, senza alcuna possibilità di scelta da parte dei cittadini.
Così configurata, la nuova legge elettorale distrugge il pluralismo politico, e cioè lo specifico della democrazia; non solo toglie i cespugli, cioè – come dice Renzi – libera i partiti maggiori dal “ricatto dei piccoli partiti”, ma toglie tutti gli alberi del bosco lasciandone solo uno a dominare il deserto e un altro, mutilato e umiliato, a riceverne l’ombra come parte di un unico sistema. In tal modo le elezioni invece che essere una scelta tra diverse opzioni politiche per il governo del Paese, si trasformano in una successione ereditaria per la quale il potere già esistente perpetua se stesso aggiornando di volta in volta per cooptazione le nomenclature al comando nei due partiti. Dopo tante invettive contro la casta una legge più castale di così non si poteva immaginare.
Quanto al Senato è evidente l’interesse di Berlusconi ad abolirlo: dal suo punto di vista non solo la Camera Alta, ma tutto il Parlamento è una spesa inutile; per la Camera aveva già detto che basterebbe che si riunissero i capigruppo per decidere ogni cosa, e quanto al rapporto di fiducia col governo non c’è nessun bisogno del Parlamento, basta la fiducia dei cittadini. Riguardo poi al titolo V della Costituzione se il Senato e i partiti sono enti inutili, figurarsi se ci si può far scrupolo delle Regioni, che di tutto il sistema sono le peggio riuscite.
Ma se per Berlusconi le ragioni di queste scelte sono chiare, non lo sono affatto per Renzi. La sua dovrebbe essere un’altra cultura; certo potrebbero influire l’inesperienza dell’età, la presunzione del narcisismo, la malagrazia nei rapporti personali, soprattutto con i dissenzienti, l’azzardo del gioco politico, ma un segretario del PD che d’accordo con Berlusconi crei le condizioni per l’instaurazione del regime berlusconiano non è spiegabile. Finora ciò è stato impedito dalla resistenza della Costituzione, dal controllo di legittimità della magistratura, dalle scelte, anche referendarie, dell’elettorato, dall’opposizione delle forze democratiche e dello stesso PD; ed ecco che ora al regime interdetto viene di nuovo spalancata la porta del potere: “con questa legge – ha detto Brunetta – stravinciamo”.
Probabilmente ciò di cui è vittima Renzi è la sindrome del Truman-show, del reality, per cui crede che quello che appare in televisione c’è nella realtà; e in televisione c’è il mito Renzi, il vincitore, e crede che questo mito non possa avere smentite.
Resta da chiedersi perché il Partito Democratico è entrato in questa fase di rottamazione. Non è vero che la sua classe dirigente anelasse da anni a queste riforme per restare sola al comando. C’era anzi l’idea di essere eredi di un’investitura nobiliare da salvatori della democrazia. Però si è aperto un vuoto. C’è stata una rottura più forte di quella provocata dalla “vocazione maggioritaria” di Veltroni, c’è stata la perdita delle sue culture. Il Partito Democratico ne aveva raccolte due: della cultura comunista aveva buttato l’acqua sporca insieme al bambino, restando privo di economia politica; della cultura cattolica aveva intercettato solo i residui della versione democristiana, restando irraggiungibile dalle novità della Chiesa conciliare e tanto più, ora dalla critica di sistema di papa Francesco.
Se queste sono le ragioni del disastro, le ragioni della rinascita possono essere solo nell’avvento di nuove culture politiche e di nuovi partiti. Senza cultura e senza partiti la democrazia non si fa. Ma essi devono essere all’altezza di una vocazione europea e mondiale e pari alla sfida della incalzante controrivoluzione postnovecentesca.
NOTE
[1] Un ulteriore accordo tra Renzi e Berlusconi ha previsto un piccolo sconto in questo sbarramento, dal 5 al 4,5 per cento.
[2] Nel nuovo accordo con Renzi Berlusconi ha concesso di portare la soglia per il premio di maggioranza dal 35 al 37 per cento.
Ha fatto presto Berlusconi a innalzare il suo trofeo: queste – ha detto – non sono le riforme di Renzi, sono le mie riforme, che io perseguo da vent’anni, fin dalla mia discesa in campo. E Renzi si è vantato di aver fatto in un mese ciò che gli altri non erano riusciti a fare per vent’anni; gli altri, cioè, appunto, Berlusconi.
Sicché non a torto i costituzionalisti, criticando la legge elettorale presentata dai due, e giudicandola peggiore del “Porcellum”, hanno scritto che “l’abilità del segretario del PD è consistita nell’essere riuscito a far accettare alla destra più o meno la vecchia legge elettorale da essa varata nel 2005 e oggi dichiarata incostituzionale”.
Nel trofeo innalzato dall’uno e dall’altro non c’è però solo la legge elettorale, c’è anche l’abolizione del Senato e la modifica dell’ordinamento costituzionale delle Regioni. Che poi davvero queste tre riforme vadano in porto è tutto da vedere: gli emendamenti piovono copiosi, l’accordo PD-Forza Italia è presentato come un prendere o lasciare, e con questi metodi prepotenti così lontani dalla mediazione politica, diventa molto probabile che si sfasci tutto, a cominciare dal governo.
In ogni caso, fatta la legge, c’è chi vorrebbe subito usarla per andare a votare; ma questa legge non lo permette, a meno di sprofondare nel caos. Ancora nessuno lo ha detto, ma finché c’è il Senato, che ha un elettorato diverso per età da quello della Camera, c’è il rischio di due risultati difformi nei due rami del Parlamento: o che il premio di maggioranza nella Camera dei deputati vada a una coalizione diversa ed opposta rispetto a quella del Senato, o che scatti al primo turno per una Camera e solo col ballottaggio per l’altra: altro che sapere la sera stessa delle elezioni chi ha vinto e governa!
A noi interessa però guardare un po’ più lontano nel futuro, e intanto cercare di capire perché Berlusconi, Renzi e il Partito Democratico abbiano concordato e fatto proprie queste tre riforme.
Per quanto riguarda Berlusconi è chiaro. Il “Porcellum” è un diritto illegittimo, perché in contrasto con la Costituzione; ma solo con un diritto illegittimo, che trasforma una minoranza nell’unica forza dominante in Parlamento, a fronte di un’opposizione ridotta di numero e resa impotente, si può realizzare il progetto di un capo populista della destra che diventa padrone di tutto lo Stato. Il cosiddetto “Italicum”, ad onta della sentenza della Corte costituzionale, riproduce, aggravato, questo modello di diritto illegittimo.
Anche nella forma esso non si presenta come una nuova legge elettorale, ma come la vecchia legge corretta per via di emendamenti; come tale lascia intatta la logica del “Porcellum”, e in particolare lascia in vigore l’art. 14 bis che tendeva a ridurre la costellazione politica, sia pure bipolare, a due soli partiti. Infatti esso pretende che i partiti che confluiscono in una coalizione perdano qualsiasi identità ed autonomia: essi devono avere lo stesso programma del partito maggiore, lo stesso capo (anche se interdetto?) e se non superano una certa soglia di voti non hanno diritto ad entrare con propri rappresentanti in Parlamento. Insomma Alfano deve avere per capo Berlusconi e Vendola Renzi.
Salvo modifiche che possano essere portate all’ultima ora (ma dai suoi proponenti il testo è stato presentato come blindato) il progetto Renzi-Berlusconi innalza la soglia di sbarramento per i partiti coalizzati dal 2 al 5 per cento[1], e quella per i partiti non coalizzati al livello proibitivo dell’8 per cento dei voti (impossibile da raggiungere anche per la Lega). Le coalizioni, poi, per essere ammesse alla ripartizione dei seggi, dovrebbero avere almeno il 12 per cento dei suffragi, che altrimenti diventano inutili.
A questa prima distorsione del risultato si aggiunge il premio di maggioranza che sarebbe dato, al primo turno o al ballottaggio, al partito o alla coalizione che abbia raggiunto il 35 per cento dei voti (che Berlusconi non vuole alzare perché conta di vincere al primo turno[2]) e che otterrebbe tra il 53 e il 55 per cento dei seggi. Ciò renderebbe del tutto sproporzionato, contro la sentenza della Corte, il rapporto tra voti conseguiti e seggi assegnati, alterando irrimediabilmente la rappresentanza. Di più, nel nuovo “Porcellum” c’è la conferma delle liste bloccate, anche se più corte, senza alcuna possibilità di scelta da parte dei cittadini.
Così configurata, la nuova legge elettorale distrugge il pluralismo politico, e cioè lo specifico della democrazia; non solo toglie i cespugli, cioè – come dice Renzi – libera i partiti maggiori dal “ricatto dei piccoli partiti”, ma toglie tutti gli alberi del bosco lasciandone solo uno a dominare il deserto e un altro, mutilato e umiliato, a riceverne l’ombra come parte di un unico sistema. In tal modo le elezioni invece che essere una scelta tra diverse opzioni politiche per il governo del Paese, si trasformano in una successione ereditaria per la quale il potere già esistente perpetua se stesso aggiornando di volta in volta per cooptazione le nomenclature al comando nei due partiti. Dopo tante invettive contro la casta una legge più castale di così non si poteva immaginare.
Quanto al Senato è evidente l’interesse di Berlusconi ad abolirlo: dal suo punto di vista non solo la Camera Alta, ma tutto il Parlamento è una spesa inutile; per la Camera aveva già detto che basterebbe che si riunissero i capigruppo per decidere ogni cosa, e quanto al rapporto di fiducia col governo non c’è nessun bisogno del Parlamento, basta la fiducia dei cittadini. Riguardo poi al titolo V della Costituzione se il Senato e i partiti sono enti inutili, figurarsi se ci si può far scrupolo delle Regioni, che di tutto il sistema sono le peggio riuscite.
Ma se per Berlusconi le ragioni di queste scelte sono chiare, non lo sono affatto per Renzi. La sua dovrebbe essere un’altra cultura; certo potrebbero influire l’inesperienza dell’età, la presunzione del narcisismo, la malagrazia nei rapporti personali, soprattutto con i dissenzienti, l’azzardo del gioco politico, ma un segretario del PD che d’accordo con Berlusconi crei le condizioni per l’instaurazione del regime berlusconiano non è spiegabile. Finora ciò è stato impedito dalla resistenza della Costituzione, dal controllo di legittimità della magistratura, dalle scelte, anche referendarie, dell’elettorato, dall’opposizione delle forze democratiche e dello stesso PD; ed ecco che ora al regime interdetto viene di nuovo spalancata la porta del potere: “con questa legge – ha detto Brunetta – stravinciamo”.
Probabilmente ciò di cui è vittima Renzi è la sindrome del Truman-show, del reality, per cui crede che quello che appare in televisione c’è nella realtà; e in televisione c’è il mito Renzi, il vincitore, e crede che questo mito non possa avere smentite.
Resta da chiedersi perché il Partito Democratico è entrato in questa fase di rottamazione. Non è vero che la sua classe dirigente anelasse da anni a queste riforme per restare sola al comando. C’era anzi l’idea di essere eredi di un’investitura nobiliare da salvatori della democrazia. Però si è aperto un vuoto. C’è stata una rottura più forte di quella provocata dalla “vocazione maggioritaria” di Veltroni, c’è stata la perdita delle sue culture. Il Partito Democratico ne aveva raccolte due: della cultura comunista aveva buttato l’acqua sporca insieme al bambino, restando privo di economia politica; della cultura cattolica aveva intercettato solo i residui della versione democristiana, restando irraggiungibile dalle novità della Chiesa conciliare e tanto più, ora dalla critica di sistema di papa Francesco.
Se queste sono le ragioni del disastro, le ragioni della rinascita possono essere solo nell’avvento di nuove culture politiche e di nuovi partiti. Senza cultura e senza partiti la democrazia non si fa. Ma essi devono essere all’altezza di una vocazione europea e mondiale e pari alla sfida della incalzante controrivoluzione postnovecentesca.
NOTE
[1] Un ulteriore accordo tra Renzi e Berlusconi ha previsto un piccolo sconto in questo sbarramento, dal 5 al 4,5 per cento.
[2] Nel nuovo accordo con Renzi Berlusconi ha concesso di portare la soglia per il premio di maggioranza dal 35 al 37 per cento.
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6.12.13
Doppio turno alla francese, che qualcuno ce ne scampi
Via il Senato e doppio turno alle elezioni come in Francia. Sarebbe questo,stando a la Repubblica, l’accordo tra Enrico Letta e Matteo Renzi(proclamato segretario del Pd prima delle primarie).
Nel Paese in cui si considera la governabilità un totem a discapito della sovranità («che appartiene al popolo) e della democrazia e nel giubilo collettivo anti-Porcellum, ci si dimentica qualche caratteristica particolare del suddetto sistema elettorale che – è bene ricordarlo – premia la stabilità a discapito dell’effettiva rappresentatività, generando maggioranze bulgare con una fetta minoritaria di voti su scala nazionale (il sistema elettorale francese è basato sui collegi e i seggi sono suddivisi in basse alla vittoria del candidato X nel collegio Y).
Prendiamo proprio l’esempio della Francia (grafico realizzato da YouTrend):

Come si può notare, vi è un forte indice di disproporzionalità che, se da un lato penalizza i partiti esterni alla coalizione vincente (due su tutti: Front National e Front De Gauche), dall’altro favorisce (e di molto) il Partito Socialista e gli alleati.
Numeri alla mano, il Front National, con il 13%, ha ottenuto appena due seggi (lo 0,4%, con un tasso di disproporzionalità del 12,81%). Il Front De Gauche(non alleato con il PS), con il 6,9%, ne ha guadagnati dieci (l’1,7%; indice di disproporzionalità: 3,92%). Il Parti Radicale de Gauche – in virtù dell’alleanza con i socialisti – ne ha ottenuti 12 con l’1,7%. Stesso discorso per la Divers Gauche che, con il 3,4%, si è ritrovata con 22 seggi.
Quello francese, quindi, è un sistema elettorale ricattatorio, che di fatto obbliga i partiti (in modo particolare quelli più piccoli) a coalizzarsi per non sparire e/o per avere un peso all’interno dell’Assemblea Nazionale. In Italia, ci sarebbe il rischio di ritrovarsi con un’Armata Brancaleone (in pratica con l’Unione) e con l’impossibilità di creare un’alternativa di sinistra al Pd o di destra a Berlusconi.
Ma non è finita qui: il sistema francese, il cui obiettivo è garantire un governo stabile e duraturo, può avere fortuna in tal senso in un Paese bipolare o bipartitico. Essendo emerso il fenomeno del M5S (che ha già dato prova, a Parma, di poter vincere i doppi turni), paradossalmente ci sarebbe persino la possibilità di non avere alcuna maggioranza, visto che il calcolo dei seggi avviene sulle vittorie dei candidati nei collegi e non sul numero dei voti ottenuto su scala nazionale.
Ma ci sarebbe una variabile ben peggiore dell’instabilità, che in pochi prendono in considerazione: nel 1993, in Francia, il centrodestra prese il 58% dei voti al secondo turno. Sapete quanti seggi ottenne grazie ai collegi? L’84%. Nemmeno la Legge Acerbo voluta da Mussolini arrivava a tanto.
P.S. Aggiungo al post un commento integrativo di Matteo Marchetti:
Dovresti anche ricordare che è completamente diverso il sistema istituzionale: il presidente francese (eletto direttamente o quasi) detiene l’esecutivo, il primo ministro è un suo delegato. In un sistema parlamentare come quello italiano, dove il presidente del consiglio dovrebbe contare meno (e ricevere la fiducia dal parlamento, meccanismo già saltato da tempo), avere maggioranze simili equivale a potere assoluto. Pensiamo allo scempio della Costituzione che avrebbe potuto fare lo Chirac del 1993 in Italia. Già due volte – con il Mattarellum e l’attuale norma – abbiamo varato leggi elettorali in palese contrasto con l’intenzione del nostro impianto istituzionale, di fatto varando delle riforme costituzionali attraverso leggi ordinarie. Il Mattarellum del 93 puntava a distruggere il “consociativismo” e dare stabilità all’esecutivo; il porcellum di fatto legava le sorti delle Camere a quelle dei governi (bisogna indicare il nome del “capo”). Ora che si è assodata l’impossibilità di varare la controriforma della Costituzione, vi si procede al solito per via obliqua.
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