Il modello vincente della società aperta consente la condivisione del saperi in nome dell'economia di mercato. Una critica alla proprietà intellettuale e al mondo dell'«open source» nel libro «Open non è free» del gruppo di ricerca Ippolita
BENEDETTO VECCHI
Un percorso di ricerca teorica contempla sempre un bivio. Il primo tratto di strada coincide sempre con un più o meno lungo apprendistato del sapere, delle riflessioni e delle elaborazioni che si sono accumulate nel tempo attorno all'oggetto di ricerca. Ma una volta consumata questa fase della ricerca, si pone la domanda se continuare sul sentiero del già noto, oppure vivisezionare, smontare gli elementi teorici fin lì acquisiti. A questo secondo genere di operazione appartiene il libro Open non è free (Eleuthera, pp. 127, € 11), scritto da Ippolita, il nome dietro cui si è raccolto un gruppo di otto persone che da anni si occupano, a vario titolo, di etica hacker, free software, mediattivismo. In questo caso, l'oggetto su cui si applica Ippolita è il free software, cioè quel campo specifico in cui si manifesta una forma di vita che esprime alterità rispetto alla società costituita. Il primo pregio del libro sta nella dichiarazione di un ambizioso obiettivo: nessuna intenzione di aderire a una qualsiasi visione totalizzante delle relazioni sociali, quanto la pacata convinzione che solo partendo da un oggetto specifico, il software libero, si possa giungere a «decrittare» il reale. Al tempo stesso, Open non è free è un libro che sottolinea sin dall'inizio la presa di congedo da quanto è stato accumulato attorno a questo tema. Gli autori sono a ragione convinti che molti piani di una ideale biblioteca possono essere riempiti da analisi e riflessioni sul freesoftware. Il problema non è però di censirle o passarle in rassegna, ma di operare appunto una critica del senso comune che tali libri hanno contribuito a costruire, sommato al fatto, indiscutibile, che lo sviluppo di programmi per computer non sottoposti alle norme della proprietà intellettuale ha cambiato il mondo dentro e fuori lo schermo.
Il bazar della creatività
È oramai storia che Richard Stallman ha dato vita al progetto della Free software foundation, progetto che non è limitato solo alla denuncia della logica sottesa al copyright in quanto diritto proprietario dell'impresa, ma che si proponeva anche lo sviluppo collettivo di un sistema operativo libero. Altrettanto conosciuto è il fatto che lo stesso Stallman fu fortemente criticato da Eric Raymond per aver fatto suo un modello organizzativo accentratore e gerarchico, chiamato della «cattedrale», a cui era preferibile un modello cooperativo chiamato del «bazar» (il testo di Raymond è consultabile nel sito www.apogeonline.com).
Una critica antigerarchica che si accompagnava però all'obiettivo di trasformare i risultati di quel «bazar» informatico in attività economica. Per Raymond il software cooperativo era di qualità migliore di quello «proprietario», perché poteva avera una verifica «di massa» all'interno di una comunità fondata su affinità elettive, fortemente meritocratiche e che fanno della ricerca della creatività un culto. Era dunque tempo, sosteneva Raymond, di tradurre questa cooperazione sociale in attività produttiva che puntasse a scardinare il monopolio acquisito dalla Microsoft nel campo dei sistemi operativi e dei programmi applicativi. Per questi motivi era preferibile l'espressione open source a quello di free software. Il resto è oramai cronaca. Gnu-Linux è infatti diventato un temuto concorrente di Bill Gates e molte grandi imprese dell'high-tech sono diventate sponsor di prodotti open source.
Questa messa a fuoco delle differenza tra open source e free software costituisce il secondo pregio del volume di Ippolita. A prima vista sembra la classica distinzione tra «pragmatici» e «radicali», i primi interessati alla materialità del mercato, i secondi eterni Peter Pan fedeli alla linea dell'«etica hacker». Una distinzione che tende ad occultare il fatto che ogni coder, cioè chi scrive i programmi per computer, conosce benissimo: una volta installato in una macchina, il software trasforma sempre la realtà a cui si applica. Da qui la sostanziale differenza tra programmi close, cioè di proprietà di una impresa, e quelli che possono essere modificati e che sono il risultato di una cooperazione allargata: in questo caso, lo sviluppo cooperativo di un software è l'incarnazione di una «ecologia del desiderio» che non risponde a logiche mercantili. In altri termini, l'«etica hacker» privilegia sempre l'aspetto ludico, appunto desiderante della messa in comune di abilità e conoscenze: si pone cioè anni luce lontana dall'agire economico.
Il mondo open source, anche se spesso parla la stessa lingua del free software, punta tuttavia a neutralizzare gli aspetti «sovversivi» di questa ecologia del desiderio in nome della sana competizione contro i monopolisti della conoscenza. Di conseguenza, l'open source altro non sarebbe dunque che una versione libertaria del neoliberismo economico.
Open non è free va dunque letto attentamente per questa critica serrata del mondo open source e per il metodo con cui è stato costruito (ne parla Serena Tinari in questa pagina). Va quindi accolta la provocazione che il gruppo Ippolita svolge, in particolar modo quando punta l'indice contro quei filoni di riflessione che hanno segnato lo vita dentro e oltre lo schermo. Che possono essere definiti come «teorie critiche dei media», «cripto-marxisti» o «post-operaisti» (divertente è la stilettata rivolta al volume Moltitudine di Michael Hardt e Toni Negri quando etichettano Richard Stalmann come teorico dell'open source). Non è però questa la sede per passarli in rassegna. Tre comunque gli elementi che meritano di essere discussi. Il primo, sicuramente il meno rilevante, riguarda la nozione di comunità. Nel volume la nozione di comunità è intesa come gruppo basato su affinità elettive, ma altre volte corre il rischio di essere schiacciata sulla professione svolta, facendo venire meno le diversità e le gerarchie che attengono all'infausta concezione organicistica della «comunità dei produttori».
Il secondo punto, più rilevante invece, concerne il rapporto tra «l'etica hacker» e il capitalismo contemporaneo, mentre il terzo riguarda il ruolo politico della legislazione, internazionale e la sua traduzione nazionale, sulla proprietà intellettuale nel governo del mercato globale.
Recentemente, il settimanale Business Week presentava una serie di articoli sul tentativo da parte di alcune imprese transnazionali di imbrigliare la cooperazione sociale all'interno delle proprie strategie imprenditoriali (ne ha dato notizia il manifesto il 21 giugno). In questo caso non ci troviamo di fronte ad alcune grandi imprese high-tech che hanno fatto propria l'attitudine alla condivisione dei saperi e del rifiuto del copyright, né all'enfasi sulle «scandalose» dichiarazioni del «papà» del sistema operativo Linux Linus Torvald sulla possibile commistione tra software aperti e proprietari. Il numero di Business Week si spinge molto più lontano, arrivando a sostenere che è la sottomissione della cooperazione sociale il prossimo terreno su cui si muoveranno le politiche economche e sociali. Segnali inequivocabili di una tendenza che punta a far diventare il modello organizzativo del software libero variamente descritto in questi anni - l'ultima descrizione, in ordine di tempo, si può ritrovare nel volume edito dal Mulino curato da Mureno Muffatto e Matteo Faldani Open source, Strategia, organizzazione, prospettiva - dominante non solo nel settore informatico, ma in tutta la produzione di merci. Da una parte, dunque, una cooperazione sociale segnata dall'«ecologia del desiderio», dall'altra però una serie di interventi legislativi sui rapporti contrattuali di lavoro e sulla proprietà intellettuale che puntano a sottoporla formalmente all'impresa capitalistica.
La diffusione a macchia d'olio dei temps - i temporanei, cioè i precari - non ha solo la funzione di stabilire una rigida divisione tra chi può accedere e chi invece trova le porte sbarrate ad alcuni diritti sociali, ma anche per assegnare al management dell'impresa il compito di ricondurre a una logica proprietaria i risultati della cooperazione sociale. Si crea così una situazione paradossale: la cooperazione sociale può anche manifestarsi liberamente, ma i suoi prodotti sono comunque di proprietà dell'impresa. La precarietà del rapporto di lavoro rivela così la sua ambivalenza: forma di vita in cui coltivare le proprie potenzialità creative e, al tempo stesso, condizione di assoluta illibertà. Non molto diversa è l'evoluzione in atto delle norme sulla proprietà intellettuale.
La libertà per decreto
Recentemente, nell'Organizzazione mondiale sulla proprietà intellettuale (Wipo) sono all'opera gruppi di lavoro su una riforma delle norme sul copyright e sui brevetti che puntano, dopo la superfetazione legislativa degli anni scorsi, a uno snellimento e all'elaborazione di un sistema misto, dove il «mondo non proprietario» possa convinvere con quello proprietario. Sono gruppi di studio, certamente, che per il momento hanno solo prodotto interessanti papers, ma che contengono indicazioni precise su come i famigerati accordi sul commercio della proprietà intellettuale del Wto (i Trips) debbano essere riformati. In altri termini, se la proprietà intellettuale è un'istituzione sacra del capitalismo flessibile, il mondo dell'open source ne rappresenta la sua evoluzione. Ed è per questo motivo che l'«etica hacker» rappresenta quell'insieme di usanze, consuetudini, rappresentazioni sociali, cioè rappresenta - se non se ne rivela il suo lato oscuro - l'ideologia del capitalismo flessibile. Questo non significa che l'avvento del regno della libertà ci sia stato, senza che nessuno però sia stato avvertito, e che basti ribadirlo con forza perché possa essere gettata alle ortiche la «sovrastruttura» giuridica che lo occulta.
Più pacatamente, il bivio che si pone di fronte agli sviluppatori di «free-software» non è solo la riaffermazione della centralità dell'etica hacker rispetto alla sua traduzione economica (l'open source), quanto lo svelamento della sua ambiguità. Con un linguaggio che sicuramente non piace al gruppo di Ippolita il suo svelamento passa attraverso la connessione e la ricombinazione tra l'attitudine hacker e ordini del discorso come forza-lavoro, rapporti di produzione, regime di accumulazione. Perché il vero problema non è se lo sviluppo di un software è riconducibile a un gioco collettivo, quanto che quel gioco è oramai ricondotto al marxiano «lavoro combinato». E semmai applicare alla pratica politica il software libero come modello organizzativo.
il manifesto
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