20.6.05

I gioiosi disfattisti

di Barbara Spinelli

Sono davvero molto numerosi e particolarmente interessati coloro che in questo momento tripudiano, per le tribolazioni che l'Unione europea attraversa. È una gioiosa macchina da guerra che si è messa in moto soprattutto in America e Inghilterra, in concomitanza col referendum francese sulla costituzione europea, e adesso che il vertice a Bruxelles è fallito il tripudio è ancor più grande e quasi tracima in Schadenfreude, in piacere per come l'uomo accanto a me vacilla e cade. Blair che non ha voluto rinunciare all'esorbitante anacronistico assegno ricevuto ogni anno da Bruxelles, e che affossando il vertice ha mostrato di sprezzare la disponibilità a far sacrifici dei dieci nuovi Stati (tutti più poveri di Londra), non ha esitato a parlare di nuovo inizio nella storia dell'Unione, presentandosi addirittura come precursore di un'avventura europea più esaltante, più moderna e promettente.

Proprio lui che usa corteggiare gli europei orientali, e che spesso li ha usati per impedire l'unità continentale, oggi ignora il loro desiderio di superare la crisi, e li respinge.
Perfino la sua insistenza sulla riduzione delle spese agricole, anche se nasce da un'aspirazione giusta - evitare che i sussidi agricoli divorino il 40-45 per cento delle spese comuni, dedicare molte più energie a settori più vitali come ricerca e impiego -, ha finito con l'offendere l'Europa e le sue istituzioni: rompendo patti precedentemente stipulati, e disconoscendo accordi come quello, sottoscritto da tutti nel 2002, di non toccare le spese agricole fino al 2013.

Tony Blair si sente in queste ore nuovo leader-ispiratore dell'Europa, ma assomiglia poco ai personaggi che in passato furono leader e ispiratori. Schuman o De Gasperi o Kohl avevano l'animo non di divisori, ma di federatori. Interpretavano le crisi in senso etimologico, come momenti di passaggio alla scelta, alla decisione: non come declino che si assapora come si assapora una vendetta o perfino un malessere. Il presidente di turno lussemburghese, Juncker, ieri notte è stato amaro: aveva visto come i Paesi poveri dell'Est erano disposti a sacrificare parte degli aiuti pur di evitare il fiasco, e ha detto di «provar vergogna» per come la nave dell'Unione è stata affondata da pochi ricchi. Ma la vergogna è qualcosa che i tripudianti non conoscono, e questa loro spregiudicatezza morale va attentamente studiata, perché spiega quel che accade nell'Unione e dintorni.
Non c'è infatti spazio per la vergogna e neppure per quella speciale tristezza che si chiama timore della decadenza storica, nella macchina da guerra che sta esultando sulla scia dei referendum.

E ancora una volta non è verso l'Inghilterra che dobbiamo guardare per comprendere la formidabile potenza della macchina e neppure verso quella parte d'Italia che s'esercita nel presunto anticonformismo della critica antieuropea, ma verso l'oltre Atlantico, e più precisamente verso l'America nazionalista di Bush e dei centri di studio e d'influenza neoconservatori vicini all'amministrazione. È qui che il godimento si manifesta con tutta la sua forza: volitivo, guerresco, e con accenti di forte anche se simulata trasgressività. È qui e solo di riflesso in Italia che si parla con festante militanza di utopie giustamente punite, di dogmi europeisti finalmente smantellati, di immobilizzanti tabù infranti, di riscatto lungamente atteso del vecchio Stato-nazione.

Chi abbia voglia di conoscere vada a esplorare i siti Internet della rivista neoconservatrice Weekly Standard, dell'American Enterprise Institute, degli articolisti neocon sul Washington Post. Vedrà che non c'è senso del dramma, in quella parte d'America, ma d'una rivincita e soprattutto d'una prodigiosa opportunità. Forse l'Europa con la sua moneta non è più la potenza che pareva recentemente, forse il predominio mondiale Usa non ha più rivali, forse gli asiatici come Cina e Corea torneranno a comprar dollari e non saranno più attratti dall'euro (Irwin M. Stelzer, Delizie dopo il no, Weekly Standard), forse la Nato prevarrà sull'Unione (Gerard Baker, Weekly Standard), forse è finita nella polvere quella sfida fastidiosissima che l'Unione lanciava e lancia a chi inforca gli occhiali del vecchio Stato-nazione per interpretare le cose del mondo: memento cita mors venit - era il monito che veniva dall'Europa - Ricordati: viene la morte veloce! Gli incoronati degli Stati-nazione hanno deciso di scommettere sulla sconfitta del modello statuale inventato nel vecchio continente (una confederazione di Stati che abbandonano parte delle sovranità e la trasferiscono a poteri federali) e per questo parlano quasi all'unisono, nelle ultime ore, di Europa a pezzi, di Europa finita, di tabù infranto.

Il vero paralizzante tabù è in realtà il loro (la sovranità nazionale assoluta, incapace di far fronte da sola ai mali del mondo), ma almeno per ora l'impaurente pericolo sembra passato, e le intemperie europee consentono d'imbrogliare le carte: ecco dunque che è l'Europa, a esser descritta come tabù rigido, anacronistico, non-pratico. Celebrando i suoi funerali, la giubilante macchina neoconservatrice si lancia in un'operazione furba oltre che bellica: a forza di dichiarar morta l'Europa, magari la desiderante profezia s'invererà.

Non è detto che il suo calcolo sia vincente: non solo l'Europa esiste ancora, ma in gran parte è già federale e dunque già costituzionalizzata (l'80 per cento delle leggi economiche si fanno a Bruxelles; il diritto comunitario premia su quello nazionale). Ma l'imbroglio vien tentato, e il metodo somiglia molto ai modi di Bush d'esportare le democrazie dall'esterno. Quel che conta è puntare sulle piazze che s'ergono contro qualsiasi status quo, e contro le correzioni di rotta gestite gradualmente da forze endogene. Verso l'Europa, questo significa puntare esplicitamente sulla crisi della democrazia parlamentare classica. Di qui l'apologia dei referendum, nei commenti neoconservatori, e l'esaltazione del Paese reale che si ribella contro il Paese legale, come nel nazionalismo antiparlamentare francese dei primi '900. Irving Kristol sul Weekly Standard parla addirittura di una battaglia europea di liberazione, elogiando il no francese, e lo paragona ai movimenti neodemocratici in Libano e Medio Oriente. Gerard Baker su Weekly Standard consiglia di sostenere i Paesi «meno istericamente europeisti», concedendo loro con più facilità i visti.

Sotto accusa è una cricca, ovvero un establishment, che governerebbe con orribile burocrazia a Bruxelles. Liberati sarebbero gli Stati, brutalmente defraudati di sovranità dall'arroganza dell'utopia europeista. Poco importa se per far valere le proprie tesi si ricorre alla menzogna: se si dice che quest'Europa tecnocratica impedisce crescita e occupazione, e manovra contro riforme liberali. Non è vero, visto che il no francese rifiuta proprio flessibilità del lavoro e dell'economia. Ma la menzogna serve ed è sbandierata come verità.

Altri studiosi dicono che l'Europa è morta perché i popoli non hanno voluto il predominio di questo o quello Stato. Per lo storico Niall Ferguson (The New Republic) è il predominio tedesco che vien rifiutato: predominio che la Costituzione avrebbe sancito, fondando i voti a maggioranza sulla potenza demografica. Altri ancora dicono che è l'Europa imperiale e antidemocratica a crollare (Efraim Karsh, The New Republic). Un argomento, comunque, accomuna gli estasiati disfattisti. Lo Stato-nazione sembrava fuori moda, ed ecco che fa ritorno imbaldanzito. L'Europa stava diventando un'unione politica dopo esser stata per decenni solo economica, ed ecco che provvidenzialmente torna a essere mero mercato. Non ci saranno una politica estera né una difesa autonome, anche se i disfattisti tacciono l'enorme favore che tale obiettivo incontra nei popoli. La sfida che Europa lanciava a Washington sarebbe fallita.

In realtà non è fallita, sempre che i Paesi dell'Unione s'accorgano che la stasi è una trappola per loro, e una manna per chi vuol tenere l'Unione in stato d'inferiorità. La costituzione andrà forse in parte riscritta, ma resta un'esigenza per gli europei. Tanta parte della loro esistenza è ormai decisa a Bruxelles, e per quella parte è importante avere una comune carta costituzionale. E poi la costituzione è un mezzo per raggiungere il fine dell'unità politica. Il mezzo magari muterà, ma il fine resta anche per gran parte di chi ha votato no. Non è escluso che la questione stessa della Turchia aiuti. Tutti dicono che con la presunta morte dell'Europa e la xenofobia in rimonta l'ingresso di Ankara è per sempre bloccato. Non è necessariamente così, se l'Europa coglierà l'occasione per ripartire a due velocità. Una parte più piccola e ardita potrebbe unirsi strettamente, con istituzioni forti e confini chiarissimi. Una seconda parte, più gelosa delle sovranità nazionali, potrebbe collocarsi in un cerchio periferico pur essendo parte dell'Unione. In questa parte potrebbero stare gli Stati contrari all'Europa politica che vogliono solo un gran mercato: fra essi Gran Bretagna, forse Polonia e Repubblica Ceca, infine Turchia.

Tutto sta a non dare a Londra la leadership del rilancio dell'Europa politica, perché a esso Londra non è interessata. Molto dipenderà anche dall'Italia, che in passato ha sempre privilegiato - e non per dogma ma con una sapiente astuzia che ha accentuato il nostro peso internazionale - le soluzioni sovrannazionali. Dipenderà dai nuovi Paesi, traditi da Blair. Dalla Francia, che potrà uscire dalla paralisi accettando l'Europa più profondamente. E dalla Germania, che non ha più un leader federatore come Kohl ma in un'amministrazione democristiana potrebbe averne uno nuovo.

L'Europa è al bivio, certo. Ma non fra essere e non essere. Siamo ben oltre il dilemma esistenziale, anche se il declino è possibile in tutte le civiltà. Una gran parte del cammino è alle nostre spalle, e la crisi oggi nasce proprio perché questo cammino è già compiuto. Si tratta di continuare sulla via intrapresa, spiegandosi meglio coi popoli. Come diceva giustamente uno dei padri d'Europa, Jean Monnet, ci sono crisi in cui conviene giocare coi paradossi e raccomandare questo a se stessi: «Prima continuare, e soltanto dopo cominciare». Lo stesso Monnet diceva che l'ultima guerra era il «gran federatore» d'Europa. I federatori di oggi sono i tormenti esterni all'Unione, la mondializzazione, la sfida indiano-cinese. Il che significa che l'Europa non è affatto a pezzi e resta bisogno ineludibile: per i popoli, per gli individui e per gli Stati deboli che siamo diventati.
lastampa.it

2 commenti:

oakleyses ha detto...

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