PIERGIORGIO ODIFREDDI
Ci si può fidare della letteratura, come specchio che riflette la visione del mondo che caratterizza la propria epoca? I letterati naturalmente sostengono di sì, e noi siamo costretti a credere loro sulla parola: anche perché quando un' epoca è passata, di essa non rimangono appunto altro che le descrizioni che ne ha registrate la sua letteratura, comprese le branche fantastiche che vanno sotto il nome di teologia, filosofia e storia. Chi pensa, comunque, che la letteratura sia effettivamente un mezzo per conoscere l' uomo e la sua storia, e non soltanto un futile passatempo, deve anche aspettarsi che la scienza e la tecnologia rivestano per gli scrittori del mondo contemporaneo un ruolo analogo a quello che la mitologia e la religione giocavano per i cantori del mondo antico e medievale. E invece, la maggior parte della letteratura contemporanea è non solo ascientifica e atecnologica, ma addirittura antiscientifica e antitecnologica. La maggioranza dei letterati di ogni tipo, teologi e filosofi compresi, ritiene infatti di poter continuare a interpretare il presente secondo anacronistiche categorie adeguate soltanto, se pure mai lo sono state, alla descrizione di un passato che ormai non c' è più. Fortunatamente, esiste anche una minoranza che costituisce l' avanguardia della letteratura non anacronistica di domani. Essa è composta, da un lato, da quei letterati di formazione umanistica che, da Italo Calvino a Daniele del Giudice, da Raymond Queneau a Hans Magnum Enzensberger, hanno prestato un' attenzione particolare alla cultura scientifica e tecnologica. E, dall' altro lato, da quegli scrittori che sono pervenuti alla letteratura direttamente da una formazione non umanistica: dall' ingegner Carlo Emilio Gadda al chimico Primo Levi, dal fisico Thomas Pynchon al matematico John Coetzee (premio Nobel per letteratura nel 2003). Di questo secondo drappello fa parte Andrew Crumey, un fisico teorico che ha ottenuto un grande successo nel mondo anglosassone coi suoi cinque romanzi, quattro dei quali tradotti in Italia da Ponte alle Grazie: Musica in una lingua straniera (1994), che descrive la faticosa scrittura di un giallo contenuto nel libro, e del libro stesso; Pftiz (1995), che narra le vicende di una città immaginaria progettata da un principe del Settecento in ogni dettaglio, dagli edifici agli abitanti, ma esistente solo sulla carta; Il professore, Rousseau e l' arte dell' adulterio (2000), che espande in una triplice storia due brevi passaggi delle Confessioni che citano di sfuggita due ignoti copisti francesi del Settecento; e L' amore perduto e la teoria dei quanti (2004), il cui mondo macroscopico si comporta come quello microscopico, con un' instabile sovrapposizione di stati potenziali e un molteplice parallelismo di mondi possibili. La caratteristica linguistica comune di questi libri è un esplicito ritorno alle origini del romanzo moderno: quelle, per intenderci, di Jacques il fatalista di Denis Diderot, che aveva additato alla letteratura una promettente strada che essa non seguì, preferendo imboccare il sentiero che la portò a impantanarsi nella melma del romanticismo. Queste origini sono consce ed esplicite nell' opera di Crumey, che già dopo un paio di pagine del suo primo libro si chiede: «Da dove venivano? Dove stavano andando? (Ma c' è mai qualcuno che sappia da dove viene o dove sta andando?)», riecheggiando il famoso incipit di Diderot. E nel secondo libro inscena dialoghi fra il Conte e Pfitz che potrebbero essere usciti direttamente dalla sua penna. E nel terzo discute apertamente la sua teoria del Paradosso sull' attore: cioè, che l' attore e l' artista migliori sono quelli che trasmettono emozioni e idee quando essi stessi non provano nulla, perché i loro sentimenti sarebbero soltanto d' intralcio alla loro capacità di recitare o esprimersi in maniera convincente. Paradossalmente: «poiché la sincerità è la cosa più importante, se uno impara a fingerla è a posto», con tanti saluti al romanticismo. Ma Crumey non è una specie di Pierre Menard, e non cerca di riscrivere Jacques il fatalista: se non altro perché viene dopo Borges, col quale è costretto naturalmente a fare i conti. E li fa nel capitolo 28 di Musica in una lingua straniera, in una riscrittura della «Biblioteca di Babele» in cui dichiara fra l' altro: «che cos' è la scrittura se non una specie di furto, un furto dalla biblioteca delle idee che contiene ogni libro possibile?» Così come fa i conti, oltre che ovviamente con Rousseau, anche con Proust in Il professore, Rousseau e l' arte dell' adulterio», riportando in vita entrambi gli scrittori e facendoli diventare personaggi di un romanzo proustianamente narrato da «questa persona chiamata io, che non coincide sempre con me stesso». Con punti di riferimento come Diderot e Rousseau da un lato, e Proust e Borges dall' altro, quella di Crumey non può che essere una letteratura della divagazione e del coinvolgimento diretto del lettore nell' opera, all' insegna dei motti: «Ogni storia è una infinità di storie», e «Un libro è riuscito se ci fa sentire che siamo noi quel particolare Lettore che l' Autore ha in mente». Ed è anche una letteratura a millefoglie, con livelli intrecciati fra loro fino a confondersi l' un l' altro in una sorta di mise en abyme che coinvolge il libro stesso: il quale a volte entra nel racconto come protagonista, insieme al suo autore e al suo lettore, e altre volte presenta le stesse pagine e le stesse situazioni in versioni multiple, che riprendono continuamente il filo della storia facendola andare in direzioni alternative, tutte vere (o false) allo stesso modo. Ma Crumey ha una marcia in più rispetto ai letterati che in passato hanno suonato variazioni su questi temi: il fatto di essere un fisico che conosce la scienza dal di dentro, e la sa usare a proposito e con criterio. Nei suoi libri essa a volte interviene in maniera parodistica, come nella «Visione dell' universo» inserita in Musica in una lingua straniera: un trattato di pseudofisica che spiega come esistano tre particelle (gli ideoni) che possono viaggiare più velocemente della luce e sono le componenti fondamentali di tutte le cose. O come nel «Trattato sulla poesia meccanica» inserito in Il professore, che propone un marchingegno rotante per la critica letteraria, tutto basato su pesi, fili, leve, pulegge e forze. Altre volte la scienza interviene obliquamente, nella forma di citazioni, immagini, indovinelli, enigmi o allegorie. Come nelle allusioni in Pfitz al paradosso di Russell attraverso «l' indice degli indici che non includono se stessi», o alla teoria dei frattali in una pagina sulla lunghezza della costa d' Inghilterra. O nell' uso narrativo del dilemma delle tre porte di Lewis Carroll, che Il professore eleva a metafora di alcuni degli aspetti problematici e paradossali della fisica moderna. O nella citazione del passo di Moby Dick in cui si descrivono marmitte per bollire il grasso di balena a forma di cicloide, in L' amore perduto e la teoria dei quanti». In quest' ultimo libro, però, la scienza interviene più esplicitamente che negli altri. Esso ruota infatti attorno al cruciale soggiorno sulle alpi svizzere che Erwin Schrcdinger fece nelle vacanze di Natale del 1925, con un' accompagnatrice sconosciuta e in circostanze avvolte di mistero: fu in quei giorni che egli ebbe l' illuminazione che lo portò alla sua celeberrima equazione d' onda, che descrive il comportamento quantistico della materia. Naturalmente, come nota lo stesso Crumey, «riscrivere la storia è facile, ma riscrivere la scienza non lo è affatto». Lui però ci riesce ottimamente, e di passaggio risponde anche alla domanda che abbiamo posto agli inizi, notando in Musica in una lingua straniera che «se lo scrittore è qualcuno che porge uno specchio al mondo, allora si tratta per forza di uno specchio infranto che riflette vari punti della realtà». E che, come diceva Pascal, «se un libro ci parla reggendo uno specchio alla nostra anima, non è nell' autore ma in noi stessi che troviamo tutto ciò che ci vediamo».
I link ai giornali degli articoli spesso cambiano e diventa difficile se non impossibile recuperare i testi ai quali si riferivano. Questo è l'archivio on-line del blog Giornale-NOTIZIEOGGI
29.12.05
Quei romanzi pieni di scienza
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28.12.05
I ragionieri della felicità
Equilibri precari
Il prodotto interno lordo come somma delle felicità individuali, ma anche come costruzione contabile per stabilire politiche redistributive da parte dello stato. Una riflessione su come la teoria economica ha affrontato nel tempo il tema dello sviluppo o della crescita quantitavia a partire dal volume collettivo «Accadde domani»
Statistica economica
L'imperativo della crescita e la misurabilità della ricchezza nazionale come premessa di una statistica economica
Libertà e necessità
Le richieste di rallentamento del prodotto interno lordo ignorano il nodo della distribuzione della ricchezzza
LUIGI CAVALLARO
Ma è proprio vero che al capitale interessa la crescita del prodotto interno lordo? La domanda non suoni retorica o impertinente. Per quanto siano in molti a sostenere che la responsabilità della colonizzazione dell'immaginario dell'Occidente, supposto ormai incapace di assumere altri obiettivi che quello della «crescita quantitativa» e di valutare mezzi e fini secondo parametri differenti dal Prodotto interno lordo, sia da ascrivere al dominio sociale dell'impresa capitalistica e a quello ideologico dei suoi aedi, cioè gli economisti, ci sono buoni motivi per dubitare che le cose stiano proprio in questi termini. Non solo perché, fin dalla sua «rifondazione neoclassica» (avvenuta sul finire dell'Ottocento ad opera di Walras, Menger e Jevons), l'economia politica si è connotata per un radicale individualismo metodologico, alieno da ogni discorso sui «fini della società», ma soprattutto perché codesta metodologia non era (e non è) che il pendant analitico del fatto che, sulla base del modo di produzione capitalistico, le decisioni concernenti cosa, come e per chi produrre sono disperse fra una miriade di produttori indipendenti, ciascuno dei quali offre ciò che possiede e chiede quel che desidera per fini che riguardano lui e lui soltanto. S'intende, nessuno ha mai dubitato che il singolo capitalista potesse avere come obiettivo quello di accrescere il proprio capitale (come il lavoratore il proprio salario o il proprietario fondiario la propria rendita), ma nessun economista neoclassico ha mai sostenuto che l'unico modo per conseguirlo era che tutti lo condividessero: al contrario, il problema principale dei neoclassici è sempre stato quello di studiare il modo in cui decisioni individuali di produrre, scambiare e consumare si intrecciano le une con le altre in modo da generare un «equilibrio»: un problema essenzialmente di «statica economica», come non mancarono di rilevare criticamente coloro che, nel secolo or ora concluso, ne eccepirono la limitatezza.
Una riprova di quanto si è detto si può cogliere nel fatto che l'unica forma di contabilità che per circa un secolo e mezzo ha fatto da sfondo agli studi economici è stata la «partita doppia», vero e proprio «monumento» (come la definì Schumpeter) della prassi imprenditoriale di impiegare il denaro come strumento di calcolo razionale dei costi e dei profitti individuali. Nessuna «statistica economica» e nessun «calcolo del Pil» s'imposero invece all'attenzione anteriormente al primo quarto del secolo XX: in un mondo in cui ognuno badava per sé, di concetti del genere, semplicemente, non vi era alcun bisogno. Anzi, se aveste chiesto a un economista come Edgeworth di cosa si occupava la scienza economica, vi avrebbe risposto che si occupava essenzialmente della «felicità».
Come accadde, allora, che l'imperativo della crescita s'impossessò, secondo taluni fino a obnubilarla, della mente occidentale? All'incirca, andò così. Nel 1920, l'economista inglese Arthur Cecil Pigou pubblicò un libro intitolato Economia del benessere. In quel tempo, la cultura anglosassone era dominata dall'idea che la felicità fosse qualcosa di oggettivamente misurabile, un po' come la temperatura, e che di conseguenza fosse possibile calcolare la felicità complessiva della società sommando quella dei suoi componenti. Poiché si possono sommare solo cose uguali (le pere con le pere, le patate con le patate), era implicito ritenere che si potesse confrontare la felicità dell'uno con quella dell'altro e che, per fare un esempio, si potesse calcolare con precisione quanto Tizio fosse più felice di Caio per il fatto di avere una patata o una pera in più.
Pigou non fece altro che ricollegarsi a queste idee e dichiarare programmaticamente che avrebbe ristretto il proprio esame a quel genere di «felicità» che dipendeva dal possesso di denaro. In questo modo, veniva a porre non soltanto le basi per assumere come indice approssimativo del benessere di una società il suo reddito nazionale monetario (che a grandi linee si identifica con quel che oggi noi chiamiamo Pil), ma soprattutto per sostenere che una variazione della distribuzione del reddito a favore dei meno abbienti, purché non conducesse ad una contrazione del volume del reddito nazionale, avrebbe accresciuto il benessere economico collettivo. Insomma, veniva a spianare (teoricamente, s'intende) la strada alla tassazione progressiva, un principio che le classi dominanti della società erano allora ben lungi dall'aver accettato.
Venne allora la reazione, che prese la forma di un attacco all'ipotesi di misurabilità e confrontabilità delle felicità individuali. Sull'onda delle scoperte della psicologia e della psicoanalisi, che negavano che i nostri processi psichici fossero interamente accessibili perfino a noi stessi, molti economisti finirono col trovare più convincente la costruzione di Vilfredo Pareto, che ben prima della comparsa dell'opera di Pigou aveva criticato l'idea benthamiana che la felicità fosse misurabile cardinalmente e che, dunque, potessero sommarsi o confrontarsi sensazioni di pena o piacere di individui diversi. Fu Lord Robbins, nel suo celebre Saggio sulla natura e il significato della scienza economica (1932), a dare alla questione una sistemazione pressoché definitiva: siccome non possiamo stabilire di quanto aumenti la felicità del povero dandogli una sterlina tolta al ricco, meglio lasciare le cose così come stanno e togliersi dalla testa codeste pericolose idee socialiste, cioè sovversive.
Sembrava un colpo mortale, invece - come un'idra dalle sette teste - l'idea redistributiva rispuntò grazie al cosiddetto «principio di indennizzo», formulato per la prima volta da Nicholas Kaldor nel 1939. Ammettiamo pure - disse grosso modo Kaldor - che non si possa confrontare la felicità di individui diversi e che dunque non si abbia alcuna base per stabilire di quanto aumenti il benessere collettivo se togliamo una sterlina al ricco per darla al povero. Il punto, in effetti, è un altro: se lo Stato, come Robin Hood, decide di togliere ai ricchi per dare ai poveri ma, al tempo stesso, interviene nel processo produttivo in modo da aumentare il reddito nazionale, avremo a disposizione un surplus con il quale, se vorremo, potremo «indennizzare» i ricchi. In questo modo, saremo in condizione di aumentare la felicità dei poveri senza diminuire quella dei ricchi, e tutti i termini del problema saranno risolti.
Di qui a fare della crescita del Pil il criterio di legittimazione delle politiche pubbliche il passo era breve e, a partire dal secondo dopoguerra, lo si fece senza esitazioni (barando, peraltro, visto che la prassi odierna di includere nella misurazione del Pil l'ammontare delle spese pubbliche per beni e servizi è assai poco coerente col suo concetto). D'altra parte, se questo sommario resoconto non fa troppo torto alla storia del pensiero economico (e filosofico), bisogna concludere che l'obiettivo della crescita non è, come appunto accennavamo all'inizio, proprio delle società capitalistiche in quanto tali, ma in quanto si trovino a convivere con uno stato che si propone di aumentare il benessere dei più svantaggiati. E soprattutto, che non possiamo rinunciare a quell'obiettivo (senza al contempo rinunciare ad ogni politica redistributiva) se prima non risolviamo il problema - filosofico o economico, fate voi - di trovare un modo per misurare e confrontare la felicità di individui differenti: niente di più, ma soprattutto niente di meno.
Ne è consapevole Ernesto Screpanti, il cui intervento apre la riflessione a più voci consegnata a questo volume curato da Giuseppe Prestipino e Teresa Serra, frutto di una serie di incontri promossi dal Centro per la Filosofia Italiana (Accadde domani. Fra utopia e distopia, Aracne Editrice, pp. 217, € 12). Secondo l'economista senese, infatti, nessuna delle teorie della giustizia elaborate fin qui per ovviare al vincolo della non confrontabilità resiste al maglio della critica di Hayek: «proprio perché la giustizia è fondata su principi etici, non può essere presa a fondamento delle scelte pubbliche. Può riguardare le scelte individuali, ad esempio fare l'elemosina, ma non quelle collettive». E nemmeno si può sfuggire all'impasse ricorrendo al principio democratico di far coincidere le scelte pubbliche con quelle votate dalla maggioranza dei cittadini, almeno fintanto che non si sia risolto il «teorema d'impossibilità» di Arrow e non si sia provato che la razionalità collettiva è conseguibile anche in una società non totalitaria.
C'è solo un modo, per Screpanti, di salvare l'intervento redistributivo dello stato svincolandolo, al contempo, dall'obiettivo di promuovere la crescita del pil, ed è quello di assumere come fine dell'intervento pubblico l'aumento della «libertà» di ciascuno, dove per libertà s'intende semplicemente la «facoltà di scelta» di fare o acquistare qualcosa. Reinterpretata in questi termini, la libertà è qualcosa di oggettivamente misurabile e si può, pertanto, confrontare la quantità in cui individui diversi ne dispongono. E in un sistema in cui la democrazia non fosse solo formale ma anche sostanziale, politiche pubbliche volte alla produzione di beni che accrescano soprattutto la libertà dei poveri (e finanziate con la tassazione progressiva, che riduce soprattutto la libertà dei ricchi) non si limiterebbero a «ridistribuire la libertà», ma ne farebbero aumentare «anche la somma complessiva».
Il problema è che il ristabilimento di un'ipotesi forte di confrontabilità delle situazioni personali, che consenta cioè di confrontare persone diverse nella misura in cui coglie ciò che le rende uguali, rischia di entrare in conflitto con quel «diritto alla differenza» che costituisce un portato ormai ineliminabile della riflessione novecentesca, soprattutto della cultura di genere. Lo rileva Prestipino, quando - nel primo dei suoi contributi al volume - avverte subito di dover distinguere il proprio concetto di libertà (intesa come «espansione di possibilità sociali conquistate entro i limiti delle necessità naturali») da quello di Screpanti. E lo rileva ancor più Teresa Serra, allorché, nella sua riconsiderazione della teoria dello stato, ricorda che il venir meno della «costituzione» di cui parlava Costantino Mortati (cioè di «un certo modo di intendere e di avvertire il bene comune») si deve eminentemente all'imperante «policentrismo e pluriculturalismo che impedisce di avvertire e definire fatti normativi».
Sennonché, è difficile conciliare l'esigenza tipicamente femminista di «adattare le regole astratte al particolare, alla specificità dei contesti e delle esigenze concrete» (Serra), con una programmazione economica che non si proponga più lo scopo della «crescita quantitativa dei beni disponibili», ma si ponga «come luogo di scelte prevalentemente qualitative e come decisione concernente soprattutto la priorità dei beni comuni» (Prestipino). Il rischio, infatti, è che, in assenza di un criterio normativo che consenta una qualche confrontabilità tra preferenze, gusti e soggettività supposte differenti «per natura», la volontà pianificatrice, ancorché ispirata da nobili ragioni ambientaliste, si affermi come dominio totalitario. O è solo per caso che, come ricorda Prestipino, alcuni ambientalisti sostengono che «la libertà dovrebbe essere soltanto libertà di pensiero»?
Esiste, in altre parole, un nesso inscindibile che lega fra loro l'ipotesi di non confrontabilità delle felicità individuali, l'individualismo etico (e metodologico) di marca paretiana e il teorema d'impossibilità di Arrow. Di conseguenza, quanto più aumentiamo l'ambito delle differenze non negoziabili, tanto più riduciamo la possibilità di operare confronti interpersonali e tanto meno possiamo affidare alla programmazione pubblica le scelte concernenti cosa, come e per chi produrre, salvo impostarle sulla «volontà di potenza» di una politica totalitaria. Prestipino sostiene che gli economisti dovrebbero risparmiare agli ambientalisti «l'accusa di voler rinchiudere tutti in un convento», e sono pronto a scommettere che simili obiettivi sono alieni da lui e da tutti coloro le cui riflessioni hanno arricchito questo volume (Raniero La Valle, Fabrizio Giovenale, Carla Ravaioli, Enzo Scandurra). Ma il dilemma resta, né il vagheggiamento dell'utopia può di per sé scansare distopie pericolose: qualcosa il Novecento avrà pur insegnato, no?
Post scriptum. Nel «modello di sviluppo dal volto umano» schizzato nel suo intervento in coda al volume, Screpanti - se ben capisco - si pone esplicitamente come obiettivo un rallentamento della crescita del pil. Che queste cose le scriva Latouche, passi; ma perché un marxista dovrebbe ritenere il pil una misura significativa di qualcosa che non sia la confusione in cui versa l'econometria?
ilmanifesto.it
Il prodotto interno lordo come somma delle felicità individuali, ma anche come costruzione contabile per stabilire politiche redistributive da parte dello stato. Una riflessione su come la teoria economica ha affrontato nel tempo il tema dello sviluppo o della crescita quantitavia a partire dal volume collettivo «Accadde domani»
Statistica economica
L'imperativo della crescita e la misurabilità della ricchezza nazionale come premessa di una statistica economica
Libertà e necessità
Le richieste di rallentamento del prodotto interno lordo ignorano il nodo della distribuzione della ricchezzza
LUIGI CAVALLARO
Ma è proprio vero che al capitale interessa la crescita del prodotto interno lordo? La domanda non suoni retorica o impertinente. Per quanto siano in molti a sostenere che la responsabilità della colonizzazione dell'immaginario dell'Occidente, supposto ormai incapace di assumere altri obiettivi che quello della «crescita quantitativa» e di valutare mezzi e fini secondo parametri differenti dal Prodotto interno lordo, sia da ascrivere al dominio sociale dell'impresa capitalistica e a quello ideologico dei suoi aedi, cioè gli economisti, ci sono buoni motivi per dubitare che le cose stiano proprio in questi termini. Non solo perché, fin dalla sua «rifondazione neoclassica» (avvenuta sul finire dell'Ottocento ad opera di Walras, Menger e Jevons), l'economia politica si è connotata per un radicale individualismo metodologico, alieno da ogni discorso sui «fini della società», ma soprattutto perché codesta metodologia non era (e non è) che il pendant analitico del fatto che, sulla base del modo di produzione capitalistico, le decisioni concernenti cosa, come e per chi produrre sono disperse fra una miriade di produttori indipendenti, ciascuno dei quali offre ciò che possiede e chiede quel che desidera per fini che riguardano lui e lui soltanto. S'intende, nessuno ha mai dubitato che il singolo capitalista potesse avere come obiettivo quello di accrescere il proprio capitale (come il lavoratore il proprio salario o il proprietario fondiario la propria rendita), ma nessun economista neoclassico ha mai sostenuto che l'unico modo per conseguirlo era che tutti lo condividessero: al contrario, il problema principale dei neoclassici è sempre stato quello di studiare il modo in cui decisioni individuali di produrre, scambiare e consumare si intrecciano le une con le altre in modo da generare un «equilibrio»: un problema essenzialmente di «statica economica», come non mancarono di rilevare criticamente coloro che, nel secolo or ora concluso, ne eccepirono la limitatezza.
Una riprova di quanto si è detto si può cogliere nel fatto che l'unica forma di contabilità che per circa un secolo e mezzo ha fatto da sfondo agli studi economici è stata la «partita doppia», vero e proprio «monumento» (come la definì Schumpeter) della prassi imprenditoriale di impiegare il denaro come strumento di calcolo razionale dei costi e dei profitti individuali. Nessuna «statistica economica» e nessun «calcolo del Pil» s'imposero invece all'attenzione anteriormente al primo quarto del secolo XX: in un mondo in cui ognuno badava per sé, di concetti del genere, semplicemente, non vi era alcun bisogno. Anzi, se aveste chiesto a un economista come Edgeworth di cosa si occupava la scienza economica, vi avrebbe risposto che si occupava essenzialmente della «felicità».
Come accadde, allora, che l'imperativo della crescita s'impossessò, secondo taluni fino a obnubilarla, della mente occidentale? All'incirca, andò così. Nel 1920, l'economista inglese Arthur Cecil Pigou pubblicò un libro intitolato Economia del benessere. In quel tempo, la cultura anglosassone era dominata dall'idea che la felicità fosse qualcosa di oggettivamente misurabile, un po' come la temperatura, e che di conseguenza fosse possibile calcolare la felicità complessiva della società sommando quella dei suoi componenti. Poiché si possono sommare solo cose uguali (le pere con le pere, le patate con le patate), era implicito ritenere che si potesse confrontare la felicità dell'uno con quella dell'altro e che, per fare un esempio, si potesse calcolare con precisione quanto Tizio fosse più felice di Caio per il fatto di avere una patata o una pera in più.
Pigou non fece altro che ricollegarsi a queste idee e dichiarare programmaticamente che avrebbe ristretto il proprio esame a quel genere di «felicità» che dipendeva dal possesso di denaro. In questo modo, veniva a porre non soltanto le basi per assumere come indice approssimativo del benessere di una società il suo reddito nazionale monetario (che a grandi linee si identifica con quel che oggi noi chiamiamo Pil), ma soprattutto per sostenere che una variazione della distribuzione del reddito a favore dei meno abbienti, purché non conducesse ad una contrazione del volume del reddito nazionale, avrebbe accresciuto il benessere economico collettivo. Insomma, veniva a spianare (teoricamente, s'intende) la strada alla tassazione progressiva, un principio che le classi dominanti della società erano allora ben lungi dall'aver accettato.
Venne allora la reazione, che prese la forma di un attacco all'ipotesi di misurabilità e confrontabilità delle felicità individuali. Sull'onda delle scoperte della psicologia e della psicoanalisi, che negavano che i nostri processi psichici fossero interamente accessibili perfino a noi stessi, molti economisti finirono col trovare più convincente la costruzione di Vilfredo Pareto, che ben prima della comparsa dell'opera di Pigou aveva criticato l'idea benthamiana che la felicità fosse misurabile cardinalmente e che, dunque, potessero sommarsi o confrontarsi sensazioni di pena o piacere di individui diversi. Fu Lord Robbins, nel suo celebre Saggio sulla natura e il significato della scienza economica (1932), a dare alla questione una sistemazione pressoché definitiva: siccome non possiamo stabilire di quanto aumenti la felicità del povero dandogli una sterlina tolta al ricco, meglio lasciare le cose così come stanno e togliersi dalla testa codeste pericolose idee socialiste, cioè sovversive.
Sembrava un colpo mortale, invece - come un'idra dalle sette teste - l'idea redistributiva rispuntò grazie al cosiddetto «principio di indennizzo», formulato per la prima volta da Nicholas Kaldor nel 1939. Ammettiamo pure - disse grosso modo Kaldor - che non si possa confrontare la felicità di individui diversi e che dunque non si abbia alcuna base per stabilire di quanto aumenti il benessere collettivo se togliamo una sterlina al ricco per darla al povero. Il punto, in effetti, è un altro: se lo Stato, come Robin Hood, decide di togliere ai ricchi per dare ai poveri ma, al tempo stesso, interviene nel processo produttivo in modo da aumentare il reddito nazionale, avremo a disposizione un surplus con il quale, se vorremo, potremo «indennizzare» i ricchi. In questo modo, saremo in condizione di aumentare la felicità dei poveri senza diminuire quella dei ricchi, e tutti i termini del problema saranno risolti.
Di qui a fare della crescita del Pil il criterio di legittimazione delle politiche pubbliche il passo era breve e, a partire dal secondo dopoguerra, lo si fece senza esitazioni (barando, peraltro, visto che la prassi odierna di includere nella misurazione del Pil l'ammontare delle spese pubbliche per beni e servizi è assai poco coerente col suo concetto). D'altra parte, se questo sommario resoconto non fa troppo torto alla storia del pensiero economico (e filosofico), bisogna concludere che l'obiettivo della crescita non è, come appunto accennavamo all'inizio, proprio delle società capitalistiche in quanto tali, ma in quanto si trovino a convivere con uno stato che si propone di aumentare il benessere dei più svantaggiati. E soprattutto, che non possiamo rinunciare a quell'obiettivo (senza al contempo rinunciare ad ogni politica redistributiva) se prima non risolviamo il problema - filosofico o economico, fate voi - di trovare un modo per misurare e confrontare la felicità di individui differenti: niente di più, ma soprattutto niente di meno.
Ne è consapevole Ernesto Screpanti, il cui intervento apre la riflessione a più voci consegnata a questo volume curato da Giuseppe Prestipino e Teresa Serra, frutto di una serie di incontri promossi dal Centro per la Filosofia Italiana (Accadde domani. Fra utopia e distopia, Aracne Editrice, pp. 217, € 12). Secondo l'economista senese, infatti, nessuna delle teorie della giustizia elaborate fin qui per ovviare al vincolo della non confrontabilità resiste al maglio della critica di Hayek: «proprio perché la giustizia è fondata su principi etici, non può essere presa a fondamento delle scelte pubbliche. Può riguardare le scelte individuali, ad esempio fare l'elemosina, ma non quelle collettive». E nemmeno si può sfuggire all'impasse ricorrendo al principio democratico di far coincidere le scelte pubbliche con quelle votate dalla maggioranza dei cittadini, almeno fintanto che non si sia risolto il «teorema d'impossibilità» di Arrow e non si sia provato che la razionalità collettiva è conseguibile anche in una società non totalitaria.
C'è solo un modo, per Screpanti, di salvare l'intervento redistributivo dello stato svincolandolo, al contempo, dall'obiettivo di promuovere la crescita del pil, ed è quello di assumere come fine dell'intervento pubblico l'aumento della «libertà» di ciascuno, dove per libertà s'intende semplicemente la «facoltà di scelta» di fare o acquistare qualcosa. Reinterpretata in questi termini, la libertà è qualcosa di oggettivamente misurabile e si può, pertanto, confrontare la quantità in cui individui diversi ne dispongono. E in un sistema in cui la democrazia non fosse solo formale ma anche sostanziale, politiche pubbliche volte alla produzione di beni che accrescano soprattutto la libertà dei poveri (e finanziate con la tassazione progressiva, che riduce soprattutto la libertà dei ricchi) non si limiterebbero a «ridistribuire la libertà», ma ne farebbero aumentare «anche la somma complessiva».
Il problema è che il ristabilimento di un'ipotesi forte di confrontabilità delle situazioni personali, che consenta cioè di confrontare persone diverse nella misura in cui coglie ciò che le rende uguali, rischia di entrare in conflitto con quel «diritto alla differenza» che costituisce un portato ormai ineliminabile della riflessione novecentesca, soprattutto della cultura di genere. Lo rileva Prestipino, quando - nel primo dei suoi contributi al volume - avverte subito di dover distinguere il proprio concetto di libertà (intesa come «espansione di possibilità sociali conquistate entro i limiti delle necessità naturali») da quello di Screpanti. E lo rileva ancor più Teresa Serra, allorché, nella sua riconsiderazione della teoria dello stato, ricorda che il venir meno della «costituzione» di cui parlava Costantino Mortati (cioè di «un certo modo di intendere e di avvertire il bene comune») si deve eminentemente all'imperante «policentrismo e pluriculturalismo che impedisce di avvertire e definire fatti normativi».
Sennonché, è difficile conciliare l'esigenza tipicamente femminista di «adattare le regole astratte al particolare, alla specificità dei contesti e delle esigenze concrete» (Serra), con una programmazione economica che non si proponga più lo scopo della «crescita quantitativa dei beni disponibili», ma si ponga «come luogo di scelte prevalentemente qualitative e come decisione concernente soprattutto la priorità dei beni comuni» (Prestipino). Il rischio, infatti, è che, in assenza di un criterio normativo che consenta una qualche confrontabilità tra preferenze, gusti e soggettività supposte differenti «per natura», la volontà pianificatrice, ancorché ispirata da nobili ragioni ambientaliste, si affermi come dominio totalitario. O è solo per caso che, come ricorda Prestipino, alcuni ambientalisti sostengono che «la libertà dovrebbe essere soltanto libertà di pensiero»?
Esiste, in altre parole, un nesso inscindibile che lega fra loro l'ipotesi di non confrontabilità delle felicità individuali, l'individualismo etico (e metodologico) di marca paretiana e il teorema d'impossibilità di Arrow. Di conseguenza, quanto più aumentiamo l'ambito delle differenze non negoziabili, tanto più riduciamo la possibilità di operare confronti interpersonali e tanto meno possiamo affidare alla programmazione pubblica le scelte concernenti cosa, come e per chi produrre, salvo impostarle sulla «volontà di potenza» di una politica totalitaria. Prestipino sostiene che gli economisti dovrebbero risparmiare agli ambientalisti «l'accusa di voler rinchiudere tutti in un convento», e sono pronto a scommettere che simili obiettivi sono alieni da lui e da tutti coloro le cui riflessioni hanno arricchito questo volume (Raniero La Valle, Fabrizio Giovenale, Carla Ravaioli, Enzo Scandurra). Ma il dilemma resta, né il vagheggiamento dell'utopia può di per sé scansare distopie pericolose: qualcosa il Novecento avrà pur insegnato, no?
Post scriptum. Nel «modello di sviluppo dal volto umano» schizzato nel suo intervento in coda al volume, Screpanti - se ben capisco - si pone esplicitamente come obiettivo un rallentamento della crescita del pil. Che queste cose le scriva Latouche, passi; ma perché un marxista dovrebbe ritenere il pil una misura significativa di qualcosa che non sia la confusione in cui versa l'econometria?
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Prezzi in libertà
GALAPAGOS
L'avevano giurato: le liberalizzazioni porteranno efficienza e benefici per i consumatori sotto forma di prezzi più bassi. Ma non è andata così: il Dipartimento del Tesoro del ministero dell'Economia ci ha fatto sapere che nel 2005 i prezzi nei settori liberalizzati sono cresciuti molto di più - il doppio abbondante - del tasso di inflazione misurato dall'Istat: il 5,1% contro poco più del 2%. Certo, sul 2005 ha pesato - tanto - il prezzo dei prodotti energetici, ma dare la colpa di tutto agli sceicchi è una semplificazione inaccettabile. Un solo esempio: nei primi 10 mesi del 2005 il costo dei biglietti aerei è aumentato del 19,1%. Colpa del caro carburante, spiegano le compagnie aeree che quasi quotidianamente aumentano i misteriosi supplementi imposti ai passeggeri. Ma i conti non tornano: nello stesso periodo il caro-petrolio ha fatto segnare un incremento di poco superiore al 14,5%, cinque punti in meno del costo dei biglietti. Certo, volare non è un bisogno primario, ma il problema è che aumenti mostruosi caratterizzano anche settori che più primari non si può.
Per le bollette della luce e del gas nel 2005 c'è stata una stangata che andrà avanti anche nel 2006. E poi, come considerare il prezzo dell'acqua potabile, quello degli affitti e perfino quello del latte? Ma c'è un di più, ancora più irritante: per la Rc auto, l'assicurazione obbligatoria sulle auto, nel 2005 le tariffe sono aumentate «solo» del 2,5%. Però, ci spiegano, tra il 1996 e il 2004 le compagnie hanno fatto il pieno con incrementi cumulati del 108,6%, mentre nel resto dell'Europa l'aumento medio è stato solo del 22,7%, con un minimo in Francia dell'8,6%. E qualcuno sa spiegarci perché negli stessi anni il costo dei pacchetti vacanze è aumentato in Italia di quasi il 36%, mentre nell'area dell'euro l'incremento è solo del 24,1%? Anche i pacchetti vacanza non sono un bene necessario. Ma l'istruzione secondaria (che con nostalgia seguitiamo a ritenere un diritto) sicuramente lo è. E il costo della scuola quest'anno è aumentato del 6,1% e dal 2000 l'aumento sfiora il 35%. C'è qualcosa che non va.
Non vanno, ad esempio, i bilanci di alcune società privatizzate - Eni e Enel o Autostrade, seguitano a macinare utili a danno dei consumatori. Altra cosa che non va è che in certi settori, il blocco dei trasferimenti da parte di Berlusconi e Tremonti ha obbligato gli enti locali ad aumentare le tariffe, anche quando gli utili, come nel caso della romana Acea, non giustificherebbero gli aumenti. Ma i Comuni di quei soldi hanno necessità, e quindi si comportano come se distribuissero non un bene necessario, ma prodotti di lusso.
Le statistiche diffuse ieri coprono solo una parte del paniere dei consumi. Per molti prodotti, alimentari e abbigliamento, i prezzi non crescono: è il segnale preoccupante di un ristagno dei consumi che fa il paio con la non crescita di salari e pensioni. E che a quattro anni di distanza penalizza anche quella moltitudine di bottegai che con la compiacenza di Tremonti hanno potuto manovrare a loro piacimento i prezzi con l'alibi dell'euro.
ilmanifesto.it
L'avevano giurato: le liberalizzazioni porteranno efficienza e benefici per i consumatori sotto forma di prezzi più bassi. Ma non è andata così: il Dipartimento del Tesoro del ministero dell'Economia ci ha fatto sapere che nel 2005 i prezzi nei settori liberalizzati sono cresciuti molto di più - il doppio abbondante - del tasso di inflazione misurato dall'Istat: il 5,1% contro poco più del 2%. Certo, sul 2005 ha pesato - tanto - il prezzo dei prodotti energetici, ma dare la colpa di tutto agli sceicchi è una semplificazione inaccettabile. Un solo esempio: nei primi 10 mesi del 2005 il costo dei biglietti aerei è aumentato del 19,1%. Colpa del caro carburante, spiegano le compagnie aeree che quasi quotidianamente aumentano i misteriosi supplementi imposti ai passeggeri. Ma i conti non tornano: nello stesso periodo il caro-petrolio ha fatto segnare un incremento di poco superiore al 14,5%, cinque punti in meno del costo dei biglietti. Certo, volare non è un bisogno primario, ma il problema è che aumenti mostruosi caratterizzano anche settori che più primari non si può.
Per le bollette della luce e del gas nel 2005 c'è stata una stangata che andrà avanti anche nel 2006. E poi, come considerare il prezzo dell'acqua potabile, quello degli affitti e perfino quello del latte? Ma c'è un di più, ancora più irritante: per la Rc auto, l'assicurazione obbligatoria sulle auto, nel 2005 le tariffe sono aumentate «solo» del 2,5%. Però, ci spiegano, tra il 1996 e il 2004 le compagnie hanno fatto il pieno con incrementi cumulati del 108,6%, mentre nel resto dell'Europa l'aumento medio è stato solo del 22,7%, con un minimo in Francia dell'8,6%. E qualcuno sa spiegarci perché negli stessi anni il costo dei pacchetti vacanze è aumentato in Italia di quasi il 36%, mentre nell'area dell'euro l'incremento è solo del 24,1%? Anche i pacchetti vacanza non sono un bene necessario. Ma l'istruzione secondaria (che con nostalgia seguitiamo a ritenere un diritto) sicuramente lo è. E il costo della scuola quest'anno è aumentato del 6,1% e dal 2000 l'aumento sfiora il 35%. C'è qualcosa che non va.
Non vanno, ad esempio, i bilanci di alcune società privatizzate - Eni e Enel o Autostrade, seguitano a macinare utili a danno dei consumatori. Altra cosa che non va è che in certi settori, il blocco dei trasferimenti da parte di Berlusconi e Tremonti ha obbligato gli enti locali ad aumentare le tariffe, anche quando gli utili, come nel caso della romana Acea, non giustificherebbero gli aumenti. Ma i Comuni di quei soldi hanno necessità, e quindi si comportano come se distribuissero non un bene necessario, ma prodotti di lusso.
Le statistiche diffuse ieri coprono solo una parte del paniere dei consumi. Per molti prodotti, alimentari e abbigliamento, i prezzi non crescono: è il segnale preoccupante di un ristagno dei consumi che fa il paio con la non crescita di salari e pensioni. E che a quattro anni di distanza penalizza anche quella moltitudine di bottegai che con la compiacenza di Tremonti hanno potuto manovrare a loro piacimento i prezzi con l'alibi dell'euro.
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3.12.05
LAVORO & WELFARE - Modello danese? Meglio la «flexicurity»
ANDREA FUMAGALLI
Dopo l'intervento di Prodi, l'articolo di Giavazzi sul Corriere della Sera , la risposta di Galapagos su il manifesto del 29 novembre 2005, il modello nordico di regolazione sociale del mercato del lavoro sembra tornato in auge nel dibattito programmatico del centro-sinistra. Si è parlato di modello danese, si è fatto riferimento a quello olandese e a quello svedese; si tratta di tre casi fra loro differenti, ma in parte accomunati da un'unica parola: flex-security, neologismo inglese che potremmo tradurre «flessibilità in sicurezza». Esso deriva dal flexibility and security act (denominato flex-security act), in vigore in Olanda dal 1° gennaio 1999, e dai richiami, molto vaghi, che sono stati fatti negli atti della Commissione europea che hanno accompagnato una serie di summit sino all'ultimo di Lisbona. In tale ambito, si fa riferimento a una serie di misure di governance del mercato del lavoro e di welfare omogenee e in linea di continuità con i processi di compromesso sociale made in Europe all'interno di un restyling del modello sociale europeo. Nella discussione in atto ci sono come minimo due vizi: uno metodologico e uno di sostanza.Riguardo al primo, si parla del modello danese o del modello olandese come se fossero esportabili e imitabili per semplice volontà politica. Non è affatto così: la regolazione del mercato del lavoro e del welfare in Olanda (dove pesa più il welfare) e in Danimarca (dove pesano di più la flessibilità e la precarietà del lavoro) si basa su una triangolazione tra sindacati, associazioni imprenditoriali e stato che si fonda su una struttura produttiva coesa e omogenea con un peso prevalente della media e grande impresa e un peso del lavoro salariato di circa il 90% della forza lavoro complessiva, un tasso di sindacalizzazione degli attivi intorno all'80% e una rete di protezione sociale che data dai primi anni del XX secolo, frutto di un'evoluzione secolare. Si tratta di elementi che non sono presenti in Italia o in Francia e che renderebbero impossibile l'adozione di simili modelli e specie di raggiungere i risultati demagogicamente sperati sia da Prodi che da Giavazzi. Non è difficile immaginare, infatti, che del modello danese, ad esempio, verrebbe accolta solo la parte relativa alla libertà di licenziare e di flessibilizzare (meglio, precarizzare) ulteriormente un mercato del lavoro che già tra i più precari d'Europa.Per quanto riguarda il contenuto, invece, a differenza del recente innamoramento del centro-sinistra, la sinistra radicale e libertaria, che ha inventato e organizzato le prime vertenze sul lavoro precario e sulla precarietà esistenziale culminate con le recenti edizioni della EuroMayDay 005, sta discutendo da tempo la proposta di flexicurity. Essa, e non flexsecurity, fa riferimento ad alcune proposte concrete che poco o nulla hanno a che spartire con il progetto olandese e dei paesi nordici. La proposta di flexicurity ha lo scopo di favorire l'introduzione di un reddito di esistenza come pilastro di un nuovo sistema di welfare e di renderlo praticabile e perseguibile non solo come obiettivo teorico ma soprattutto come obiettivo pratico e immediato. Il ragionamento è, per alcuni versi, molto semplice, anche se a volte non compreso da chi, anche nella sinistra radicale, ha troppo nostalgia del passato industrialista e operista dell'epoca fordista. Partendo dal presupposto che oggi la vita non solo viene asservita al lavoro, ma messa al lavoro (la differenza è sostanziale), l'unica retribuzione corretta è la remunerazione della vita; in secondo luogo, poiché l'attività di produzione, materiale e immateriale, presenta un'organizzazione reticolare sul territorio ed è sempre più caratterizzata dalla gestione dei flussi di merci, informazioni e persone, il luogo del conflitto è composto sia dai luoghi di lavoro (sempre più frammentati e sempre più sottoposti a ricattabilità) che dal territorio in cui la produzione si determina. Ne consegue che per aprire una vertenza territoriale sul reddito di esistenza è necessario allo stesso tempo coniugare le pratiche di conflitto sul territorio con quelle che si autorganizzano nei luoghi di lavoro. La nostra proposta di flexicurity ha proprio questo significato: costituire un ponte tra agitazione sindacale in termini di diritti e garanzie del lavoratore/trice e nuovo welfare che fa del reddito di esistenza, diretto e indiretto, il suo perno essenziale. Non è un caso che i quattro punti in cui si articola la proposta di flexicurity sono la costituzione di una cassa sociale per garantire continuità di reddito monetario incondizionato, una cassa sociale per garantire servizi sociali adeguati (casa, mobilità sapere, socialità, ecc., ovvero reddito indiretto), una drastica riduzione delle tipologie contrattuali oggi esistenti e infine un salario minimo orario per coloro che non sono contrattualizzati (oramai quasi il 50% della forza lavoro e buona parte del lavoro precario).Infine, presuppone l'attuazione di un nuovo tipo di welfare a livello municipale, fondato su una politica fiscale adeguata ai nuovi cespiti di ricchezza che oggi sono dominanti. Sempre più infatti è lo sfruttamento di beni comuni, quali il territorio, la conoscenza, la struttura reticolare e relazionale, l'attività di consumo e di riproduzione, insieme ai nuovi servizi alle imprese (dal trasporto e dalla logistica delle merci sino ai servizi finanziari, linguistico-comunicativi e di design) che è alla base della produzione di ricchezza nei nostri territori, a scapito sempre più della produzione materiale e industriale. Occorre intercettare questi nuovi flussi di reddito per reperire le risorse necessarie alla costruzione di un nuovo welfare municipale.Si tratta di punti, che - come è facile osservare - non hanno nulla a che vedere con la legislazione olandese, danese o con alcune proposte del centro-sinistra o di Giavazzi, tutte tese a cercare, in modo illusorio e strumentale o al limite assistenziale, di governare la flessibilità del lavoro, senza minimamente preoccuparsi delle condizioni di reddito e di vivibilità oggi fortemente compromessi.Tale punto di vista, osserviamo, è assente nelle discussioni sul programma del centro-sinistra. Eppure, proposte in tal senso sono state presentate nei convegni di Sbilanciamoci e su alcuni siti (come www.sinistriprogetti.it) e nelle discussioni preparatorie della MayDay.
ilmanifesto.it
Dopo l'intervento di Prodi, l'articolo di Giavazzi sul Corriere della Sera , la risposta di Galapagos su il manifesto del 29 novembre 2005, il modello nordico di regolazione sociale del mercato del lavoro sembra tornato in auge nel dibattito programmatico del centro-sinistra. Si è parlato di modello danese, si è fatto riferimento a quello olandese e a quello svedese; si tratta di tre casi fra loro differenti, ma in parte accomunati da un'unica parola: flex-security, neologismo inglese che potremmo tradurre «flessibilità in sicurezza». Esso deriva dal flexibility and security act (denominato flex-security act), in vigore in Olanda dal 1° gennaio 1999, e dai richiami, molto vaghi, che sono stati fatti negli atti della Commissione europea che hanno accompagnato una serie di summit sino all'ultimo di Lisbona. In tale ambito, si fa riferimento a una serie di misure di governance del mercato del lavoro e di welfare omogenee e in linea di continuità con i processi di compromesso sociale made in Europe all'interno di un restyling del modello sociale europeo. Nella discussione in atto ci sono come minimo due vizi: uno metodologico e uno di sostanza.Riguardo al primo, si parla del modello danese o del modello olandese come se fossero esportabili e imitabili per semplice volontà politica. Non è affatto così: la regolazione del mercato del lavoro e del welfare in Olanda (dove pesa più il welfare) e in Danimarca (dove pesano di più la flessibilità e la precarietà del lavoro) si basa su una triangolazione tra sindacati, associazioni imprenditoriali e stato che si fonda su una struttura produttiva coesa e omogenea con un peso prevalente della media e grande impresa e un peso del lavoro salariato di circa il 90% della forza lavoro complessiva, un tasso di sindacalizzazione degli attivi intorno all'80% e una rete di protezione sociale che data dai primi anni del XX secolo, frutto di un'evoluzione secolare. Si tratta di elementi che non sono presenti in Italia o in Francia e che renderebbero impossibile l'adozione di simili modelli e specie di raggiungere i risultati demagogicamente sperati sia da Prodi che da Giavazzi. Non è difficile immaginare, infatti, che del modello danese, ad esempio, verrebbe accolta solo la parte relativa alla libertà di licenziare e di flessibilizzare (meglio, precarizzare) ulteriormente un mercato del lavoro che già tra i più precari d'Europa.Per quanto riguarda il contenuto, invece, a differenza del recente innamoramento del centro-sinistra, la sinistra radicale e libertaria, che ha inventato e organizzato le prime vertenze sul lavoro precario e sulla precarietà esistenziale culminate con le recenti edizioni della EuroMayDay 005, sta discutendo da tempo la proposta di flexicurity. Essa, e non flexsecurity, fa riferimento ad alcune proposte concrete che poco o nulla hanno a che spartire con il progetto olandese e dei paesi nordici. La proposta di flexicurity ha lo scopo di favorire l'introduzione di un reddito di esistenza come pilastro di un nuovo sistema di welfare e di renderlo praticabile e perseguibile non solo come obiettivo teorico ma soprattutto come obiettivo pratico e immediato. Il ragionamento è, per alcuni versi, molto semplice, anche se a volte non compreso da chi, anche nella sinistra radicale, ha troppo nostalgia del passato industrialista e operista dell'epoca fordista. Partendo dal presupposto che oggi la vita non solo viene asservita al lavoro, ma messa al lavoro (la differenza è sostanziale), l'unica retribuzione corretta è la remunerazione della vita; in secondo luogo, poiché l'attività di produzione, materiale e immateriale, presenta un'organizzazione reticolare sul territorio ed è sempre più caratterizzata dalla gestione dei flussi di merci, informazioni e persone, il luogo del conflitto è composto sia dai luoghi di lavoro (sempre più frammentati e sempre più sottoposti a ricattabilità) che dal territorio in cui la produzione si determina. Ne consegue che per aprire una vertenza territoriale sul reddito di esistenza è necessario allo stesso tempo coniugare le pratiche di conflitto sul territorio con quelle che si autorganizzano nei luoghi di lavoro. La nostra proposta di flexicurity ha proprio questo significato: costituire un ponte tra agitazione sindacale in termini di diritti e garanzie del lavoratore/trice e nuovo welfare che fa del reddito di esistenza, diretto e indiretto, il suo perno essenziale. Non è un caso che i quattro punti in cui si articola la proposta di flexicurity sono la costituzione di una cassa sociale per garantire continuità di reddito monetario incondizionato, una cassa sociale per garantire servizi sociali adeguati (casa, mobilità sapere, socialità, ecc., ovvero reddito indiretto), una drastica riduzione delle tipologie contrattuali oggi esistenti e infine un salario minimo orario per coloro che non sono contrattualizzati (oramai quasi il 50% della forza lavoro e buona parte del lavoro precario).Infine, presuppone l'attuazione di un nuovo tipo di welfare a livello municipale, fondato su una politica fiscale adeguata ai nuovi cespiti di ricchezza che oggi sono dominanti. Sempre più infatti è lo sfruttamento di beni comuni, quali il territorio, la conoscenza, la struttura reticolare e relazionale, l'attività di consumo e di riproduzione, insieme ai nuovi servizi alle imprese (dal trasporto e dalla logistica delle merci sino ai servizi finanziari, linguistico-comunicativi e di design) che è alla base della produzione di ricchezza nei nostri territori, a scapito sempre più della produzione materiale e industriale. Occorre intercettare questi nuovi flussi di reddito per reperire le risorse necessarie alla costruzione di un nuovo welfare municipale.Si tratta di punti, che - come è facile osservare - non hanno nulla a che vedere con la legislazione olandese, danese o con alcune proposte del centro-sinistra o di Giavazzi, tutte tese a cercare, in modo illusorio e strumentale o al limite assistenziale, di governare la flessibilità del lavoro, senza minimamente preoccuparsi delle condizioni di reddito e di vivibilità oggi fortemente compromessi.Tale punto di vista, osserviamo, è assente nelle discussioni sul programma del centro-sinistra. Eppure, proposte in tal senso sono state presentate nei convegni di Sbilanciamoci e su alcuni siti (come www.sinistriprogetti.it) e nelle discussioni preparatorie della MayDay.
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