Equilibri precari
Il prodotto interno lordo come somma delle felicità individuali, ma anche come costruzione contabile per stabilire politiche redistributive da parte dello stato. Una riflessione su come la teoria economica ha affrontato nel tempo il tema dello sviluppo o della crescita quantitavia a partire dal volume collettivo «Accadde domani»
Statistica economica
L'imperativo della crescita e la misurabilità della ricchezza nazionale come premessa di una statistica economica
Libertà e necessità
Le richieste di rallentamento del prodotto interno lordo ignorano il nodo della distribuzione della ricchezzza
LUIGI CAVALLARO
Ma è proprio vero che al capitale interessa la crescita del prodotto interno lordo? La domanda non suoni retorica o impertinente. Per quanto siano in molti a sostenere che la responsabilità della colonizzazione dell'immaginario dell'Occidente, supposto ormai incapace di assumere altri obiettivi che quello della «crescita quantitativa» e di valutare mezzi e fini secondo parametri differenti dal Prodotto interno lordo, sia da ascrivere al dominio sociale dell'impresa capitalistica e a quello ideologico dei suoi aedi, cioè gli economisti, ci sono buoni motivi per dubitare che le cose stiano proprio in questi termini. Non solo perché, fin dalla sua «rifondazione neoclassica» (avvenuta sul finire dell'Ottocento ad opera di Walras, Menger e Jevons), l'economia politica si è connotata per un radicale individualismo metodologico, alieno da ogni discorso sui «fini della società», ma soprattutto perché codesta metodologia non era (e non è) che il pendant analitico del fatto che, sulla base del modo di produzione capitalistico, le decisioni concernenti cosa, come e per chi produrre sono disperse fra una miriade di produttori indipendenti, ciascuno dei quali offre ciò che possiede e chiede quel che desidera per fini che riguardano lui e lui soltanto. S'intende, nessuno ha mai dubitato che il singolo capitalista potesse avere come obiettivo quello di accrescere il proprio capitale (come il lavoratore il proprio salario o il proprietario fondiario la propria rendita), ma nessun economista neoclassico ha mai sostenuto che l'unico modo per conseguirlo era che tutti lo condividessero: al contrario, il problema principale dei neoclassici è sempre stato quello di studiare il modo in cui decisioni individuali di produrre, scambiare e consumare si intrecciano le une con le altre in modo da generare un «equilibrio»: un problema essenzialmente di «statica economica», come non mancarono di rilevare criticamente coloro che, nel secolo or ora concluso, ne eccepirono la limitatezza.
Una riprova di quanto si è detto si può cogliere nel fatto che l'unica forma di contabilità che per circa un secolo e mezzo ha fatto da sfondo agli studi economici è stata la «partita doppia», vero e proprio «monumento» (come la definì Schumpeter) della prassi imprenditoriale di impiegare il denaro come strumento di calcolo razionale dei costi e dei profitti individuali. Nessuna «statistica economica» e nessun «calcolo del Pil» s'imposero invece all'attenzione anteriormente al primo quarto del secolo XX: in un mondo in cui ognuno badava per sé, di concetti del genere, semplicemente, non vi era alcun bisogno. Anzi, se aveste chiesto a un economista come Edgeworth di cosa si occupava la scienza economica, vi avrebbe risposto che si occupava essenzialmente della «felicità».
Come accadde, allora, che l'imperativo della crescita s'impossessò, secondo taluni fino a obnubilarla, della mente occidentale? All'incirca, andò così. Nel 1920, l'economista inglese Arthur Cecil Pigou pubblicò un libro intitolato Economia del benessere. In quel tempo, la cultura anglosassone era dominata dall'idea che la felicità fosse qualcosa di oggettivamente misurabile, un po' come la temperatura, e che di conseguenza fosse possibile calcolare la felicità complessiva della società sommando quella dei suoi componenti. Poiché si possono sommare solo cose uguali (le pere con le pere, le patate con le patate), era implicito ritenere che si potesse confrontare la felicità dell'uno con quella dell'altro e che, per fare un esempio, si potesse calcolare con precisione quanto Tizio fosse più felice di Caio per il fatto di avere una patata o una pera in più.
Pigou non fece altro che ricollegarsi a queste idee e dichiarare programmaticamente che avrebbe ristretto il proprio esame a quel genere di «felicità» che dipendeva dal possesso di denaro. In questo modo, veniva a porre non soltanto le basi per assumere come indice approssimativo del benessere di una società il suo reddito nazionale monetario (che a grandi linee si identifica con quel che oggi noi chiamiamo Pil), ma soprattutto per sostenere che una variazione della distribuzione del reddito a favore dei meno abbienti, purché non conducesse ad una contrazione del volume del reddito nazionale, avrebbe accresciuto il benessere economico collettivo. Insomma, veniva a spianare (teoricamente, s'intende) la strada alla tassazione progressiva, un principio che le classi dominanti della società erano allora ben lungi dall'aver accettato.
Venne allora la reazione, che prese la forma di un attacco all'ipotesi di misurabilità e confrontabilità delle felicità individuali. Sull'onda delle scoperte della psicologia e della psicoanalisi, che negavano che i nostri processi psichici fossero interamente accessibili perfino a noi stessi, molti economisti finirono col trovare più convincente la costruzione di Vilfredo Pareto, che ben prima della comparsa dell'opera di Pigou aveva criticato l'idea benthamiana che la felicità fosse misurabile cardinalmente e che, dunque, potessero sommarsi o confrontarsi sensazioni di pena o piacere di individui diversi. Fu Lord Robbins, nel suo celebre Saggio sulla natura e il significato della scienza economica (1932), a dare alla questione una sistemazione pressoché definitiva: siccome non possiamo stabilire di quanto aumenti la felicità del povero dandogli una sterlina tolta al ricco, meglio lasciare le cose così come stanno e togliersi dalla testa codeste pericolose idee socialiste, cioè sovversive.
Sembrava un colpo mortale, invece - come un'idra dalle sette teste - l'idea redistributiva rispuntò grazie al cosiddetto «principio di indennizzo», formulato per la prima volta da Nicholas Kaldor nel 1939. Ammettiamo pure - disse grosso modo Kaldor - che non si possa confrontare la felicità di individui diversi e che dunque non si abbia alcuna base per stabilire di quanto aumenti il benessere collettivo se togliamo una sterlina al ricco per darla al povero. Il punto, in effetti, è un altro: se lo Stato, come Robin Hood, decide di togliere ai ricchi per dare ai poveri ma, al tempo stesso, interviene nel processo produttivo in modo da aumentare il reddito nazionale, avremo a disposizione un surplus con il quale, se vorremo, potremo «indennizzare» i ricchi. In questo modo, saremo in condizione di aumentare la felicità dei poveri senza diminuire quella dei ricchi, e tutti i termini del problema saranno risolti.
Di qui a fare della crescita del Pil il criterio di legittimazione delle politiche pubbliche il passo era breve e, a partire dal secondo dopoguerra, lo si fece senza esitazioni (barando, peraltro, visto che la prassi odierna di includere nella misurazione del Pil l'ammontare delle spese pubbliche per beni e servizi è assai poco coerente col suo concetto). D'altra parte, se questo sommario resoconto non fa troppo torto alla storia del pensiero economico (e filosofico), bisogna concludere che l'obiettivo della crescita non è, come appunto accennavamo all'inizio, proprio delle società capitalistiche in quanto tali, ma in quanto si trovino a convivere con uno stato che si propone di aumentare il benessere dei più svantaggiati. E soprattutto, che non possiamo rinunciare a quell'obiettivo (senza al contempo rinunciare ad ogni politica redistributiva) se prima non risolviamo il problema - filosofico o economico, fate voi - di trovare un modo per misurare e confrontare la felicità di individui differenti: niente di più, ma soprattutto niente di meno.
Ne è consapevole Ernesto Screpanti, il cui intervento apre la riflessione a più voci consegnata a questo volume curato da Giuseppe Prestipino e Teresa Serra, frutto di una serie di incontri promossi dal Centro per la Filosofia Italiana (Accadde domani. Fra utopia e distopia, Aracne Editrice, pp. 217, € 12). Secondo l'economista senese, infatti, nessuna delle teorie della giustizia elaborate fin qui per ovviare al vincolo della non confrontabilità resiste al maglio della critica di Hayek: «proprio perché la giustizia è fondata su principi etici, non può essere presa a fondamento delle scelte pubbliche. Può riguardare le scelte individuali, ad esempio fare l'elemosina, ma non quelle collettive». E nemmeno si può sfuggire all'impasse ricorrendo al principio democratico di far coincidere le scelte pubbliche con quelle votate dalla maggioranza dei cittadini, almeno fintanto che non si sia risolto il «teorema d'impossibilità» di Arrow e non si sia provato che la razionalità collettiva è conseguibile anche in una società non totalitaria.
C'è solo un modo, per Screpanti, di salvare l'intervento redistributivo dello stato svincolandolo, al contempo, dall'obiettivo di promuovere la crescita del pil, ed è quello di assumere come fine dell'intervento pubblico l'aumento della «libertà» di ciascuno, dove per libertà s'intende semplicemente la «facoltà di scelta» di fare o acquistare qualcosa. Reinterpretata in questi termini, la libertà è qualcosa di oggettivamente misurabile e si può, pertanto, confrontare la quantità in cui individui diversi ne dispongono. E in un sistema in cui la democrazia non fosse solo formale ma anche sostanziale, politiche pubbliche volte alla produzione di beni che accrescano soprattutto la libertà dei poveri (e finanziate con la tassazione progressiva, che riduce soprattutto la libertà dei ricchi) non si limiterebbero a «ridistribuire la libertà», ma ne farebbero aumentare «anche la somma complessiva».
Il problema è che il ristabilimento di un'ipotesi forte di confrontabilità delle situazioni personali, che consenta cioè di confrontare persone diverse nella misura in cui coglie ciò che le rende uguali, rischia di entrare in conflitto con quel «diritto alla differenza» che costituisce un portato ormai ineliminabile della riflessione novecentesca, soprattutto della cultura di genere. Lo rileva Prestipino, quando - nel primo dei suoi contributi al volume - avverte subito di dover distinguere il proprio concetto di libertà (intesa come «espansione di possibilità sociali conquistate entro i limiti delle necessità naturali») da quello di Screpanti. E lo rileva ancor più Teresa Serra, allorché, nella sua riconsiderazione della teoria dello stato, ricorda che il venir meno della «costituzione» di cui parlava Costantino Mortati (cioè di «un certo modo di intendere e di avvertire il bene comune») si deve eminentemente all'imperante «policentrismo e pluriculturalismo che impedisce di avvertire e definire fatti normativi».
Sennonché, è difficile conciliare l'esigenza tipicamente femminista di «adattare le regole astratte al particolare, alla specificità dei contesti e delle esigenze concrete» (Serra), con una programmazione economica che non si proponga più lo scopo della «crescita quantitativa dei beni disponibili», ma si ponga «come luogo di scelte prevalentemente qualitative e come decisione concernente soprattutto la priorità dei beni comuni» (Prestipino). Il rischio, infatti, è che, in assenza di un criterio normativo che consenta una qualche confrontabilità tra preferenze, gusti e soggettività supposte differenti «per natura», la volontà pianificatrice, ancorché ispirata da nobili ragioni ambientaliste, si affermi come dominio totalitario. O è solo per caso che, come ricorda Prestipino, alcuni ambientalisti sostengono che «la libertà dovrebbe essere soltanto libertà di pensiero»?
Esiste, in altre parole, un nesso inscindibile che lega fra loro l'ipotesi di non confrontabilità delle felicità individuali, l'individualismo etico (e metodologico) di marca paretiana e il teorema d'impossibilità di Arrow. Di conseguenza, quanto più aumentiamo l'ambito delle differenze non negoziabili, tanto più riduciamo la possibilità di operare confronti interpersonali e tanto meno possiamo affidare alla programmazione pubblica le scelte concernenti cosa, come e per chi produrre, salvo impostarle sulla «volontà di potenza» di una politica totalitaria. Prestipino sostiene che gli economisti dovrebbero risparmiare agli ambientalisti «l'accusa di voler rinchiudere tutti in un convento», e sono pronto a scommettere che simili obiettivi sono alieni da lui e da tutti coloro le cui riflessioni hanno arricchito questo volume (Raniero La Valle, Fabrizio Giovenale, Carla Ravaioli, Enzo Scandurra). Ma il dilemma resta, né il vagheggiamento dell'utopia può di per sé scansare distopie pericolose: qualcosa il Novecento avrà pur insegnato, no?
Post scriptum. Nel «modello di sviluppo dal volto umano» schizzato nel suo intervento in coda al volume, Screpanti - se ben capisco - si pone esplicitamente come obiettivo un rallentamento della crescita del pil. Che queste cose le scriva Latouche, passi; ma perché un marxista dovrebbe ritenere il pil una misura significativa di qualcosa che non sia la confusione in cui versa l'econometria?
ilmanifesto.it
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