29.12.05

Quei romanzi pieni di scienza

PIERGIORGIO ODIFREDDI

Ci si può fidare della letteratura, come specchio che riflette la visione del mondo che caratterizza la propria epoca? I letterati naturalmente sostengono di sì, e noi siamo costretti a credere loro sulla parola: anche perché quando un' epoca è passata, di essa non rimangono appunto altro che le descrizioni che ne ha registrate la sua letteratura, comprese le branche fantastiche che vanno sotto il nome di teologia, filosofia e storia. Chi pensa, comunque, che la letteratura sia effettivamente un mezzo per conoscere l' uomo e la sua storia, e non soltanto un futile passatempo, deve anche aspettarsi che la scienza e la tecnologia rivestano per gli scrittori del mondo contemporaneo un ruolo analogo a quello che la mitologia e la religione giocavano per i cantori del mondo antico e medievale. E invece, la maggior parte della letteratura contemporanea è non solo ascientifica e atecnologica, ma addirittura antiscientifica e antitecnologica. La maggioranza dei letterati di ogni tipo, teologi e filosofi compresi, ritiene infatti di poter continuare a interpretare il presente secondo anacronistiche categorie adeguate soltanto, se pure mai lo sono state, alla descrizione di un passato che ormai non c' è più. Fortunatamente, esiste anche una minoranza che costituisce l' avanguardia della letteratura non anacronistica di domani. Essa è composta, da un lato, da quei letterati di formazione umanistica che, da Italo Calvino a Daniele del Giudice, da Raymond Queneau a Hans Magnum Enzensberger, hanno prestato un' attenzione particolare alla cultura scientifica e tecnologica. E, dall' altro lato, da quegli scrittori che sono pervenuti alla letteratura direttamente da una formazione non umanistica: dall' ingegner Carlo Emilio Gadda al chimico Primo Levi, dal fisico Thomas Pynchon al matematico John Coetzee (premio Nobel per letteratura nel 2003). Di questo secondo drappello fa parte Andrew Crumey, un fisico teorico che ha ottenuto un grande successo nel mondo anglosassone coi suoi cinque romanzi, quattro dei quali tradotti in Italia da Ponte alle Grazie: Musica in una lingua straniera (1994), che descrive la faticosa scrittura di un giallo contenuto nel libro, e del libro stesso; Pftiz (1995), che narra le vicende di una città immaginaria progettata da un principe del Settecento in ogni dettaglio, dagli edifici agli abitanti, ma esistente solo sulla carta; Il professore, Rousseau e l' arte dell' adulterio (2000), che espande in una triplice storia due brevi passaggi delle Confessioni che citano di sfuggita due ignoti copisti francesi del Settecento; e L' amore perduto e la teoria dei quanti (2004), il cui mondo macroscopico si comporta come quello microscopico, con un' instabile sovrapposizione di stati potenziali e un molteplice parallelismo di mondi possibili. La caratteristica linguistica comune di questi libri è un esplicito ritorno alle origini del romanzo moderno: quelle, per intenderci, di Jacques il fatalista di Denis Diderot, che aveva additato alla letteratura una promettente strada che essa non seguì, preferendo imboccare il sentiero che la portò a impantanarsi nella melma del romanticismo. Queste origini sono consce ed esplicite nell' opera di Crumey, che già dopo un paio di pagine del suo primo libro si chiede: «Da dove venivano? Dove stavano andando? (Ma c' è mai qualcuno che sappia da dove viene o dove sta andando?)», riecheggiando il famoso incipit di Diderot. E nel secondo libro inscena dialoghi fra il Conte e Pfitz che potrebbero essere usciti direttamente dalla sua penna. E nel terzo discute apertamente la sua teoria del Paradosso sull' attore: cioè, che l' attore e l' artista migliori sono quelli che trasmettono emozioni e idee quando essi stessi non provano nulla, perché i loro sentimenti sarebbero soltanto d' intralcio alla loro capacità di recitare o esprimersi in maniera convincente. Paradossalmente: «poiché la sincerità è la cosa più importante, se uno impara a fingerla è a posto», con tanti saluti al romanticismo. Ma Crumey non è una specie di Pierre Menard, e non cerca di riscrivere Jacques il fatalista: se non altro perché viene dopo Borges, col quale è costretto naturalmente a fare i conti. E li fa nel capitolo 28 di Musica in una lingua straniera, in una riscrittura della «Biblioteca di Babele» in cui dichiara fra l' altro: «che cos' è la scrittura se non una specie di furto, un furto dalla biblioteca delle idee che contiene ogni libro possibile?» Così come fa i conti, oltre che ovviamente con Rousseau, anche con Proust in Il professore, Rousseau e l' arte dell' adulterio», riportando in vita entrambi gli scrittori e facendoli diventare personaggi di un romanzo proustianamente narrato da «questa persona chiamata io, che non coincide sempre con me stesso». Con punti di riferimento come Diderot e Rousseau da un lato, e Proust e Borges dall' altro, quella di Crumey non può che essere una letteratura della divagazione e del coinvolgimento diretto del lettore nell' opera, all' insegna dei motti: «Ogni storia è una infinità di storie», e «Un libro è riuscito se ci fa sentire che siamo noi quel particolare Lettore che l' Autore ha in mente». Ed è anche una letteratura a millefoglie, con livelli intrecciati fra loro fino a confondersi l' un l' altro in una sorta di mise en abyme che coinvolge il libro stesso: il quale a volte entra nel racconto come protagonista, insieme al suo autore e al suo lettore, e altre volte presenta le stesse pagine e le stesse situazioni in versioni multiple, che riprendono continuamente il filo della storia facendola andare in direzioni alternative, tutte vere (o false) allo stesso modo. Ma Crumey ha una marcia in più rispetto ai letterati che in passato hanno suonato variazioni su questi temi: il fatto di essere un fisico che conosce la scienza dal di dentro, e la sa usare a proposito e con criterio. Nei suoi libri essa a volte interviene in maniera parodistica, come nella «Visione dell' universo» inserita in Musica in una lingua straniera: un trattato di pseudofisica che spiega come esistano tre particelle (gli ideoni) che possono viaggiare più velocemente della luce e sono le componenti fondamentali di tutte le cose. O come nel «Trattato sulla poesia meccanica» inserito in Il professore, che propone un marchingegno rotante per la critica letteraria, tutto basato su pesi, fili, leve, pulegge e forze. Altre volte la scienza interviene obliquamente, nella forma di citazioni, immagini, indovinelli, enigmi o allegorie. Come nelle allusioni in Pfitz al paradosso di Russell attraverso «l' indice degli indici che non includono se stessi», o alla teoria dei frattali in una pagina sulla lunghezza della costa d' Inghilterra. O nell' uso narrativo del dilemma delle tre porte di Lewis Carroll, che Il professore eleva a metafora di alcuni degli aspetti problematici e paradossali della fisica moderna. O nella citazione del passo di Moby Dick in cui si descrivono marmitte per bollire il grasso di balena a forma di cicloide, in L' amore perduto e la teoria dei quanti». In quest' ultimo libro, però, la scienza interviene più esplicitamente che negli altri. Esso ruota infatti attorno al cruciale soggiorno sulle alpi svizzere che Erwin Schrcdinger fece nelle vacanze di Natale del 1925, con un' accompagnatrice sconosciuta e in circostanze avvolte di mistero: fu in quei giorni che egli ebbe l' illuminazione che lo portò alla sua celeberrima equazione d' onda, che descrive il comportamento quantistico della materia. Naturalmente, come nota lo stesso Crumey, «riscrivere la storia è facile, ma riscrivere la scienza non lo è affatto». Lui però ci riesce ottimamente, e di passaggio risponde anche alla domanda che abbiamo posto agli inizi, notando in Musica in una lingua straniera che «se lo scrittore è qualcuno che porge uno specchio al mondo, allora si tratta per forza di uno specchio infranto che riflette vari punti della realtà». E che, come diceva Pascal, «se un libro ci parla reggendo uno specchio alla nostra anima, non è nell' autore ma in noi stessi che troviamo tutto ciò che ci vediamo».

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