dal BLOG di Beppe Turani
Questa mattina su "Repubblica" ho pubblicato il seguente commento, scritto a caldo, sul crollo delle Borse. Sarebbe interessante conoscere, sulle quattro teorie esposte nell'articolo, l'opinione dei lettori.
Ci sono almeno quattro teorie per spiegare il crollo di questi ultimi giorni delle Borse. Crollo che si è portato via alcune centinaia di miliardi di euro e che ha rimesso i listini, grosso modo, esattamente dove si trovavano a fine 2005.
1- La prima teoria è forse la più semplice e fa riferimento al fatto che i listini erano saliti troppo, e quindi sono tornati indietro. A marzo erano già raddoppiati rispetto al 2003. Ma la corsa è andata avanti. Poiché niente ha più successo del successo, i listini hanno continuato a correre. Un po’ come ciclisti impazziti o dopati. I crolli di questi giorni, quindi, rimettono solo le cose a posto. Un giorno o l’altro l’avanzata riprenderà. E allora operatori smaliziati e belle signore un po’ ingenue torneranno a contare i loro guadagni e a regalare e a regalarsi gioielli di Bulgari e di Cartier.
2- La seconda spiegazione è assai più sofisticata. Gli operatori più importanti, si dice, si sarebbero accorti che l’inflazione sta tornando e alla grande. E poiché i capi delle banche centrali considerano (giustamente) l’inflazione come il nemico numero uno della civiltà moderna, sono già pronti con i fucili spianati. Sono già pronti, cioè, a far salire ancora i tassi di interesse (cioè il costo del denaro) proprio quando un po’ tutti erano convinti che l’aumento dei tassi era ormai giunto alla fine. E si sa che le Borse non amano il rialzo del costo del denaro. Per una ragione molto semplice. Se il denaro costa di più, costa di più fare operazioni finanziarie con soldi presi a prestito. Ma peggiorano anche i conti delle aziende che hanno molti debiti.
Insomma, con l’inflazione che ritorna e i tassi che forse si rimettono a crescere, ci sono buoni motivi (compresi quelli psicologici) per mandare a picco i listini.
3- La terza teoria è ancora più complessa e tira in ballo le materie prime, che sono crollate. Sono andate giù, si dice, perché c’è aria di inflazione, ma anche (se non soprattutto) perché l’economia (dall’Asia all’America) è vista in fase frenante subito dopo l’estate, forse anche prima. E se l’economia rallenta, sarà difficile che le aziende (che in Borsa avevano già raggiunto livelli record) possano crescere ancora. Bene che vada, scenderanno. E quindi perché non anticipare qualcosa che è già scritto nelle previsioni sull’economia? Perché non vendere e mandare i listini a quel paese?
4- La quarta spiegazione è persino meglio del Codice Da Vinci e dei migliori galli in circolazione. Le Borse mondiali, si dice, sono ormai dominati dagli hedge fund (fondi di investimento ai quali non si può accedere se non si dispone almeno di qualche centinaio di migliaia di euro, una sorta di club dei super ricchi del pianeta). Questi fondi, si aggiunge, controllano non solo le Borse, ma anche un po’ tutti gli altri mercati, primo fra tutti quello delle materie prime.
E in questi anni sarebbero stati loro a spingere i mercati (materie prime e Borse) fino agli attuali eccessi. Sarebbero stati loro, gli hedge fund, a far triplicare e anche quadruplicare i prezzi di certe materie prime e a mandare le Borse al raddoppio oltre ogni ragionevole aspettativa.
E sarebbero sempre loro che in questi giorni hanno deciso di mandare a picco quella costruzione artificiale (l’insano rialzo di tutto) che essi stessi avevano eretto. Hanno deciso di abbattere il loro grattacielo artificiale perché hanno capito che non si poteva più andare avanti. Insomma, dopo aver raddoppiato le quotazioni in tre anni, hanno capito che non si poteva continuare. Prima o poi qualcuno si sarebbe accorto che era un bluff. E allora, meglio tagliare la corda per primi. E, quasi certamente, perché hanno capito che la stagione delle vacche grasse (crescita economica da boom) aveva i giorni contati. Naturalmente, si dice nelle sale operative di mezzo mondo, gli hedge fund hanno guadagnato prima e ci stanno guadagnando adesso, visto che hanno sempre condotto loro il gioco.
Quale scegliere fra queste quattro teorie? Difficile dare la risposta. Probabilmente c’è del vero in tutte e quattro. L’inflazione comincia a preoccupare di nuovo, i tassi forse non è vero che hanno finito di aumentare, l’economia rallenterà di sicuro e gli hedge fund (grazie anche all’uso dei derivati e di altre diavolerie finanziarie) sono effettivamente molto potenti e molto spregiudicati.
Che cosa succederà adesso? In questo caso le teorie sono soltanto due, anche se entrambe poco rassicuranti. La prima (la più moderata) sostiene che si andrà giù ancora del 5-6 per cento (forse addirittura del 10 per cento). Poi tutto si fermerà e si tornerà a ragionare. Le signore e gli operatori potranno tornare a comprare titoli in Borsa.
La seconda teoria è più amara e sostiene che i listini (salvo interventi straordinari della Federal Riserve, la banca centrale americana) andranno giù come mattoni ancora a lungo, anche del 20-30 per cento, fino a riportare i prezzi delle azioni verso livelli più ragionevoli e più accettabili.
Oggi, è impossibile dire chi ha ragione e quale sarà la teoria vincente. E cercare di fare gli stregoni.
Oggi, di fronte al massacro dei listini si può solo avere paura.
I link ai giornali degli articoli spesso cambiano e diventa difficile se non impossibile recuperare i testi ai quali si riferivano. Questo è l'archivio on-line del blog Giornale-NOTIZIEOGGI
23.5.06
Citazioni
Il regista e Cerami si sono divertiti a mettere in bocca
ai personaggi del film una nutrita serie di citazioni famose
Benigni rivela: "Ecco tutti i poeti
che hanno scritto la mia Tigre"
di ROBERTO BENIGNI
IL TALMUD inizia a pagina 2 proprio per indicare al lettore che anche quando avrà finito di leggerlo non avrà ancora cominciato.
E Machiavelli dice: ci sono persone che sanno tutto, ma questo è tutto quello che sanno.
E allora perché leggere? Ma magari nel mondo, come nelle fiabe, c´è ancora qualcuno che fa una cosa che ci hanno insegnato quando eravamo piccoli piccoli e che tutti ci siamo dimenticati.
Che Dio ti benedica, caro lettore! Ma chi sei? Dove sei? Fatti vedere! Tu magari stai leggendo così, tranquillamente, senza renderti conto della tua unicità.
Ormai gli scrittori sono molto più numerosi dei lettori e tra poco sarà lo scrittore a chiedere l´autografo al lettore, diceva Shane tanto tempo fa.
Ma ora di lettori ne è rimasto solo uno: Tu. Che Dio ti conservi.
Borges diceva: io non sono orgoglioso dei libri che ho scritto, sono orgoglioso dei libri che ho letto. Altri tempi. Nessuno legge più. Nemmeno i critici, i quali sostengono che se leggessero un libro per poi recensirlo ciò altererebbe il loro giudizio, sarebbero condizionati da ciò che leggono, insomma non potrebbero scrivere quello che vogliono perché anche loro giustamente vogliono soprattutto scrivere e non leggere.
Forse perché siamo fatti a immagine e somiglianza del nostro Creatore. È pur vero, infatti, che anche il Padreterno non ha mai letto un libro ma ne ha scritto uno. Nel quale ci indica l´infallibile via per vivere in pace. E da come va il mondo si capisce, ancora una volta, che nessuno lo ha letto.
Sì, nessuno legge più. Nemmeno i coretori di bozze (se troverai scritto correttori con una sola "R" e una sola "T", ciò ne sarà la riprova).
Quindi, amato lettore, che Dio ti benedica ancora! Poiché tu stai leggendo. E una sceneggiatura, per giunta! E cos'è una sceneggiatura? Lo sceneggiatore è come lo Spirito Santo. Colui che ha soffiato nell'animo di Dio tutte le trame, gli intrecci, le battute e ha letto l'Eternità per poi scrivere quello che l'autore ha realizzato in sette giorni. E ora noi non facciamo che ripetere. Forse per questo nessuno legge più. Perché tutto è già stato detto. E anche che tutto è già stato detto è già stato detto. Non c'è nulla di nuovo sotto il sole, diceva Qohélet. E allora forse bisognerà andare a vedere cosa c'è sopra il sole per trovare una novità.
Ma la novità, ha detto Prévert, è la cosa più vecchia che ci sia. E allora proviamo a rinnovarci con l'avanguardia. Ma Gore Vidal ha detto che al mondo tutto cambia tranne l'avanguardia. E allora? Che fare?, come diceva Lenin. Ah! Non se ne esce. Mi verrebbe da imprecare e urlare: "Merda!" se non dovessi pagare i diritti d'autore a Cambronne.
Ma tu, lettore beato, che non hai nulla da fare, puoi ben credermi se ti dico che questa sceneggiatura, figlia com'è del mio pensiero, è la più bella, la più brillante, la più geniale che si possa immaginare. Però non ho potuto sfuggire alle leggi della natura, e in natura ogni cosa ne produce un'altra simile a sé. L'autore deve soltanto giovarsi dell'imitazione; e tanto più perfetta sarà l'imitazione, tanto migliore sarà quel che scriverà (Miguel de Cervantes, Don Chisciotte, I, Prologo).
Addirittura Picasso ha detto: "Io non imito, copio".
E allora, caro lettore, goditela questa meravigliosa sceneggiatura che, come ogni seria opera d'arte, narra la genesi della propria creazione, come dice Jakobson.
Sì, perché anche noi abbiamo copiato tutto in questa sceneggiatura scritta, come direbbe Vincenzo Cerami, a quattro mani con Roberto Benigni. Ormai siamo diventati tutti come la dea Eco, quella che non sa parlare per prima, che non può tacere quando le si parla, che ripete solamente i suoni della voce che la colpisce, ha detto Ovidio.
E quindi ha ragione Karl Kraus quando scrive: chi ha qualcosa da dire si faccia avanti e taccia!
Ed è lo stesso Kraus a sostenere che la lingua è un sistema di citazioni. E io lo cito!
Voglio fare come Henry James, che meravigliosamente ha detto: la mia mente è talmente pura che non è stata mai sporcata da un'idea.
Anche Walter Benjamin sognava di pubblicare un libro interamente fatto di citazioni. "A me manca l'originalità necessaria", gli ha risposto George Steiner. Però sarebbe piaciuto perfino a lui. Infatti, subito dopo il creatore di una buona frase viene, in ordine di merito, il primo che lo cita. E anche se qualcuno può non essere d'accordo con questo pensiero di Ralph W. Emerson, come per esempio Roland Barthes che dice che non si può riprodurre ciò che è stato detto senza provare un certo senso di colpa, è pur vero che il semplice prelevamento di una citazione, la scelta nella quale la inserisco, il taglio che le dò, la trasforma e la fa diventare mia, come ha osservato Michel Butor.
Altrimenti cosa farebbero autori come Paul Celan, che ha detto: "Non ho mai saputo inventare"? E tu, caro lettore, credo che sarai d'accordo con me.
Anche perché le obiezioni spesso nascono dal fatto che chi le fa non è stato lui a trovare l'idea che attacca. E infatti io non ho nulla da obiettare a questa idea che ho appena esposto di Paul Valéry. Proprio per questo non mi sfiora neanche l'idea di avere delle idee, perché oltre a essere attaccati ci si mette anche nella condizione di essere citati, tanto per citare un pensiero di Jean Rostand. No, no, sono d'accordo con Morselli: voglio conoscere solo quello che so già. Soprattutto perché sono sicuro che se qualcuno oggi dice qualcosa di nuovo vuol dire che l'ha letto da qualche altra parte, ho letto in un libro di Kraus. Va bene, finisco qui perché ricordo che agli ambasciatori di Samo che avevano tenuto un lungo discorso, gli Spartani dissero: abbiamo dimenticato il principio e perciò non abbiamo capito la conclusione. Questo almeno racconta Plutarco.
Il lettore mi perdonerà e sarà finalmente libero di leggere questa meravigliosa storia dove, come ha confessato il divo Eco a proposito di Il nome della rosa, non c'è una parola di mio. E con questo, caro lettore, concludo. Dio ti dia salute e non si scordi di me. Vale.
P. S. L'ultima frase è ancora di Cervantes (Don Chisciotte, I, Prologo), citata da Stendhal in Il rosso e il nero.
repubblica.it
ai personaggi del film una nutrita serie di citazioni famose
Benigni rivela: "Ecco tutti i poeti
che hanno scritto la mia Tigre"
di ROBERTO BENIGNI
IL TALMUD inizia a pagina 2 proprio per indicare al lettore che anche quando avrà finito di leggerlo non avrà ancora cominciato.
E Machiavelli dice: ci sono persone che sanno tutto, ma questo è tutto quello che sanno.
E allora perché leggere? Ma magari nel mondo, come nelle fiabe, c´è ancora qualcuno che fa una cosa che ci hanno insegnato quando eravamo piccoli piccoli e che tutti ci siamo dimenticati.
Che Dio ti benedica, caro lettore! Ma chi sei? Dove sei? Fatti vedere! Tu magari stai leggendo così, tranquillamente, senza renderti conto della tua unicità.
Ormai gli scrittori sono molto più numerosi dei lettori e tra poco sarà lo scrittore a chiedere l´autografo al lettore, diceva Shane tanto tempo fa.
Ma ora di lettori ne è rimasto solo uno: Tu. Che Dio ti conservi.
Borges diceva: io non sono orgoglioso dei libri che ho scritto, sono orgoglioso dei libri che ho letto. Altri tempi. Nessuno legge più. Nemmeno i critici, i quali sostengono che se leggessero un libro per poi recensirlo ciò altererebbe il loro giudizio, sarebbero condizionati da ciò che leggono, insomma non potrebbero scrivere quello che vogliono perché anche loro giustamente vogliono soprattutto scrivere e non leggere.
Forse perché siamo fatti a immagine e somiglianza del nostro Creatore. È pur vero, infatti, che anche il Padreterno non ha mai letto un libro ma ne ha scritto uno. Nel quale ci indica l´infallibile via per vivere in pace. E da come va il mondo si capisce, ancora una volta, che nessuno lo ha letto.
Sì, nessuno legge più. Nemmeno i coretori di bozze (se troverai scritto correttori con una sola "R" e una sola "T", ciò ne sarà la riprova).
Quindi, amato lettore, che Dio ti benedica ancora! Poiché tu stai leggendo. E una sceneggiatura, per giunta! E cos'è una sceneggiatura? Lo sceneggiatore è come lo Spirito Santo. Colui che ha soffiato nell'animo di Dio tutte le trame, gli intrecci, le battute e ha letto l'Eternità per poi scrivere quello che l'autore ha realizzato in sette giorni. E ora noi non facciamo che ripetere. Forse per questo nessuno legge più. Perché tutto è già stato detto. E anche che tutto è già stato detto è già stato detto. Non c'è nulla di nuovo sotto il sole, diceva Qohélet. E allora forse bisognerà andare a vedere cosa c'è sopra il sole per trovare una novità.
Ma la novità, ha detto Prévert, è la cosa più vecchia che ci sia. E allora proviamo a rinnovarci con l'avanguardia. Ma Gore Vidal ha detto che al mondo tutto cambia tranne l'avanguardia. E allora? Che fare?, come diceva Lenin. Ah! Non se ne esce. Mi verrebbe da imprecare e urlare: "Merda!" se non dovessi pagare i diritti d'autore a Cambronne.
Ma tu, lettore beato, che non hai nulla da fare, puoi ben credermi se ti dico che questa sceneggiatura, figlia com'è del mio pensiero, è la più bella, la più brillante, la più geniale che si possa immaginare. Però non ho potuto sfuggire alle leggi della natura, e in natura ogni cosa ne produce un'altra simile a sé. L'autore deve soltanto giovarsi dell'imitazione; e tanto più perfetta sarà l'imitazione, tanto migliore sarà quel che scriverà (Miguel de Cervantes, Don Chisciotte, I, Prologo).
Addirittura Picasso ha detto: "Io non imito, copio".
E allora, caro lettore, goditela questa meravigliosa sceneggiatura che, come ogni seria opera d'arte, narra la genesi della propria creazione, come dice Jakobson.
Sì, perché anche noi abbiamo copiato tutto in questa sceneggiatura scritta, come direbbe Vincenzo Cerami, a quattro mani con Roberto Benigni. Ormai siamo diventati tutti come la dea Eco, quella che non sa parlare per prima, che non può tacere quando le si parla, che ripete solamente i suoni della voce che la colpisce, ha detto Ovidio.
E quindi ha ragione Karl Kraus quando scrive: chi ha qualcosa da dire si faccia avanti e taccia!
Ed è lo stesso Kraus a sostenere che la lingua è un sistema di citazioni. E io lo cito!
Voglio fare come Henry James, che meravigliosamente ha detto: la mia mente è talmente pura che non è stata mai sporcata da un'idea.
Anche Walter Benjamin sognava di pubblicare un libro interamente fatto di citazioni. "A me manca l'originalità necessaria", gli ha risposto George Steiner. Però sarebbe piaciuto perfino a lui. Infatti, subito dopo il creatore di una buona frase viene, in ordine di merito, il primo che lo cita. E anche se qualcuno può non essere d'accordo con questo pensiero di Ralph W. Emerson, come per esempio Roland Barthes che dice che non si può riprodurre ciò che è stato detto senza provare un certo senso di colpa, è pur vero che il semplice prelevamento di una citazione, la scelta nella quale la inserisco, il taglio che le dò, la trasforma e la fa diventare mia, come ha osservato Michel Butor.
Altrimenti cosa farebbero autori come Paul Celan, che ha detto: "Non ho mai saputo inventare"? E tu, caro lettore, credo che sarai d'accordo con me.
Anche perché le obiezioni spesso nascono dal fatto che chi le fa non è stato lui a trovare l'idea che attacca. E infatti io non ho nulla da obiettare a questa idea che ho appena esposto di Paul Valéry. Proprio per questo non mi sfiora neanche l'idea di avere delle idee, perché oltre a essere attaccati ci si mette anche nella condizione di essere citati, tanto per citare un pensiero di Jean Rostand. No, no, sono d'accordo con Morselli: voglio conoscere solo quello che so già. Soprattutto perché sono sicuro che se qualcuno oggi dice qualcosa di nuovo vuol dire che l'ha letto da qualche altra parte, ho letto in un libro di Kraus. Va bene, finisco qui perché ricordo che agli ambasciatori di Samo che avevano tenuto un lungo discorso, gli Spartani dissero: abbiamo dimenticato il principio e perciò non abbiamo capito la conclusione. Questo almeno racconta Plutarco.
Il lettore mi perdonerà e sarà finalmente libero di leggere questa meravigliosa storia dove, come ha confessato il divo Eco a proposito di Il nome della rosa, non c'è una parola di mio. E con questo, caro lettore, concludo. Dio ti dia salute e non si scordi di me. Vale.
P. S. L'ultima frase è ancora di Cervantes (Don Chisciotte, I, Prologo), citata da Stendhal in Il rosso e il nero.
repubblica.it
14.5.06
L'esercito dei "poveri", dieci milioni sotto i 6 mila euro
I Paperoni de´ Paperoni sono, sarebbero, una minoranza. I poveri, invece, tantissimi. Così gli italiani si raccontano al Fisco nella dichiarazione dei redditi. Il ministero dell´Economia (Dipartimento per le Politiche fiscali) rivela che solo 49.645 contribuenti incassano, o quantomeno dichiarano, più di 200 mila euro nel 2003. Sono lo 0,12% tra quanti hanno presentato "Unico" o il 730. Quattro gatti. Se guardiamo a chi dichiara oltre 100.000 euro, le fila dei benestanti si affollano di poco raggiungendo quota 0,61%. Mentre i cittadini che giurano di vivere con meno di 500 euro al mese (pari a 6 mila euro l´anno) sono 10 milioni. Rappresentano il 26% dei contribuenti. Di questi, 2,4 milioni denunciano redditi inferiori ai mille euro l´anno.
C´è poi il famoso ceto medio. La maggior parte dei contribuenti è concentrata in una fascia di reddito mediana che va dai 12 mila 500 ai 25 mila. Sono 14 milioni e mezzo. La fascia comprende il 64,5% di tutti i contribuenti se si considera chi va da 7 mila 500 ai 30 mila 990. Regione che vai, dichiarazione che trovi. I lombardi sono al primo posto nella classifica della generosità. In media denunciano al Fisco oltre 18 mila euro di reddito e ne versano 4 mila 600 euro, come Irpef. Pagano così 900 euro in più della media italiana. Ma i contribuenti del Lazio sono vicini. Dichiarano 17 mila 550 euro di reddito l´anno e pagano solo 100 euro in meno di Irpef (cioè 4.500 euro). Gli emiliani sono a quota 17 mila 200 euro.
Versano un´Irpef superiore alla media anche i trentini (3.880 euro), i piemontesi (3.870) e i liguri (3.830). A metà classifica Friuli (3.720) e Toscana (3.660). I calabri dichiarano meno di tutti: 11 mila 330 euro di reddito, ma pagano 2 mila 600 euro di imposta, 50 in più dei vicini della Basilicata. A proposito di Irpef battono un colpo anche gli Artigiani di Mestre. L´associazione calcola i risparmi che gli italiani hanno ottenuto nel 2005 (rispetto al 2004) in seguito alla riforma del governo Berlusconi. L´indagine conferma che la riforma ha premiato soprattutto i redditi alti e le famiglie più numerose. Un numero su tutti. Chi ha un reddito di assoluto rispetto, pari a 300 mila euro, e una moglie a carico, ha portato a casa uno sconto fiscale vicino ai 6 mila euro.
kataweb.it
C´è poi il famoso ceto medio. La maggior parte dei contribuenti è concentrata in una fascia di reddito mediana che va dai 12 mila 500 ai 25 mila. Sono 14 milioni e mezzo. La fascia comprende il 64,5% di tutti i contribuenti se si considera chi va da 7 mila 500 ai 30 mila 990. Regione che vai, dichiarazione che trovi. I lombardi sono al primo posto nella classifica della generosità. In media denunciano al Fisco oltre 18 mila euro di reddito e ne versano 4 mila 600 euro, come Irpef. Pagano così 900 euro in più della media italiana. Ma i contribuenti del Lazio sono vicini. Dichiarano 17 mila 550 euro di reddito l´anno e pagano solo 100 euro in meno di Irpef (cioè 4.500 euro). Gli emiliani sono a quota 17 mila 200 euro.
Versano un´Irpef superiore alla media anche i trentini (3.880 euro), i piemontesi (3.870) e i liguri (3.830). A metà classifica Friuli (3.720) e Toscana (3.660). I calabri dichiarano meno di tutti: 11 mila 330 euro di reddito, ma pagano 2 mila 600 euro di imposta, 50 in più dei vicini della Basilicata. A proposito di Irpef battono un colpo anche gli Artigiani di Mestre. L´associazione calcola i risparmi che gli italiani hanno ottenuto nel 2005 (rispetto al 2004) in seguito alla riforma del governo Berlusconi. L´indagine conferma che la riforma ha premiato soprattutto i redditi alti e le famiglie più numerose. Un numero su tutti. Chi ha un reddito di assoluto rispetto, pari a 300 mila euro, e una moglie a carico, ha portato a casa uno sconto fiscale vicino ai 6 mila euro.
kataweb.it
13.5.06
Basta unilateralismi, parliamo di Jugoslavia
Peter Handke
Finalmente, dopo più di un decennio di un linguaggio giornalistico a senso (e a non-senso) unico, sembra che si stia creando un'apertura in Francia nella stampa (1), forse non soltanto in Francia, per parlare in modo diverso - o semplicemente per cominciare a parlare - della Jugoslavia.
Sembrano divenuti possibili un dibattito, una discussione, un discorso, una fruttuosa contesa, un interrogarsi comune, e narrazioni che si parlano...Prima c'era il nulla e ancora il nulla, diffamazioni al posto del dibattito, costruite con parole prefabbricate, ripetute all'infinito e utilizzate come armi automatiche.
Allarghiamo dunque questa breccia o apertura, questa primavera di parole. Ascoltiamoci finalmente gli uni e gli altri invece di urlare e abbaiare da due campi nemici. Ma non tolleriamo più nemmeno gli esseri(?), le anime (?) cattive (!) che, nel magico dilemma jugoslavo, continuano a lanciare parole-proiettili come «revisionismo», «apartheid», «Hitler», «dittatura sanguinaria», ecc. Fermiamo ogni paragone e parallelo su quello che riguarda la guerra nella Jugoslavia. Restiamo agli avvenimenti che, come avvenimenti di una guerra civile, innescata o almeno coprodotta da un'Europa in malafede o, almeno, ignorante, pure se già messi a nudo restano per tutte le parti comunque terribili. Smettiamola di paragonare Slobodan Milosevic a Hitler. Smettiamola di paragonare lui e sua moglie Mira Markovic a Macbeth e alla sua Lady o di fare paralleli tra la coppia e il dittatore Ceausescu e la sua donna. E non usiamo mai più per i campi disseminati nella guerra di secessione in Jugoslavia l'espressione «campi di concentramento».
E' vero: c'erano campi intollerabili tra il 1992 e il 1995 nel territorio delle Repubbliche jugoslave, soprattutto in Bosnia. Però smettiamo di legare meccanicamente nella nostra testa questi campi ai Serbobosniaci: c'erano anche campi croati e anche campi musulmani, e i crimini che vi sono stati commessi vengono e verranno giudicati dal Tribunale dell'Aja. E, finalmente, smettiamola di legare i massacri (dei quali - al plurale - quelli di Srebrenica del luglio 1995 sono di gran lunga i più atroci) alle forze armate o ai paramilitari serbi. Ascoltiamo anche - finalmente - i sopravvissuti ai massacri fatti dai musulmani nei numerosi villaggi serbi attorno a Srebrenica - musulmana - massacri commessi e ripetuti nei tre anni che precedettero la caduta di Srbrenica, stragi guidate dal comandante di Srebrenica che portarono nel luglio 1995 - una vendetta infernale e una vergogna incancellabile per i responsabili serbobosniaci - alla grande mattanza, e per una volta la parola che è stata spesso ripetuta è davvero giusta, «la più grande in Europa dopo la Seconda guerra mondiale». Aggiungendo questa informazione: che tutti i soldati e gli uomini di Srebrenica che sono fuggiti dalla Bosnia serba traversando il fiume Drina, la frontiera tra i due Stati, fuggivano in Serbia, paese all'epoca sotto l'autorità di Milosevic, che tutti questi soldati arrivando nella cosiddetta Serbia nemica venivano salvati, senza che lì si verificassero uccisioni o stragi.
Sì, ascoltiamo, dopo aver ascoltato «le madri di Srebrenica», anche le madri o una sola madre del vicino villaggio serbo di Kravica, raccontare il massacro del Natale ortodosso 1992-1993, perpetrato dalle forze musulmane di Srebrenica, un massacro anche contro le donne e i bambini di Kravica (il solo crimine per il quale vale la parola genocidio).
E smettiamola di associare gli «snipers» di Sarajevo ciecamente ai «Serbi»: la maggior parte dei caschi blu francesi uccisi a Sarajevo furono vittime dei cecchini musulmani. E smettiamola di collegare l'assedio (orribile, stupido, incomprensibile) di Sarajevo esclusivamente all'armata serbobosniaca: nella Sarajevo degli anni 1992-1995, decine di migliaia di civili serbi rimasero bloccati nei quartieri del centro, come Grbavica, che a loro volta erano assediati - eccome se lo erano! - dalle forze musulmane. E basta attribuire gli stupri soltanto ai serbi. Smettiamola di collegare le parole in modo unilaterale, alla maniera del cane di Pavlov. Allarghiamo l'apertura che ci si presenta. Che la breccia non sia più ostruita da parole marce e avvelenate. Resti fuori ogni mente malvagia. Abbandoniamo finalmente questo linguaggio. Impariamo l'arte della domanda, viaggiamo nel paese sonoro, in nome della Jugoslavia, in nome di un'altra Europa. Viva l'altra Europa. Viva la Jugoslavia. Zinela Jugoslavija.
(1)Tra gli altri, gli articoli di Brigitte Salino e di Anne Weber su Le Monde del 4 maggio, il commento di Pierre Marcabru nel Figaro dello stesso giorno e l'appello di Christian Salmon su Libération del 5.
Questo articolo dello scrittore e drammaturgo austriaco censurato dalla Comédie Française «perché è andato al funerale di Milosevic», è uscito mercoledì 10 su Libération, ed è stato pubblicato da il manifesto su autorizzazione dell'autore.
ilmanifesto.it
Finalmente, dopo più di un decennio di un linguaggio giornalistico a senso (e a non-senso) unico, sembra che si stia creando un'apertura in Francia nella stampa (1), forse non soltanto in Francia, per parlare in modo diverso - o semplicemente per cominciare a parlare - della Jugoslavia.
Sembrano divenuti possibili un dibattito, una discussione, un discorso, una fruttuosa contesa, un interrogarsi comune, e narrazioni che si parlano...Prima c'era il nulla e ancora il nulla, diffamazioni al posto del dibattito, costruite con parole prefabbricate, ripetute all'infinito e utilizzate come armi automatiche.
Allarghiamo dunque questa breccia o apertura, questa primavera di parole. Ascoltiamoci finalmente gli uni e gli altri invece di urlare e abbaiare da due campi nemici. Ma non tolleriamo più nemmeno gli esseri(?), le anime (?) cattive (!) che, nel magico dilemma jugoslavo, continuano a lanciare parole-proiettili come «revisionismo», «apartheid», «Hitler», «dittatura sanguinaria», ecc. Fermiamo ogni paragone e parallelo su quello che riguarda la guerra nella Jugoslavia. Restiamo agli avvenimenti che, come avvenimenti di una guerra civile, innescata o almeno coprodotta da un'Europa in malafede o, almeno, ignorante, pure se già messi a nudo restano per tutte le parti comunque terribili. Smettiamola di paragonare Slobodan Milosevic a Hitler. Smettiamola di paragonare lui e sua moglie Mira Markovic a Macbeth e alla sua Lady o di fare paralleli tra la coppia e il dittatore Ceausescu e la sua donna. E non usiamo mai più per i campi disseminati nella guerra di secessione in Jugoslavia l'espressione «campi di concentramento».
E' vero: c'erano campi intollerabili tra il 1992 e il 1995 nel territorio delle Repubbliche jugoslave, soprattutto in Bosnia. Però smettiamo di legare meccanicamente nella nostra testa questi campi ai Serbobosniaci: c'erano anche campi croati e anche campi musulmani, e i crimini che vi sono stati commessi vengono e verranno giudicati dal Tribunale dell'Aja. E, finalmente, smettiamola di legare i massacri (dei quali - al plurale - quelli di Srebrenica del luglio 1995 sono di gran lunga i più atroci) alle forze armate o ai paramilitari serbi. Ascoltiamo anche - finalmente - i sopravvissuti ai massacri fatti dai musulmani nei numerosi villaggi serbi attorno a Srebrenica - musulmana - massacri commessi e ripetuti nei tre anni che precedettero la caduta di Srbrenica, stragi guidate dal comandante di Srebrenica che portarono nel luglio 1995 - una vendetta infernale e una vergogna incancellabile per i responsabili serbobosniaci - alla grande mattanza, e per una volta la parola che è stata spesso ripetuta è davvero giusta, «la più grande in Europa dopo la Seconda guerra mondiale». Aggiungendo questa informazione: che tutti i soldati e gli uomini di Srebrenica che sono fuggiti dalla Bosnia serba traversando il fiume Drina, la frontiera tra i due Stati, fuggivano in Serbia, paese all'epoca sotto l'autorità di Milosevic, che tutti questi soldati arrivando nella cosiddetta Serbia nemica venivano salvati, senza che lì si verificassero uccisioni o stragi.
Sì, ascoltiamo, dopo aver ascoltato «le madri di Srebrenica», anche le madri o una sola madre del vicino villaggio serbo di Kravica, raccontare il massacro del Natale ortodosso 1992-1993, perpetrato dalle forze musulmane di Srebrenica, un massacro anche contro le donne e i bambini di Kravica (il solo crimine per il quale vale la parola genocidio).
E smettiamola di associare gli «snipers» di Sarajevo ciecamente ai «Serbi»: la maggior parte dei caschi blu francesi uccisi a Sarajevo furono vittime dei cecchini musulmani. E smettiamola di collegare l'assedio (orribile, stupido, incomprensibile) di Sarajevo esclusivamente all'armata serbobosniaca: nella Sarajevo degli anni 1992-1995, decine di migliaia di civili serbi rimasero bloccati nei quartieri del centro, come Grbavica, che a loro volta erano assediati - eccome se lo erano! - dalle forze musulmane. E basta attribuire gli stupri soltanto ai serbi. Smettiamola di collegare le parole in modo unilaterale, alla maniera del cane di Pavlov. Allarghiamo l'apertura che ci si presenta. Che la breccia non sia più ostruita da parole marce e avvelenate. Resti fuori ogni mente malvagia. Abbandoniamo finalmente questo linguaggio. Impariamo l'arte della domanda, viaggiamo nel paese sonoro, in nome della Jugoslavia, in nome di un'altra Europa. Viva l'altra Europa. Viva la Jugoslavia. Zinela Jugoslavija.
(1)Tra gli altri, gli articoli di Brigitte Salino e di Anne Weber su Le Monde del 4 maggio, il commento di Pierre Marcabru nel Figaro dello stesso giorno e l'appello di Christian Salmon su Libération del 5.
Questo articolo dello scrittore e drammaturgo austriaco censurato dalla Comédie Française «perché è andato al funerale di Milosevic», è uscito mercoledì 10 su Libération, ed è stato pubblicato da il manifesto su autorizzazione dell'autore.
ilmanifesto.it
2.5.06
150 anni dopo. «Professor Freud, ma lei è mio papà»
Edoardo Sanguineti
Freud. Venga, venga avanti, la prego. Non deve mica sentirsi a disagio. Qui, i clienti, io li ricevo quando voglio. L´avrà vista, lì sull´uscio, la mia targhetta d´ottone, bella lucida, che dice: «consultazione perpetua, giorno e notte».
Sanguineti. Certamente, l´ho vista. Ma io, vede, non vengo mica qui in veste di paziente.
F. Lasciamola perdere, la veste. Perché, guardi, dicono tutti così. Ma siamo tutti pazienti, qui. Mi dica dunque quali disturbi l´affliggono.
S. Non si tratta di disturbi, illustre professore, anche se mi rendo conto, naturalmente, di disturbarla non poco. Si tratta semplicemente di alcune domande, assai discrete, che sarebbe mia intenzione sottoporre alla sua cortesia.
F. Gran brutto giro di parole, per incominciare. E sarà bene che io le dica immediatamente che le domande, se di domande si tratta, sarò io a porle, e non lei. Capirà bene, che è il mio mestiere. Ma perché se ne sta lì in piedi, titubante e perplesso? Si metta comodo qui, sopra questo lettino, bello disteso, come se dovesse farci una dormita, giù. Adesso si concentri, chiuda gli occhi, si rilassi, ecco, così. Parli pure, se ne ha voglia, ma si lasci andare. Io mi metto qui, fuori tiro, e se permette, prenderò soltanto qualche appunto,
S. Veramente, sì, ero io che volevo prendere qualche appunto.
F. Tutti così, benedett´uomo, tutti così: è un´epidemia. Ho pensato di definirla, questa sindrome qui, una «nevrosi da scambio». Come lei può constatare, consiste in un tentativo di inversione delle parti, per cui si vogliono alterare i ruoli e rovesciare i rapporti: è come se lei, tanto per dire, essendo un fratello di una sorella, volesse fare la sorella di suo fratello, cioè la sua sorella, di lei, e si convincesse che sua sorella, invece, è il fratello della sorella, cioè suo fratello, di lei sorella. Sono stato chiaro? Lei ha sorelle?
S. No, illustre professore: sono figlio unico.
F. Gran brutta situazione, altamente patogena, di norma. Penso al suo papà, poveretto, che ne avrà visto delle belle, immagino. Per non parlare della sua povera mamma, ahi, ahi, ahi. Ma ecco, torniamo alla nostra nevrosi da scambio. Si metta bene in testa, gentile visitatore, che il medico interroga, e che il paziente risponde. E che io sono qui per interrogare, sono qui per sapere, e che mi pagano, proprio per questo, anche qui, sissignore: che sono mantenuto, io, qui, per i miei punti interrogativi, non per altro. Capito?
S. Sì, chiarissimo. Quello che voglio dirle è tutt´altro: perché lei deve sapere che da tanto, tanto tempo io sognavo di poterla incontrare.
F. Benissimo, ci siamo, ci siamo. Guardi, con lei, che mi è simpatico, anche perché è piuttosto timido - e io, per i timidi, sa, per gli introversi, come diceva quel disgraziato - ma lasciamo perdere - ci ho una certa tenerezza - con lei io voglio giocare a carte scoperte - per quel che si può e che l´onore della professione permette. E insomma, nei limiti del lecito, procederemo confidenzialmente, come alla luce del sole: le va bene? Anzi, per non accrescere ulteriormente il suo manifesto stato di disagio, perché la vedo lì sopra il lettino, che si scontorce e si dibatte non poco, io parlerò di lei come di una terza persona, di cui noi andiamo familiarmente discorrendo, così fra di noi, per amore di pettegolezzo, per il piacere di chiacchierare: per esempio, diremo, il signor Zeta: le piace?
S. Sì, sì, benissimo.
F. - Or dunque, mi ascolti. Capita da me, un certo giorno, un certo signor Zeta, non meglio identificato, e due cose emergono subito. Primo, egli risulta affetto - già lo abbiamo accertato - dalla ben nota nevrosi da scambio, situabile sintomaticamente sull´asse interrogazione/risposta. Secondo, egli accenna, sebbene brevemente, a un sogno, probabilmente ricorrente, se non addirittura ossessivo, nel quale sono coinvolto io medesimo, il Freud: quanto a detto sogno, si sa per ora chr lo Zeta brama, pare da tempo, incontri onirici, non meglio definiti, con il Freud.
S. No, onirici no.
F. Non onirici?
S. No, no, incontri veri, come questo.
F. Sognava un incontro, in sogno.
S. Sognava in sogno, naturalmente: ma, nel sogno, l´incontro era ben reale. Sognava questo, che io mi vivo adesso, che lui si vive adesso, cioè, là, lo Zeta.
F. Scusi che prendo un appunto. (Il signor Zeta - lei, intanto, si distragga un po´, si rilassi - sogna di incontrarmi fuori del sogno, e parla di un incontro vero, virgola, che se lo vive adesso, punto. Alla luce della nevrosi di base sopra indicata, virgola, il soggetto dimostra un intenso desiderio di identificazione con il medesimo Freud, due punti: il rovesciamento interrogazione, sbarretta, risposta, può dunque chiarirsi come brama male repressa di sottoporre il Freud, fatto paziente, virgola, a oggetto di analisi, con corrispondente sostituzione di persona, punto). Ehm, ho scritto qui poche parole, non ci badi, e vada avanti.
S. Professore, io mi sento così inibito.
F. Ha detto inibito?
S. Certo, capirà, un uomo come lei con un uomo come me, vedermelo qui davanti, cioè dietro veramente, che mi ascolta, che mi risponde: io, ecco, non ho più parole. Mi sento un tale complesso di inferiorità.
F. Lei, questo Freud, come se lo vedeva, in sogno?
S. Ecco, io non so bene come spiegarle, quelle cose che vedevo: perché si vede che stanno come sepolte in me, dentro, sotto, nel profondo, giù. A me, già, mi pareva di conoscermelo come da sempre, il Freud, lì nel sogno.
F. (Notare l´impressione di virgolettato, déjà vu, fine del virgolettato, sottolineato il virgolettato). Dica, dica, non pensi a me.
S. Ci penso per forza, ci penso. Comunque, sì, io associavo la sua immagine alle figure più alte che avevo incontrato nella mia povera vita, e mi sentivo attratto verso di lei da un impulso infrenabile, e tuttavia accompagnato da una strana angoscia. La sua presenza mi pareva che dovesse sollevarmi tutto, in alto, sopra me stesso, sublimarmi, quasi. Per me, guardi, era come un padre, il Freud.
F. Eh, ho capito bene?
S. Capito che cosa?
F. Ha detto: come un padre?
S. Sì, e non saprei come dire diversamente.
F. Ahi, ahi, ahi.
S. Che cosa significa, questo lamento?
F. Significa, purtroppo, che il suo caso deve fermarsi qui. Perché significa, signore mio, che siamo già alle solite, al padre, cioè all´Edipo, cioè al triangolo, e a tutto. E quando siamo lì, a tutto, allora si chiude, e basta. Oh, poveretto lei, ma che caso semplice che è, che caso trasparente! Così, se lei vuole che il nostro incontro abbia un minimo di sviluppo, anche uno sviluppino soltanto, qui si deve fare marcia indietro, prima che ci arrivi anche la Giocasta, egregio dottore, e non ci sia più rimedio, per noi. Dunque, torniamo di corsa al sogno, e vediamo se ci troviamo una qualche scappatoia. Mi racconti, per filo e per segno, quello che si vedeva nel suo sogno, avanti.
S. Io sognavo così. Che mi vedevo davanti il Freud, cioè lei, di colpo, che mi diceva subito: «Venga, venga avanti, la prego». E mi faceva segno che venivo avanti. E mi faceva coraggio, e diceva: «Non deve mica sentirsi a disagio». E mi spiegava che i clienti, lui, se li riceveva quando voleva, ormai. E mi raccontava che ci aveva una targhetta d´ottone, sull´uscio suo, là nell´oltremondo, che diceva una cosa come questa, mi sembra: «consultazione perpetua, giorno e notte». E poi mi diceva se l´avevo vista, la targhetta. E io dicevo che l´avevo vista. Ma gli spiegavo, però, che non ero mica un paziente, io. Allora lui diceva che tutti dicevano così, che non erano pazienti e che invece erano tutti pazienti, da vivi e da morti, nell´oltremondo come nel mondo. E allora si metteva che voleva farmi delle domande, a me, che mi diceva che disturbi ci avevo. E io dicevo che non erano disturbi, ma che volevo fargli delle domande, io, e lo dicevo in un modo tutto gentile...
F. Mi scusi, caro Zeta, ma veniamo, la prego, così di un salto, di colpo, alla fine del sogno.
S. È che non l´ho mai vista, professor Freud, la fine. Mi sono svegliato, sempre, prima.
F. E allora, attento. È tutto secondo le regole, vedrà. Adesso lei solleva lentamente la sua testa, su, dal lettino, e poi il busto, su fino a portarsi in posizione seduta. Poi lei si volge indietro, e mi guarda. E io, come avviene di norma, per tutte le ombre dell´oltremondo, diventerò trasparente come l´acqua, e svanirò sereno, nel puro niente. E allora, dottor Zeta, lei alzerà un grido, terribile, di pianto, ma un grido sommesso, un po´ strozzato, e quasi livido, diafano, così, che farà come si sentirà, poi, come le verrà più spontaneo, e più naturale, come le sgorga proprio adesso, su dal profondo, guardi, attento, adesso che si gira, che mi cerca qui con gli occhi, ecco.
S. Papà, papà, papà, papà.
unità.it
Freud. Venga, venga avanti, la prego. Non deve mica sentirsi a disagio. Qui, i clienti, io li ricevo quando voglio. L´avrà vista, lì sull´uscio, la mia targhetta d´ottone, bella lucida, che dice: «consultazione perpetua, giorno e notte».
Sanguineti. Certamente, l´ho vista. Ma io, vede, non vengo mica qui in veste di paziente.
F. Lasciamola perdere, la veste. Perché, guardi, dicono tutti così. Ma siamo tutti pazienti, qui. Mi dica dunque quali disturbi l´affliggono.
S. Non si tratta di disturbi, illustre professore, anche se mi rendo conto, naturalmente, di disturbarla non poco. Si tratta semplicemente di alcune domande, assai discrete, che sarebbe mia intenzione sottoporre alla sua cortesia.
F. Gran brutto giro di parole, per incominciare. E sarà bene che io le dica immediatamente che le domande, se di domande si tratta, sarò io a porle, e non lei. Capirà bene, che è il mio mestiere. Ma perché se ne sta lì in piedi, titubante e perplesso? Si metta comodo qui, sopra questo lettino, bello disteso, come se dovesse farci una dormita, giù. Adesso si concentri, chiuda gli occhi, si rilassi, ecco, così. Parli pure, se ne ha voglia, ma si lasci andare. Io mi metto qui, fuori tiro, e se permette, prenderò soltanto qualche appunto,
S. Veramente, sì, ero io che volevo prendere qualche appunto.
F. Tutti così, benedett´uomo, tutti così: è un´epidemia. Ho pensato di definirla, questa sindrome qui, una «nevrosi da scambio». Come lei può constatare, consiste in un tentativo di inversione delle parti, per cui si vogliono alterare i ruoli e rovesciare i rapporti: è come se lei, tanto per dire, essendo un fratello di una sorella, volesse fare la sorella di suo fratello, cioè la sua sorella, di lei, e si convincesse che sua sorella, invece, è il fratello della sorella, cioè suo fratello, di lei sorella. Sono stato chiaro? Lei ha sorelle?
S. No, illustre professore: sono figlio unico.
F. Gran brutta situazione, altamente patogena, di norma. Penso al suo papà, poveretto, che ne avrà visto delle belle, immagino. Per non parlare della sua povera mamma, ahi, ahi, ahi. Ma ecco, torniamo alla nostra nevrosi da scambio. Si metta bene in testa, gentile visitatore, che il medico interroga, e che il paziente risponde. E che io sono qui per interrogare, sono qui per sapere, e che mi pagano, proprio per questo, anche qui, sissignore: che sono mantenuto, io, qui, per i miei punti interrogativi, non per altro. Capito?
S. Sì, chiarissimo. Quello che voglio dirle è tutt´altro: perché lei deve sapere che da tanto, tanto tempo io sognavo di poterla incontrare.
F. Benissimo, ci siamo, ci siamo. Guardi, con lei, che mi è simpatico, anche perché è piuttosto timido - e io, per i timidi, sa, per gli introversi, come diceva quel disgraziato - ma lasciamo perdere - ci ho una certa tenerezza - con lei io voglio giocare a carte scoperte - per quel che si può e che l´onore della professione permette. E insomma, nei limiti del lecito, procederemo confidenzialmente, come alla luce del sole: le va bene? Anzi, per non accrescere ulteriormente il suo manifesto stato di disagio, perché la vedo lì sopra il lettino, che si scontorce e si dibatte non poco, io parlerò di lei come di una terza persona, di cui noi andiamo familiarmente discorrendo, così fra di noi, per amore di pettegolezzo, per il piacere di chiacchierare: per esempio, diremo, il signor Zeta: le piace?
S. Sì, sì, benissimo.
F. - Or dunque, mi ascolti. Capita da me, un certo giorno, un certo signor Zeta, non meglio identificato, e due cose emergono subito. Primo, egli risulta affetto - già lo abbiamo accertato - dalla ben nota nevrosi da scambio, situabile sintomaticamente sull´asse interrogazione/risposta. Secondo, egli accenna, sebbene brevemente, a un sogno, probabilmente ricorrente, se non addirittura ossessivo, nel quale sono coinvolto io medesimo, il Freud: quanto a detto sogno, si sa per ora chr lo Zeta brama, pare da tempo, incontri onirici, non meglio definiti, con il Freud.
S. No, onirici no.
F. Non onirici?
S. No, no, incontri veri, come questo.
F. Sognava un incontro, in sogno.
S. Sognava in sogno, naturalmente: ma, nel sogno, l´incontro era ben reale. Sognava questo, che io mi vivo adesso, che lui si vive adesso, cioè, là, lo Zeta.
F. Scusi che prendo un appunto. (Il signor Zeta - lei, intanto, si distragga un po´, si rilassi - sogna di incontrarmi fuori del sogno, e parla di un incontro vero, virgola, che se lo vive adesso, punto. Alla luce della nevrosi di base sopra indicata, virgola, il soggetto dimostra un intenso desiderio di identificazione con il medesimo Freud, due punti: il rovesciamento interrogazione, sbarretta, risposta, può dunque chiarirsi come brama male repressa di sottoporre il Freud, fatto paziente, virgola, a oggetto di analisi, con corrispondente sostituzione di persona, punto). Ehm, ho scritto qui poche parole, non ci badi, e vada avanti.
S. Professore, io mi sento così inibito.
F. Ha detto inibito?
S. Certo, capirà, un uomo come lei con un uomo come me, vedermelo qui davanti, cioè dietro veramente, che mi ascolta, che mi risponde: io, ecco, non ho più parole. Mi sento un tale complesso di inferiorità.
F. Lei, questo Freud, come se lo vedeva, in sogno?
S. Ecco, io non so bene come spiegarle, quelle cose che vedevo: perché si vede che stanno come sepolte in me, dentro, sotto, nel profondo, giù. A me, già, mi pareva di conoscermelo come da sempre, il Freud, lì nel sogno.
F. (Notare l´impressione di virgolettato, déjà vu, fine del virgolettato, sottolineato il virgolettato). Dica, dica, non pensi a me.
S. Ci penso per forza, ci penso. Comunque, sì, io associavo la sua immagine alle figure più alte che avevo incontrato nella mia povera vita, e mi sentivo attratto verso di lei da un impulso infrenabile, e tuttavia accompagnato da una strana angoscia. La sua presenza mi pareva che dovesse sollevarmi tutto, in alto, sopra me stesso, sublimarmi, quasi. Per me, guardi, era come un padre, il Freud.
F. Eh, ho capito bene?
S. Capito che cosa?
F. Ha detto: come un padre?
S. Sì, e non saprei come dire diversamente.
F. Ahi, ahi, ahi.
S. Che cosa significa, questo lamento?
F. Significa, purtroppo, che il suo caso deve fermarsi qui. Perché significa, signore mio, che siamo già alle solite, al padre, cioè all´Edipo, cioè al triangolo, e a tutto. E quando siamo lì, a tutto, allora si chiude, e basta. Oh, poveretto lei, ma che caso semplice che è, che caso trasparente! Così, se lei vuole che il nostro incontro abbia un minimo di sviluppo, anche uno sviluppino soltanto, qui si deve fare marcia indietro, prima che ci arrivi anche la Giocasta, egregio dottore, e non ci sia più rimedio, per noi. Dunque, torniamo di corsa al sogno, e vediamo se ci troviamo una qualche scappatoia. Mi racconti, per filo e per segno, quello che si vedeva nel suo sogno, avanti.
S. Io sognavo così. Che mi vedevo davanti il Freud, cioè lei, di colpo, che mi diceva subito: «Venga, venga avanti, la prego». E mi faceva segno che venivo avanti. E mi faceva coraggio, e diceva: «Non deve mica sentirsi a disagio». E mi spiegava che i clienti, lui, se li riceveva quando voleva, ormai. E mi raccontava che ci aveva una targhetta d´ottone, sull´uscio suo, là nell´oltremondo, che diceva una cosa come questa, mi sembra: «consultazione perpetua, giorno e notte». E poi mi diceva se l´avevo vista, la targhetta. E io dicevo che l´avevo vista. Ma gli spiegavo, però, che non ero mica un paziente, io. Allora lui diceva che tutti dicevano così, che non erano pazienti e che invece erano tutti pazienti, da vivi e da morti, nell´oltremondo come nel mondo. E allora si metteva che voleva farmi delle domande, a me, che mi diceva che disturbi ci avevo. E io dicevo che non erano disturbi, ma che volevo fargli delle domande, io, e lo dicevo in un modo tutto gentile...
F. Mi scusi, caro Zeta, ma veniamo, la prego, così di un salto, di colpo, alla fine del sogno.
S. È che non l´ho mai vista, professor Freud, la fine. Mi sono svegliato, sempre, prima.
F. E allora, attento. È tutto secondo le regole, vedrà. Adesso lei solleva lentamente la sua testa, su, dal lettino, e poi il busto, su fino a portarsi in posizione seduta. Poi lei si volge indietro, e mi guarda. E io, come avviene di norma, per tutte le ombre dell´oltremondo, diventerò trasparente come l´acqua, e svanirò sereno, nel puro niente. E allora, dottor Zeta, lei alzerà un grido, terribile, di pianto, ma un grido sommesso, un po´ strozzato, e quasi livido, diafano, così, che farà come si sentirà, poi, come le verrà più spontaneo, e più naturale, come le sgorga proprio adesso, su dal profondo, guardi, attento, adesso che si gira, che mi cerca qui con gli occhi, ecco.
S. Papà, papà, papà, papà.
unità.it
Stiglitz a Grillo
Dal blog beppegrillo.it
Il premio Nobel per l’economia Joseph E. Stiglitz mi ha inviato questa analisi sul mercato del lavoro in Italia .
Belin, un premio Nobel che scrive a un comico!
“Caro Beppe,
dall'Italia mi giungono notizie allarmanti: la legge sul primo impiego viene ritirata in Francia dopo poche settimane di mobilitazione studentesca e da voi la legge 30 resiste senza opponenti dopo anni. Permettimi allora una breve riflessione Nessuna opportunità è più importante dell'opportunità di avere un lavoro. Politiche volte all'aumento della flessibilità del lavoro, un tema che ha dominato il dibattito economico negli ultimi anni, hanno spesso portato a livelli salariali più bassi e ad una minore sicurezza dell'impiego. Tuttavia, esse non hanno mantenuto la promessa di garantire una crescita più alta e più bassi tassi di disoccupazione. Infatti, tali politiche hanno spesso conseguenze perverse sulla performance dell'economia, ad esempio una minor domanda di beni, sia a causa di più bassi livelli di reddito e maggiore incertezza, sia a causa di un aumento dell'indebitamento delle famiglie.
Una più bassa domanda aggregata a sua volta si tramuta in più bassi livelli occupazionali. Qualsiasi programma mirante alla crescita con giustizia sociale deve iniziare con un impegno mirante al pieno impiego delle risorse esistenti, e in particolare della risorsa più importante dell'Italia: la sua gente.
Sebbene negli ultimi 75 anni, la scienza economica ci ha detto come gestire meglio l'economia, in modo che le risorse fossero utilizzate appieno, e che le recessioni fossero meno frequenti e profonde, molte delle politiche realizzate non sono state all'altezza di tali aspirazioni. L'Italia necessita di migliori politiche volte a sostenere la domanda aggregata; ma ha anche bisogno di politiche strutturali che vadano oltre - e non facciano esclusivo affidamento sulla flessibilità del lavoro. Queste ultime includono interventi sui programmi di sviluppo dell'istruzione e della conoscenza, ed azioni dirette a facilitare la mobilità dei lavoratori.
Condividiamo l'idea per cui le rigidità che ostacolano la crescita di un'economia debbano essere ridotte. Tuttavia riteniamo anche che ogni riforma che comporti un aumento dell'insicurezza dei lavoratori debba essere accompagnata da un aumento delle misure di protezione sociale.
Senza queste la flessibilità si traduce in precarietà.
Tali misure sono ovviamente costose. La legislazione non può prevede che la flessibilità del lavoro si accompagni a salari più bassi; paradossalmente, maggiore la probabilità di essere licenziati, minori i salari, quando dovrebbe essere l'opposto. Perfino l'economia liberista insegna che se proprio volete comprare un bond ad alto rischio (tipo quelli argentini o Parmalat, ad alto rischio di trasformazione in carta straccia), vi devono pagare interessi molto alti.
I salari pagati ai lavoratori flessibili devono esser più alti e non più bassi, proprio perché più alta è la loro probabilità di licenziamento. In Italia un precario ha una probabilità di esser licenziato 9 volte maggiore di un lavoratore regolare, una probabilità di trovare un nuovo impiego, dopo la fine del contratto, 5 volte minore e che fino al 40% dei lavoratori precari è laureato.
Ma se li mettete a servire patatine fritte o nei call center, perché spendere tanto per istruirli?
Grazie per l'ospitalità.”
Joseph E. Stiglitz
Il premio Nobel per l’economia Joseph E. Stiglitz mi ha inviato questa analisi sul mercato del lavoro in Italia .
Belin, un premio Nobel che scrive a un comico!
“Caro Beppe,
dall'Italia mi giungono notizie allarmanti: la legge sul primo impiego viene ritirata in Francia dopo poche settimane di mobilitazione studentesca e da voi la legge 30 resiste senza opponenti dopo anni. Permettimi allora una breve riflessione Nessuna opportunità è più importante dell'opportunità di avere un lavoro. Politiche volte all'aumento della flessibilità del lavoro, un tema che ha dominato il dibattito economico negli ultimi anni, hanno spesso portato a livelli salariali più bassi e ad una minore sicurezza dell'impiego. Tuttavia, esse non hanno mantenuto la promessa di garantire una crescita più alta e più bassi tassi di disoccupazione. Infatti, tali politiche hanno spesso conseguenze perverse sulla performance dell'economia, ad esempio una minor domanda di beni, sia a causa di più bassi livelli di reddito e maggiore incertezza, sia a causa di un aumento dell'indebitamento delle famiglie.
Una più bassa domanda aggregata a sua volta si tramuta in più bassi livelli occupazionali. Qualsiasi programma mirante alla crescita con giustizia sociale deve iniziare con un impegno mirante al pieno impiego delle risorse esistenti, e in particolare della risorsa più importante dell'Italia: la sua gente.
Sebbene negli ultimi 75 anni, la scienza economica ci ha detto come gestire meglio l'economia, in modo che le risorse fossero utilizzate appieno, e che le recessioni fossero meno frequenti e profonde, molte delle politiche realizzate non sono state all'altezza di tali aspirazioni. L'Italia necessita di migliori politiche volte a sostenere la domanda aggregata; ma ha anche bisogno di politiche strutturali che vadano oltre - e non facciano esclusivo affidamento sulla flessibilità del lavoro. Queste ultime includono interventi sui programmi di sviluppo dell'istruzione e della conoscenza, ed azioni dirette a facilitare la mobilità dei lavoratori.
Condividiamo l'idea per cui le rigidità che ostacolano la crescita di un'economia debbano essere ridotte. Tuttavia riteniamo anche che ogni riforma che comporti un aumento dell'insicurezza dei lavoratori debba essere accompagnata da un aumento delle misure di protezione sociale.
Senza queste la flessibilità si traduce in precarietà.
Tali misure sono ovviamente costose. La legislazione non può prevede che la flessibilità del lavoro si accompagni a salari più bassi; paradossalmente, maggiore la probabilità di essere licenziati, minori i salari, quando dovrebbe essere l'opposto. Perfino l'economia liberista insegna che se proprio volete comprare un bond ad alto rischio (tipo quelli argentini o Parmalat, ad alto rischio di trasformazione in carta straccia), vi devono pagare interessi molto alti.
I salari pagati ai lavoratori flessibili devono esser più alti e non più bassi, proprio perché più alta è la loro probabilità di licenziamento. In Italia un precario ha una probabilità di esser licenziato 9 volte maggiore di un lavoratore regolare, una probabilità di trovare un nuovo impiego, dopo la fine del contratto, 5 volte minore e che fino al 40% dei lavoratori precari è laureato.
Ma se li mettete a servire patatine fritte o nei call center, perché spendere tanto per istruirli?
Grazie per l'ospitalità.”
Joseph E. Stiglitz
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