di Francesco Giavazzi
In Svezia vent'anni fa fallirono tutte le banche, anche allora a causa di una crisi del mercato immobiliare. Il reddito scese di oltre il 5% e la disoccupazione salì dal 2 al 10%. La crisi durò tre anni. Lo Stato nazionalizzò le banche e per salvarle spese 6 punti di pil, più o meno quanto costerebbe il piano del Segretario Paulson negli Stati Uniti. Si avviò anche un ripensamento profondo del modello sociale svedese: nei quindici anni successivi l'economia crebbe a un tasso medio di oltre il 3% l'anno, quasi il doppio dei Paesi europei continentali, trascinata da un boom di produttività.
Le crisi scuotono i Paesi, ma talvolta consentono quelle riforme che in tempi normali è impossibile realizzare. Un punto di crescita in più per un decennio significa guadagnare quasi 15 punti di reddito, più che sufficienti a compensare la recessione nei tre anni di crisi. Dopo qualche anno il governo di Stoccolma rivendette le banche e recuperò quasi per intero quanto aveva speso per salvarle. Con il piano Paulson il Tesoro acquisterebbe dalle banche (mediante un’asta) mutui immobiliari con uno sconto del 60-70% sul loro valore nominale. I prezzi delle case americane sono scesi del 20%: anche ammettendo che scendano ancora, acquistando per 30-40 centesimi mutui che valgono un dollaro, Paulson — e quindi i contribuenti americani — fanno un buon affare: oggi risolvono la crisi e domani, quando il Tesoro rivenderà i mutui, potrebbero incassare una plusvalenza sufficiente a cancellare una parte del debito pubblico. Non solo: il Tesoro scambia titoli pubblici su cui paga un interesse del 2% con obbligazioni che rendono il 10%. Un incasso netto di quasi 50 miliardi di dollari l’anno (meglio ancora, il Tesoro potrebbe acquistare azioni delle banche, come accadde in Svezia: oggi ne rafforza il capitale, a crisi finita le rivende incassando un premio).
Fra 5 anni potremmo esserci dimenticati della crisi e ricominciare a guardare con ammirazione gli Usa che crescono più di noi e con meno debito pubblico. L'opinione comune in Europa è che la «deregulation selvaggia» dei mercati finanziari americani abbia rovinato il mondo: se Washington avesse seguito l'esempio europeo, si dice, i guai che oggi osserviamo non sarebbero accaduti. Vero, ma la deregulation degli anni 80 consentì anche a investitori audaci («barbari» li chiamò Tom Wolfe in un libro che divenne famoso) di comprare aziende a debito, smontarle come i pezzi di un meccano e poi rivenderle lasciando che il mercato le rimontasse in modo più efficiente. Senza i leverage buy-out di quegli anni, gli straordinari guadagni di produttività degli anni 90 non si sarebbero mai realizzati: tra i due decenni la crescita negli Stati Uniti accelerò di un punto, dal 3 al 4% mentre l'Europa continentale rallentava dal 2,5 al 2,2%.
E senza le banche di investimento, oggi tanto criticate, forse non vi sarebbe stata la «bolla» del Nasdaq, ma non sarebbe neppure nata Google, un'azienda che ha per sempre cambiato il mondo. I «derivati» hanno creato guai gravi, ma negli anni passati hanno anche consentito alle banche americane di offrire mutui a famiglie recentemente immigrate alle quali le vecchie banche non avrebbero mai fatto credito. Queste famiglie hanno potuto acquistare una casa e integrarsi più rapidamente nella società. Alcune di loro, una minoranza, oggi la perde, ma nel frattempo (grazie ai mutui con interessi differiti nel tempo) ha abitato gratis per alcuni anni: ora deve semplicemente restituire le chiavi (il sito youwalkaway. com spiega come) e acquistare (a un prezzo conveniente) una casa più consona al suo reddito. I politici, sia in Europa che negli Stati Uniti, oggi reclamano il diritto di riscrivere le regole dei mercati finanziari. In una democrazia è normale, ma può essere anche pericoloso. La «deregulation selvaggia » oggi tanto biasimata non è piovuta dal cielo.
E' il risultato di una legge (il Gramm-Leach-Bliley Act del 1999) fatta approvare dal senatore repubblicano Phil Gramm, un politico che fino a qualche settimana fa John McCain pensava di nominare segretario al Tesoro, e che negli anni è stato ricompensato dall'industria finanziaria con 4,6 milioni di dollari di contributi elettorali. Il Gramm-Leach-Bliley Act trasferì la responsabilità per la sorveglianza delle banche di investimento dalla Federal Reserve alla Sec (la Consob americana), la quale da quel giorno sostanzialmente dormì. Da sei-sette anni il Comitato di Basilea e il Financial Stability Forum ripetono che le banche d’investimento sono fragili perché hanno troppo poco capitale in rapporto ai rischi cui si sono esposte. Ma gli allarmi dei banchieri centrali sono caduti inascoltati o non hanno voluto essere ascoltati (fino all’anno scorso i politici non si preoccupavano delle banche, ma dei fondi hedge, tra le poche istituzioni che sono uscite quasi intatte dalla crisi). Siamo davvero convinti che il senatore Gramm scriverebbe regole migliori del presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke? I guai cui oggi assistiamo non sono intrinseci al capitalismo, ma a «un» capitalismo, quello corrotto dalla politica.
corriere.it
I link ai giornali degli articoli spesso cambiano e diventa difficile se non impossibile recuperare i testi ai quali si riferivano. Questo è l'archivio on-line del blog Giornale-NOTIZIEOGGI
27.9.08
Ma così è nato Google
ISTRUZIONE IL PIANO GELMINI. Scuola, 132mila tagli
Via 88 mila docenti e 45 mila tecnici. E in ogni classe trenta alunni
Meno ore di lezione, meno docenti e aule sovraffollate, con almeno 29-30 alunni per classe. Chiuse, o accorpate con altri istituti, le scuole con meno di 500 alunni. La ministra presenta ai sindacati il suo piano per riformare la scuola italiana: «Previsti risparmi pari a otto miliardi di euro in tre anni». Ma è una vera e propria mannaia che rischia di distruggere il sistema pubblico italiano. E tra docenti e genitori monta la protesta. La prossima settimana la riforma va in Parlamento
Andrea Gangemi
La suspance è finita: il ministero dell'Istruzione ha consegnato ai sindacati il «piano programmatico» per la riforma scolastica atteso da giorni che conferma 132 mila tagli a docenti e personale Ata (rispettivamente 87 mila e 44.500) e il ritorno al maestro unico. E di conseguenza classi più numerose: fino a 30 alunni per ciascun insegnante. Da chiudere o accorpare tutti gli istituti con meno di 500 iscritti. All'insegna di «essenzialità» e «continuità», il piano si articola lungo tre direttrici: revisione degli ordinamenti scolastici, dimensionamento della rete scolastica italiana e razionalizzazione delle risorse umane (i tagli). Cominciando dalla scuola materna, il piano reintroduce le «sezioni primavera» per i piccoli fra due e tre anni, già previste dalla riforma Moratti, e non tocca gli orari. Cosa che accade invece alle primarie, dove dal 2009 partiranno le prime classi con 24 ore di lezioni settimanali affidate al maestro unico che sostituisce il «modulo» dei tre insegnanti ogni due classi. Salvo l'insegnamento dell'inglese, che sarà affidato ad insegnanti specializzati attraverso corsi di 400/500 ore. Il tempo pieno? «Resta comunque aperta - recita il testo - la possibilità di una più ampia articolazione del tempo scuola, tenuto conto della domanda delle famiglie». Due le opzioni possibili, «limitatamente all'organico disponibile», di 27 e 30 ore a settimana. Le ore di lezione però potranno essere estese ulteriormente di altre 10 ore settimanali al massimo, compresa la pausa per la mensa. Sul vecchio tempo pieno (quello a 40 ore), insomma, la Gelmini "promette" che potrebbe essere addirittura incrementato ma, su questo punto, pare che il ministero dell'Economia non sia d'accordo. Per quanto riguarda le scuole medie, l'obiettivo è di scalare le classifiche internazionali dell'Ocse, sfavorevoli all'Italia. Ma anche qui il piano si limita a dare un colpo di forbice alle ore di lezione: 29 ore settimanali (rispetto alle 32 attuali), anche se è previsto un potenziamento dell'insegnamento di italiano, inglese e matematica. I licei classici, linguistici e scientifici avranno invece 30 ore settimanali, mentre negli istituti tecnici e professionali l'orario non potrà superare le 32 ore, comprese quelle di laboratorio. Allo scientifico, in uno o più corsi, le scuole autonome potranno sostituire il latino con una lingua straniera. Altro obiettivo perseguito dalla ministra è lo sfoltimento del numero di indirizzi di studio, che attualmente raggiungono quota 868. Ma i tagli più temuti e contestati sono quelli che riguardano il personale didattico e dell'Ata. Alla fine del triennio 2009-2012 il governo Berlusconi farà sparire 87.400 cattedre di insegnanti e 44.500 posti (pari al 17%) di personale amministrativo, tecnico e ausiliario (Ata): 132 mila posti in tutto. Operazione, questa, che secondo i calcoli del governo, dovrebbe consentire risparmi fino a 8 miliardi di euro in tre anni. In conseguenza dei tagli «razionalizzatori», gli insegnanti dovranno prendersi cura fino a 29 alunni per classe all'asilo, e fino a 30 nelle prime di medie e superiori. Per quanto riguarda la «riorganizzazione della rete scolastica», secondo la bozza di viale Trastevere, possono essere considerati istituti «autonomi» a pieno titolo quelli con almeno 500 alunni; gli altri dovranno essere chiusi o accorpati ad altri istituti. Un piano, questo della ministra Gelmini, che da oggi probabilmente sarà oggetto di studio da parte di docenti, studenti e genitori. Per il momento il sindacato attacca il governo sulla finanziaria perché, dice il segretario generale della Flc-Cgil, Mimmo Pantaleo, «nei fatti riduce ulteriormente i salari degli insegnanti». La quantità delle risorse, aggiunge, «è del tutto insufficiente per pretendere di rinnovare i contratti per il biennio e nei fatti non ci sarà più il contratto nazionale: il Governo, infatti, ha deciso unilateralmente e discrezionalmente di distribuire il 90% delle stesse risorse».
ilmanifesto.it
Meno ore di lezione, meno docenti e aule sovraffollate, con almeno 29-30 alunni per classe. Chiuse, o accorpate con altri istituti, le scuole con meno di 500 alunni. La ministra presenta ai sindacati il suo piano per riformare la scuola italiana: «Previsti risparmi pari a otto miliardi di euro in tre anni». Ma è una vera e propria mannaia che rischia di distruggere il sistema pubblico italiano. E tra docenti e genitori monta la protesta. La prossima settimana la riforma va in Parlamento
Andrea Gangemi
La suspance è finita: il ministero dell'Istruzione ha consegnato ai sindacati il «piano programmatico» per la riforma scolastica atteso da giorni che conferma 132 mila tagli a docenti e personale Ata (rispettivamente 87 mila e 44.500) e il ritorno al maestro unico. E di conseguenza classi più numerose: fino a 30 alunni per ciascun insegnante. Da chiudere o accorpare tutti gli istituti con meno di 500 iscritti. All'insegna di «essenzialità» e «continuità», il piano si articola lungo tre direttrici: revisione degli ordinamenti scolastici, dimensionamento della rete scolastica italiana e razionalizzazione delle risorse umane (i tagli). Cominciando dalla scuola materna, il piano reintroduce le «sezioni primavera» per i piccoli fra due e tre anni, già previste dalla riforma Moratti, e non tocca gli orari. Cosa che accade invece alle primarie, dove dal 2009 partiranno le prime classi con 24 ore di lezioni settimanali affidate al maestro unico che sostituisce il «modulo» dei tre insegnanti ogni due classi. Salvo l'insegnamento dell'inglese, che sarà affidato ad insegnanti specializzati attraverso corsi di 400/500 ore. Il tempo pieno? «Resta comunque aperta - recita il testo - la possibilità di una più ampia articolazione del tempo scuola, tenuto conto della domanda delle famiglie». Due le opzioni possibili, «limitatamente all'organico disponibile», di 27 e 30 ore a settimana. Le ore di lezione però potranno essere estese ulteriormente di altre 10 ore settimanali al massimo, compresa la pausa per la mensa. Sul vecchio tempo pieno (quello a 40 ore), insomma, la Gelmini "promette" che potrebbe essere addirittura incrementato ma, su questo punto, pare che il ministero dell'Economia non sia d'accordo. Per quanto riguarda le scuole medie, l'obiettivo è di scalare le classifiche internazionali dell'Ocse, sfavorevoli all'Italia. Ma anche qui il piano si limita a dare un colpo di forbice alle ore di lezione: 29 ore settimanali (rispetto alle 32 attuali), anche se è previsto un potenziamento dell'insegnamento di italiano, inglese e matematica. I licei classici, linguistici e scientifici avranno invece 30 ore settimanali, mentre negli istituti tecnici e professionali l'orario non potrà superare le 32 ore, comprese quelle di laboratorio. Allo scientifico, in uno o più corsi, le scuole autonome potranno sostituire il latino con una lingua straniera. Altro obiettivo perseguito dalla ministra è lo sfoltimento del numero di indirizzi di studio, che attualmente raggiungono quota 868. Ma i tagli più temuti e contestati sono quelli che riguardano il personale didattico e dell'Ata. Alla fine del triennio 2009-2012 il governo Berlusconi farà sparire 87.400 cattedre di insegnanti e 44.500 posti (pari al 17%) di personale amministrativo, tecnico e ausiliario (Ata): 132 mila posti in tutto. Operazione, questa, che secondo i calcoli del governo, dovrebbe consentire risparmi fino a 8 miliardi di euro in tre anni. In conseguenza dei tagli «razionalizzatori», gli insegnanti dovranno prendersi cura fino a 29 alunni per classe all'asilo, e fino a 30 nelle prime di medie e superiori. Per quanto riguarda la «riorganizzazione della rete scolastica», secondo la bozza di viale Trastevere, possono essere considerati istituti «autonomi» a pieno titolo quelli con almeno 500 alunni; gli altri dovranno essere chiusi o accorpati ad altri istituti. Un piano, questo della ministra Gelmini, che da oggi probabilmente sarà oggetto di studio da parte di docenti, studenti e genitori. Per il momento il sindacato attacca il governo sulla finanziaria perché, dice il segretario generale della Flc-Cgil, Mimmo Pantaleo, «nei fatti riduce ulteriormente i salari degli insegnanti». La quantità delle risorse, aggiunge, «è del tutto insufficiente per pretendere di rinnovare i contratti per il biennio e nei fatti non ci sarà più il contratto nazionale: il Governo, infatti, ha deciso unilateralmente e discrezionalmente di distribuire il 90% delle stesse risorse».
ilmanifesto.it
EDITORIA. La «casta» resta, colpita la libertà
Parla Gian Antonio Stella del Corriere della Sera : «Bisognava tagliare i privilegi, invece colpiscono i piccoli giornali come ilmanifesto »
Tommaso Di Francesco
Gian Antonio Stella non ha bisogno di presentazioni. Il suo libro La casta , scritto insieme a Sergio Rizzo, rappresenta un punto alto del giornalismo d'inchiesta e denuncia. A lui, così attento ai costi della politica, abbiamo rivolto alcune domande.
L'esigenza corretta era razionalizzare i fondi per l'editoria, invece i nuovi provvedimenti dimezzano i fondi per il 2008 a molti giornali di partito e soprattutto a noi che siamo una cooperativa di giornalisti e lavoratori, proponendo perdipiù un regolamento che ogni anno sarà deciso dal governo. Che ne pensi?
In sé la razionalizzazione non è scandalosa. E un governo democraticamente eletto fa scelte a nome della maggioranza dei cittadini che l'hanno votato. Ma è del tutto sbagliata la scelta di andare a tagliare - pur colpendo giornali assai diversi - là dove è più facile, dove si possono ottenere due piccioni con una fava: da una parte recuperando soldi e dall'altra colpendo chi tradizionalmente infastidisce, è in grado di infastidirti o comunque potrebbe infastidirti.
Insomma, bisognava colpire la casta, e alla fine hanno colpito «il manifesto» e le comunità montane? Infatti.
È incredibile che non si tocchino assolutamente gli stipendi dei parlamentari; che passi il principio che un deputato che dà soldi al partito possa, su quelli, non essere tassato. Confermando che c'è una massima attenzione a non toccare gli stipendi di deputati, senatori, consiglieri regionali, mentre il governatore della ricchissima California prende 215mila dollari all'anno, circa 150mila euro, molto meno di quanto prende un qualunque deputato italiano. Ecco, tutto questo non viene toccato e invece vanno a colpire il 70% delle indennità dei piccoli presidenti e assessori delle comunità montane, anche di quelle serie. Alla fine ipocritamente si risparmia sulle comunità montane e sui giornali di partito e in cooperativa per non toccare invece i veri centri di spesa. E ovviamente non si può non vedere che a prendere una tale decisione, come giustamente ha scritto Furio Colombo, sia il titolare del più grande conflitto di interessi del mondo.
Già, il padrone di larga parte del sistema mediatico è il capo del governo che decide di tagliare i fondi per l'editoria...
È un fatto curioso, molto, molto curioso. E poi c'è una cosa che mi convince, sollevata sia da il manifesto , da Avvenire , ma anche dal Secolo d'Italia e perfino dalla Padania , in una trasversalità saggia, non inciuciona: un paese deve farsi carico di mantenere più libertà di espressione possibile. Io non sono d'accordo o raramente con una sola parola di alcuni dei giornali che vengono colpiti, però è interesse mio come cittadino che questi giornali vivano perché sono opinioni diverse. La Padania mi avrà attaccato non so quante volte ma io faccio il tifo perché viva. La libertà non la puoi avere a fette. Ci si risponde che in altri paesi non è così. Certo, ma in altri paesi non ci sono posizioni di monopolio o di duopolio che assorbono la stragrande maggioranza della pubblicità che asfissia tutti i piccoli giornali. Inoltre, sei mesi fa il presidente del consiglio polemizzando sulla scelta del governo Prodi di vendere Alitalia ad Air France ha detto una frase: un paese deve sapere sopportare le perdite di certe aziende. Personalmente penso che non tutti i dipendenti di Alitalia - i privilegiati e i ricattatori - siano interesse dei cittadini, come non lo è l'azienda clientelare Amat di Palermo che ha assunto 110 autisti d'autobus senza patente d'autobus. Ma se per Berlusconi è vitale che lo stato si faccia carico di alcune spese anche in perdita per una questione di principio come l'italianità dell'Alitalia, per me è altrettanto essenziale che uno stato si faccia carico della libertà di espressione massima ottenibile. In un paese dove la libertà di espressione è già compromessa, perché è molto più facile fondare una televisione negli Stati uniti che fondarla in Italia.
Che rispondi a chi sembra dire, come Grillo: bene così, chiudiamoli e la regola resti il mercato?
Non è affatto di destra invocare il mercato, però per davvero e dappertutto. E con regole molto chiare. All'estero alcuni conflitti d'interesse sono stati chiariti all'istante perché altrimenti chi era eletto non si sarebbe mai potuto insediare. Se il mercato avesse delle regole nette che consentissero a tutti di giocarsela alla pari davanti ai lettori, in edicola, e alla pari sul mercato pubblicitario, allora viva quelli che sopravvivono e pazienza per quelli che muoiono. Ma se parti fin dall'inizio da una posizione molto diseguale, in cui non puoi giocartela alla pari, il discorso cambia. E poi ora nel governo, An e la Lega devono riflettere: che scelta democratica è quella che lascia che tutta l'informazione, anche a destra, sia fatta da chi ruota intorno al presidente del Consiglio o alla sua famiglia?
ilmanifesto.it
Tommaso Di Francesco
Gian Antonio Stella non ha bisogno di presentazioni. Il suo libro La casta , scritto insieme a Sergio Rizzo, rappresenta un punto alto del giornalismo d'inchiesta e denuncia. A lui, così attento ai costi della politica, abbiamo rivolto alcune domande.
L'esigenza corretta era razionalizzare i fondi per l'editoria, invece i nuovi provvedimenti dimezzano i fondi per il 2008 a molti giornali di partito e soprattutto a noi che siamo una cooperativa di giornalisti e lavoratori, proponendo perdipiù un regolamento che ogni anno sarà deciso dal governo. Che ne pensi?
In sé la razionalizzazione non è scandalosa. E un governo democraticamente eletto fa scelte a nome della maggioranza dei cittadini che l'hanno votato. Ma è del tutto sbagliata la scelta di andare a tagliare - pur colpendo giornali assai diversi - là dove è più facile, dove si possono ottenere due piccioni con una fava: da una parte recuperando soldi e dall'altra colpendo chi tradizionalmente infastidisce, è in grado di infastidirti o comunque potrebbe infastidirti.
Insomma, bisognava colpire la casta, e alla fine hanno colpito «il manifesto» e le comunità montane? Infatti.
È incredibile che non si tocchino assolutamente gli stipendi dei parlamentari; che passi il principio che un deputato che dà soldi al partito possa, su quelli, non essere tassato. Confermando che c'è una massima attenzione a non toccare gli stipendi di deputati, senatori, consiglieri regionali, mentre il governatore della ricchissima California prende 215mila dollari all'anno, circa 150mila euro, molto meno di quanto prende un qualunque deputato italiano. Ecco, tutto questo non viene toccato e invece vanno a colpire il 70% delle indennità dei piccoli presidenti e assessori delle comunità montane, anche di quelle serie. Alla fine ipocritamente si risparmia sulle comunità montane e sui giornali di partito e in cooperativa per non toccare invece i veri centri di spesa. E ovviamente non si può non vedere che a prendere una tale decisione, come giustamente ha scritto Furio Colombo, sia il titolare del più grande conflitto di interessi del mondo.
Già, il padrone di larga parte del sistema mediatico è il capo del governo che decide di tagliare i fondi per l'editoria...
È un fatto curioso, molto, molto curioso. E poi c'è una cosa che mi convince, sollevata sia da il manifesto , da Avvenire , ma anche dal Secolo d'Italia e perfino dalla Padania , in una trasversalità saggia, non inciuciona: un paese deve farsi carico di mantenere più libertà di espressione possibile. Io non sono d'accordo o raramente con una sola parola di alcuni dei giornali che vengono colpiti, però è interesse mio come cittadino che questi giornali vivano perché sono opinioni diverse. La Padania mi avrà attaccato non so quante volte ma io faccio il tifo perché viva. La libertà non la puoi avere a fette. Ci si risponde che in altri paesi non è così. Certo, ma in altri paesi non ci sono posizioni di monopolio o di duopolio che assorbono la stragrande maggioranza della pubblicità che asfissia tutti i piccoli giornali. Inoltre, sei mesi fa il presidente del consiglio polemizzando sulla scelta del governo Prodi di vendere Alitalia ad Air France ha detto una frase: un paese deve sapere sopportare le perdite di certe aziende. Personalmente penso che non tutti i dipendenti di Alitalia - i privilegiati e i ricattatori - siano interesse dei cittadini, come non lo è l'azienda clientelare Amat di Palermo che ha assunto 110 autisti d'autobus senza patente d'autobus. Ma se per Berlusconi è vitale che lo stato si faccia carico di alcune spese anche in perdita per una questione di principio come l'italianità dell'Alitalia, per me è altrettanto essenziale che uno stato si faccia carico della libertà di espressione massima ottenibile. In un paese dove la libertà di espressione è già compromessa, perché è molto più facile fondare una televisione negli Stati uniti che fondarla in Italia.
Che rispondi a chi sembra dire, come Grillo: bene così, chiudiamoli e la regola resti il mercato?
Non è affatto di destra invocare il mercato, però per davvero e dappertutto. E con regole molto chiare. All'estero alcuni conflitti d'interesse sono stati chiariti all'istante perché altrimenti chi era eletto non si sarebbe mai potuto insediare. Se il mercato avesse delle regole nette che consentissero a tutti di giocarsela alla pari davanti ai lettori, in edicola, e alla pari sul mercato pubblicitario, allora viva quelli che sopravvivono e pazienza per quelli che muoiono. Ma se parti fin dall'inizio da una posizione molto diseguale, in cui non puoi giocartela alla pari, il discorso cambia. E poi ora nel governo, An e la Lega devono riflettere: che scelta democratica è quella che lascia che tutta l'informazione, anche a destra, sia fatta da chi ruota intorno al presidente del Consiglio o alla sua famiglia?
ilmanifesto.it
Manifesto. Chi ha pagato la nostra libertà
37 anni di vita e un solo sponsor: i lettori.
Storia di una sottoscrizione infinita, che dalla fondazione a oggi ci ha salvato la vita con 13 milioni di euro
«Chi li paga?» era scritto a caratteri cubitali su un manifesto parecchio malizioso affisso dal Pci (avevano ripreso una notizia acida diffusa dal quotidiano Izvestja che ci accusava di essere finanziati dal capitalismo internazionale) prima ancora che fosse pubblicato il primo numero del nostro giornale. «Ecco chi ci paga», fu la nostra campagna. E sul primo numero - il 28 aprile '71 - pubblicammo i nomi di tutti i sottoscrittori che con circa 50 milioni - avevano reso possibile l'uscita in edicola (a 50 lire). Pubblicammo anche il preventivo mensile delle entrate necessarie a tenerci in vita. Già all'uscita del primo numero il capitale iniziale era però «bruciato». Di più: eravamo stati troppo ottimisti sui preventivi di spesa. Senza contare che le entrate delle vendite non erano immediate. Fin dall'inizio soffrivamo di una grave crisi di cassa e fummo costretti a lanciare la prima sottoscrizione chiedendo ai nostri lettori «100 lire al giorno». Tra maggio e giugno in questo modo arrivarono 10,6 milioni e i nomi di chi ci inviava i soldi erano tutti pubblicati. Le vendite seguitavano ad andare bene - oltre 30 mila copie ma i soldi non bastavano. A luglio chiedemmo ai lettori 100 lire per ogni giorno di ferie. A fine estate erano entrati 17,5 milioni. Ma, colpa di un capitale iniziale, troppo esiguo (alcuni esperti calcolarono che per partire in tranquillità sarebbe servito almeno un miliardo) e la cassa «piangeva». Il 29 settembre del '71 in prima pagina facemmo un appello: «10 mila copie in più e sottoscrizione permanente per rilanciare il giornale». Fin da allora fu chiaro che il manifesto aveva un solo editore: i lettori ai quali chiedevamo soldi per sopravvivere. E li chiedevamo con «fantasia». A dicembre lanciammo la parola d'ordine: «1000 lire per ogni tredicesima». La risposta fu generosa: in 15 giorni arrivarono 28 milioni. Nel '72 la replica: vista l'inflazione, le 1000 lire diventarono 2 mila lire, mentre il prezzo del quotidiano era salito a 90 lire. Cambiammo lo slogan con il quale chiedevamo i soldi, invocando un «sostegno di massa». E raccogliemmo anche 16 milioni per finanziare la campagna elettorale del 1972. Le vendite cominciarono a diminuire e con la crisi petrolifera del '73 i costi (di stampa, carta e distribuzione) si impennarono mostruosamente. Per fortuna c'erano sempre i lettori a tenerci in piedi e nel 1977 ci permisero tra l'altro - grazie a una sottoscrizione di 100 milioni - di acquistare una tipografia a Milano. I primi anni '80 furono durissimi: la carta era salita a prezzi stratosferici e il manifesto fu il promotore di una campagna perché lo stato si facesse carico con contributi all'editoria dei costi insostenibili della carta. La legge fu varata e fu molto favorevole per i giornali di partito. Il 7 aprile '83 la «provocazione»: uscimmo con un numero a 10 mila lire. Nel sommario era scritto: «Oggi un voto contro l'arroganza del potere/La scheda è un biglietto da 10mila lire/Lettera al manifesto di Enrico Berlinguer» che a nome del Pci, ci comunicava la concessione di un prestito di 150 milioni. Di «spalla» una intervista all'ex direttore del Corriere della Sera Piero Ottone. « Il manifesto è un lusso. Ma i lussi oggi sono necessari». Vendemmo 40 mila copie. Di quegli anni è anche la nascita della Cooperativa «il manifesto anni '80» il cui unico scopo sociale era tenere in vita il giornale. Raccolse quasi 600 milioni di lire. E, tra i tanti soci, ci piace ricordare Sandro Pertini. Gli anni '80 sono anche gli anni del governo Craxi e del blocco della scala mobile. Alcuni collaboratori del manifesto (Federico Caffè, in testa) lanciarono un appello: «Date al manifesto i Buoni del tesoro che lo stato vi dà in cambio dei punti congelati di scala mobile che potrete incassare solo fra 10 anni». L'invito fruttò 60 milioni. Alla fine degli anni '80 le vendite del manifesto cominciarono a risalire. Nel 1991 superano (con la prima guerra del Golfo) le 53 mila copie; poi arrivò Tangentopoli; poi nel '94 la vittoria di Berlusconi: il manifesto (nel frattempo trasformato in tabloid) fu protagonista di quella stagione politica di opposizione. Le copie vendute salirono a quasi 55 mila e i nostri bilanci presentavano larghi attivi. Durò poco: il governo Dini al quale non eravamo pregiudizialmente contrari («Baciare il Rospo?», la famosa copertina) e il successivo primo governo Prodi, spinsero al ribasso (forte) le vendite e gonfiarono le perdite. Nel frattempo avevamo lanciato una sottoscrizione un po' particolare. Nacque la «manifesto spa»: raccogliemmo 5,4 miliardi. Non sufficienti per sviluppare tutti i progetti. Tra i quali l'acquisto di una sede. Entrammo di nuovo in crisi: realizzammo una pesante e dolorosa ristrutturazione. Il 19 dicembre 1997 una nuova provocazione ideata da Pintor. Il titolo del giornale «Cara libertà» e annunciava che quel giorno il manifesto costava 50 mila lire. «È successo» titolammo il giorno seguente, commentando le quasi 40 mila copie vendute. La situazione economica rimaneva precaria. E il 31 gennaio '99 lanciammo una nuova sottoscrizione. Raccogliemmo circa 3 miliardi. Gli interessi sul debito accumulato negli anni e i sistematici ritardi con i quali ci venivano pagati i contributi della legge sull'editoria, seguitavano a rendere la nostra vita precaria. Le vendite, però, cominciavano a risalire e questo ci dava «ossigeno». Ma nel 2006 (vendite di nuovo in caduta) fummo costretti a lanciare una nuova sottoscrizione: arrivarono 1,8 milioni di euro. Calcolare a moneta corrente quanto i lettori ci hanno donato in 38 anni non è facile. Grosso modo oltre 25 miliardi di lire. Purtroppo le banche dal '71 in poi, per interessi, hanno incassato molto di più. Ma vale la pena riprovarci. Detto da chi lavora al manifesto , può sembrare un invito interessato. Ma «la libertà costa cara».
(a cura dell'archivio)
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Storia di una sottoscrizione infinita, che dalla fondazione a oggi ci ha salvato la vita con 13 milioni di euro
«Chi li paga?» era scritto a caratteri cubitali su un manifesto parecchio malizioso affisso dal Pci (avevano ripreso una notizia acida diffusa dal quotidiano Izvestja che ci accusava di essere finanziati dal capitalismo internazionale) prima ancora che fosse pubblicato il primo numero del nostro giornale. «Ecco chi ci paga», fu la nostra campagna. E sul primo numero - il 28 aprile '71 - pubblicammo i nomi di tutti i sottoscrittori che con circa 50 milioni - avevano reso possibile l'uscita in edicola (a 50 lire). Pubblicammo anche il preventivo mensile delle entrate necessarie a tenerci in vita. Già all'uscita del primo numero il capitale iniziale era però «bruciato». Di più: eravamo stati troppo ottimisti sui preventivi di spesa. Senza contare che le entrate delle vendite non erano immediate. Fin dall'inizio soffrivamo di una grave crisi di cassa e fummo costretti a lanciare la prima sottoscrizione chiedendo ai nostri lettori «100 lire al giorno». Tra maggio e giugno in questo modo arrivarono 10,6 milioni e i nomi di chi ci inviava i soldi erano tutti pubblicati. Le vendite seguitavano ad andare bene - oltre 30 mila copie ma i soldi non bastavano. A luglio chiedemmo ai lettori 100 lire per ogni giorno di ferie. A fine estate erano entrati 17,5 milioni. Ma, colpa di un capitale iniziale, troppo esiguo (alcuni esperti calcolarono che per partire in tranquillità sarebbe servito almeno un miliardo) e la cassa «piangeva». Il 29 settembre del '71 in prima pagina facemmo un appello: «10 mila copie in più e sottoscrizione permanente per rilanciare il giornale». Fin da allora fu chiaro che il manifesto aveva un solo editore: i lettori ai quali chiedevamo soldi per sopravvivere. E li chiedevamo con «fantasia». A dicembre lanciammo la parola d'ordine: «1000 lire per ogni tredicesima». La risposta fu generosa: in 15 giorni arrivarono 28 milioni. Nel '72 la replica: vista l'inflazione, le 1000 lire diventarono 2 mila lire, mentre il prezzo del quotidiano era salito a 90 lire. Cambiammo lo slogan con il quale chiedevamo i soldi, invocando un «sostegno di massa». E raccogliemmo anche 16 milioni per finanziare la campagna elettorale del 1972. Le vendite cominciarono a diminuire e con la crisi petrolifera del '73 i costi (di stampa, carta e distribuzione) si impennarono mostruosamente. Per fortuna c'erano sempre i lettori a tenerci in piedi e nel 1977 ci permisero tra l'altro - grazie a una sottoscrizione di 100 milioni - di acquistare una tipografia a Milano. I primi anni '80 furono durissimi: la carta era salita a prezzi stratosferici e il manifesto fu il promotore di una campagna perché lo stato si facesse carico con contributi all'editoria dei costi insostenibili della carta. La legge fu varata e fu molto favorevole per i giornali di partito. Il 7 aprile '83 la «provocazione»: uscimmo con un numero a 10 mila lire. Nel sommario era scritto: «Oggi un voto contro l'arroganza del potere/La scheda è un biglietto da 10mila lire/Lettera al manifesto di Enrico Berlinguer» che a nome del Pci, ci comunicava la concessione di un prestito di 150 milioni. Di «spalla» una intervista all'ex direttore del Corriere della Sera Piero Ottone. « Il manifesto è un lusso. Ma i lussi oggi sono necessari». Vendemmo 40 mila copie. Di quegli anni è anche la nascita della Cooperativa «il manifesto anni '80» il cui unico scopo sociale era tenere in vita il giornale. Raccolse quasi 600 milioni di lire. E, tra i tanti soci, ci piace ricordare Sandro Pertini. Gli anni '80 sono anche gli anni del governo Craxi e del blocco della scala mobile. Alcuni collaboratori del manifesto (Federico Caffè, in testa) lanciarono un appello: «Date al manifesto i Buoni del tesoro che lo stato vi dà in cambio dei punti congelati di scala mobile che potrete incassare solo fra 10 anni». L'invito fruttò 60 milioni. Alla fine degli anni '80 le vendite del manifesto cominciarono a risalire. Nel 1991 superano (con la prima guerra del Golfo) le 53 mila copie; poi arrivò Tangentopoli; poi nel '94 la vittoria di Berlusconi: il manifesto (nel frattempo trasformato in tabloid) fu protagonista di quella stagione politica di opposizione. Le copie vendute salirono a quasi 55 mila e i nostri bilanci presentavano larghi attivi. Durò poco: il governo Dini al quale non eravamo pregiudizialmente contrari («Baciare il Rospo?», la famosa copertina) e il successivo primo governo Prodi, spinsero al ribasso (forte) le vendite e gonfiarono le perdite. Nel frattempo avevamo lanciato una sottoscrizione un po' particolare. Nacque la «manifesto spa»: raccogliemmo 5,4 miliardi. Non sufficienti per sviluppare tutti i progetti. Tra i quali l'acquisto di una sede. Entrammo di nuovo in crisi: realizzammo una pesante e dolorosa ristrutturazione. Il 19 dicembre 1997 una nuova provocazione ideata da Pintor. Il titolo del giornale «Cara libertà» e annunciava che quel giorno il manifesto costava 50 mila lire. «È successo» titolammo il giorno seguente, commentando le quasi 40 mila copie vendute. La situazione economica rimaneva precaria. E il 31 gennaio '99 lanciammo una nuova sottoscrizione. Raccogliemmo circa 3 miliardi. Gli interessi sul debito accumulato negli anni e i sistematici ritardi con i quali ci venivano pagati i contributi della legge sull'editoria, seguitavano a rendere la nostra vita precaria. Le vendite, però, cominciavano a risalire e questo ci dava «ossigeno». Ma nel 2006 (vendite di nuovo in caduta) fummo costretti a lanciare una nuova sottoscrizione: arrivarono 1,8 milioni di euro. Calcolare a moneta corrente quanto i lettori ci hanno donato in 38 anni non è facile. Grosso modo oltre 25 miliardi di lire. Purtroppo le banche dal '71 in poi, per interessi, hanno incassato molto di più. Ma vale la pena riprovarci. Detto da chi lavora al manifesto , può sembrare un invito interessato. Ma «la libertà costa cara».
(a cura dell'archivio)
Come sottoscrivere
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- on line, versamenti con carta di credito sul sito www.ilmanifesto.it, ed è il metodo più veloce ed efficace
- telefonicamente, sempre con carta di credito, allo 06-68719888, o via fax alllo 06-68719689 dal lunedì al venerdì, dalle 10,30 alle 18,30 dove potete telefonare anche per segnalare, suggerire e organizzare iniziative di sostegno
- con bonifico bancario presso la Banca popolare etica - Agenzia di Roma intestato a il manifesto IBAN IT40K050180320 0000000535353
- con conto corrente postale numero 708016, intestato a il manifesto Coop. Ed. Arl. via Bargoni 8 00153 Roma.
ilmanifesto.it
21.9.08
Raiotta & Crollaninno
Marco Travaglio
Siccome è una splendida notizia, sperando che sia definitiva, la ritirata dei 18 furbetti della Cai che volevano papparsi Alitalia a spese nostre e dei lavoratori è stata accolta dai nove decimi della stampa italiana come una rovinosa jattura. S’è listato a lutto persino il Tg1 di Johnny Raiotta, che non prenderebbe posizione contro il governo nemmeno se ripristinasse il rogo (“Il Consiglio dei ministri vara il nuovo pacchetto sicurezza per difendere i cittadini dalle streghe e dagli eretici ereditati dal precedente governo: soddisfazione nella maggioranza, possibilista l’opposizione”). Infatti s’è schierato a favore del governo contro i dipendenti Alitalia che si oppongono allo scippo di stipendi e posti di lavoro per ingrassare i compari del Cainano, dunque il cosiddetto servizio pubblico li ha dipinti come figure “bizzarre” che “festeggiano mentre il Titanic affonda”.
E dire che di occasioni per schierarsi sul caso Alitalia, in questi mesi, Raiotta ne avrebbe avute parecchie. Poteva definire “bizzarro” il niet di Al Tappone all’Air France che,grazie a Prodi e Padoa-Schioppa, era pronta a comprarsi Alitalia con dentro tutti i debiti e i tre quarti degli attuali esuberi. Poteva definire “bizzarro” il salvataggio dell’AirOne di Carlo Toto, il patriota dell’italianità che, fra il lusco e il brusco, regalava all’Alitalia, cioè a noi, il suo miliardo di italianissimi debiti. Poteva definire “bizzarri” i conflitti d’interessi di Colaninno, Benetton, Marcegaglia, Gavio, Ligresti, Passera, Tronchetti Dov'Era e compagnia volante. Poteva definire “bizzarro” che il governo cambiasse tre leggi e abolisse l’antitrust per i porci comodi di lorsignori. Poteva definire “bizzarra” la buonuscita di 8 milioni di euro donata al terz’ultimo presidente, Giancarlo Cimoli, nominato dal governo Berlusconi2. Poteva definire “bizzarre” le accuse del governo e dei suoi house-organ alla terribile lobby dei piloti, colpevoli di tutto, anche del buco dell’ozono, visto che un pilota Alitalia costa il 25-30% in meno di un collega di Air France, Lufthansa, British e Iberia e che comunque gli stipendi del personale viaggiante incidono pochissimo sulle spese d’esercizio. Poteva definire “bizzarre” le accuse alla Cgil che, contrariamente a quel che si racconta, ha firmato l’accordo con la Cai per il personale di terra, ma non poteva farlo per i piloti visto che in maggioranza non aderiscono alla triade confederale.
Poteva definire “bizzarra” la latitanza dei politici i quali, dopo aver divorato letteralmente Alitalia per 15 anni, hanno accuratamente evitato - Di Pietro a parte - di portare la loro solidarietà alle migliaia di lavoratori in ansia. Poteva definire “bizzarra” la trattativa clandestina e parallela avviata dal solito Gianni Letta con Lufthansa (tanto più bizzarra in quanto Al Tappone aveva sempre parlato di “cordata italiana”, mentre pare che Lufthansa sia leggerissimamente tedesca, comunque non più di quanto Air France fosse francese). Poteva definire “bizzarra” la minaccia del Cainano ai sindacati di negare cassintegrazione e mobilità lunga ai dipendenti Alitalia in esubero se fosse stata respinta l’offerta dei suoi 18 amichetti, una sorta di estorsione con mezzi pubblici per fini privati. Poteva definire “bizzarra” la rinuncia del governo e del commissario Fantozzi a cercare sul mercato acquirenti alternativi per una compagnia che - come notava ieri Boeri su Repubblica - ne aveva trovato uno anche quand’era piena di debiti e non dovrebbe faticare a trovarne oggi che non ne ha più (perché li paghiamo noi).
Volendo poi esagerare, Johhny Raiotta e il suo tiggì potevano definire “bizzarra” la malagestione partitocratica dell’Alitalia negli ultimi 15 anni, facendo nomi e cognomi dei manager, anzi dei magnager, che l’hanno spolpata, ciascuno col suo sponsor politico in sovrimpressione. E potevano definire “bizzarre” certe rotte aeree imposte alla compagnia di bandiera da ministri della prima e della seconda Repubblica, ansiosi di atterrare nel cortile di casa propria (il volo Treviso-Roma per far contento il dc Bernini, il volo Crotone-Roma perché l’Udc Tassone ci teneva tanto, il volo Albenga-Roma per recapitare a domicilio il ministro forzista Scajola). Ma, come diceva Victor Hugo, c’è gente che pagherebbe per vendersi. Figurarsi il partigiano Johnny, per giunta alla vigilia dell’annunciato ribaltone alla Rai e, si spera, anche al Tg1. Così ha buttato il cuore oltre l'ostacolo e ha definito “bizzarri” i lavoratori che osano financo difendere lo stipendio e il posto di lavoro. Come sempre, dalla parte dei più deboli.
Ora d'aria
l'Unità, 20 settembre 2008
Siccome è una splendida notizia, sperando che sia definitiva, la ritirata dei 18 furbetti della Cai che volevano papparsi Alitalia a spese nostre e dei lavoratori è stata accolta dai nove decimi della stampa italiana come una rovinosa jattura. S’è listato a lutto persino il Tg1 di Johnny Raiotta, che non prenderebbe posizione contro il governo nemmeno se ripristinasse il rogo (“Il Consiglio dei ministri vara il nuovo pacchetto sicurezza per difendere i cittadini dalle streghe e dagli eretici ereditati dal precedente governo: soddisfazione nella maggioranza, possibilista l’opposizione”). Infatti s’è schierato a favore del governo contro i dipendenti Alitalia che si oppongono allo scippo di stipendi e posti di lavoro per ingrassare i compari del Cainano, dunque il cosiddetto servizio pubblico li ha dipinti come figure “bizzarre” che “festeggiano mentre il Titanic affonda”.
E dire che di occasioni per schierarsi sul caso Alitalia, in questi mesi, Raiotta ne avrebbe avute parecchie. Poteva definire “bizzarro” il niet di Al Tappone all’Air France che,grazie a Prodi e Padoa-Schioppa, era pronta a comprarsi Alitalia con dentro tutti i debiti e i tre quarti degli attuali esuberi. Poteva definire “bizzarro” il salvataggio dell’AirOne di Carlo Toto, il patriota dell’italianità che, fra il lusco e il brusco, regalava all’Alitalia, cioè a noi, il suo miliardo di italianissimi debiti. Poteva definire “bizzarri” i conflitti d’interessi di Colaninno, Benetton, Marcegaglia, Gavio, Ligresti, Passera, Tronchetti Dov'Era e compagnia volante. Poteva definire “bizzarro” che il governo cambiasse tre leggi e abolisse l’antitrust per i porci comodi di lorsignori. Poteva definire “bizzarra” la buonuscita di 8 milioni di euro donata al terz’ultimo presidente, Giancarlo Cimoli, nominato dal governo Berlusconi2. Poteva definire “bizzarre” le accuse del governo e dei suoi house-organ alla terribile lobby dei piloti, colpevoli di tutto, anche del buco dell’ozono, visto che un pilota Alitalia costa il 25-30% in meno di un collega di Air France, Lufthansa, British e Iberia e che comunque gli stipendi del personale viaggiante incidono pochissimo sulle spese d’esercizio. Poteva definire “bizzarre” le accuse alla Cgil che, contrariamente a quel che si racconta, ha firmato l’accordo con la Cai per il personale di terra, ma non poteva farlo per i piloti visto che in maggioranza non aderiscono alla triade confederale.
Poteva definire “bizzarra” la latitanza dei politici i quali, dopo aver divorato letteralmente Alitalia per 15 anni, hanno accuratamente evitato - Di Pietro a parte - di portare la loro solidarietà alle migliaia di lavoratori in ansia. Poteva definire “bizzarra” la trattativa clandestina e parallela avviata dal solito Gianni Letta con Lufthansa (tanto più bizzarra in quanto Al Tappone aveva sempre parlato di “cordata italiana”, mentre pare che Lufthansa sia leggerissimamente tedesca, comunque non più di quanto Air France fosse francese). Poteva definire “bizzarra” la minaccia del Cainano ai sindacati di negare cassintegrazione e mobilità lunga ai dipendenti Alitalia in esubero se fosse stata respinta l’offerta dei suoi 18 amichetti, una sorta di estorsione con mezzi pubblici per fini privati. Poteva definire “bizzarra” la rinuncia del governo e del commissario Fantozzi a cercare sul mercato acquirenti alternativi per una compagnia che - come notava ieri Boeri su Repubblica - ne aveva trovato uno anche quand’era piena di debiti e non dovrebbe faticare a trovarne oggi che non ne ha più (perché li paghiamo noi).
Volendo poi esagerare, Johhny Raiotta e il suo tiggì potevano definire “bizzarra” la malagestione partitocratica dell’Alitalia negli ultimi 15 anni, facendo nomi e cognomi dei manager, anzi dei magnager, che l’hanno spolpata, ciascuno col suo sponsor politico in sovrimpressione. E potevano definire “bizzarre” certe rotte aeree imposte alla compagnia di bandiera da ministri della prima e della seconda Repubblica, ansiosi di atterrare nel cortile di casa propria (il volo Treviso-Roma per far contento il dc Bernini, il volo Crotone-Roma perché l’Udc Tassone ci teneva tanto, il volo Albenga-Roma per recapitare a domicilio il ministro forzista Scajola). Ma, come diceva Victor Hugo, c’è gente che pagherebbe per vendersi. Figurarsi il partigiano Johnny, per giunta alla vigilia dell’annunciato ribaltone alla Rai e, si spera, anche al Tg1. Così ha buttato il cuore oltre l'ostacolo e ha definito “bizzarri” i lavoratori che osano financo difendere lo stipendio e il posto di lavoro. Come sempre, dalla parte dei più deboli.
Ora d'aria
l'Unità, 20 settembre 2008
20.9.08
La selezione ora si fa su Facebook. I social network "contro" l'utente
Ammissioni ai college e ricerca di personale si adeguano ai tempi
Un cacciatore di teste su 5 guarda i profili online dei candidati Gli strumenti nati per condividere vengono usati per reperire informazioni imbarazzanti
di MAURO MUNAFO'
Se avete un profilo su Facebook o su MySpace state allerta: la pagina che avete aperto per rimanere in contatto con i vostri amici o per conoscere nuove persone potrebbe rivoltarsi contro di voi. Le ricerche pubblicate in questi giorni negli Stati Uniti e in Inghilterra parlano chiaro: i social network sono una delle fonti di informazioni preferite dai responsabili delle assunzioni nelle aziende e dai selezionatori nei college.
Ad evidenziare il nuovo trend ci ha pensato per prima una ricerca di CareerBuilder.com, agenzia specializzata nel reclutamento. Secondo lo studio, condotto su 31 mila "cacciatori di teste", il 22% degli intervistati ha ammesso di controllare il profilo online dei candidati, mentre un altro 9% intende farlo in futuro. Un dato confermato anche dalla ricerca inglese di Personnel Today, condotta su 220 responsabili delle risorse umane, in cui un intervistato su 4 ha dichiarato di dare una "sbirciata" alle pagine personali prima di assumere una persona, alla ricerca di quei particolari che nessuno si sognerebbe di confessare in un colloquio.
Dal vigile occhio della rete (sociale) insomma non si scappa. Se fino a qualche anno fa i selezionatori si limitavano a digitare il nome del candidato sui motori di ricerca, sperando che dal mare magnum di internet spuntasse fuori qualcosa di rilevante, adesso hanno un'arma molto più potente e invasiva. Difficile credere che nel 2008 una persona in cerca di lavoro, e quindi presumibilmente tra i 20 e i 30 anni, non abbia un blog (3 milioni di italiani ne hanno uno) o un account su Facebook o MySpace (4 milioni di italiani sono iscritti ai social network). Di più, se dalle ricerche non risulta nulla, è possibile che sorgano dubbi sulla capacità del candidato di socializzare e, di certo, nessuna azienda vuole misantropi tra le sue fila.
Gli stessi rischi di chi cerca lavoro devono essere affrontati anche dai neo-diplomati di oltre oceano. Una ricerca citata dal Wall Street Journal mostra che nei 500 più prestigiosi college americani, il 10% degli addetti alle ammissioni usa i social network per reperire informazioni aggiuntive sulle aspiranti matricole, una ricerca che si fa ancora più approfondita in caso di assegnazione di borse di studio.
Ma cosa cercano esattamente questi "curiosi autorizzati"? Secondo CareerBuilder le informazioni più desiderate sono quelle sull'abuso di alcol e droga, magari corredate da foto o video compromettenti. Seguono la capacità di comunicazione e l'adeguatezza al ruolo, ma anche i collegamenti ad attività criminali e le rivelazioni sui passati impieghi stuzzicano la curiosità dei cacciatori di teste.
La consapevolezza di queste meccaniche genera però una serie di controffensive sempre più originali. Il candidato ad un posto in azienda provvederà ad eliminare dal suo profilo ogni commento sconveniente, evitando di partecipare a gruppi che possono spaventare i datori di lavoro e magari si iscriverà a LinkedIn, il social network pensato per gestire con professionalità i contatti di lavoro.
Si va ancora oltre nelle scuole superiori a stelle e strisce, dove i tutor arrivano a consigliare agli studenti di non mettere online nulla che non vorrebbero "venisse visto dalla nonna", finendo così per alimentare una vera e propria ondata di conformismo multimediale: l'aspirante matricola starà bene attenta a scegliere le sue letture preferite (meglio Kant dei fumetti Marvel), arrivando persino a rinnegare amicizie storiche con persone un po' troppo alternative per i severi giudici di Yale e Princeton. Una fine paradossale per quegli strumenti come Facebook, nati tra le mura di un college per essere usati dagli studenti e non contro di loro.
repubblica.it
Un cacciatore di teste su 5 guarda i profili online dei candidati Gli strumenti nati per condividere vengono usati per reperire informazioni imbarazzanti
di MAURO MUNAFO'
Se avete un profilo su Facebook o su MySpace state allerta: la pagina che avete aperto per rimanere in contatto con i vostri amici o per conoscere nuove persone potrebbe rivoltarsi contro di voi. Le ricerche pubblicate in questi giorni negli Stati Uniti e in Inghilterra parlano chiaro: i social network sono una delle fonti di informazioni preferite dai responsabili delle assunzioni nelle aziende e dai selezionatori nei college.
Ad evidenziare il nuovo trend ci ha pensato per prima una ricerca di CareerBuilder.com, agenzia specializzata nel reclutamento. Secondo lo studio, condotto su 31 mila "cacciatori di teste", il 22% degli intervistati ha ammesso di controllare il profilo online dei candidati, mentre un altro 9% intende farlo in futuro. Un dato confermato anche dalla ricerca inglese di Personnel Today, condotta su 220 responsabili delle risorse umane, in cui un intervistato su 4 ha dichiarato di dare una "sbirciata" alle pagine personali prima di assumere una persona, alla ricerca di quei particolari che nessuno si sognerebbe di confessare in un colloquio.
Dal vigile occhio della rete (sociale) insomma non si scappa. Se fino a qualche anno fa i selezionatori si limitavano a digitare il nome del candidato sui motori di ricerca, sperando che dal mare magnum di internet spuntasse fuori qualcosa di rilevante, adesso hanno un'arma molto più potente e invasiva. Difficile credere che nel 2008 una persona in cerca di lavoro, e quindi presumibilmente tra i 20 e i 30 anni, non abbia un blog (3 milioni di italiani ne hanno uno) o un account su Facebook o MySpace (4 milioni di italiani sono iscritti ai social network). Di più, se dalle ricerche non risulta nulla, è possibile che sorgano dubbi sulla capacità del candidato di socializzare e, di certo, nessuna azienda vuole misantropi tra le sue fila.
Gli stessi rischi di chi cerca lavoro devono essere affrontati anche dai neo-diplomati di oltre oceano. Una ricerca citata dal Wall Street Journal mostra che nei 500 più prestigiosi college americani, il 10% degli addetti alle ammissioni usa i social network per reperire informazioni aggiuntive sulle aspiranti matricole, una ricerca che si fa ancora più approfondita in caso di assegnazione di borse di studio.
Ma cosa cercano esattamente questi "curiosi autorizzati"? Secondo CareerBuilder le informazioni più desiderate sono quelle sull'abuso di alcol e droga, magari corredate da foto o video compromettenti. Seguono la capacità di comunicazione e l'adeguatezza al ruolo, ma anche i collegamenti ad attività criminali e le rivelazioni sui passati impieghi stuzzicano la curiosità dei cacciatori di teste.
La consapevolezza di queste meccaniche genera però una serie di controffensive sempre più originali. Il candidato ad un posto in azienda provvederà ad eliminare dal suo profilo ogni commento sconveniente, evitando di partecipare a gruppi che possono spaventare i datori di lavoro e magari si iscriverà a LinkedIn, il social network pensato per gestire con professionalità i contatti di lavoro.
Si va ancora oltre nelle scuole superiori a stelle e strisce, dove i tutor arrivano a consigliare agli studenti di non mettere online nulla che non vorrebbero "venisse visto dalla nonna", finendo così per alimentare una vera e propria ondata di conformismo multimediale: l'aspirante matricola starà bene attenta a scegliere le sue letture preferite (meglio Kant dei fumetti Marvel), arrivando persino a rinnegare amicizie storiche con persone un po' troppo alternative per i severi giudici di Yale e Princeton. Una fine paradossale per quegli strumenti come Facebook, nati tra le mura di un college per essere usati dagli studenti e non contro di loro.
repubblica.it
19.9.08
Se la delusione genera consenso
Ilvo Diamanti
E' un po' sorprendente che la delusione, tanto diffusa nella società, non produca sfiducia nel governo e, in primo luogo, nel premier. Eppure in passato aveva sempre funzionato l'equazione: più delusione meno consenso a chi governa. Tanto che la delusione era divenuta una fra le più efficaci tecniche di opposizione.
Complici i media, che ne hanno fatto un genere di successo, miscelando la delusione con altri sentimenti di largo uso, nel linguaggio comune. La paura, l'incertezza, l'inquietudine, l'insicurezza. Così, per restare a questo decennio, gli italiani delusi hanno punito, dapprima, Berlusconi e il centrodestra. Il quale ha perduto tutte le elezioni intermedie, dopo il 2001: comunali, regionali, europee. Tutte. Per riprendersi - e quasi a rivincere - nel 2006, dopo una breve e intensa campagna elettorale tutta protesa a deviare il corso della delusione verso Prodi e il centrosinistra. Suscitando sfiducia preventiva nei loro confronti. Come avrebbero potuto, gli elettori, soprattutto i più moderati, fidarsi dei comunisti, neo o ex non importa, e dei loro alleati? Quelli che avrebbero aumentato le tasse, anzitutto sulla loro casa; quelli che avrebbero aperto le porte ai delinquenti e agli immigrati: cioè, lo stesso; quelli che avrebbero allargato ancora lo spazio dello stato e ridotto quello del privato. Non ne avevano ... "paura"?
Argomenti riproposti, con successo, nella breve parentesi del secondo governo Prodi. Neppure due anni di navigazione faticosa e affaticata, poi il naufragio. Nelle acque torbide della delusione. A poco è servito il tentativo di Veltroni di voltar pagina, cancellare il passato. Un nuovo partito, una nuova strategia, da soli da soli! Opposizione senza pregiudizio e senza antagonismo, Berlusconi: avversario mai più nemico. Troppa la delusione retrospettiva. Al punto da rendere inutile e controproducente il tentativo di rimuovere il passato - insieme a Prodi.
Da ciò la vittoria schiacciante di Berlusconi, sopravvissuto alla delusione, emerso da un mare di delusione. E ora là, luminoso faro nella nebbia della delusione. Un sentimento che, sei mesi dopo il voto, non si è dissolto, ma, al contrario, continua a crescere. Una foschia grigia e densa. D'altronde, non ne va bene una. La crisi economica e finanziaria deborda. I prezzi sono fuori controllo. La paura della criminalità non flette. La fiducia nel futuro... da che parte sta il futuro? E poi, nessuna promessa mantenuta. Le tasse? Non caleranno. Alitalia? Affonda. Neanche nel calcio le cose vanno bene. La Nazionale ha perso gli europei. (Altro che ai mondiali del 2006, quando c'era Prodi ...).
Eppure, il rapporto fra il governo e il paese; fra Berlusconi e gli elettori non ne risente. Al contrario: i livelli di fiducia crescono. Piove, anzi, tempesta: governo virtuoso. Edmondo Berselli, su Repubblica, ha sostenuto questa inversione di tendenza vi sia l'affermarsi di una forma di comunicazione politica. Anzi di un "format". Interpretato, sulla scia del Cavaliere, maestro insuperato, da alcuni attori politici abili.
Anzitutto, Brunetta, il persecutore dei fannulloni annidati nel pubblico impiego. Poi, la Gelmini, domatrice dei professori e dei maestri, incapaci di educare e disciplinare i nostri figli. Maroni, difensore degli italiani dall'invasione minacciosa di stranieri e rom. Infine, perfino la Carfagna, alla caccia di prostitute e clienti, da punire direttamente sulla strada; Un format che comunica in modo semplice problemi complessi; personalizzando le paure e le crisi, attraverso bersagli facili da colpire, che riflettono il senso comune e spostano il flusso della sfiducia e della delusione lontano dal governo.
Così la maggioranza degli italiani, riconoscente, si stringe intorno al governo, che li difende dalla minoranza deviante: professori, maestri, statali, immigrati, puttane. E dai piloti e i sindacati, colpevoli del possibile fallimento di Alitalia. Loro, non la politica che ha governato - e retto - le sorti della compagnia di bandiera per anni, decenni. Oltre ogni ragionevole ragione. Loro, che, pochi mesi fa, apparivano vittime del disegno del centrosinistra di svenderli agli stranieri, insieme alla compagnia.
Tuttavia, oltre al format comunicativo del governo, c'è un'altra spiegazione. E' che ci siamo abituati, assuefatti alla delusione. Non la consideriamo uno emergenza, di cui ha colpa, anzitutto, chi manovra le leve di governo. Ma una situazione normale, per quanto sgradevole. Come la nebbia in val padana d'inverno e le zanzare d'estate. Gli italiani: non possono non dirsi delusi. A prescindere. Perché nessuno, è stato capace di sanare i bilanci, abbassare le tasse, rilanciare l'economia, ridurre la paura della criminalità. E se anche avvenisse, non ce ne accorgeremmo. D'altronde, anche se i crimini sono diminuiti, la paura è cresciuta lo stesso. E se il tasso di criminalità in Italia è tra i più bassi d'Europa, noi restiamo il paese europeo più impaurito e deluso. Il più sfiduciato. Chiunque ci governi. Berlusconi o Prodi.
Per cui, dopo aver provato, invano, a invertire la rotta con il voto, cambiando governo e maggioranza, gli italiani si sono rassegnati. Così, oggi che la delusione è penetrata dovunque: nelle case, nelle famiglie nei vicoli, nei programmi tivù, negli indici di borsa che sembrano bollettini di guerra, nelle stime dei mercati, della produzione e dei consumi: oggi che la delusione è dappertutto, gli italiani hanno smesso di considerarla un accidente. La considerano una perturbazione durevole, uno stato di necessità. Che non è il caso di imputare a qualcuno. D'altronde, chi c'era prima ha fatto di meglio? E' riuscito a darci fiducia? A renderci felici? Allora, inutile ritorcere la nostra rabbia, la nostra delusione, su chi governa oggi. Teniamocelo. Accontentiamoci. Tanto più se riesce a consolarci e a offrirci capri espiatori, a suggerirci che non è colpa nostra (né tanto meno sua).
Ma se la delusione non costituisce più uno strumento di delegittimazione del governo, né un metodo di opposizione, allora - scusate la tautologia - per fare opposizione la delusione non serve. Non solo, ma diventa dannosa. Un boomerang.
Per fare opposizione occorrerebbe, al contrario, spingere la delusione più in là. Generare speranza, non nuove illusione. Ma la speranza è un attributo del futuro. E il futuro, per ora, è solo una speranza. Pardon: un'illusione, che in pochi si ostinano a coltivare.
repubblica.it
E' un po' sorprendente che la delusione, tanto diffusa nella società, non produca sfiducia nel governo e, in primo luogo, nel premier. Eppure in passato aveva sempre funzionato l'equazione: più delusione meno consenso a chi governa. Tanto che la delusione era divenuta una fra le più efficaci tecniche di opposizione.
Complici i media, che ne hanno fatto un genere di successo, miscelando la delusione con altri sentimenti di largo uso, nel linguaggio comune. La paura, l'incertezza, l'inquietudine, l'insicurezza. Così, per restare a questo decennio, gli italiani delusi hanno punito, dapprima, Berlusconi e il centrodestra. Il quale ha perduto tutte le elezioni intermedie, dopo il 2001: comunali, regionali, europee. Tutte. Per riprendersi - e quasi a rivincere - nel 2006, dopo una breve e intensa campagna elettorale tutta protesa a deviare il corso della delusione verso Prodi e il centrosinistra. Suscitando sfiducia preventiva nei loro confronti. Come avrebbero potuto, gli elettori, soprattutto i più moderati, fidarsi dei comunisti, neo o ex non importa, e dei loro alleati? Quelli che avrebbero aumentato le tasse, anzitutto sulla loro casa; quelli che avrebbero aperto le porte ai delinquenti e agli immigrati: cioè, lo stesso; quelli che avrebbero allargato ancora lo spazio dello stato e ridotto quello del privato. Non ne avevano ... "paura"?
Argomenti riproposti, con successo, nella breve parentesi del secondo governo Prodi. Neppure due anni di navigazione faticosa e affaticata, poi il naufragio. Nelle acque torbide della delusione. A poco è servito il tentativo di Veltroni di voltar pagina, cancellare il passato. Un nuovo partito, una nuova strategia, da soli da soli! Opposizione senza pregiudizio e senza antagonismo, Berlusconi: avversario mai più nemico. Troppa la delusione retrospettiva. Al punto da rendere inutile e controproducente il tentativo di rimuovere il passato - insieme a Prodi.
Da ciò la vittoria schiacciante di Berlusconi, sopravvissuto alla delusione, emerso da un mare di delusione. E ora là, luminoso faro nella nebbia della delusione. Un sentimento che, sei mesi dopo il voto, non si è dissolto, ma, al contrario, continua a crescere. Una foschia grigia e densa. D'altronde, non ne va bene una. La crisi economica e finanziaria deborda. I prezzi sono fuori controllo. La paura della criminalità non flette. La fiducia nel futuro... da che parte sta il futuro? E poi, nessuna promessa mantenuta. Le tasse? Non caleranno. Alitalia? Affonda. Neanche nel calcio le cose vanno bene. La Nazionale ha perso gli europei. (Altro che ai mondiali del 2006, quando c'era Prodi ...).
Eppure, il rapporto fra il governo e il paese; fra Berlusconi e gli elettori non ne risente. Al contrario: i livelli di fiducia crescono. Piove, anzi, tempesta: governo virtuoso. Edmondo Berselli, su Repubblica, ha sostenuto questa inversione di tendenza vi sia l'affermarsi di una forma di comunicazione politica. Anzi di un "format". Interpretato, sulla scia del Cavaliere, maestro insuperato, da alcuni attori politici abili.
Anzitutto, Brunetta, il persecutore dei fannulloni annidati nel pubblico impiego. Poi, la Gelmini, domatrice dei professori e dei maestri, incapaci di educare e disciplinare i nostri figli. Maroni, difensore degli italiani dall'invasione minacciosa di stranieri e rom. Infine, perfino la Carfagna, alla caccia di prostitute e clienti, da punire direttamente sulla strada; Un format che comunica in modo semplice problemi complessi; personalizzando le paure e le crisi, attraverso bersagli facili da colpire, che riflettono il senso comune e spostano il flusso della sfiducia e della delusione lontano dal governo.
Così la maggioranza degli italiani, riconoscente, si stringe intorno al governo, che li difende dalla minoranza deviante: professori, maestri, statali, immigrati, puttane. E dai piloti e i sindacati, colpevoli del possibile fallimento di Alitalia. Loro, non la politica che ha governato - e retto - le sorti della compagnia di bandiera per anni, decenni. Oltre ogni ragionevole ragione. Loro, che, pochi mesi fa, apparivano vittime del disegno del centrosinistra di svenderli agli stranieri, insieme alla compagnia.
Tuttavia, oltre al format comunicativo del governo, c'è un'altra spiegazione. E' che ci siamo abituati, assuefatti alla delusione. Non la consideriamo uno emergenza, di cui ha colpa, anzitutto, chi manovra le leve di governo. Ma una situazione normale, per quanto sgradevole. Come la nebbia in val padana d'inverno e le zanzare d'estate. Gli italiani: non possono non dirsi delusi. A prescindere. Perché nessuno, è stato capace di sanare i bilanci, abbassare le tasse, rilanciare l'economia, ridurre la paura della criminalità. E se anche avvenisse, non ce ne accorgeremmo. D'altronde, anche se i crimini sono diminuiti, la paura è cresciuta lo stesso. E se il tasso di criminalità in Italia è tra i più bassi d'Europa, noi restiamo il paese europeo più impaurito e deluso. Il più sfiduciato. Chiunque ci governi. Berlusconi o Prodi.
Per cui, dopo aver provato, invano, a invertire la rotta con il voto, cambiando governo e maggioranza, gli italiani si sono rassegnati. Così, oggi che la delusione è penetrata dovunque: nelle case, nelle famiglie nei vicoli, nei programmi tivù, negli indici di borsa che sembrano bollettini di guerra, nelle stime dei mercati, della produzione e dei consumi: oggi che la delusione è dappertutto, gli italiani hanno smesso di considerarla un accidente. La considerano una perturbazione durevole, uno stato di necessità. Che non è il caso di imputare a qualcuno. D'altronde, chi c'era prima ha fatto di meglio? E' riuscito a darci fiducia? A renderci felici? Allora, inutile ritorcere la nostra rabbia, la nostra delusione, su chi governa oggi. Teniamocelo. Accontentiamoci. Tanto più se riesce a consolarci e a offrirci capri espiatori, a suggerirci che non è colpa nostra (né tanto meno sua).
Ma se la delusione non costituisce più uno strumento di delegittimazione del governo, né un metodo di opposizione, allora - scusate la tautologia - per fare opposizione la delusione non serve. Non solo, ma diventa dannosa. Un boomerang.
Per fare opposizione occorrerebbe, al contrario, spingere la delusione più in là. Generare speranza, non nuove illusione. Ma la speranza è un attributo del futuro. E il futuro, per ora, è solo una speranza. Pardon: un'illusione, che in pochi si ostinano a coltivare.
repubblica.it
Un intervento di Tullio De Mauro
Tratto da INTERNAZIONALE n. 762, 19 settembre 2008
FRANCESCO DE SANCTIS non fu solo un grande studioso di letteratura. A due riprese gli toccò il compito di ministro della pubblica istruzione. E sapeva bene cosa intendeva la volta che, scoraggiato, esclamò: "Chi parla di scuola in Italia è condannato all'eternità". Un secolo e mezzo dopo bisogna dire che questo non è più interamente vero. Vediamo perché.
Nell'enorme apparato dell'istruzione vi sono segmenti che negli ultimi quarant'anni hanno conosciuto un rinnovamento profondo con esiti positivi oggettivamente misurabili.
Il succo delle idee pedagogiche di Giuseppe Lombardo Radice, affidato nel 1913 alle sue Lezioni di didattica, e il confronto con le migliori scuole primarie di altri paesi hanno ispirato tra gli anni sessanta e ottanta un movimento di idee e di esperienze che si è tradotto nel 1985 in una radicale revisione dei programmi della scuola elementare, dei suoi metodi didattici e dell' organizzazione del lavoro. Fu merito del ministro Franca Falcucci evitare che tutto ciò restasse sulla carta e realizzare un aggiornamento a tappeto di tutti i già bravi insegnanti elementari. il risultato è scritto nelle indagini comparative internazionali: in uscita dalla scuola elementare gli alunni e le alunne delle nostre elementari si collocano per bravura ai primi posti nel mondo, tra i top ten e, talora, tra i top five. I provvedimenti restrittivi dell'attuale ministro rischiano di compromettere questi risultati, ma maestre e maestri hanno tutta l'aria di sapere comunque continuare sulla loro strada.
Ma questo è dir poco, se non si tiene conto del fatto che ancora negli anni cinquanta la maggioranza della popolazione adulta, il 59,2 per cento, non aveva la licenza elementare. Nei nostri anni la scuola elementare ha saputo diventare la scuola del 100 per cento delle bambine e dei bambini e ciò in stretto legame con il profondo rinnovamento dei contenuti e dei metodi.
Modello planetario
L'espansione quantitativa delle elementari e il loro successo si legano a due altri fatti innovativi e positivi. La scuola prevalementare pubblica, statale e comunale, dagli anni sessanta in poi ha fatto grandi passi in avanti nel suo progressivo diffondersi, accanto alle scuole private religiose. Documenti importanti ne hanno regolato la vita. L'organizzazione delle scuole dell'infanzia di Reggio Emilia, progettate da un uomo geniale, Loris Malaguzzi, si è imposta come un modello da seguire, un modello di riconosciuta eccellenza planetaria. Generalizzare del tutto la scuola dell'infanzia resta un obiettivo, pur non lontano, ancora da raggiungere. Ma, rispetto a cento o cinquanta anni fa, il salto in positivo è stato enorme e in molte parti d'Italia ha spianato la via alla scuola elementare.
Altro grande fatto innovativo, che De Sanctis non poteva immaginare, è stato l'allineamento all'Europa nel creare una scuola di base unitaria per "almeno otto anni". Nel 1939 questo era stato un progetto già del ministro fascista Giuseppe Bottai, ma fu travolto dalla guerra. Nel 1948 la costituzione sancì gli "almeno otto anni" di istruzione. Dovettero passare quindici anni perché la media unificata decollasse e altri quindici perché nuovi programmi la mettessero all'altezza dei suoi compiti nuovi di scuola di tutte e tutti. Mancò e manca tuttavia un riassetto della formazione degli insegnanti pari a quello conosciuto nelle elementari. Si stima che tra il 18 e il 25 per cento dei ragazzi che terminano le medie inferiori abbia gravi lacune e, in aggiunta, una percentuale consistente non raggiunge la licenza media. Diversamente dalle scuole dell'infanzia e dalle elementari, la scuola media funziona a regime ridotto.
L'eternità di Francesco De Sanctis si riaffaccia e ci soffoca se si guarda alla scuola secondaria superiore. Qualcuno, per parere informato, parla di "scuola gentiliana". In realtà, la deep structure della secondaria fu concepita da studiosi e intellettuali liberali e socialisti ai primi del novecento. Giovanni Gentile, legato culturalmente a quei gruppi, ebbe la possibilità di tradurla in una riorganizzazione d'insieme durante il primo gabinetto Mussolini (1922-1925). Forse era una cattiva scuola, come con veemenza sostenne Antonio Gramsci nei Quaderni del carcere, destinata a perpetuare l'immobilità sociale del paese. Forse non era malvagia, come pensano i laudatores da pagina culturale. Certo era una scuola pensata per quelle percentuali esigue di popolazione che, raggiunto il tetto delle elementari, riuscivano a proseguire verso le secondarie: figli (più che figlie) dei ceti borghesi già istruiti. A questi si offrivano due canali: uno alto, i licei, e uno mediobasso, gli istituti tecnici.
I successori di Gentile, ritiratosi dopo il delitto Matteotti, provvidero subito a manomettere l'impianto gentiliano, cominciando a creare quel vero dedalo di opzioni e percorsi e diplomi di cui è incerto perfino il numero (1207) che caratterizza la secondaria superiore italiana. Qua e là singole sezioni e interi istituti, dal liceo Ariosto di Ferrara al Vittorio Emanuele di Palermo, dal Mamiani di Roma al Parini di Milano, sfruttando la concessione di sperimentazioni ammesse dagli anni ottanta, realizzano isole di eccellenza. Ma al di fuori di poche aree (Trento, Val d'Aosta) le indagini comparative internazionali e gli studi più attenti (come quelli di Giancarlo Gasperoni o Benedetto Vertecchi) segnalano la mancanza di uno standard decente nei risultati e cadute di livello che si vorrebbero dire inammissibili. Ma ci sono.
Il fatto è che le classi politiche che si sono succedute dal dopoguerra a oggi non hanno saputo mettere mano alla realizzazione di un ripensamento radicale di contenuti e metodi della scuola superiore. C'è una novella di Pirandello che mette in fila i verbali del consiglio comunale di Milocca in cui dal 1880 al 1930 si discusse di come portare l'energia elettrica nel comune senza mai portarla. La secondaria superiore è la Milocca della nostra scuola. Chi legge le denunce fatte dai primi del novecento sul pessimo stato d'insegnamenti e apprendimenti di matematica, italiano, latino, può cambiare le date e assumerle come documenti di oggi e condirle con i tristi numeri delle statistiche comparative internazionali che si succedono dal 1971 e che solo negli ultimi due o tre anni ottengono un po' d'attenzione nella stampa.
Tutto è cambiato dai primi del novecento: i saperi, le tecniche, le professioni, gli assetti sociali e produttivi. La Milocca liceale resta quella pensata cent'anni fa per i giovinetti di civil condizione. Ora finalmente è affollata, come nelle altre parti del mondo, dalla quasi totalità delle leve anagrafi che. Ma, diversamente che in altre parti del mondo, i ragazzi vengono da famiglie senza libri a casa per 1'80 per cento, senza abitudine alla lettura di libri e giornali per il 60 o 70 per cento, con gravi fenomeni di analfabetismo di ritorno per il 70 o 80 per cento. Spiegare a tutti Cartesio o gli integrali è una mission impossible. Non usciremo da Milocca senza renderci conto di ciò e senza porvi riparo, come avviene nel resto d'Europa, con un sistema nazionale di educazione degli adulti.
FRANCESCO DE SANCTIS non fu solo un grande studioso di letteratura. A due riprese gli toccò il compito di ministro della pubblica istruzione. E sapeva bene cosa intendeva la volta che, scoraggiato, esclamò: "Chi parla di scuola in Italia è condannato all'eternità". Un secolo e mezzo dopo bisogna dire che questo non è più interamente vero. Vediamo perché.
Nell'enorme apparato dell'istruzione vi sono segmenti che negli ultimi quarant'anni hanno conosciuto un rinnovamento profondo con esiti positivi oggettivamente misurabili.
Il succo delle idee pedagogiche di Giuseppe Lombardo Radice, affidato nel 1913 alle sue Lezioni di didattica, e il confronto con le migliori scuole primarie di altri paesi hanno ispirato tra gli anni sessanta e ottanta un movimento di idee e di esperienze che si è tradotto nel 1985 in una radicale revisione dei programmi della scuola elementare, dei suoi metodi didattici e dell' organizzazione del lavoro. Fu merito del ministro Franca Falcucci evitare che tutto ciò restasse sulla carta e realizzare un aggiornamento a tappeto di tutti i già bravi insegnanti elementari. il risultato è scritto nelle indagini comparative internazionali: in uscita dalla scuola elementare gli alunni e le alunne delle nostre elementari si collocano per bravura ai primi posti nel mondo, tra i top ten e, talora, tra i top five. I provvedimenti restrittivi dell'attuale ministro rischiano di compromettere questi risultati, ma maestre e maestri hanno tutta l'aria di sapere comunque continuare sulla loro strada.
Ma questo è dir poco, se non si tiene conto del fatto che ancora negli anni cinquanta la maggioranza della popolazione adulta, il 59,2 per cento, non aveva la licenza elementare. Nei nostri anni la scuola elementare ha saputo diventare la scuola del 100 per cento delle bambine e dei bambini e ciò in stretto legame con il profondo rinnovamento dei contenuti e dei metodi.
Modello planetario
L'espansione quantitativa delle elementari e il loro successo si legano a due altri fatti innovativi e positivi. La scuola prevalementare pubblica, statale e comunale, dagli anni sessanta in poi ha fatto grandi passi in avanti nel suo progressivo diffondersi, accanto alle scuole private religiose. Documenti importanti ne hanno regolato la vita. L'organizzazione delle scuole dell'infanzia di Reggio Emilia, progettate da un uomo geniale, Loris Malaguzzi, si è imposta come un modello da seguire, un modello di riconosciuta eccellenza planetaria. Generalizzare del tutto la scuola dell'infanzia resta un obiettivo, pur non lontano, ancora da raggiungere. Ma, rispetto a cento o cinquanta anni fa, il salto in positivo è stato enorme e in molte parti d'Italia ha spianato la via alla scuola elementare.
Altro grande fatto innovativo, che De Sanctis non poteva immaginare, è stato l'allineamento all'Europa nel creare una scuola di base unitaria per "almeno otto anni". Nel 1939 questo era stato un progetto già del ministro fascista Giuseppe Bottai, ma fu travolto dalla guerra. Nel 1948 la costituzione sancì gli "almeno otto anni" di istruzione. Dovettero passare quindici anni perché la media unificata decollasse e altri quindici perché nuovi programmi la mettessero all'altezza dei suoi compiti nuovi di scuola di tutte e tutti. Mancò e manca tuttavia un riassetto della formazione degli insegnanti pari a quello conosciuto nelle elementari. Si stima che tra il 18 e il 25 per cento dei ragazzi che terminano le medie inferiori abbia gravi lacune e, in aggiunta, una percentuale consistente non raggiunge la licenza media. Diversamente dalle scuole dell'infanzia e dalle elementari, la scuola media funziona a regime ridotto.
L'eternità di Francesco De Sanctis si riaffaccia e ci soffoca se si guarda alla scuola secondaria superiore. Qualcuno, per parere informato, parla di "scuola gentiliana". In realtà, la deep structure della secondaria fu concepita da studiosi e intellettuali liberali e socialisti ai primi del novecento. Giovanni Gentile, legato culturalmente a quei gruppi, ebbe la possibilità di tradurla in una riorganizzazione d'insieme durante il primo gabinetto Mussolini (1922-1925). Forse era una cattiva scuola, come con veemenza sostenne Antonio Gramsci nei Quaderni del carcere, destinata a perpetuare l'immobilità sociale del paese. Forse non era malvagia, come pensano i laudatores da pagina culturale. Certo era una scuola pensata per quelle percentuali esigue di popolazione che, raggiunto il tetto delle elementari, riuscivano a proseguire verso le secondarie: figli (più che figlie) dei ceti borghesi già istruiti. A questi si offrivano due canali: uno alto, i licei, e uno mediobasso, gli istituti tecnici.
I successori di Gentile, ritiratosi dopo il delitto Matteotti, provvidero subito a manomettere l'impianto gentiliano, cominciando a creare quel vero dedalo di opzioni e percorsi e diplomi di cui è incerto perfino il numero (1207) che caratterizza la secondaria superiore italiana. Qua e là singole sezioni e interi istituti, dal liceo Ariosto di Ferrara al Vittorio Emanuele di Palermo, dal Mamiani di Roma al Parini di Milano, sfruttando la concessione di sperimentazioni ammesse dagli anni ottanta, realizzano isole di eccellenza. Ma al di fuori di poche aree (Trento, Val d'Aosta) le indagini comparative internazionali e gli studi più attenti (come quelli di Giancarlo Gasperoni o Benedetto Vertecchi) segnalano la mancanza di uno standard decente nei risultati e cadute di livello che si vorrebbero dire inammissibili. Ma ci sono.
Il fatto è che le classi politiche che si sono succedute dal dopoguerra a oggi non hanno saputo mettere mano alla realizzazione di un ripensamento radicale di contenuti e metodi della scuola superiore. C'è una novella di Pirandello che mette in fila i verbali del consiglio comunale di Milocca in cui dal 1880 al 1930 si discusse di come portare l'energia elettrica nel comune senza mai portarla. La secondaria superiore è la Milocca della nostra scuola. Chi legge le denunce fatte dai primi del novecento sul pessimo stato d'insegnamenti e apprendimenti di matematica, italiano, latino, può cambiare le date e assumerle come documenti di oggi e condirle con i tristi numeri delle statistiche comparative internazionali che si succedono dal 1971 e che solo negli ultimi due o tre anni ottengono un po' d'attenzione nella stampa.
Tutto è cambiato dai primi del novecento: i saperi, le tecniche, le professioni, gli assetti sociali e produttivi. La Milocca liceale resta quella pensata cent'anni fa per i giovinetti di civil condizione. Ora finalmente è affollata, come nelle altre parti del mondo, dalla quasi totalità delle leve anagrafi che. Ma, diversamente che in altre parti del mondo, i ragazzi vengono da famiglie senza libri a casa per 1'80 per cento, senza abitudine alla lettura di libri e giornali per il 60 o 70 per cento, con gravi fenomeni di analfabetismo di ritorno per il 70 o 80 per cento. Spiegare a tutti Cartesio o gli integrali è una mission impossible. Non usciremo da Milocca senza renderci conto di ciò e senza porvi riparo, come avviene nel resto d'Europa, con un sistema nazionale di educazione degli adulti.
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14.9.08
Quando muore il cervello
BARBARA SPINELLI
L’articolo di Lucetta Scaraffia sull’Osservatore Romano del 3 settembre ha suscitato scandalo e proprio per questo aiuta a pensare profondamente due esperienze di frontiera dell’esistenza umana: il coma irreversibile, e la fine della vita che una commissione di scienziati a Harvard ha deciso, quarant’anni fa, di far coincidere con la morte cerebrale, senza attendere che nel paziente sopraggiunga anche l’arresto cardiocircolatorio. È vero che quella decisione, oggi parametro indiscusso, non cessa di turbare e ha cambiato il nostro rapporto con la morte.
E’difficile non pensare che essa sia stata anticipata non solo grazie a più accurate conoscenze, ma anche per render possibili - sul piano etico, giuridico - i prelievi di organi. I trapianti infatti avvengono in presenza di elettroencefalogramma piatto, ma riescono pienamente solo se cuore e respiro restano attivi grazie a apparecchi esterni: è uno dei motivi per cui il paziente con elettroencefalogramma piatto, incamminato sicuramente verso la morte, vien dichiarato a questo punto trapassato e del suo corpo - tenuto in vita artificialmente - si parla come di cadavere a cuor battente. L’articolo sull’Osservatore introduce in tutte queste certezze la spina dell’angoscia: parole come cadavere a cuor battente resuscitano archetipi impaurenti (morti-viventi, zombie) e per questo la spina d’angoscia aiuta a pensare, su quel che si fa col corpo dell’uomo. I molti testi apparsi ultimamente, di medici e scienziati come Umberto Veronesi o Giuseppe Remuzzi, non sarebbero stati scritti con lo stesso sforzo pedagogico se non avessero dovuto reagire a inquietudini rilevanti.
Cosa accadde esattamente nel ’68, quando la commissione della Medical School di Harvard decretò che la fine delle funzioni cerebrali era morte, anche se il malato continuava a esser attaccato a macchine di respirazione e circolazione sanguigna? Aveva a cuore il paziente, o era mossa anche da altri interessi, di persone disperate e però estranee al morente? Scaraffia cita Hans Jonas, il filosofo tedesco che dal ’69 combatté la definizione di Harvard, proseguendo la battaglia fino a metà degli Anni 80. Sconfortato, scrisse poi che la guerra era perduta. In un post-scriptum dell’85 al testo pubblicato nel ’74 (Controcorrente, in Tecnica, medicina ed etica, Einaudi ’97) constatò: «La mia è stata un’esercitazione in inutilità». L’articolo sull’Osservatore gli rende omaggio: l’esercitazione non è stata vana. Vale dunque la pena rievocare quel che disse precisamente su morte cerebrale e vocazione medica, per estendere la discussione e ricordare alcune sue idee di fondo, lasciate in ombra dall’articolo.
Jonas non era affatto contrario ai trapianti, ne capiva profondamente il dramma, l’urgenza, la natura di dono. Non è vero, insomma, che «consentendo al trapianto si accetta implicitamente la definizione della morte data a Harvard». Quel che il filosofo chiedeva era di dare priorità assoluta al morente, temendo che il suo corpo venisse trasformato innanzi tempo in cadavere e che a questo passo ne seguissero altri ben più scabrosi: i cadaveri potevano esser tenuti artificialmente in vita a tempo indefinito, e trasformati in banche semi-permanenti di organi, sangue, ormoni. Voleva regole più rigide sui prelievi, sperando che essi iniziassero immediatamente dopo lo stacco del respiratore. Dare priorità al morente significava per lui una cosa soltanto: non essendo quest’ultimo più una persona a tutti gli effetti, ed essendo la morte imminente e sicura, ogni tubo o macchina dovevano essere staccati. In maniera chiara, Jonas fa capire che se la nuova definizione della morte avesse avuto come scopo primario quello di consentire il distacco del tubo, sarebbe stata da lui benvenuta.
Jonas era contro l’eutanasia ma favorevole al lasciar morire, in caso di coma irreversibile e se il paziente lo voleva. Anche se incosciente, il moribondo ha infatti diritti inalienabili, e «il diritto di morire è inalienabile come il diritto alla vita». È anzi parte del diritto alla vita («l’essere è un’avventura della mortalità»). Scaraffia sostiene che secondo la dottrina cattolica e le direttive della Chiesa il comatoso irreversibile è persona completa, non identificandosi quest’ultima con le sole attività cerebrali. Jonas era convinto che l’opinione della Chiesa fosse un’altra, vicina alla sua: in particolare la voce di Pio XII, i cui discorsi del ’57 - su rianimazione e analgesia - sono più volte citati nei suoi testi (nel sito Vaticano appaiono solo in spagnolo). Nei due discorsi il Papa considera leciti sia l’interruzione della terapia artificiale in caso di coma irreversibile, sia il ricorso a analgesici che sollevino dal dolore pur accorciando la vita. La definizione della morte, per Pio XII, non appartiene a Dio o alla natura: «Spetta al medico e all’anestesista dare una definizione chiara e precisa della “morte” e del “momento della morte” di un paziente in stato di incoscienza» (24-11-57).
L’obiezione di Jonas alla morte cerebrale resta tuttavia intatta, da meditare sempre. È vero ad esempio che i requisiti che consentono di certificare la morte sono severi, in Italia («La nostra legge è molto più attenta al donatore che all’attività di trapianto. I requisiti \ sono ad abundantiam», scrive Remuzzi sul Sole-24 Ore del 6 settembre). Ma altrove le pratiche sono più disinvolte. Il rischio, scrive Jonas, è che il trapianto diventi soverchiante, e la trasformazione del paziente in cadavere venga sempre più anticipata. Memore dell’uso che il nazismo fece della scienza, Jonas mette in guardia contro questo sperimentare attorno al corpo umano sulla soglia della morte, in nome di entità astratte come la razza, la società, o anche l’umanità. Il rapporto di Harvard creava pericolosi equivoci, minacciando il rapporto di fiducia tra malato e medico: «Il paziente deve esser totalmente sicuro che il medico non sarà il suo boia, e che nessuna definizione della morte gli darà il potere di divenirlo. \ Nessuno ha il diritto al corpo d’un altro».
Il diritto a morire è essenziale in Jonas, e fonda la sua obiezione al rapporto Harvard. La tecnica che simula vita è il suo avversario, e non la convinzione che la persona resti integra con elettroencefalogramma piatto («Non è umanamente giusto prolungare artificialmente la vita di un uomo privato di cervello» - Il paziente immobile o comatoso «non ha meno diritti di chi sceglie di morire rifiutando la dialisi»). Il pericolo non è lo stacco del tubo ma il riattacco del tubo, che simulando vita facilita trapianti. Tracciare confini evidenti tra vita e morte è difficilissimo, aggiunge, e di una cosa è persuaso: l’arresto cerebrale è l’anticamera della morte - è uno «stadio intermedio», una «soglia» - e non la morte (tra la morte del tronco del cervello e l’arresto del cuore passano 48-72 ore, scrive Remuzzi, e tuttavia per il certificato di morte e il trapianto le ore requisite sono 6 per l’adulto e 12 per i bambini, in Italia). Il dubbio di Jonas si riassume così: «In realtà, abbiamo tutti i vantaggi del donatore vivo senza gli svantaggi, che nascono dai diritti e dagli interessi del donatore stesso, che non ha più diritti essendo un cadavere».
Giungiamo così a quella che per Jonas è l’urgenza vera: una ridefinizione della medicina, più che della morte. Il medico deve seguire il comandamento fondatore (primo, non nuocere) ma imparare ad accordare tale comandamento con l’etica. In presenza di atroce dolore non potrà non somministrare medicine che alleviano il dolore, pur accorciando o interrompendo la vita. In ogni momento, si guarderà dal mutare l’uomo in cosa, in mezzo. Lo si tramuta in cosa in ambedue i casi: se non si rispetta il suo diritto a morire, e se gli si antepongono interessi della Società. La morte appartiene all’uomo, non all’umanità.
lastampa.it
L’articolo di Lucetta Scaraffia sull’Osservatore Romano del 3 settembre ha suscitato scandalo e proprio per questo aiuta a pensare profondamente due esperienze di frontiera dell’esistenza umana: il coma irreversibile, e la fine della vita che una commissione di scienziati a Harvard ha deciso, quarant’anni fa, di far coincidere con la morte cerebrale, senza attendere che nel paziente sopraggiunga anche l’arresto cardiocircolatorio. È vero che quella decisione, oggi parametro indiscusso, non cessa di turbare e ha cambiato il nostro rapporto con la morte.
E’difficile non pensare che essa sia stata anticipata non solo grazie a più accurate conoscenze, ma anche per render possibili - sul piano etico, giuridico - i prelievi di organi. I trapianti infatti avvengono in presenza di elettroencefalogramma piatto, ma riescono pienamente solo se cuore e respiro restano attivi grazie a apparecchi esterni: è uno dei motivi per cui il paziente con elettroencefalogramma piatto, incamminato sicuramente verso la morte, vien dichiarato a questo punto trapassato e del suo corpo - tenuto in vita artificialmente - si parla come di cadavere a cuor battente. L’articolo sull’Osservatore introduce in tutte queste certezze la spina dell’angoscia: parole come cadavere a cuor battente resuscitano archetipi impaurenti (morti-viventi, zombie) e per questo la spina d’angoscia aiuta a pensare, su quel che si fa col corpo dell’uomo. I molti testi apparsi ultimamente, di medici e scienziati come Umberto Veronesi o Giuseppe Remuzzi, non sarebbero stati scritti con lo stesso sforzo pedagogico se non avessero dovuto reagire a inquietudini rilevanti.
Cosa accadde esattamente nel ’68, quando la commissione della Medical School di Harvard decretò che la fine delle funzioni cerebrali era morte, anche se il malato continuava a esser attaccato a macchine di respirazione e circolazione sanguigna? Aveva a cuore il paziente, o era mossa anche da altri interessi, di persone disperate e però estranee al morente? Scaraffia cita Hans Jonas, il filosofo tedesco che dal ’69 combatté la definizione di Harvard, proseguendo la battaglia fino a metà degli Anni 80. Sconfortato, scrisse poi che la guerra era perduta. In un post-scriptum dell’85 al testo pubblicato nel ’74 (Controcorrente, in Tecnica, medicina ed etica, Einaudi ’97) constatò: «La mia è stata un’esercitazione in inutilità». L’articolo sull’Osservatore gli rende omaggio: l’esercitazione non è stata vana. Vale dunque la pena rievocare quel che disse precisamente su morte cerebrale e vocazione medica, per estendere la discussione e ricordare alcune sue idee di fondo, lasciate in ombra dall’articolo.
Jonas non era affatto contrario ai trapianti, ne capiva profondamente il dramma, l’urgenza, la natura di dono. Non è vero, insomma, che «consentendo al trapianto si accetta implicitamente la definizione della morte data a Harvard». Quel che il filosofo chiedeva era di dare priorità assoluta al morente, temendo che il suo corpo venisse trasformato innanzi tempo in cadavere e che a questo passo ne seguissero altri ben più scabrosi: i cadaveri potevano esser tenuti artificialmente in vita a tempo indefinito, e trasformati in banche semi-permanenti di organi, sangue, ormoni. Voleva regole più rigide sui prelievi, sperando che essi iniziassero immediatamente dopo lo stacco del respiratore. Dare priorità al morente significava per lui una cosa soltanto: non essendo quest’ultimo più una persona a tutti gli effetti, ed essendo la morte imminente e sicura, ogni tubo o macchina dovevano essere staccati. In maniera chiara, Jonas fa capire che se la nuova definizione della morte avesse avuto come scopo primario quello di consentire il distacco del tubo, sarebbe stata da lui benvenuta.
Jonas era contro l’eutanasia ma favorevole al lasciar morire, in caso di coma irreversibile e se il paziente lo voleva. Anche se incosciente, il moribondo ha infatti diritti inalienabili, e «il diritto di morire è inalienabile come il diritto alla vita». È anzi parte del diritto alla vita («l’essere è un’avventura della mortalità»). Scaraffia sostiene che secondo la dottrina cattolica e le direttive della Chiesa il comatoso irreversibile è persona completa, non identificandosi quest’ultima con le sole attività cerebrali. Jonas era convinto che l’opinione della Chiesa fosse un’altra, vicina alla sua: in particolare la voce di Pio XII, i cui discorsi del ’57 - su rianimazione e analgesia - sono più volte citati nei suoi testi (nel sito Vaticano appaiono solo in spagnolo). Nei due discorsi il Papa considera leciti sia l’interruzione della terapia artificiale in caso di coma irreversibile, sia il ricorso a analgesici che sollevino dal dolore pur accorciando la vita. La definizione della morte, per Pio XII, non appartiene a Dio o alla natura: «Spetta al medico e all’anestesista dare una definizione chiara e precisa della “morte” e del “momento della morte” di un paziente in stato di incoscienza» (24-11-57).
L’obiezione di Jonas alla morte cerebrale resta tuttavia intatta, da meditare sempre. È vero ad esempio che i requisiti che consentono di certificare la morte sono severi, in Italia («La nostra legge è molto più attenta al donatore che all’attività di trapianto. I requisiti \ sono ad abundantiam», scrive Remuzzi sul Sole-24 Ore del 6 settembre). Ma altrove le pratiche sono più disinvolte. Il rischio, scrive Jonas, è che il trapianto diventi soverchiante, e la trasformazione del paziente in cadavere venga sempre più anticipata. Memore dell’uso che il nazismo fece della scienza, Jonas mette in guardia contro questo sperimentare attorno al corpo umano sulla soglia della morte, in nome di entità astratte come la razza, la società, o anche l’umanità. Il rapporto di Harvard creava pericolosi equivoci, minacciando il rapporto di fiducia tra malato e medico: «Il paziente deve esser totalmente sicuro che il medico non sarà il suo boia, e che nessuna definizione della morte gli darà il potere di divenirlo. \ Nessuno ha il diritto al corpo d’un altro».
Il diritto a morire è essenziale in Jonas, e fonda la sua obiezione al rapporto Harvard. La tecnica che simula vita è il suo avversario, e non la convinzione che la persona resti integra con elettroencefalogramma piatto («Non è umanamente giusto prolungare artificialmente la vita di un uomo privato di cervello» - Il paziente immobile o comatoso «non ha meno diritti di chi sceglie di morire rifiutando la dialisi»). Il pericolo non è lo stacco del tubo ma il riattacco del tubo, che simulando vita facilita trapianti. Tracciare confini evidenti tra vita e morte è difficilissimo, aggiunge, e di una cosa è persuaso: l’arresto cerebrale è l’anticamera della morte - è uno «stadio intermedio», una «soglia» - e non la morte (tra la morte del tronco del cervello e l’arresto del cuore passano 48-72 ore, scrive Remuzzi, e tuttavia per il certificato di morte e il trapianto le ore requisite sono 6 per l’adulto e 12 per i bambini, in Italia). Il dubbio di Jonas si riassume così: «In realtà, abbiamo tutti i vantaggi del donatore vivo senza gli svantaggi, che nascono dai diritti e dagli interessi del donatore stesso, che non ha più diritti essendo un cadavere».
Giungiamo così a quella che per Jonas è l’urgenza vera: una ridefinizione della medicina, più che della morte. Il medico deve seguire il comandamento fondatore (primo, non nuocere) ma imparare ad accordare tale comandamento con l’etica. In presenza di atroce dolore non potrà non somministrare medicine che alleviano il dolore, pur accorciando o interrompendo la vita. In ogni momento, si guarderà dal mutare l’uomo in cosa, in mezzo. Lo si tramuta in cosa in ambedue i casi: se non si rispetta il suo diritto a morire, e se gli si antepongono interessi della Società. La morte appartiene all’uomo, non all’umanità.
lastampa.it
3.9.08
I segni della morte
A quarant'anni dal rapporto di Harvard
di Lucetta Scaraffia
Quarant'anni fa, verso la fine dell'estate del 1968, il cosiddetto rapporto di Harvard cambiava la definizione di morte basandosi non più sull'arresto cardiocircolatorio, ma sull'encefalogramma piatto: da allora l'organo indicatore della morte non è più soltanto il cuore, ma il cervello. Si tratta di un mutamento radicale della concezione di morte - che ha risolto il problema del distacco dalla respirazione artificiale, ma che soprattutto ha reso possibili i trapianti di organo - accettato da quasi tutti i Paesi avanzati (dove è possibile realizzare questi trapianti), con l'eccezione del Giappone. Anche la Chiesa cattolica, consentendo il trapianto degli organi, accetta implicitamente questa definizione di morte, ma con molte riserve: per esempio, nello Stato della Città del Vaticano non è utilizzata la certificazione di morte cerebrale. A ricordare questo fatto è ora il filosofo del diritto Paolo Becchi in un libro (Morte cerebrale e trapianto di organi, Morcelliana) che - oltre a rifare la storia della definizione e dei dibattiti seguiti negli anni Settanta, tra i quali il più importante è senza dubbio quello di cui fu protagonista Hans Jonas - affronta con chiarezza la situazione attuale, molto più complessa e controversa. Il motivo per cui questa nuova definizione è stata accettata così rapidamente sta nel fatto che essa non è stata letta come un radicale cambiamento del concetto di morte, ma soltanto - scrive Becchi - come "una conseguenza del processo tecnologico che aveva reso disponibili alla medicina più affidabili strumenti per rilevare la perdita delle funzioni cerebrali". La giustificazione scientifica di questa scelta risiede in una peculiare definizione del sistema nervoso, oggi rimessa in discussione da nuove ricerche, che mettono in dubbio proprio il fatto che la morte del cervello provochi la disintegrazione del corpo. Come dimostrò nel 1992 il caso clamoroso di una donna entrata in coma irreversibile e dichiarata cerebralmente morta prima di accorgersi che era incinta; si decise allora di farle continuare la gravidanza, e questa proseguì regolarmente fino a un aborto spontaneo. Questo caso e poi altri analoghi conclusi con la nascita del bambino hanno messo in questione l'idea che in questa condizione si tratti di corpi già morti, cadaveri da cui espiantare organi. Sembra, quindi, avere avuto ragione Jonas quando sospettava che la nuova definizione di morte, più che da un reale avanzamento scientifico, fosse stata motivata dall'interesse, cioè dalla necessità di organi da trapiantare. Naturalmente, in proposito si è aperta nel mondo scientifico una discussione, in parte raccolta nel volume, curato da Roberto de Mattei, Finis vitae. Is brain death still life? (Rubbettino), i cui contributi - di neurologi, giuristi e filosofi statunitensi ed europei - sono concordi nel dichiarare che la morte cerebrale non è la morte dell'essere umano. Il rischio di confondere il coma (morte corticale) con la morte cerebrale è sempre possibile. E questa preoccupazione venne espressa al concistoro straordinario del 1991 dal cardinale Ratzinger nella sua relazione sul problema delle minacce alla vita umana: "Più tardi, quelli che la malattia o un incidente faranno cadere in un coma "irreversibile", saranno spesso messi a morte per rispondere alle domande di trapianti d'organo o serviranno, anch'essi, alla sperimentazione medica ("cadaveri caldi")". Queste considerazioni aprono ovviamente nuovi problemi per la Chiesa cattolica, la cui accettazione del prelievo degli organi da pazienti cerebralmente morti, nel quadro di una difesa integrale e assoluta della vita umana, si regge soltanto sulla presunta certezza scientifica che essi siano effettivamente cadaveri. Ma la messa in dubbio dei criteri di Harvard apre altri problemi bioetici per i cattolici: l'idea che la persona umana cessi di esistere quando il cervello non funziona più, mentre il suo organismo - grazie alla respirazione artificiale - è mantenuto in vita, comporta una identificazione della persona con le sole attività cerebrali, e questo entra in contraddizione con il concetto di persona secondo la dottrina cattolica, e quindi con le direttive della Chiesa nei confronti dei casi di coma persistente. Come ha fatto notare Peter Singer, che si muove su posizioni opposte a quelle cattoliche: "Se i teologi cattolici possono accettare questa posizione in caso di morte cerebrale, dovrebbero essere in grado di accettarla anche in caso di anencefalie". Facendo il punto sulla questione, Becchi scrive che "l'errore, sempre più evidente, è stato quello di aver voluto risolvere un problema etico-giuridico con una presunta definizione scientifica", mentre il nodo dei trapianti "non si risolve con una definizione medico-scientifica della morte", ma attraverso l'elaborazione di "criteri eticamente e giuridicamente sostenibili e condivisibili". La Pontificia Accademia delle Scienze - che negli anni Ottanta si era espressa a favore del rapporto di Harvard - nel 2005 è tornata sul tema con un convegno su "I segni della morte". Il quarantesimo anniversario della nuova definizione di morte cerebrale sembra quindi riaprire la discussione, sia dal punto di vista scientifico generale, sia in ambito cattolico, al cui interno l'accettazione dei criteri di Harvard viene a costituire un tassello decisivo per molte altre questioni bioetiche oggi sul tappeto, e per il quale al tempo stesso costa rimettere in discussione uno dei pochi punti concordati tra laici e cattolici negli ultimi decenni.
L'Osservatore Romano
di Lucetta Scaraffia
Quarant'anni fa, verso la fine dell'estate del 1968, il cosiddetto rapporto di Harvard cambiava la definizione di morte basandosi non più sull'arresto cardiocircolatorio, ma sull'encefalogramma piatto: da allora l'organo indicatore della morte non è più soltanto il cuore, ma il cervello. Si tratta di un mutamento radicale della concezione di morte - che ha risolto il problema del distacco dalla respirazione artificiale, ma che soprattutto ha reso possibili i trapianti di organo - accettato da quasi tutti i Paesi avanzati (dove è possibile realizzare questi trapianti), con l'eccezione del Giappone. Anche la Chiesa cattolica, consentendo il trapianto degli organi, accetta implicitamente questa definizione di morte, ma con molte riserve: per esempio, nello Stato della Città del Vaticano non è utilizzata la certificazione di morte cerebrale. A ricordare questo fatto è ora il filosofo del diritto Paolo Becchi in un libro (Morte cerebrale e trapianto di organi, Morcelliana) che - oltre a rifare la storia della definizione e dei dibattiti seguiti negli anni Settanta, tra i quali il più importante è senza dubbio quello di cui fu protagonista Hans Jonas - affronta con chiarezza la situazione attuale, molto più complessa e controversa. Il motivo per cui questa nuova definizione è stata accettata così rapidamente sta nel fatto che essa non è stata letta come un radicale cambiamento del concetto di morte, ma soltanto - scrive Becchi - come "una conseguenza del processo tecnologico che aveva reso disponibili alla medicina più affidabili strumenti per rilevare la perdita delle funzioni cerebrali". La giustificazione scientifica di questa scelta risiede in una peculiare definizione del sistema nervoso, oggi rimessa in discussione da nuove ricerche, che mettono in dubbio proprio il fatto che la morte del cervello provochi la disintegrazione del corpo. Come dimostrò nel 1992 il caso clamoroso di una donna entrata in coma irreversibile e dichiarata cerebralmente morta prima di accorgersi che era incinta; si decise allora di farle continuare la gravidanza, e questa proseguì regolarmente fino a un aborto spontaneo. Questo caso e poi altri analoghi conclusi con la nascita del bambino hanno messo in questione l'idea che in questa condizione si tratti di corpi già morti, cadaveri da cui espiantare organi. Sembra, quindi, avere avuto ragione Jonas quando sospettava che la nuova definizione di morte, più che da un reale avanzamento scientifico, fosse stata motivata dall'interesse, cioè dalla necessità di organi da trapiantare. Naturalmente, in proposito si è aperta nel mondo scientifico una discussione, in parte raccolta nel volume, curato da Roberto de Mattei, Finis vitae. Is brain death still life? (Rubbettino), i cui contributi - di neurologi, giuristi e filosofi statunitensi ed europei - sono concordi nel dichiarare che la morte cerebrale non è la morte dell'essere umano. Il rischio di confondere il coma (morte corticale) con la morte cerebrale è sempre possibile. E questa preoccupazione venne espressa al concistoro straordinario del 1991 dal cardinale Ratzinger nella sua relazione sul problema delle minacce alla vita umana: "Più tardi, quelli che la malattia o un incidente faranno cadere in un coma "irreversibile", saranno spesso messi a morte per rispondere alle domande di trapianti d'organo o serviranno, anch'essi, alla sperimentazione medica ("cadaveri caldi")". Queste considerazioni aprono ovviamente nuovi problemi per la Chiesa cattolica, la cui accettazione del prelievo degli organi da pazienti cerebralmente morti, nel quadro di una difesa integrale e assoluta della vita umana, si regge soltanto sulla presunta certezza scientifica che essi siano effettivamente cadaveri. Ma la messa in dubbio dei criteri di Harvard apre altri problemi bioetici per i cattolici: l'idea che la persona umana cessi di esistere quando il cervello non funziona più, mentre il suo organismo - grazie alla respirazione artificiale - è mantenuto in vita, comporta una identificazione della persona con le sole attività cerebrali, e questo entra in contraddizione con il concetto di persona secondo la dottrina cattolica, e quindi con le direttive della Chiesa nei confronti dei casi di coma persistente. Come ha fatto notare Peter Singer, che si muove su posizioni opposte a quelle cattoliche: "Se i teologi cattolici possono accettare questa posizione in caso di morte cerebrale, dovrebbero essere in grado di accettarla anche in caso di anencefalie". Facendo il punto sulla questione, Becchi scrive che "l'errore, sempre più evidente, è stato quello di aver voluto risolvere un problema etico-giuridico con una presunta definizione scientifica", mentre il nodo dei trapianti "non si risolve con una definizione medico-scientifica della morte", ma attraverso l'elaborazione di "criteri eticamente e giuridicamente sostenibili e condivisibili". La Pontificia Accademia delle Scienze - che negli anni Ottanta si era espressa a favore del rapporto di Harvard - nel 2005 è tornata sul tema con un convegno su "I segni della morte". Il quarantesimo anniversario della nuova definizione di morte cerebrale sembra quindi riaprire la discussione, sia dal punto di vista scientifico generale, sia in ambito cattolico, al cui interno l'accettazione dei criteri di Harvard viene a costituire un tassello decisivo per molte altre questioni bioetiche oggi sul tappeto, e per il quale al tempo stesso costa rimettere in discussione uno dei pochi punti concordati tra laici e cattolici negli ultimi decenni.
L'Osservatore Romano
2.9.08
La chiamano riforma ma è un'altra burla
di Fabrizio Garlaschelli
Strano ministero quello dell'istruzione. Va a finirci quasi sempre qualcuno che di scuola sa poco o niente. Moratti (Brichetto Letizia) laurea in Scienze Politiche, collaboratrice di Murdoch (il tycoon internazionale di stampa e tv). Fioroni, dottor Giuseppe, medico, ma in realtà scout, sindaco di Viterbo a trent'anni, uomo d'apparato di stampo democristiano a tutto tondo. Ora questa Mariastella Gelmini, bresciana, con laurea in giurisprudenza ed esame per l'esercizio della professione, svolto a Reggio Calabria.Il Cavaliere, che nella miglior tradizione caligolesca può far senatori anche i suoi cavalli - oltre ai suoi avvocati - non ha esitato a farla ministro. Fulminante carriera per una appena trentacinquenne. E poi dicono che i giovani non trovano lavoro! Vero è che poco importa se un ministro non sa nulla di quello che amministra. A farlo ci pensano i burocrati di palazzo, passati indenni da una maggioranza all'altra, specialisti nell'arte di cambiare tutto perché nulla cambi. Infatti la scuola media superiore, tra sussurri e grida, resta ferma alla riforma Gentile, piaccia o non piaccia, ed è lo sfacelo di impostazione pedagogica e programmi che è (ferma restando la bravura di pochi, ottimi insegnanti). D'eccellenza invece era, per internazionale riconoscimento, la scuola elementare che, con il tempo pieno e il rinnovo dei programmi, una vera riforma l'aveva avuta. Poi i picconatori di destra e di sinistra, a poco a poco, l'hanno sgretolata a partire dalle fantasiose ipotesi del 2x3 (due docenti per tre classi) e 3x4 (tre docenti per quattro classi). Gli addetti ai lavori sanno di cosa parlo, per gli altri sarebbe lungo e noioso spiegarlo. Basti sapere che il tempo pieno è stato abolito non solo nella sostanza, ma anche nella forma. Se nelle elementari - almeno qui da noi - resiste una parvenza di tempo prolungato è solo grazie all'impegno degli insegnanti che si sbattono, per compiacere le famiglie, a conservare modelli ormai svuotati dalle originali motivazioni. Insomma: di riforme la scuola ne ha viste pochine anche perché ha una sua fisica resistenza istituzionale che le permette di procedere con moto inerziale, strafottendosene dei cambiamenti, accelerazioni o decelerazioni che siano. Così possono convivere nello stesso insieme scolastico enclavi ottocentesche e punte di sperimentazione avanzata senza reciprocamente disturbarsi.Il pachiderma, nel complesso, procede adagino perdendo sempre più il contatto con la società della quale dovrebbe essere "funzione educante". Dunque una riforma che punta a ristabilire il principio d'autorità con voti in cifre (voto in condotta incluso), esami a non finire (compresi quelli di riparazione), bocciature, grembiulini, maestro unico e chi più ne ha ne metta per un bel salto nel passato, fa solo ridere. Non soltanto per l'inaudito coraggio di chiamarla riforma, ma proprio per la totale assenza di presupposti culturali. Chiunque abbia qualche conoscenza pedagogica sa come non siano questi gli elementi sui quali si fonda la credibilità di un sistema educativo. Purtroppo la pedagogia, così come la scienza e la tecnologia, sono sempre state le grandi assenti della nostra scuola. A lungo si è potuto diventare insegnanti senza alcuna competenza psico-pedagogica e anche questo forse è uno dei motivi per i quali viviamo in una nazione dove i lettori sono meno di un terzo della popolazione. Per un italiano in grado di leggere comprendendo il significato di quanto va compitando ce ne sono due dei quali uno è analfabeta e l'altro rischia di ridiventarlo. In queste condizioni parlare di riforma nei termini in cui si parla ha della burla.
La Provincia Pavese, 2 settembre 2008
Strano ministero quello dell'istruzione. Va a finirci quasi sempre qualcuno che di scuola sa poco o niente. Moratti (Brichetto Letizia) laurea in Scienze Politiche, collaboratrice di Murdoch (il tycoon internazionale di stampa e tv). Fioroni, dottor Giuseppe, medico, ma in realtà scout, sindaco di Viterbo a trent'anni, uomo d'apparato di stampo democristiano a tutto tondo. Ora questa Mariastella Gelmini, bresciana, con laurea in giurisprudenza ed esame per l'esercizio della professione, svolto a Reggio Calabria.Il Cavaliere, che nella miglior tradizione caligolesca può far senatori anche i suoi cavalli - oltre ai suoi avvocati - non ha esitato a farla ministro. Fulminante carriera per una appena trentacinquenne. E poi dicono che i giovani non trovano lavoro! Vero è che poco importa se un ministro non sa nulla di quello che amministra. A farlo ci pensano i burocrati di palazzo, passati indenni da una maggioranza all'altra, specialisti nell'arte di cambiare tutto perché nulla cambi. Infatti la scuola media superiore, tra sussurri e grida, resta ferma alla riforma Gentile, piaccia o non piaccia, ed è lo sfacelo di impostazione pedagogica e programmi che è (ferma restando la bravura di pochi, ottimi insegnanti). D'eccellenza invece era, per internazionale riconoscimento, la scuola elementare che, con il tempo pieno e il rinnovo dei programmi, una vera riforma l'aveva avuta. Poi i picconatori di destra e di sinistra, a poco a poco, l'hanno sgretolata a partire dalle fantasiose ipotesi del 2x3 (due docenti per tre classi) e 3x4 (tre docenti per quattro classi). Gli addetti ai lavori sanno di cosa parlo, per gli altri sarebbe lungo e noioso spiegarlo. Basti sapere che il tempo pieno è stato abolito non solo nella sostanza, ma anche nella forma. Se nelle elementari - almeno qui da noi - resiste una parvenza di tempo prolungato è solo grazie all'impegno degli insegnanti che si sbattono, per compiacere le famiglie, a conservare modelli ormai svuotati dalle originali motivazioni. Insomma: di riforme la scuola ne ha viste pochine anche perché ha una sua fisica resistenza istituzionale che le permette di procedere con moto inerziale, strafottendosene dei cambiamenti, accelerazioni o decelerazioni che siano. Così possono convivere nello stesso insieme scolastico enclavi ottocentesche e punte di sperimentazione avanzata senza reciprocamente disturbarsi.Il pachiderma, nel complesso, procede adagino perdendo sempre più il contatto con la società della quale dovrebbe essere "funzione educante". Dunque una riforma che punta a ristabilire il principio d'autorità con voti in cifre (voto in condotta incluso), esami a non finire (compresi quelli di riparazione), bocciature, grembiulini, maestro unico e chi più ne ha ne metta per un bel salto nel passato, fa solo ridere. Non soltanto per l'inaudito coraggio di chiamarla riforma, ma proprio per la totale assenza di presupposti culturali. Chiunque abbia qualche conoscenza pedagogica sa come non siano questi gli elementi sui quali si fonda la credibilità di un sistema educativo. Purtroppo la pedagogia, così come la scienza e la tecnologia, sono sempre state le grandi assenti della nostra scuola. A lungo si è potuto diventare insegnanti senza alcuna competenza psico-pedagogica e anche questo forse è uno dei motivi per i quali viviamo in una nazione dove i lettori sono meno di un terzo della popolazione. Per un italiano in grado di leggere comprendendo il significato di quanto va compitando ce ne sono due dei quali uno è analfabeta e l'altro rischia di ridiventarlo. In queste condizioni parlare di riforma nei termini in cui si parla ha della burla.
La Provincia Pavese, 2 settembre 2008
Due pesi e due misure. L'impunità calcistica
di Claudio Magris
Perché né terroristi né bande di rapinatori né gruppi di vituperati zingari, grazie a Dio, non attaccano apertamente i treni, picchiando selvaggiamente i passeggeri e obbligandoli a scendere, causando gravissimi danni a persone e a cose? Perché i seguaci di nessuna setta religiosa, a differenza dei beoti adoratori di una squadra di calcio, non sfasciano, nell'entusiasmo per il loro dio, bar e negozi, rovinando economicamente i loro proprietari e le loro famiglie? E perché, invece, i cosiddetti tifosi, ultrà o come si vogliono chiamare i violenti che escono da uno stadio lo fanno periodicamente?
La ragione è semplicissima: perché i primi verrebbero immediatamente perseguiti e costretti a pagare le conseguenze dei loro atti, mentre invece i secondi, i criminali travestiti da tifosi, possono farlo, sanno di poterlo fare, sanno che nell' epoca moderna lo stadio ha sostituito la chiesa quale asilo per i delinquenti; sanno di restare impuniti o di pagare pene irrisorie per i loro gravi e imbecilli reati. Se una banda di zingari si impadronisse di un treno o se nostalgici delle Brigate rosse devastassero la stazione di Milano, sarebbero perseguiti con adeguata durezza. Se chi negli anni scorsi, come accaduto, ha causato gravissime lesioni a pacifici cittadini, magari provocandone la morte, fosse ancora in galera, nessuno si abbandonerebbe più a tali atti bestiali. Se chi ha distrutto un esercizio pubblico fosse condannato a pagare i danni fino all'ultimo centesimo, venendo così pesantemente e giustamente penalizzato nella sua esistenza, nessuno si scatenerebbe contro persone e cose. Non capisco proprio perché se aggredissi o danneggiassi qualcuno per conto mio sarei chiamato a pagarne di persona, mentre se lo facessi urlando slogan calcistici godrei di una sostanziale impunità.
È giusto, doveroso punire violenze di rapinatori e terroristi, ma occorre punire ancor più duramente chi delinque in nome di una squadra di calcio, con l'aggravante dei motivi futili e abbietti, perché accoltellare qualcuno in nome della Triestina o della Juventus è ancor più spregevole che farlo in nome di qualsiasi ideologia politica. In Inghilterra i delinquenti dello stadio, individuati con un intelligente lavoro di infiltrati, sono stati pesantemente puniti e il fenomeno criminoso è grandemente diminuito.
Si parla tanto di soldati per reprimere la piccola criminalità; è il caso di impiegarli contro questa media e peggiore criminalità, tenendo presente che, se si fanno intervenire i soldati e non le Orsoline è perché reagiscano alle violenze da soldati e non da Orsoline. Psicologi e letterati si affannano a spiegarci che chi spacca la testa di un altro in nome del calcio lo fa perché ha i suoi problemi psicologici, i suoi disagi interiori. È vero, ma ciò vale per tutti; anche i serial killer, gli stupratori, i rapinatori hanno evidentemente i loro problemi e forse non sono stati amati abbastanza dalla mamma. Non è una buona ragione per lasciarli uccidere o stuprare.
Se le violenze del calcio continueranno — e continueranno — sarà perché e soprattutto perché le autorità preposte a garantire in generale la sicurezza dei cittadini, in questo caso decidono, chissà perché, di lasciar correre, di non tutelare i cittadini, diversamente da quel che accade nei confronti di altri malviventi. Ogni governo, sinora, sotto questo profilo, si è comportato irresponsabilmente; ha lasciato fare e certo lo farà ancora.
corriere.it
Perché né terroristi né bande di rapinatori né gruppi di vituperati zingari, grazie a Dio, non attaccano apertamente i treni, picchiando selvaggiamente i passeggeri e obbligandoli a scendere, causando gravissimi danni a persone e a cose? Perché i seguaci di nessuna setta religiosa, a differenza dei beoti adoratori di una squadra di calcio, non sfasciano, nell'entusiasmo per il loro dio, bar e negozi, rovinando economicamente i loro proprietari e le loro famiglie? E perché, invece, i cosiddetti tifosi, ultrà o come si vogliono chiamare i violenti che escono da uno stadio lo fanno periodicamente?
La ragione è semplicissima: perché i primi verrebbero immediatamente perseguiti e costretti a pagare le conseguenze dei loro atti, mentre invece i secondi, i criminali travestiti da tifosi, possono farlo, sanno di poterlo fare, sanno che nell' epoca moderna lo stadio ha sostituito la chiesa quale asilo per i delinquenti; sanno di restare impuniti o di pagare pene irrisorie per i loro gravi e imbecilli reati. Se una banda di zingari si impadronisse di un treno o se nostalgici delle Brigate rosse devastassero la stazione di Milano, sarebbero perseguiti con adeguata durezza. Se chi negli anni scorsi, come accaduto, ha causato gravissime lesioni a pacifici cittadini, magari provocandone la morte, fosse ancora in galera, nessuno si abbandonerebbe più a tali atti bestiali. Se chi ha distrutto un esercizio pubblico fosse condannato a pagare i danni fino all'ultimo centesimo, venendo così pesantemente e giustamente penalizzato nella sua esistenza, nessuno si scatenerebbe contro persone e cose. Non capisco proprio perché se aggredissi o danneggiassi qualcuno per conto mio sarei chiamato a pagarne di persona, mentre se lo facessi urlando slogan calcistici godrei di una sostanziale impunità.
È giusto, doveroso punire violenze di rapinatori e terroristi, ma occorre punire ancor più duramente chi delinque in nome di una squadra di calcio, con l'aggravante dei motivi futili e abbietti, perché accoltellare qualcuno in nome della Triestina o della Juventus è ancor più spregevole che farlo in nome di qualsiasi ideologia politica. In Inghilterra i delinquenti dello stadio, individuati con un intelligente lavoro di infiltrati, sono stati pesantemente puniti e il fenomeno criminoso è grandemente diminuito.
Si parla tanto di soldati per reprimere la piccola criminalità; è il caso di impiegarli contro questa media e peggiore criminalità, tenendo presente che, se si fanno intervenire i soldati e non le Orsoline è perché reagiscano alle violenze da soldati e non da Orsoline. Psicologi e letterati si affannano a spiegarci che chi spacca la testa di un altro in nome del calcio lo fa perché ha i suoi problemi psicologici, i suoi disagi interiori. È vero, ma ciò vale per tutti; anche i serial killer, gli stupratori, i rapinatori hanno evidentemente i loro problemi e forse non sono stati amati abbastanza dalla mamma. Non è una buona ragione per lasciarli uccidere o stuprare.
Se le violenze del calcio continueranno — e continueranno — sarà perché e soprattutto perché le autorità preposte a garantire in generale la sicurezza dei cittadini, in questo caso decidono, chissà perché, di lasciar correre, di non tutelare i cittadini, diversamente da quel che accade nei confronti di altri malviventi. Ogni governo, sinora, sotto questo profilo, si è comportato irresponsabilmente; ha lasciato fare e certo lo farà ancora.
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