4.10.09

La stampa in crisi

di Daniela Daniele

«Quel che la rete non potrà cancellare è il ruolo dei giornali di opinione che continuano a svolgere la funzione un tempo assolta dai caffé, dove si fissavano gli standard del discorso pubblico»: un incontro con Victor S. Navasky, editorialista del «New York Times» e direttore emerito di «The Nation». «Non idealizzo i reporter sul campo, la cui obiettività - dice - è spesso compromessa da un pesante bagaglio ideologico»
Inaugurata da Truman Capote come pratica anomala di scrittura sospesa tra fatto e finzione, la nonfiction è un genere anfibio e da tempo uno strumento essenziale nelle mani dei romanzieri contemporanei (da Mailer a Doctorow, da Pynchon a Coover, da Joan Didion a DeLillo) per aggirare le censure e illuminare con strumenti fittizi gli enigmi irrisolti della storia. Se ne è parlato in una serie di incontri curati dal critico culturale del New Yorker Lawrence Weschler, a Villa La Pietra, divenuta sede della New York University, sulla via Bolognese che porta da Firenze a Fiesole. Tra i protagonisti, lo scrittore americano E. L. Doctorow, che ha guidato un vivace dibattito sulla scrittura nell'era del monopolio dell'editoria e di Internet. A proposito dell'eccesso di informazioni che circolano fuori e dentro la rete, il suo nuovo romanzo - Homer and Langley, edito da Random House - racconta la vera storia dei proverbiali fratelli Collyer che morirono letteralmente sommersi da cumuli di carta stampata, in una casa di Harlem, trasformata in discarica al coperto.
I tunnel di carta in cui i vigili li rinvennero cadaveri richiamano allegoricamente una sindrome sempre più diffusa tra i navigatori della rete: la «disposofobia digitale», quel disturbo compulsivo che impedisce di disfarsi della massa di dati a nostra disposizione, con l'illusione che le illimitate capacità di immagazzinamento del computer possano garantire il controllo della conoscenza e dell'informazione. Tant'è vero che, nel romanzo di Doctorow, il sogno di uno dei due fratelli di Harlem è proprio quello di trarre da quell'ammasso di giornali un reportage definitivo, il distillato del «quotidiano universale», capace di resistere a ogni ulteriore aggiornamento.
Doctorow ha chiamato a discutere della crisi della carta stampata nell'era di Internet un protagonista dell'editoria internazionale, Victor S. Navasky, editorialista del New York Times e dal 1978 direttore e attualmente editore emerito della gloriosa rivista «The Nation», fondata alla fine della guerra civile da un gruppo di abolizionisti che guidarono la ricostruzione a partire da un acceso dibattito tre le migliori menti progressiste e radicali d'America. Da quel lontano 1865, a detta di Navasky, «The Nation» non ha mai cambiato linea, e sta in questo il segreto di tanta longevità: il giornale, infatti, non ha mai rinunciato alla sua indipendenza editoriale né a rispettare le richieste di aggiornamento da parte dei lettori sui temi dell'istruzione e della sanità, temi che in tempi di crisi sono diventati negletti. La forza di «The Nation», conferma Navasky, sta nel fatto di essere rimasta, come alle origini, un giornale di opinione. Le crisi finanziarie non sono mancate: negli anni Trenta, si dovette cedere la proprietà a un magnate di Wall Street, che però fu costretto a firmare la liberatoria con cui rinunciava al controllo editoriale. Infatti si ritrovò a presto a dovere sottoscrivere contenuti apertamente critici sul suo operato, che alla lunga lo convinsero a rinunciare alla proprietà.
Il celebre giornalista statunitense A. J. Liebling scriveva che la libertà di stampa viene garantita solo da chi la stampa la possiede ma, in un sistema di comunicazione basato sul profitto, il monopolio dell'informazione non è mai totale. Ad eccezione del caso Watergate, tuttavia, che rimane un grande modello isolato, se pensiamo al periodo maccartista, o a quello dei samistadt russi, il giornalismo indipendente ha sempre dovuto affrontare il problema della scarsezza di fondi e della censura, rilanciando, soprattutto nei momenti più critici, il ruolo del giornale d'opinione che, con pochi capitali, può mantenere un forte impatto. Sentiamo cosa ha da dirci Victor S. Navasky.
A sostegno della rivista «The Nation» sono state ideate iniziative di «intrattenimento critico», come per esempio una crociera con i lettori, che ha destato però, molte polemiche. Certo, ci si domanda sempre più allarmati, come fa la stampa indipendente a garantirsi i mezzi con cui lavorare?
L'idea della crociera è solo una delle numerose iniziative di autofinanziamento che abbiamo ideato, perché organizziamo, per esempio, anche molti incontri a New York e in giro per il paese per cui chiediamo un biglietto di sottoscrizione. Comunque, la crociera ha permesso a molti lettori di andare in vacanza con alcuni tra i nostri maggiori autori, i quali hanno accettato di parlare a bordo senza essere pagati. C'è stato chi ci ha accusato di aver scelto una forma di viaggio troppo esclusiva per i mezzi a disposizione dei nostri lettori, e c'è chi - come Barbara Heinrich, una giornalista molto amata negli Stati Uniti che divide il suo impegno tra stampa radicale e quella più liberal come la nostra - si è rifiutata di venire a parlare su una nave di proprietà di una multinazionale. Allora le abbiamo proposto di raggiungerci in aereo a una delle tappe del viaggio (senza ricordarle che anche gli aerei appartengono alle multinazionali), ma non è bastato perché alla fine si è data malata. Per protestare contro la sua assenza molti passeggeri sono entrati in sciopero, dando vita a una serie di incontri alternativi che ci hanno fatto capire come l'area radicale dei nostri lettori rimanga cruciale per mantenere vivo il dibattito anche tra i progressisti liberali: proprio com'era nei propositi originari della rivista.
Qual è la sua opinione sulle modifiche che la scrittura ha subito dopo la rivoluzione elettronica? Le sembra che il progressivo scadimento della sua qualità sia inesorabile?
Non condivido la demonizzazione delle nuove tecniche di comunicazione né credo si debba idealizzare il passato. Anche Doctorow ha notato che si potrà parlare di morte della scrittura solo il giorno in cui saremo costretti a leggere un testo disposto su un'unica colonna, diversamente da quanto accade ora che i giornali - ma era già così nel XIX secolo - organizzano le loro pagine per colonne contigue, che scorrono l'una accanto all'altra, quasi a presupporre una lettura simultanea e parallela. La rete è un ricettacolo di dati che non cancella, soprattutto, il ruolo dei giornali di opinione che, come ha scritto Jürgen Habermas nel 1965, continuano a svolgere la funzione pubblica che un tempo avevano i caffé, dove si fissavano gli standard del discorso pubblico. D'altronde, le riviste cartacee sono ancora tra le poche a garantire un'eleganza, una coerenza e una cura editoriale che mancano all'informazione in rete, per non parlare della maggiore accuratezza nel verificare le notizie, laddove il sapere in versione wikipedia è soggetto a costanti rettifiche e rimaneggiamenti. Si dà sempre per scontato che i giovani passino il loro tempo in rete e non leggano libri, eppure al George T. Delacorte Center for Magazine Journalism, che dirigo alla Columbia University, sono moltisimi gli studenti che chiedono di specializzarsi nella stampa periodica, sperimentando forme narrative e investigative di giornalismo fondate sull'interpretazione delle notizie più che sulle notizie in sé, per le quali basta avere un televisore e un I-Phone.
Doctorow nel suo ultimo romanzo parla del fatto che sotto la spinta della comunicazione elettronica assistiamo non solo a un inevitabile degrado della parola scritta ma a forme parossistiche di condensazione delle parole. Che gliene pare di questa prospettiva?
Nel breve periodo temo che sia realistica, ma con il tempo le diverse modalità di scrittura finiranno per integrarsi e ad arricchire il quadro dell'informazione. D'altro canto, la carta stampata non solo continua misteriosamente ad avere una forte presa sui lettori, ma sta imparando a sfruttare le sollecitazioni provenienti da quel «giornalismo civico» di cui parla Jay Rosen, cioè dal lavoro di anonimi che, sostituendosi ai reporter di professione e grazie a una diffusa dimestichezza con le tecniche di ripresa, hanno messo in rete, per esempio, i discorsi di Obama, incidendo in maniera decisiva sulla sua elezione. È vero che esempi come questo testimoniano della migrazione di certe notizie o spazi pubblicitari dalla versione cartacea alle pagine on-line, ma ciò non deve portare a temere gli effetti distruttivi delle tecnologie. D'altronde, così come dopo l'invenzione del cinema il teatro ha continuato ad esistere, ai nostri giorni, in piena esplosione dell'editoria elettronica, il libro rimane il mezzo più comodo per leggere. Piuttosto, oggi sentiamo il bisogno di diverse tipologie di giornalisti, o forse di giornalisti capaci di svolgere funzioni multiple: al tempo stesso devono fare circolare gratuitamente sui blog informazioni che non possono attendere i tempi di verifica dei giornali ma devono anche essere capaci di scrivere quegli articoli di approfondimento che assicurano il senso della carta stampata.
Sono anni, ormai, che si discute sull'impatto visivo delle nuove forme di comunicazione, facendo passare l'idea che l'immagine da sola può assumere un valore probante nella verifica dei fatti, a dispetto delle manipolazioni che le stesse tecnologie elettroniche rendono possibili. Lei cosa ne pensa?
Il rapporto con l'immagine è essenziale in questa fase della comunicazione: basti pensare a come, sul piano giornalistico, le foto di Abu Ghraib abbiano prodotto politicamente più effetti di tante discussioni. Anche la vignetta sta assumendo un ruolo politicamente più incisivo, essendo un'arte del grottesco d'impatto visivo immediato che sa ferire più di quanto non si pensi. Sull'esempio olandese dei caricaturisti che con le loro raffigurazioni di Maometto hanno sfidato una cultura iconoclasta come quella islamica, credo che oggi non ci sia un giornalista più temuto del vignettista. È lui che riesce ad aggirare la censura, facendo leva su stereotipi che toccano le viscere più di quanto non investano la ragione. Penso alla caricatura di Lincoln in versione gay, che suscitò l'indignazione della sinistra radicale o quelle di Michelle Obama criticate dalle femministe durante la campagna elettorale, esempi che fanno emergere un represso capace di smascherare anche certe chiusure e tabù della sinistra. Il vignettista si trova sotto un fuoco incrociato del potere e della correttezza politica, che non brilla mai per senso dell'umorismo, e contribuisce a consolidare il clima di moralismo fondamentalista in cui viviamo.
Non pensa che la credibilità della scrittura giornalistica oggi passi anche per la necessità di possedere un certo talento letterario e per la capacità di trovare uno stile riconoscibile?
Certo, a suo tempo Truman Capote ha avuto la capacità di decostruire miti e valori radicati dell'establishment, facendosi forte di una scrittura elegante, e Norman Mailer ha continuato su questa linea con Il canto del boia e Le armate della notte. Ma non solo il giornalismo letterario possiede quella forza, le strade della grande scrittura giornalistica sono molte. Abbandoniamo per un momento il giornalismo di opinione, che mantiene l'agio dei tempi dell'approfondimento e si dà modo di verificare i fatti e passiamo a quel genere di reportage che si svolge, per esempio, sui luoghi di guerra: com'è cambiato, secondo lei lo statuto delle notizie?
Non intendo idealizzare il reporter sul campo, che spesso arriva con un pesante bagaglio ideologico e dunque nessuna garanzia di obiettività. Nelle zone a rischio, abbiamo bisogno tanto di giornalisti chiusi negli alberghi che controllano le fonti governative come di persone che, per scelta, sfidano il rischio e si avventurano a indagare di persona. Così come non esiste un'unica verità, non c'è solo un giornalismo fondato sui meri fatti. E, d'altra parte, non credo che solo il «new journalism« sia in grado di filtrare notizie che non siano false.

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