Dario Di Vico
D'accordo. Le sentenze vanno rispettate e dunque tutti in piedi per far passare il collegio giudicante. Ma a costo di essere politicamente scorretti, anche in agosto, va detta una semplice verità. Se i pretori del lavoro tornano ad essere, come in anni che pensavamo passati, i protagonisti delle relazioni industriali italiane le ragioni dell'economia sono destinate inevitabilmente a soccombere.
L'errore che la vicenda di Melfi e i commenti entusiasti di tutte le sinistre ci portano a fare è quello di discutere solo e prevalentemente di relazioni industriali («la cornice») mettendo in secondo piano il futuro dell'industria italiana («il quadro»). Eppure la coesione sociale che tutti auspichiamo dipende dal quadro, da fattori come i livelli occupazionali, le retribuzioni, l'ingresso dei giovani nel mercato del lavoro, la competitività del made in Italy sui mercati stranieri, tutti legati alle scelte che da settembre sapremo fare in termini di politica industriale. Nessun pretore ci potrà venire in aiuto.
E allora partiamo dal quadro. Come ha sostenuto l'Istat solo una settimana fa la produttività nell'industria italiana ha addirittura innestato la retromarcia. Solo tra il 2007 e il 2009 è scesa del 2,7% e siamo comunque da anni il fanalino di coda dell'Ocse. Nel frattempo la Cina si avvia a diventare una potenza industriale presente non solo nelle produzioni low cost ma addirittura nei progetti innovativi per l'auto elettrica. E la Germania con lo spettacolare risveglio della Volkswagen ha dimostrato come la sinergia tra una solida cultura industriale del Paese e un sindacato accorto e intelligente possa dare risultati strepitosi. La competizione, dunque, si fa sempre più dura e non solo con sistemi a bassa intensità di diritti sindacali, come sono ancora quelli asiatici, ma anche con i cugini tedeschi. Del resto gli enormi investimenti di capitale di un'industria come quella dell'auto «rendono necessario il completo sfruttamento degli impianti e la loro flessibilità di fronte a un mercato sempre più difficile». Si tranquillizzino Maurizio Landini e Nichi Vendola, non sto usando frasi di Sergio Marchionne ma di Romano Prodi. Che in un articolo comparso sul Messaggero venerdì 6 agosto ha sostenuto come a Torino le automobili le sappiano ancora progettare molto bene ma non basta: vanno create le condizioni perché si possano fabbricare nel nostro Paese Italia e vendere in Europa. «La mancanza di accordo priverà l'Italia dell'ultimo residuo di industria automobilistica che ancora le rimane».
Ma allora perché con la Fiom non si riesce a discutere con costrutto di politica industriale e produttività? La verità è che in quel sindacato, sicuramente radicato in fabbrica, presente pressoché in tutta Italia e dotato di buone strutture di base, è prevalsa un'idea di supplenza nei confronti della politica. Orfano di una sinistra capace di tradurre in azioni concrete i valori del lavoro e spaventato dai meccanismi dell'economia globale, il gruppo dirigente della Fiom ha scelto la politica al posto dell'industria, la cornice invece del quadro. Si è fatto partito. La difesa ideologica del contratto nazionale è quanto meno singolare in un sindacato che non sarebbe certo penalizzato da uno sviluppo della contrattazione aziendale. I grandi sindacalisti della Cgil di un tempo a questo punto della vicenda italiana avrebbero sfidato imprenditori e politica sullo sviluppo e la produttività, la Fiom invece ha scelto la trincea. E davanti a un'economia sempre più interdipendente preferisce chiudere gli occhi e non vedere.
È però legittimo chiedersi se questa scelta sia utile a garantire più occasioni di lavoro, più reddito, più successi aziendali o invece non equivalga a un Aventino sindacale. Per quale motivo nelle aziende alimentari grazie a una disposizione prevista nel contratto sottoscritto anche dalla Cgil si può arrivare a 21 turni settimanali mentre a Pomigliano è uno scandalo contrattarne 18? E come mai nel recente passato anche i metalmeccanici discussero con la loro controparte di banca delle ore, ovvero di un calendario su base annuale che potesse rispondere alle esigenze di flessibilità delle aziende? Per carità, ogni proposta è opinabile e può essere sostituita con un'altra migliore, ma il terreno di gioco no. Non ce n'è un altro. Se si vuole salvare l'industria e il lavoro italiano bisogna sporcarsi le mani. Un sindacalista si dovrebbe sempre distinguere da un politico.
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