di Lorenzo Campani
Per Errol Cort il 25 dicembre del 2004 è stato sicuramente un Natale da ricordare.
Ritornava a casa dopo un lungo viaggio con un bel regalo: 500 milioni di dollari caraibici, qualcosa in più di 140 milioni di euro.
Il regalo era per il paese di cui era Ministro delle Finanze: Antigua e Barbuda.
Per quel dono il premier Baldwin Spencer lo ringraziò pubblicamente nel suo discorso alla nazione il 5 gennaio 2005. Del resto in un sol colpo, quel Natale, il debito estero della piccola isola caraibica si riduceva del 24%, un quarto, passando dal 65% al 41% del PIL.
C'era di che festeggiare, anche perchè si chiudeva un doloroso capitolo di una lunga storia.
Una storia molto italiana. Errol Cort infatti quel Natale ritornava da Roma.
Tutto comincia quando Maradona arriva a Napoli, a Sanremo vincono Albano e Romina e Craxi come Presidente del Consiglio cancella la scala mobile e salva le televisioni di Silvio Berlusconi.
E' il 1984 e qualcuno dall'altra parte dell'oceano mette gli occhi su un piccolo gioiello.
La chiamano Deep Bay, è una striscia di sabbia tra l'oceano e la laguna a nord-ovest dell'isola di Antigua.
Un posto da cartolina. Un posto così.
Il progetto prevede la costruzione di un albergo di lusso. A realizzarlo c'è la Deep Bay Development Company, società statale di Antigua. Ma non è sola.
I soldi infatti vengono dall'Italia che garantisce un prestito milionario per quest'opera e per un'altra struttura: l'Heritage Quay, un centro commerciale duty-free a cinque stelle.
Il prestito viene garantito dalla Sace, società interamente pubblica che assicura le aziende italiane che lavorano in paesi esteri.
Sì, perchè dall'Italia non arrivano solo soldi. Arrivano anche imprese e lavoratori.
Il tutto è documentato in un lungo rapporto stilato dall'USAID, l'agenzia per lo sviluppo internazionale del governo degli Stati Uniti.
Dentro quel rapporto c'è un piccolo bignami dell'avventura immobiliare italiana ad Antigua, dei suoi sviluppi e delle sue conseguenze.
Si parla del progetto del Royal Antiguan Hotel a Deep Bay e delle lamentele dell'AHTA, l'associazione degli operatori turistici, perchè l'opera è stata quasi interamente realizzata dagli italiani senza benefici per i lavoratori e le imprese locali.
Stesse imprese e lavoratori che nel 1988 andranno a lavorare alla costruzione del "K club" il resort di lusso voluto dalla stilista italiana Krizia (si incavola parecchio se l'associate al nome Craxi) e che viene identificato come un caso esemplare: duecento acri ceduti dal governo di Antigua sui cui, secondo il rapporto, è stato costruito senza tutte le necessarie autorizzazioni e danneggiando il delicato ambiente naturale.
Per l'affare Royal Antiguan Hotel, che ha così pesantemente indebitato Antigua, il governo in carica vuole procedere contro l'ex primo ministro Lester Bird, ora all'opposizione. Viene accusato di aver favorito i propri interessi personali.
Lui considera il tutto un attacco giudiziario per colpirlo politicamente e attende fiducioso nella villa acquistata dalla società Flat Point Development, la stessa che ha venduto a Silvio Berlusconi, oggi suo vicino di casa nella Nonsuch Bay.
Come è noto infatti il Presidente del Consiglio dal 2005, quando ancora ad Antigua festeggiavano la cancellazione del debito italiano, ha cominciato la costruzione di alcune ville nell'isola. A seguire il progetto c'è l'architetto Gianni Gamondi, progettista di fiducia di Silvio Berlusconi che l'esperienza in loco ce l'ha già: è lui ad aver realizzato il "K Club" di Krizia.
Il rapporto speciale del Presidente del Consiglio italiano con Antigua e Barbuda continua anche nel settembre 2005 durante una sessione dell'Onu a New York. In un incontro bilaterale con la delegazione caraibica Silvio Berlusconi promette pressioni sui partner europei per la cancellazione anche del debito internazionale. Quello italiano era già stato cancellato l'anno prima.
Baldwin Spencer ringrazia di cuore.
Chi invece non ha molto da gioire e ringraziare sono i contribuenti italiani: la sintesi delle vicenda, al netto dei particolari esotici, è piuttosto brutale e anch'essa molto italiana.
Venti anni fa, il governo presieduto da Bettino Craxi decide di finanziare con soldi pubblici la costruzione di resort e strutture di lusso nei Caraibi.
Soldi che, in una partita di giro, sono finiti ad imprese italiane. Un copione ultra collaudato e ampiamente documentato dalle inchieste sulla cooperazione italiana e sulla stessa Sace. A corollario c'è anche l'arricchimento personale della classe politica locale.
Vent'anni dopo, il governo presieduto da Silvio Berlusconi (più che un amico per Craxi) cancella il 90% del prestito e degli interessi maturati pari a circa 160 milioni di euro, accontentandosi di un "pagherò" di 14 milioni di euro.
E' andata peggio ad un altra isola caraibica: per la cancellazione dei soli 40 milioni di euro di debito di Haiti nei confronti dell'Italia si è dovuto attendere il devastante terremoto del 2010. Non tutti hanno una Deep Bay.
Intanto gli investimenti turistici e immobiliari italiani ad Antigua riprendono capitanati dal Presidente del Consiglio.
Incrociate le dita. Ci si rivede tra vent'anni.
Qui o ai Caraibi.
I link ai giornali degli articoli spesso cambiano e diventa difficile se non impossibile recuperare i testi ai quali si riferivano. Questo è l'archivio on-line del blog Giornale-NOTIZIEOGGI
21.10.10
Antigua, una storia italiana
14.10.10
Il Cile che rinasce dal sottosuolo - Miracolo a Copiapò
Due articoli a confronto. Il primo su La Repubblica dello scrittore e poeta Luis Sepulveda il secondo dell'inviato Roberto Da Rin su Il Sole 24 Ore. Le differenze si commentano da sole.
Il Cile che rinasce dal sottosuolo
di LUIS SEPULVEDA
IL Cile è un paese che cresce nelle tragedie. Il poeta Fernando Alegría ha scritto: "Quando ci colpisce un temporale o ci scuote un terremoto, quando il Cile non può più essere sicuro delle sue mappe, dico infuriato: viva il Cile, merda!". Nel mese di agosto, con la metà del sud del paese ancora tra le rovine provocate dal terremoto del 27 febbraio, giunse l'allarme dal nord, dal deserto di Atacama e venimmo a sapere che 33 minatori erano rimasti intrappolati.
Erano rimasti imprigionati, dopo il crollo di una miniera di proprietà di un'impresa che violava tutte le regole di sicurezza sul lavoro.
Trentatré uomini, uno dei quali boliviano, sono rimasti intrappolati a 700 metri di profondità per 69 giorni finché, nonostante lo spettacolo mediatico organizzato dal governo, hanno cominciato a uscire uno dopo l'altro dalle profondità della terra.
Mentre scrivo queste righe ne sono già usciti una decina, sono usciti in piedi, ricevendo il caloroso saluto dei loro compagni di lavoro che li hanno cercati e trovati, e che hanno scavato la dura roccia promettendo loro, con il sobrio linguaggio dei minatori, che li avrebbero tirati fuori da lì.
Quando è uscito il primo, il presidente Piñera ha ringraziato Dio e la nomenclatura per ordine di importanza negli incarichi, ma ha dimenticato di ringraziare i minatori della Pennsylvania, che avendo sperimentato una tragedia simile si sono fatti solidali con i loro lontani colleghi di Atacama e hanno messo a disposizione le conoscenze tecniche - la cultura mineraria - e parte dei macchinari che hanno reso possibile il salvataggio.
Mentre tiravano fuori il secondo minatore, che usciva dal caldo e dall'umidità di quella reclusione a 700 metri sottoterra per affrontare il clima secco e i 10 gradi sotto zero del deserto, il presidente Piñera non ha resistito alla tentazione di un'altra conferenza stampa "in situ", il cui unico tratto rilevante è stata una vacillante dichiarazione d'intenti a favore della sicurezza sul lavoro dei minatori. Nella sua evidente goffaggine, Piñera non dice che proprio la destra cilena ha incarnato la più feroce opposizione a un regolamento sulla sicurezza del lavoro, sostenendo che i controlli sono sinonimo di burocrazia e attentano alla libertà di mercato.
Durante il suo show, carico di gesti religiosi, Piñera ha omesso qualsiasi riferimento alla triste situazione degli altri duecento e passa minatori della stessa impresa, che lavoravano nella stessa miniera e che da agosto non ricevono il loro salario.
Indubbiamente, è emozionante vederli uscire, uno per uno, e ancor più emozionante è vedere che quei minatori, nonostante i regali promessi, un viaggio in Spagna per vedere una partita del Real Madrid, un viaggio in Inghilterra per vedere una partita del Manchester United, un iPhone di ultima generazione, un viaggio in Grecia, e perfino diecimila dollari per uno donati da un imprenditore cileno che aspira a diventare presidente del Paese, nonostante tutto questo continuano a essere dei minatori e proprio per questo hanno annunciato la creazione di una fondazione che si preoccupi della situazione di tutti i minatori colpiti dal crollo della miniera.
Tirarli fuori da lì è stata una prodezza, ma una prodezza di tutti quelli che hanno sudato finché non ce l'hanno fatta. E la maggior prodezza sarà ottenere che in Cile si rispettino le norme di sicurezza sul lavoro perché non accada mai più che 33 minatori scompaiano nelle viscere della terra.
(Traduzione di Luis E. Moriones)
Miracolo a Copiapò: i minatori riemergono tra applausi e lacrime
di Roberto Da Rin
Una notte gelida, un cielo stellato, la sabbia del deserto di Atacama che si appiccica dappertutto. Cinquecento tecnici, duemila giornalisti. Quando la capsula Phoenix arriva in superficie, un urlo di gioia. Quando Florencio Avalos esce, un'epifania di bandiere e di palloncini. È il primo a riemergere dopo 69 giorni nelle viscere della miniera San José. Il primo dei «Los 33», i minatori cileni imprigionati a 700 metri di profondità dal 5 agosto.
Il casco rosso, l'imbragatura di sicurezza, gli occhiali con le lenti protettive, Florencio, un bel ragazzo di 31 anni, alza le mani in segno di ringraziamento, abbraccia la moglie, stringe al petto il corpicino esile del figlioletto Byron. Poi la liturgia dei saluti: il primo al presidente Sebastian Piñera, poi alla primera dama (la first lady), a seguire un abbraccio ai soccorritori.
Quaranta minuti dopo Florencio Avalos, è la volta di Mario Sepulveda, 39 anni. Non c'è un protocollo e Mario improvvisa uno show irresistibile: si sfila una borsa a tracolla e offre rocce, come fossero cioccolatini, a ciascuno dei rescatistas, i soccorritori. Abbraccia la moglie, ma solo un attimo, si divincola dicendole «noi due avremo tempo dopo». Si dirige verso le transenne dietro le quali lo aspettano i figli e altri parenti, urla «Viva Chile! mierda!», poi gesticola come un centravanti dopo il gol, come fosse sotto la tribuna dei suoi hoolingans. Poi aggiunge: «Non voglio che mi trattino nè come un artista nè come un animatore, sono un minatore». Alla fine ritorna sulla piattaforma, a fianco della capsula, va dritto dritto dalla primera dama, qualcuno teme una gaffe in mondovisione. E lui: «Señora, cosa le posso dire? sono stato due mesi sotto terra». Segue una risata liberatoria, sua, dei soccorritori e di tutto l'establishment cileno.
Il prossimo è Juan Illanes, 51 anni, ormai è notte fonda, circa le due. Dalle viscere della terra aveva fatto sapere d'esser abituato agli eventi storici, era arruolato tra le file dell'esercito cileno nel 1978 quando Argentina e Cile sfiorano la guerra per la disputa sul "conflitto del canale di Beagle". Nessuno show, solo abbracci e sorrisi. È la volta del boliviano Carlos Mamani, l'unico straniero del gruppo. Grande compostezza, la sua, davanti all'emozione dei parenti arrivati da un piccolo centro andino a quasi 4mila metri di altitudine.
Le immagini che scorrono sui quattro megaschermi montati a Campo Esperanza, proprio a fianco dello sterrato che porta a boca mina, davanti al braccio della gru che trascina su la capsula, sono di grande potenza espressiva: fotogrammi e brevi filmati che mostrano la forza di quei trentatré minatori, la calma e l'equilibrio delle famiglie, la meraviglia della tecnologia cilena, l'efficienza dell'organizzazione. Per Javier Soto, un pastore evangelico di stanza al Campamento da un mese e mezzo «questo è un miracolo di Dio, è una storia che supera, quarant'anni dopo, la vicenda dei rugbisti uruguayani, sopravvissuti a un incidente aereo sulle Ande per alcune settimane».
C'è chi la pensa diversamente e critica la mediatizzazione dell'evento, diventato un vero e proprio reality show. Oltre ai tecnici e ai giornalisti non sono mai mancati i clown per i bambini, i carabinieri in divisa che giocano a calcio con i ragazzi più grandi, i cantastorie che intrattengono i familiari, gli esperti della Nasa che dispensavano consigli, i gruppi musicali in cerca di successo, i sopravvissuti uruguayani con precedenti di antropofagia.
C'è chi giura che in Cile, entro breve, sugli schermi televisivi verrà trasmesso una nuova versione del Gran Hermano, il Grande Fratello sudamericano. Sarà el Gran minero. Circola anche un altro progetto: la vicenda dei 33 potrebbe diventare presto il soggetto di una produzione cinematografica. Il premio Oscar spagnolo Javier Bardem - secondo una voce che rimbalza sulla stampa Usa - è stato contattato per diventarne protagonista.
Il film racconterà la storia del salvataggio, dal giorno dell'esplosione della miniera, alla conclusione delle operazioni di recupero dei 33 minatori, dopo due mesi di sopravvivenza in una galleria della miniera.
Intanto, l'altoparlante di Campo Esperanza ogni mezz'ora diffonde l'elenco dei minatori salvati e di quelli che si apprestano a uscire. «I quaranta minuti per risalita si ridurranno a trenta», annuncia il presidente Piñera. Al Campamento i familiari si abbracciano e ringraziano: i tecnici, il governo, il presidente Piñera, persino i giornalisti. Ma il lieto fine di quest'incredibile vicenda trova spiegazioni diverse. Qualche ora fa sbuca dal tunnel Mario Gomez, il più anziano di tutti, 63 anni. Appena fuori alza una bandiera cilena con i nomi dei suoi compagni, si inginocchia e prega.
«La sua è una conversione, forse una rinascita» spiega Luis, il fratello. Invece Veronica Quispe, la compagna del boliviano Carlos Mamani, rievoca la forza della terra: «È terra di miniere, è stata una decisione della pachamama», la madre-terra degli aymara e di altri popoli andini. Per Nelly, madre di Victor Zamora, è una farfalla bianca. «È un gesto del cielo che ha salvato un gruppo di minatori qualche attimo prima del crollo del 5 agosto. Los 33 mi hanno detto che in miniera era entrata una farfalla bianca, si sono distratti e non sono saliti sul camion, schiacciato pochi attimi dopo dal crollo nel budello del giacimento».
Proprio quando gli occhi di Nelly si perdono nella luce accecante del deserto di Atacama, piovono dalle cancellerie messaggi di complimenti. Barack Obama, Lula, il Papa, Barroso, Merkel, Frattini, Kirchner, Sarkozy. E Maradona.
RITORNO ALLA LUCE
Forza cileni!
«Vamos, vamos, chilenos, que esta noche los vamos a sacar» (Forza, forza, cileni, che questa notte li tiriamo fuori!) È il grido incitamento dei 14 soccorritori, prima di iniziare l'operazione di salvataggio San Lorenzo
Lotta fra Dio e Satana
Il secondo minatore a uscire dalla miniera dopo Florencio Avalos è Mario Sepulveda, 39 anni, elettricista, diventato l'eroe dei tabloid inglesi per aver chiesto ai soccorritori una bambola gonfiabile per i suoi colleghi. Quando è tornato in superficie, il minatore soprannonimato «Supermario» e «jolly del mazzo» ha detto: «Stavo con Dio e con il diavolo. Hanno lottato per avermi ed ha vinto Dio, mi ha afferrato, in nessun momento ho dubitato che Dio mi avrebbe tirato fuori di lì. Non voglio essere trattato come un artista o un giornalista, per favore. Voglio essere trattato come Mario Antonio Sepulveda, lavoratore, minatore»
La Vita Nova del veterano
Appena sbucato dalla capsula, Mario Gomez, 63 anni, il veterano del gruppo, ha alzato una bandiera cilena con i nomi dei suoi compagni, si è inginocchiato ed ha pregato: «Sono cambiato, sono un altro uomo. Spesso, occorre che qualcosa accada per riflettere e capire che la vita è unica, e pensare che bisogna cambiare»
IL SALVATAGGIO RECORD DEI 33
Occhiali tricolore, gli stessi di Armstrong
Operazione San Lorenzo Il trionfo parla italiano
Plutonite, a me gli occhi!
Gli occhiali che indossano i minatori quando tornano alla luce sono gli stessi usati dal ciclista Lance Armstrong. Il modello Radar di Luxottica è fatto con la plutonite, speciale materiale brevettato dall'azienda italiana. Si tratta di occhialoni avvolgenti (a lato li indossa Jimmy Sanchez, il quinto minatore recuperato) che permettono la protezione non solo frontale ma anche periferica dell'occhio, il colore della lente è blu scuro. Questa particolare protezione serve a proteggere gli occhi degli uomini che hanno vissuto nella penombra per due mesi
L'empatia del ministro
Anche il ministro delle risorse minerarie Laurence Golborne, uno dei protagonisti della saga della miniera di Copiapò, ne ha indossato un paio per empatia con i 33 minatori
L'ingegnere di Pisa
C'è anche un ingegnere italiano fra i soccorritori della miniera sulle Ande cilene impegnato nell'operazione di salvataggio «San Lorenzo». È Stefano Massei (a sinistra nella foto), 56 anni, pisano, specializzato nelle perforazioni, che ha usato la macchina con cui l'Enel Green Power cerca giacimenti geotermici di acqua bollente per far girare le centrali elettriche cilene. Ieri ha spiegato che il terreno cileno è molto simile alla Toscana
Le tecnologie di Bergamo
Parlano italiano anche i sistemi e i macchinari di tesatura della Tesmec di Grassobbio (Bergamo), che rendono sicura la tensione delle funi con cui sono stati inviati generi alimentari e sono stati recuperati alcuni minatori, e le gru per attrezzare le trivelle di perforazione della Fassi Gru di Albino (sempre in provincia di Bergamo)
Il Cile che rinasce dal sottosuolo
di LUIS SEPULVEDA
IL Cile è un paese che cresce nelle tragedie. Il poeta Fernando Alegría ha scritto: "Quando ci colpisce un temporale o ci scuote un terremoto, quando il Cile non può più essere sicuro delle sue mappe, dico infuriato: viva il Cile, merda!". Nel mese di agosto, con la metà del sud del paese ancora tra le rovine provocate dal terremoto del 27 febbraio, giunse l'allarme dal nord, dal deserto di Atacama e venimmo a sapere che 33 minatori erano rimasti intrappolati.
Erano rimasti imprigionati, dopo il crollo di una miniera di proprietà di un'impresa che violava tutte le regole di sicurezza sul lavoro.
Trentatré uomini, uno dei quali boliviano, sono rimasti intrappolati a 700 metri di profondità per 69 giorni finché, nonostante lo spettacolo mediatico organizzato dal governo, hanno cominciato a uscire uno dopo l'altro dalle profondità della terra.
Mentre scrivo queste righe ne sono già usciti una decina, sono usciti in piedi, ricevendo il caloroso saluto dei loro compagni di lavoro che li hanno cercati e trovati, e che hanno scavato la dura roccia promettendo loro, con il sobrio linguaggio dei minatori, che li avrebbero tirati fuori da lì.
Quando è uscito il primo, il presidente Piñera ha ringraziato Dio e la nomenclatura per ordine di importanza negli incarichi, ma ha dimenticato di ringraziare i minatori della Pennsylvania, che avendo sperimentato una tragedia simile si sono fatti solidali con i loro lontani colleghi di Atacama e hanno messo a disposizione le conoscenze tecniche - la cultura mineraria - e parte dei macchinari che hanno reso possibile il salvataggio.
Mentre tiravano fuori il secondo minatore, che usciva dal caldo e dall'umidità di quella reclusione a 700 metri sottoterra per affrontare il clima secco e i 10 gradi sotto zero del deserto, il presidente Piñera non ha resistito alla tentazione di un'altra conferenza stampa "in situ", il cui unico tratto rilevante è stata una vacillante dichiarazione d'intenti a favore della sicurezza sul lavoro dei minatori. Nella sua evidente goffaggine, Piñera non dice che proprio la destra cilena ha incarnato la più feroce opposizione a un regolamento sulla sicurezza del lavoro, sostenendo che i controlli sono sinonimo di burocrazia e attentano alla libertà di mercato.
Durante il suo show, carico di gesti religiosi, Piñera ha omesso qualsiasi riferimento alla triste situazione degli altri duecento e passa minatori della stessa impresa, che lavoravano nella stessa miniera e che da agosto non ricevono il loro salario.
Indubbiamente, è emozionante vederli uscire, uno per uno, e ancor più emozionante è vedere che quei minatori, nonostante i regali promessi, un viaggio in Spagna per vedere una partita del Real Madrid, un viaggio in Inghilterra per vedere una partita del Manchester United, un iPhone di ultima generazione, un viaggio in Grecia, e perfino diecimila dollari per uno donati da un imprenditore cileno che aspira a diventare presidente del Paese, nonostante tutto questo continuano a essere dei minatori e proprio per questo hanno annunciato la creazione di una fondazione che si preoccupi della situazione di tutti i minatori colpiti dal crollo della miniera.
Tirarli fuori da lì è stata una prodezza, ma una prodezza di tutti quelli che hanno sudato finché non ce l'hanno fatta. E la maggior prodezza sarà ottenere che in Cile si rispettino le norme di sicurezza sul lavoro perché non accada mai più che 33 minatori scompaiano nelle viscere della terra.
(Traduzione di Luis E. Moriones)
Miracolo a Copiapò: i minatori riemergono tra applausi e lacrime
di Roberto Da Rin
Una notte gelida, un cielo stellato, la sabbia del deserto di Atacama che si appiccica dappertutto. Cinquecento tecnici, duemila giornalisti. Quando la capsula Phoenix arriva in superficie, un urlo di gioia. Quando Florencio Avalos esce, un'epifania di bandiere e di palloncini. È il primo a riemergere dopo 69 giorni nelle viscere della miniera San José. Il primo dei «Los 33», i minatori cileni imprigionati a 700 metri di profondità dal 5 agosto.
Il casco rosso, l'imbragatura di sicurezza, gli occhiali con le lenti protettive, Florencio, un bel ragazzo di 31 anni, alza le mani in segno di ringraziamento, abbraccia la moglie, stringe al petto il corpicino esile del figlioletto Byron. Poi la liturgia dei saluti: il primo al presidente Sebastian Piñera, poi alla primera dama (la first lady), a seguire un abbraccio ai soccorritori.
Quaranta minuti dopo Florencio Avalos, è la volta di Mario Sepulveda, 39 anni. Non c'è un protocollo e Mario improvvisa uno show irresistibile: si sfila una borsa a tracolla e offre rocce, come fossero cioccolatini, a ciascuno dei rescatistas, i soccorritori. Abbraccia la moglie, ma solo un attimo, si divincola dicendole «noi due avremo tempo dopo». Si dirige verso le transenne dietro le quali lo aspettano i figli e altri parenti, urla «Viva Chile! mierda!», poi gesticola come un centravanti dopo il gol, come fosse sotto la tribuna dei suoi hoolingans. Poi aggiunge: «Non voglio che mi trattino nè come un artista nè come un animatore, sono un minatore». Alla fine ritorna sulla piattaforma, a fianco della capsula, va dritto dritto dalla primera dama, qualcuno teme una gaffe in mondovisione. E lui: «Señora, cosa le posso dire? sono stato due mesi sotto terra». Segue una risata liberatoria, sua, dei soccorritori e di tutto l'establishment cileno.
Il prossimo è Juan Illanes, 51 anni, ormai è notte fonda, circa le due. Dalle viscere della terra aveva fatto sapere d'esser abituato agli eventi storici, era arruolato tra le file dell'esercito cileno nel 1978 quando Argentina e Cile sfiorano la guerra per la disputa sul "conflitto del canale di Beagle". Nessuno show, solo abbracci e sorrisi. È la volta del boliviano Carlos Mamani, l'unico straniero del gruppo. Grande compostezza, la sua, davanti all'emozione dei parenti arrivati da un piccolo centro andino a quasi 4mila metri di altitudine.
Le immagini che scorrono sui quattro megaschermi montati a Campo Esperanza, proprio a fianco dello sterrato che porta a boca mina, davanti al braccio della gru che trascina su la capsula, sono di grande potenza espressiva: fotogrammi e brevi filmati che mostrano la forza di quei trentatré minatori, la calma e l'equilibrio delle famiglie, la meraviglia della tecnologia cilena, l'efficienza dell'organizzazione. Per Javier Soto, un pastore evangelico di stanza al Campamento da un mese e mezzo «questo è un miracolo di Dio, è una storia che supera, quarant'anni dopo, la vicenda dei rugbisti uruguayani, sopravvissuti a un incidente aereo sulle Ande per alcune settimane».
C'è chi la pensa diversamente e critica la mediatizzazione dell'evento, diventato un vero e proprio reality show. Oltre ai tecnici e ai giornalisti non sono mai mancati i clown per i bambini, i carabinieri in divisa che giocano a calcio con i ragazzi più grandi, i cantastorie che intrattengono i familiari, gli esperti della Nasa che dispensavano consigli, i gruppi musicali in cerca di successo, i sopravvissuti uruguayani con precedenti di antropofagia.
C'è chi giura che in Cile, entro breve, sugli schermi televisivi verrà trasmesso una nuova versione del Gran Hermano, il Grande Fratello sudamericano. Sarà el Gran minero. Circola anche un altro progetto: la vicenda dei 33 potrebbe diventare presto il soggetto di una produzione cinematografica. Il premio Oscar spagnolo Javier Bardem - secondo una voce che rimbalza sulla stampa Usa - è stato contattato per diventarne protagonista.
Il film racconterà la storia del salvataggio, dal giorno dell'esplosione della miniera, alla conclusione delle operazioni di recupero dei 33 minatori, dopo due mesi di sopravvivenza in una galleria della miniera.
Intanto, l'altoparlante di Campo Esperanza ogni mezz'ora diffonde l'elenco dei minatori salvati e di quelli che si apprestano a uscire. «I quaranta minuti per risalita si ridurranno a trenta», annuncia il presidente Piñera. Al Campamento i familiari si abbracciano e ringraziano: i tecnici, il governo, il presidente Piñera, persino i giornalisti. Ma il lieto fine di quest'incredibile vicenda trova spiegazioni diverse. Qualche ora fa sbuca dal tunnel Mario Gomez, il più anziano di tutti, 63 anni. Appena fuori alza una bandiera cilena con i nomi dei suoi compagni, si inginocchia e prega.
«La sua è una conversione, forse una rinascita» spiega Luis, il fratello. Invece Veronica Quispe, la compagna del boliviano Carlos Mamani, rievoca la forza della terra: «È terra di miniere, è stata una decisione della pachamama», la madre-terra degli aymara e di altri popoli andini. Per Nelly, madre di Victor Zamora, è una farfalla bianca. «È un gesto del cielo che ha salvato un gruppo di minatori qualche attimo prima del crollo del 5 agosto. Los 33 mi hanno detto che in miniera era entrata una farfalla bianca, si sono distratti e non sono saliti sul camion, schiacciato pochi attimi dopo dal crollo nel budello del giacimento».
Proprio quando gli occhi di Nelly si perdono nella luce accecante del deserto di Atacama, piovono dalle cancellerie messaggi di complimenti. Barack Obama, Lula, il Papa, Barroso, Merkel, Frattini, Kirchner, Sarkozy. E Maradona.
RITORNO ALLA LUCE
Forza cileni!
«Vamos, vamos, chilenos, que esta noche los vamos a sacar» (Forza, forza, cileni, che questa notte li tiriamo fuori!) È il grido incitamento dei 14 soccorritori, prima di iniziare l'operazione di salvataggio San Lorenzo
Lotta fra Dio e Satana
Il secondo minatore a uscire dalla miniera dopo Florencio Avalos è Mario Sepulveda, 39 anni, elettricista, diventato l'eroe dei tabloid inglesi per aver chiesto ai soccorritori una bambola gonfiabile per i suoi colleghi. Quando è tornato in superficie, il minatore soprannonimato «Supermario» e «jolly del mazzo» ha detto: «Stavo con Dio e con il diavolo. Hanno lottato per avermi ed ha vinto Dio, mi ha afferrato, in nessun momento ho dubitato che Dio mi avrebbe tirato fuori di lì. Non voglio essere trattato come un artista o un giornalista, per favore. Voglio essere trattato come Mario Antonio Sepulveda, lavoratore, minatore»
La Vita Nova del veterano
Appena sbucato dalla capsula, Mario Gomez, 63 anni, il veterano del gruppo, ha alzato una bandiera cilena con i nomi dei suoi compagni, si è inginocchiato ed ha pregato: «Sono cambiato, sono un altro uomo. Spesso, occorre che qualcosa accada per riflettere e capire che la vita è unica, e pensare che bisogna cambiare»
IL SALVATAGGIO RECORD DEI 33
Occhiali tricolore, gli stessi di Armstrong
Operazione San Lorenzo Il trionfo parla italiano
Plutonite, a me gli occhi!
Gli occhiali che indossano i minatori quando tornano alla luce sono gli stessi usati dal ciclista Lance Armstrong. Il modello Radar di Luxottica è fatto con la plutonite, speciale materiale brevettato dall'azienda italiana. Si tratta di occhialoni avvolgenti (a lato li indossa Jimmy Sanchez, il quinto minatore recuperato) che permettono la protezione non solo frontale ma anche periferica dell'occhio, il colore della lente è blu scuro. Questa particolare protezione serve a proteggere gli occhi degli uomini che hanno vissuto nella penombra per due mesi
L'empatia del ministro
Anche il ministro delle risorse minerarie Laurence Golborne, uno dei protagonisti della saga della miniera di Copiapò, ne ha indossato un paio per empatia con i 33 minatori
L'ingegnere di Pisa
C'è anche un ingegnere italiano fra i soccorritori della miniera sulle Ande cilene impegnato nell'operazione di salvataggio «San Lorenzo». È Stefano Massei (a sinistra nella foto), 56 anni, pisano, specializzato nelle perforazioni, che ha usato la macchina con cui l'Enel Green Power cerca giacimenti geotermici di acqua bollente per far girare le centrali elettriche cilene. Ieri ha spiegato che il terreno cileno è molto simile alla Toscana
Le tecnologie di Bergamo
Parlano italiano anche i sistemi e i macchinari di tesatura della Tesmec di Grassobbio (Bergamo), che rendono sicura la tensione delle funi con cui sono stati inviati generi alimentari e sono stati recuperati alcuni minatori, e le gru per attrezzare le trivelle di perforazione della Fassi Gru di Albino (sempre in provincia di Bergamo)
12.10.10
Una Spa per gestire le scuole
Giorgio Santilli
Il governo studia «Scuole spa», l'ipotesi di una società per azioni cui conferire la proprietà degli edifici scolastici e la competenza per la loro manutenzione e messa in sicurezza, oggi in carico agli enti locali.
Il progetto è allo studio dei ministeri dell'Economia, dell'Istruzione e delle Infrastrutture, che ci stanno lavorando in questi giorni per produrre un piano operativo e forse un provvedimento legislativo entro il mese di ottobre. La formula allo studio viene considerata dal Mef «inedita», l'innovazione punterebbe a un miglior utilizzo dei «flussi di spesa» per reperire nuove risorse, ma i dettagli sono ancora in via di definizione.
L'ipotesi allo studio prenderebbe in considerazione anche la partecipazione al progetto degli enti previdenziali che potrebbero entrare nel capitale della società per azioni. Il rendimento sarebbe garantito dall'incasso di canoni di locazione pagati dagli enti locali, oggi proprietari degli immobili interessati al progetto. La formula, vicina a un project financing freddo, potrebbe essere aperta ad altri soggetti pubblici e privati. Come nel caso del social housing l'operazione potrebbe coinvolgere le fondazioni bancarie mentre al momento è esclusa la partecipazione della Cassa depositi e prestiti. Al ministero della Pubblica istruzione fanno notare che il consenso degli enti locali è uno degli aspetti delicati dell'operazione.
Alla nuova società potrebbero andare una parte dei finanziamenti destinati dal Cipe all'edilizia scolastica per la messa in sicurezza degli edifici esistenti. Si tratta di un miliardo di euro di cui già sono stati assegnati 226 milioni per l'Abruzzo e 358 della prima tranche del piano nazionale. Restano da assegnare ancora 416 milioni per cui il ministero delle Infratsrutture stava già preparando un'istruttoria da portare al Cipe, garantendo la quota di riserva per il Mezzogiorno, data dall'utilizzo dei fondi Fas. A questi fondi si potrebbero aggiungere altre risorse pubbliche bloccate per le procedure eccessivamente farraginose.
A far capire che un'accelerazione sull'edilizia scolastica fosse in corso era stato nei giorni scorso lo stesso ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, che aveva annunciato la messa a punto di interventi per potenziare e migliorare la manutenzione scolastica soprattutto nel Mezzogiorno.
Da tempo, d'altra parte, il tema dell'intervento nelle scuole è oggetto di un confronto fra il governo e i costruttori dell'Ance che aveva avanzato, attraverso la propria struttura Ispredil, proposte di partecipazione dei privati, basata proprio sul modello del canone pagato dagli enti locali per ciascun alunno.
I dati sono rilevanti. I punti di erogazione del servizio per l'istruzione gestiti da comuni e province sono 42mila per un totale di 62 milioni di metri quadrati di superficie, di cui circa il 40% esposta ad elevato rischio sismico e il 7% ad elevato rischio idrogeologico.
Gli studenti, fruitori dei servizi, sono 7,8 milioni. Il ministero dell'Istruzione ha rilevato che 14.700 edifici a livello nazionale presentano urgente necessità di manutenzione straordinaria per la messa in sicurezza. Per 10mila di essi è stata ipotizzata, dai tecnici che hanno svolto la rilevazione per l'anagrafe ministeriale degli edifici, la demolizione. Per gli interventi più urgenti sarebbero necessari subito, secondo stime della Protezione civile, 13 miliardi di euro.
Non è escluso che alla Scuole spa potrebbe essere assegnato anche lo svolgimento di servizi di mensa o di assistenza agli studenti o anche di aggiornamento prfessionale dei docenti. L'importo bandito per lavori nelle scuole è stato, negli ultimi cinque anni, in media di 1,8 miliardi di euro l'anno, mentre la spesa per consumi energetici si attesta sugli 1,5 miliardi di euro l'anno.
Il governo studia «Scuole spa», l'ipotesi di una società per azioni cui conferire la proprietà degli edifici scolastici e la competenza per la loro manutenzione e messa in sicurezza, oggi in carico agli enti locali.
Il progetto è allo studio dei ministeri dell'Economia, dell'Istruzione e delle Infrastrutture, che ci stanno lavorando in questi giorni per produrre un piano operativo e forse un provvedimento legislativo entro il mese di ottobre. La formula allo studio viene considerata dal Mef «inedita», l'innovazione punterebbe a un miglior utilizzo dei «flussi di spesa» per reperire nuove risorse, ma i dettagli sono ancora in via di definizione.
L'ipotesi allo studio prenderebbe in considerazione anche la partecipazione al progetto degli enti previdenziali che potrebbero entrare nel capitale della società per azioni. Il rendimento sarebbe garantito dall'incasso di canoni di locazione pagati dagli enti locali, oggi proprietari degli immobili interessati al progetto. La formula, vicina a un project financing freddo, potrebbe essere aperta ad altri soggetti pubblici e privati. Come nel caso del social housing l'operazione potrebbe coinvolgere le fondazioni bancarie mentre al momento è esclusa la partecipazione della Cassa depositi e prestiti. Al ministero della Pubblica istruzione fanno notare che il consenso degli enti locali è uno degli aspetti delicati dell'operazione.
Alla nuova società potrebbero andare una parte dei finanziamenti destinati dal Cipe all'edilizia scolastica per la messa in sicurezza degli edifici esistenti. Si tratta di un miliardo di euro di cui già sono stati assegnati 226 milioni per l'Abruzzo e 358 della prima tranche del piano nazionale. Restano da assegnare ancora 416 milioni per cui il ministero delle Infratsrutture stava già preparando un'istruttoria da portare al Cipe, garantendo la quota di riserva per il Mezzogiorno, data dall'utilizzo dei fondi Fas. A questi fondi si potrebbero aggiungere altre risorse pubbliche bloccate per le procedure eccessivamente farraginose.
A far capire che un'accelerazione sull'edilizia scolastica fosse in corso era stato nei giorni scorso lo stesso ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, che aveva annunciato la messa a punto di interventi per potenziare e migliorare la manutenzione scolastica soprattutto nel Mezzogiorno.
Da tempo, d'altra parte, il tema dell'intervento nelle scuole è oggetto di un confronto fra il governo e i costruttori dell'Ance che aveva avanzato, attraverso la propria struttura Ispredil, proposte di partecipazione dei privati, basata proprio sul modello del canone pagato dagli enti locali per ciascun alunno.
I dati sono rilevanti. I punti di erogazione del servizio per l'istruzione gestiti da comuni e province sono 42mila per un totale di 62 milioni di metri quadrati di superficie, di cui circa il 40% esposta ad elevato rischio sismico e il 7% ad elevato rischio idrogeologico.
Gli studenti, fruitori dei servizi, sono 7,8 milioni. Il ministero dell'Istruzione ha rilevato che 14.700 edifici a livello nazionale presentano urgente necessità di manutenzione straordinaria per la messa in sicurezza. Per 10mila di essi è stata ipotizzata, dai tecnici che hanno svolto la rilevazione per l'anagrafe ministeriale degli edifici, la demolizione. Per gli interventi più urgenti sarebbero necessari subito, secondo stime della Protezione civile, 13 miliardi di euro.
Non è escluso che alla Scuole spa potrebbe essere assegnato anche lo svolgimento di servizi di mensa o di assistenza agli studenti o anche di aggiornamento prfessionale dei docenti. L'importo bandito per lavori nelle scuole è stato, negli ultimi cinque anni, in media di 1,8 miliardi di euro l'anno, mentre la spesa per consumi energetici si attesta sugli 1,5 miliardi di euro l'anno.
11.10.10
Così colpisce la fabbrica dei dossier al servizio del Cavaliere
di GIUSEPPE D'AVANZO
Veleni e disinformazione diventano verità. Dal caso del giudice Vaudano, a Igor Marini e Telekom Serbia. Dagli avvertimenti a Marrazzo a Boffo, Fini e Marcegaglia. Il sistema usato è quello della "opposition research", lo stesso confessato dall'americano Stephen Marks in un libro dal titolo "Confessioni di un killer politico"
Ci si può anche svagare e chiamare il direttore del giornale di Silvio Berlusconi Brighella. Brighella, come la maschera della commedia dell'arte che nasce nella Bergamo alta: un attaccabrighe, un briccone sempre disponibile "a dirigere gli imbrogli compiuti in scena, se il padrone lo ricompensa bene". Un bugiardo che di se stesso può scrivere senza arrossire: "Sono insofferente a qualsiasi ordine di scuderia, disciplina, inquadramento ideologico. Mi manca la stoffa del cortigiano". La canzonatura finirebbe per nascondere un meccanismo, un paradigma che trova nell'uomo che dirige il giornale del Capo soltanto un protagonista di secondo ordine e nel lavoro sporco, che accetta di fare, solo uno dei segmenti di un dispositivo di potere. Tuttavia. Da qui è necessario muovere. Dal mestiere del direttore del giornale di Berlusconi in quanto la barbarie italiana, che trasforma in politica la compravendita del voto e quindi la corruzione di deputati e senatori, definisce informazione - e non violenza o abuso di potere - la torsione della volontà, la sopraffazione morale di chi dissente dal Capo attraverso un'aggressione spietata, distruttiva, brutale che macina come verità fattoidi, mezzi fatti, fatti storti, dicerie poliziesche, irrilevanti circostanze, falsi indiscutibili. Un'atrocità che pretende di restare impunita o quanto meno tollerata perché, appunto, giornalismo. Ma, quella roba lì, la si può dire informazione? È un giornalista, il direttore del giornale di Silvio Berlusconi? Il suo mestiere è il giornalismo?
Vediamolo al lavoro nel "caso Boffo", quindi nel momento inaugurale in cui egli mette a punto quel che, con prepotente mafiosità, gli uomini vicini al capo del governo definiscono ora "il metodo Boffo".
Sappiamo come sono andate le cose. Dino Boffo critica, con molta prudenza, lo stile di vita di Berlusconi e si ritrova nella lista dei cattivi. Dirige un giornale cattolico e non può permettersi di censurare il capo del governo. Deve avere una lezione che dovrà distruggerlo senza torcergli un capello. Il colpo di pistola che liquida il direttore dell'Avvenire è la prima pagina del giornale di Berlusconi. Sarà presentato così: "Dino Boffo, alla guida del giornale dei vescovi e impegnato nell'accesa campagna di stampa contro i peccati del premier, intimidiva la moglie dell'uomo con il quale aveva una relazione". Le prove dell'omosessualità di Boffo? Non ci sono. L'unico riscontro proposto - un foglietto presentato come "la nota informativa che accompagna e spiega il rinvio a giudizio del grande moralizzatore" - è uno strepitoso falso. In un Paese non barbarico il giornalista autore di quello "sconclusionato e sgrammaticato distillato di falsità e puro veleno costruito a tavolino per diffamare", come scrive Boffo, avrebbe avuto qualche rogna. Forse avrebbe visto irrimediabilmente distrutta la sua reputazione perché, caduto l'Impero sovietico, la calunnia consapevole non può essere definita giornalismo. Non accade nulla. Anche i petulanti "liberali" - intimoriti o complici - tacciono, ieri come oggi. Si rifiutano di prendere atto che in quel momento - agosto 2009 - si inaugura la metamorfosi di un minaccioso dispositivo politico che già si era esercitato - con un altro circuito, con altri uomini - tra il 2001 e il 2006.
Nella XIV legislatura, durante il II e il III governo Berlusconi s'era già visto all'opera un network di potere occulto e trasversale concentrato nel lavoro di disinformazione e specializzato in operazioni di discredito. Un "apparato" legale/clandestino scandaloso, ma del tutto "visibile". Era il frutto della connessione abusiva dello spionaggio militare (il Sismi di Nicolò Pollari) con diverse branche dell'investigazione, soprattutto l'intelligence business della Guardia di Finanza; con agenzie di investigazione che lavorano in outsourcing; con la Security privata di grandi aziende come Telecom, dove è esistita una "control room" e una "struttura S2OC" "capace di fare qualsiasi cosa, anche intercettazioni vocali: poteva entrare in tutti i sistemi, gestirli, eventualmente dirottare le conversazioni su utenze in uso, con la possibilità di cancellarne la traccia senza essere specificatamente autorizzato". Ricordiamo quel che accadde (ormai agli atti e documentato). Dopo la vittoria elettorale di Silvio Berlusconi, questa piattaforma spionistica pianifica operazioni - "anche cruente" - contro i presunti "nemici" del neopresidente del Consiglio. Ne viene stilato un elenco. Si raccolgono dossier. Quando è necessario si distribuiscono nelle redazioni amiche, controllate o influenzate dal potere del Capo e trasformate in officine dei veleni. Per dire, il giudice Mario Vaudano è un "nemico". Pochi lo conoscono, ma ha avuto un ruolo fondamentale nell'inchiesta Mani Pulite. Era in quegli anni al ministero di Giustizia e si occupava delle rogatorie estere richieste dal pool di Milano. Se ne occupava con grandi capacità e la sua efficienza lo trasforma in una "bestia nera" da annientare. Tanto più che il giudice - incauto - vince un concorso per l'Ufficio europeo per la lotta antifrode (OLAF: protegge gli interessi finanziari dell'Unione europea, contrastando la frode, la corruzione, ogni altra forma di attività illegale). La nomina di Mauro Vaudano "viene bloccata personalmente da Berlusconi" (Corriere della sera, 11 aprile 2002) mentre si mette in moto il dispositivo. Un ufficio riservato del Sismi spia il bersaglio (anche la moglie francese del giudice, Anne Crenier, giudice anche lei, scoprirà e denuncerà di essere stata spiata dal Sismi con intrusioni nella sua posta elettronica). Il fango raccolto sarà depositato nella redazione del giornale di Berlusconi. Campagna stampa. Intervento del ministro di giustizia che alla fine avvierà contro il povero giudice un'inchiesta disciplinare.
Qui non importa capire se queste mosse sono configurabili come reato. È necessario comprenderne il movimento, isolare i protagonisti, afferrare i modi e l'azione di un potere micidiale - politico, economico, mediatico - capace di stritolare chiunque. È un potere che si dispiega in quegli anni, come oggi, contro l'opposizione politica, contro uomini e istituzioni dello Stato rispettose del proprio ufficio pubblico e non piegate al comando politico, contro il giornalismo non conforme. Una commissione d'inchiesta parlamentare - Telekom Serbia - diventa fabbrica di miasmi. Con lo stesso canone. Si scova un figuro disposto a non andare troppo per il sottile. Si chiama Igor Marini. Lo presentano come consulenze finanziario, come conte, è un facchino dell'ortomercato di Brescia. Lo si consegna ai commissari e quindi alla stampa amica. Quello diventa un fiume in piena. Rivelazioni clamorose accusano l'intero vertice dell'opposizione (Prodi, Fassino, Dini, Veltroni, Rutelli, Mastella). Il giornale del Capo dedicherà trentadue (32) prime pagine alle frottole di quel tipo oggi in galera per calunnia. Alla vigilia delle elezioni 2006 la consueta macchina denigratoria si muove ancora contro Romano Prodi, leader dell'opposizione. L'ufficio riservato del Sismi prepara un falso documento. Lo si accusa di aver sottoscritto accordi tra Unione europea e Stati Uniti che legittimano i sequestri illegali della Cia come il rapimento in Italia di Abu Omar. Il dossier farlocco sarà pubblicato su Libero, direttore Vittorio Feltri, dal suo vice Renato Farina, ingaggiato e pagato dal Sismi, reo confesso ("... ammetto i rapporti intrattenuti con uomini del Sismi in qualità di informatore, ammetto di avere accettato rimborsi dal Sismi, ammetto di aver intervistato i Pm Spataro e Pomarici per carpire informazioni da trasmettere al Sismi..."), condannato a sei mesi di reclusione per favoreggiamento, radiato dall'Ordine dei giornalisti, oggi parlamentare del Popolo della libertà.
In questi casi scorgiamo un antagonista che irrita o inquieta il Capo, l'attività storta di un istituzione, il ruolo decisivo dell'informazione controllata dal Capo. Quel che accade a Vaudano e Prodi sono soltanto due campioni di un catalogo che, nella XV legislatura - questa - ha trovato altri protagonisti e un nuovo schema di lavoro a partire da una solida convinzione: la politica è del tutto mediatizzata, ogni azione politica si svolge all'interno dello spazio mediale e dipende in larga misura dalla voce dei media. È sufficiente allora fabbricare e diffondere messaggi che distorcono i fatti e inducono alla disinformazione, fare dello scandalo la più autentica lotta per il potere simbolico, giocare in quel perimetro la reputazione dei competitori, degli antagonisti, dei critici, soffocare la fiducia che riscuotono, e il gioco è fatto. Rien ne va plus. È un congegno che impone al giornalismo di essere più rigoroso, più lucido, più consapevole.
Altra storia se si parla del Brighella che dirige il giornale del capo del governo. Bisogna coglierne il ruolo, nel congegno, e definirne il lavoro. Vediamo il suo modus operandi. Individua il nemico del Capo da colpire, magari se lo lascia suggerire anche se non gli "manca la stoffa del cortigiano". Raccoglie tutte le informazioni lesive che si possono reperire, fabbricare e distorcere intorno a un fatto isolato dal suo contesto. È una pratica che ha un nome. Non è una pratica giornalistica. È, negli Stati Uniti, la componente chiave di ogni campagna politica. Si chiama opposition research. Per farla bisogna "scavare nel fango", come racconta uno dei maestri di questo triste mestiere, Stephen Marks. Colpito da una certa stanchezza morale e personale, Marks ha rivelato le sue tattiche e quelle della sua professione in un libro intitolato "Confessioni di un Killer Politico", Confessions of Political Hitman. È abbastanza semplice il lavoro, in fondo. I consulenti politici del Candidato indicano chi sono gli uomini più pericolosi per il suo successo. I sondaggisti individuano quali sono le notizie che possono maggiormente danneggiare il politico diventato target. Ha inizio la ricerca. Documenti d'archivio, dichiarazioni alla stampa, episodi biografici, investimenti finanziari, interessi finanziari, dichiarazioni di redditi, proprietà e donazioni elettorali. Insomma, una ricostruzione della vita privata e pubblica del politico preso di mira. A questo punto le informazioni raccolte selezionate tra le più controproducenti per l'avversario da distruggere vengono trasformate in messaggi ai media e in informazioni lasciate trapelare ai giornalisti. Questo è il lavoro del "killer politico" e bisognerà dire che, anche se nello stesso ramo dell'assassinio politico, l'impegno del direttore del giornale di Berlusconi è più comodo. Non ha bisogno di fare molte ricerche. Se gli occorrono documenti qualche signore, per ingraziarsi il Capo, glieli procura. In alcuni casi, è lo stesso Capo che si dà da fare (è accaduto con i nastri delle intercettazioni di Fassino, consegnati ad Arcore e da lui smistati al giornale di famiglia; è accaduto con il video di Marrazzo).
L'informazione è, in questo caso, politica senza alcuna mediazione e potere senza alcuna autonomia perché l'una e le altre sono nelle mani del Capo. Quindi, se non ci sono in giro carte autentiche, si possono sempre fabbricare come nel "caso Boffo". Se non si vuole correre questo rischio, si può sempre ripubblicare quel che è stato già pubblicato, metterci su un bel titolo disonorevole e ripeterlo per due settimane. Colpisci duro, qualcosa si romperà. Per sempre. Questa è la regola. Chi colpire? No problem. Sa da solo chi sono i "nemici" del suo Capo. Quel Fini, ad esempio. Subito lo definisce "il Signor Dissidente". È il dissenso che è stato chiamato a punire. Lo sa riconoscere nella sua fase aurorale. Scrive: "Il Signor Dissidente non è stato zitto. Anzi, ha parlato troppo (...) ha ribadito le critiche al governo e al suo capo, la sua contrarietà alla politica sull'immigrazione, alle posizioni della Lega in proposito, alle leggi sulle questioni etiche". Il Signor Dissidente parla? Deve essere punito. Come? Il direttore annuncia: "È sufficiente - per dire - ripescare un fascicolo del 2000 su faccende a luci rosse riguardanti personaggi di Alleanza nazionale per montare uno scandalo. Meglio non svegliare il can che dorme". (Il Giornale,14 settembre 2009).
Il "giornalismo" di Vittorio Feltri è questo: minaccia, violenza, abuso di potere. Non importa sapere qui se è anche un reato. Dopo il character assassination in serie di questi dodici mesi, ne sappiamo abbastanza per giudicare. Ora non è rilevante conoscere se a questo "assassino politico", dunque a un professionista di una "macchina politica" e non informativa, si deve riconoscere lo status di giornalista. Non glielo si può riconoscere. È un political hitman. È un altro mestiere. Non è un giornalista. Non è lui il problema. Il problema è il suo Capo. Come non è in discussione la libertà di informare o la libertà di fare un giornalismo d'inchiesta. Quel che si discute è la minaccia che precede il lavoro d'inchiesta; è un giornalismo, un finto giornalismo agitato, come nel caso di Emma Marcegaglia, quasi fosse un manganello per fare piegare il capo al malcapitato. Quel che è importante adesso sapere è quanti sono nella vita pubblica italiana coloro che, ricattati dal Capo con questi metodi, tacciono? O spaventati da questi metodi tacceranno? Con quale rassegnazione si potrà accettare un congegno che consegna al capo del governo la reputazione di chiunque, come una sovranità sulle nostre parole, pensieri, decisioni?
Veleni e disinformazione diventano verità. Dal caso del giudice Vaudano, a Igor Marini e Telekom Serbia. Dagli avvertimenti a Marrazzo a Boffo, Fini e Marcegaglia. Il sistema usato è quello della "opposition research", lo stesso confessato dall'americano Stephen Marks in un libro dal titolo "Confessioni di un killer politico"
Ci si può anche svagare e chiamare il direttore del giornale di Silvio Berlusconi Brighella. Brighella, come la maschera della commedia dell'arte che nasce nella Bergamo alta: un attaccabrighe, un briccone sempre disponibile "a dirigere gli imbrogli compiuti in scena, se il padrone lo ricompensa bene". Un bugiardo che di se stesso può scrivere senza arrossire: "Sono insofferente a qualsiasi ordine di scuderia, disciplina, inquadramento ideologico. Mi manca la stoffa del cortigiano". La canzonatura finirebbe per nascondere un meccanismo, un paradigma che trova nell'uomo che dirige il giornale del Capo soltanto un protagonista di secondo ordine e nel lavoro sporco, che accetta di fare, solo uno dei segmenti di un dispositivo di potere. Tuttavia. Da qui è necessario muovere. Dal mestiere del direttore del giornale di Berlusconi in quanto la barbarie italiana, che trasforma in politica la compravendita del voto e quindi la corruzione di deputati e senatori, definisce informazione - e non violenza o abuso di potere - la torsione della volontà, la sopraffazione morale di chi dissente dal Capo attraverso un'aggressione spietata, distruttiva, brutale che macina come verità fattoidi, mezzi fatti, fatti storti, dicerie poliziesche, irrilevanti circostanze, falsi indiscutibili. Un'atrocità che pretende di restare impunita o quanto meno tollerata perché, appunto, giornalismo. Ma, quella roba lì, la si può dire informazione? È un giornalista, il direttore del giornale di Silvio Berlusconi? Il suo mestiere è il giornalismo?
Vediamolo al lavoro nel "caso Boffo", quindi nel momento inaugurale in cui egli mette a punto quel che, con prepotente mafiosità, gli uomini vicini al capo del governo definiscono ora "il metodo Boffo".
Sappiamo come sono andate le cose. Dino Boffo critica, con molta prudenza, lo stile di vita di Berlusconi e si ritrova nella lista dei cattivi. Dirige un giornale cattolico e non può permettersi di censurare il capo del governo. Deve avere una lezione che dovrà distruggerlo senza torcergli un capello. Il colpo di pistola che liquida il direttore dell'Avvenire è la prima pagina del giornale di Berlusconi. Sarà presentato così: "Dino Boffo, alla guida del giornale dei vescovi e impegnato nell'accesa campagna di stampa contro i peccati del premier, intimidiva la moglie dell'uomo con il quale aveva una relazione". Le prove dell'omosessualità di Boffo? Non ci sono. L'unico riscontro proposto - un foglietto presentato come "la nota informativa che accompagna e spiega il rinvio a giudizio del grande moralizzatore" - è uno strepitoso falso. In un Paese non barbarico il giornalista autore di quello "sconclusionato e sgrammaticato distillato di falsità e puro veleno costruito a tavolino per diffamare", come scrive Boffo, avrebbe avuto qualche rogna. Forse avrebbe visto irrimediabilmente distrutta la sua reputazione perché, caduto l'Impero sovietico, la calunnia consapevole non può essere definita giornalismo. Non accade nulla. Anche i petulanti "liberali" - intimoriti o complici - tacciono, ieri come oggi. Si rifiutano di prendere atto che in quel momento - agosto 2009 - si inaugura la metamorfosi di un minaccioso dispositivo politico che già si era esercitato - con un altro circuito, con altri uomini - tra il 2001 e il 2006.
Nella XIV legislatura, durante il II e il III governo Berlusconi s'era già visto all'opera un network di potere occulto e trasversale concentrato nel lavoro di disinformazione e specializzato in operazioni di discredito. Un "apparato" legale/clandestino scandaloso, ma del tutto "visibile". Era il frutto della connessione abusiva dello spionaggio militare (il Sismi di Nicolò Pollari) con diverse branche dell'investigazione, soprattutto l'intelligence business della Guardia di Finanza; con agenzie di investigazione che lavorano in outsourcing; con la Security privata di grandi aziende come Telecom, dove è esistita una "control room" e una "struttura S2OC" "capace di fare qualsiasi cosa, anche intercettazioni vocali: poteva entrare in tutti i sistemi, gestirli, eventualmente dirottare le conversazioni su utenze in uso, con la possibilità di cancellarne la traccia senza essere specificatamente autorizzato". Ricordiamo quel che accadde (ormai agli atti e documentato). Dopo la vittoria elettorale di Silvio Berlusconi, questa piattaforma spionistica pianifica operazioni - "anche cruente" - contro i presunti "nemici" del neopresidente del Consiglio. Ne viene stilato un elenco. Si raccolgono dossier. Quando è necessario si distribuiscono nelle redazioni amiche, controllate o influenzate dal potere del Capo e trasformate in officine dei veleni. Per dire, il giudice Mario Vaudano è un "nemico". Pochi lo conoscono, ma ha avuto un ruolo fondamentale nell'inchiesta Mani Pulite. Era in quegli anni al ministero di Giustizia e si occupava delle rogatorie estere richieste dal pool di Milano. Se ne occupava con grandi capacità e la sua efficienza lo trasforma in una "bestia nera" da annientare. Tanto più che il giudice - incauto - vince un concorso per l'Ufficio europeo per la lotta antifrode (OLAF: protegge gli interessi finanziari dell'Unione europea, contrastando la frode, la corruzione, ogni altra forma di attività illegale). La nomina di Mauro Vaudano "viene bloccata personalmente da Berlusconi" (Corriere della sera, 11 aprile 2002) mentre si mette in moto il dispositivo. Un ufficio riservato del Sismi spia il bersaglio (anche la moglie francese del giudice, Anne Crenier, giudice anche lei, scoprirà e denuncerà di essere stata spiata dal Sismi con intrusioni nella sua posta elettronica). Il fango raccolto sarà depositato nella redazione del giornale di Berlusconi. Campagna stampa. Intervento del ministro di giustizia che alla fine avvierà contro il povero giudice un'inchiesta disciplinare.
Qui non importa capire se queste mosse sono configurabili come reato. È necessario comprenderne il movimento, isolare i protagonisti, afferrare i modi e l'azione di un potere micidiale - politico, economico, mediatico - capace di stritolare chiunque. È un potere che si dispiega in quegli anni, come oggi, contro l'opposizione politica, contro uomini e istituzioni dello Stato rispettose del proprio ufficio pubblico e non piegate al comando politico, contro il giornalismo non conforme. Una commissione d'inchiesta parlamentare - Telekom Serbia - diventa fabbrica di miasmi. Con lo stesso canone. Si scova un figuro disposto a non andare troppo per il sottile. Si chiama Igor Marini. Lo presentano come consulenze finanziario, come conte, è un facchino dell'ortomercato di Brescia. Lo si consegna ai commissari e quindi alla stampa amica. Quello diventa un fiume in piena. Rivelazioni clamorose accusano l'intero vertice dell'opposizione (Prodi, Fassino, Dini, Veltroni, Rutelli, Mastella). Il giornale del Capo dedicherà trentadue (32) prime pagine alle frottole di quel tipo oggi in galera per calunnia. Alla vigilia delle elezioni 2006 la consueta macchina denigratoria si muove ancora contro Romano Prodi, leader dell'opposizione. L'ufficio riservato del Sismi prepara un falso documento. Lo si accusa di aver sottoscritto accordi tra Unione europea e Stati Uniti che legittimano i sequestri illegali della Cia come il rapimento in Italia di Abu Omar. Il dossier farlocco sarà pubblicato su Libero, direttore Vittorio Feltri, dal suo vice Renato Farina, ingaggiato e pagato dal Sismi, reo confesso ("... ammetto i rapporti intrattenuti con uomini del Sismi in qualità di informatore, ammetto di avere accettato rimborsi dal Sismi, ammetto di aver intervistato i Pm Spataro e Pomarici per carpire informazioni da trasmettere al Sismi..."), condannato a sei mesi di reclusione per favoreggiamento, radiato dall'Ordine dei giornalisti, oggi parlamentare del Popolo della libertà.
In questi casi scorgiamo un antagonista che irrita o inquieta il Capo, l'attività storta di un istituzione, il ruolo decisivo dell'informazione controllata dal Capo. Quel che accade a Vaudano e Prodi sono soltanto due campioni di un catalogo che, nella XV legislatura - questa - ha trovato altri protagonisti e un nuovo schema di lavoro a partire da una solida convinzione: la politica è del tutto mediatizzata, ogni azione politica si svolge all'interno dello spazio mediale e dipende in larga misura dalla voce dei media. È sufficiente allora fabbricare e diffondere messaggi che distorcono i fatti e inducono alla disinformazione, fare dello scandalo la più autentica lotta per il potere simbolico, giocare in quel perimetro la reputazione dei competitori, degli antagonisti, dei critici, soffocare la fiducia che riscuotono, e il gioco è fatto. Rien ne va plus. È un congegno che impone al giornalismo di essere più rigoroso, più lucido, più consapevole.
Altra storia se si parla del Brighella che dirige il giornale del capo del governo. Bisogna coglierne il ruolo, nel congegno, e definirne il lavoro. Vediamo il suo modus operandi. Individua il nemico del Capo da colpire, magari se lo lascia suggerire anche se non gli "manca la stoffa del cortigiano". Raccoglie tutte le informazioni lesive che si possono reperire, fabbricare e distorcere intorno a un fatto isolato dal suo contesto. È una pratica che ha un nome. Non è una pratica giornalistica. È, negli Stati Uniti, la componente chiave di ogni campagna politica. Si chiama opposition research. Per farla bisogna "scavare nel fango", come racconta uno dei maestri di questo triste mestiere, Stephen Marks. Colpito da una certa stanchezza morale e personale, Marks ha rivelato le sue tattiche e quelle della sua professione in un libro intitolato "Confessioni di un Killer Politico", Confessions of Political Hitman. È abbastanza semplice il lavoro, in fondo. I consulenti politici del Candidato indicano chi sono gli uomini più pericolosi per il suo successo. I sondaggisti individuano quali sono le notizie che possono maggiormente danneggiare il politico diventato target. Ha inizio la ricerca. Documenti d'archivio, dichiarazioni alla stampa, episodi biografici, investimenti finanziari, interessi finanziari, dichiarazioni di redditi, proprietà e donazioni elettorali. Insomma, una ricostruzione della vita privata e pubblica del politico preso di mira. A questo punto le informazioni raccolte selezionate tra le più controproducenti per l'avversario da distruggere vengono trasformate in messaggi ai media e in informazioni lasciate trapelare ai giornalisti. Questo è il lavoro del "killer politico" e bisognerà dire che, anche se nello stesso ramo dell'assassinio politico, l'impegno del direttore del giornale di Berlusconi è più comodo. Non ha bisogno di fare molte ricerche. Se gli occorrono documenti qualche signore, per ingraziarsi il Capo, glieli procura. In alcuni casi, è lo stesso Capo che si dà da fare (è accaduto con i nastri delle intercettazioni di Fassino, consegnati ad Arcore e da lui smistati al giornale di famiglia; è accaduto con il video di Marrazzo).
L'informazione è, in questo caso, politica senza alcuna mediazione e potere senza alcuna autonomia perché l'una e le altre sono nelle mani del Capo. Quindi, se non ci sono in giro carte autentiche, si possono sempre fabbricare come nel "caso Boffo". Se non si vuole correre questo rischio, si può sempre ripubblicare quel che è stato già pubblicato, metterci su un bel titolo disonorevole e ripeterlo per due settimane. Colpisci duro, qualcosa si romperà. Per sempre. Questa è la regola. Chi colpire? No problem. Sa da solo chi sono i "nemici" del suo Capo. Quel Fini, ad esempio. Subito lo definisce "il Signor Dissidente". È il dissenso che è stato chiamato a punire. Lo sa riconoscere nella sua fase aurorale. Scrive: "Il Signor Dissidente non è stato zitto. Anzi, ha parlato troppo (...) ha ribadito le critiche al governo e al suo capo, la sua contrarietà alla politica sull'immigrazione, alle posizioni della Lega in proposito, alle leggi sulle questioni etiche". Il Signor Dissidente parla? Deve essere punito. Come? Il direttore annuncia: "È sufficiente - per dire - ripescare un fascicolo del 2000 su faccende a luci rosse riguardanti personaggi di Alleanza nazionale per montare uno scandalo. Meglio non svegliare il can che dorme". (Il Giornale,14 settembre 2009).
Il "giornalismo" di Vittorio Feltri è questo: minaccia, violenza, abuso di potere. Non importa sapere qui se è anche un reato. Dopo il character assassination in serie di questi dodici mesi, ne sappiamo abbastanza per giudicare. Ora non è rilevante conoscere se a questo "assassino politico", dunque a un professionista di una "macchina politica" e non informativa, si deve riconoscere lo status di giornalista. Non glielo si può riconoscere. È un political hitman. È un altro mestiere. Non è un giornalista. Non è lui il problema. Il problema è il suo Capo. Come non è in discussione la libertà di informare o la libertà di fare un giornalismo d'inchiesta. Quel che si discute è la minaccia che precede il lavoro d'inchiesta; è un giornalismo, un finto giornalismo agitato, come nel caso di Emma Marcegaglia, quasi fosse un manganello per fare piegare il capo al malcapitato. Quel che è importante adesso sapere è quanti sono nella vita pubblica italiana coloro che, ricattati dal Capo con questi metodi, tacciono? O spaventati da questi metodi tacceranno? Con quale rassegnazione si potrà accettare un congegno che consegna al capo del governo la reputazione di chiunque, come una sovranità sulle nostre parole, pensieri, decisioni?
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Il giornalismo davanti a un incrocio
di Barbara Spinelli
Se apocalisse significa letteralmente ritiro del velo che copre le cose, quella che viviamo in Italia è l’apocalisse del giornalismo: è giornalismo denudato, svelato. È giornalismo che si trova davanti a un incrocio: se si fa forte, rinasce e ritrova lettori; se si compiace del proprio ruolo di golem della politica, perde i lettori per il semplice motivo che non ha mai pensato a loro. Diciamo subito che il male oltrepassa la piccola storia del Giornale di Sallusti e Feltri, nonostante la piccola storia sia tutt’altro che irrilevante: se la redazione è stata perquisita come fosse un covo di banditi, è perché da tempo il quotidiano si conduce in modo tale da suscitare sospetti, apprensione.
I suoi vertici orchestrano campagne di distruzione che colpiscono uno dopo l’altro chiunque osi criticare i proprietari della testata (la famiglia Berlusconi, il cui capo è premier): prima vennero le calunnie contro Veronica Lario, poi contro Dino Boffo direttore dell’Avvenire, poi per mesi contro Fini, adesso contro il presidente della Confindustria Emma Marcegaglia. Il male oltrepassa questa catena di operazioni belliche perché tutti i giornali scritti sono oggi al bivio.
La crisi è mondiale, i lettori si disaffezionano e invecchiano, i giovani cercano notizie su altre fonti: blog, giornali online. Philip Meyer, professore di giornalismo all’Università della Carolina del Nord, sostiene che l’ultimo quotidiano cartaceo uscirà nel 2040.
Viviamo dunque gli ultimi giorni della stampa scritta e vale la pena meditarli in un Paese, l’Italia, che li vive così male. Per questo le aggressioni a Fini e alla Marcegaglia sono decisive, vanno studiate come casi esemplari. Si dirà che è storia antica, che da sempre il giornalismo sfiora il sensazionalismo. Alla fine dell’800, chi scriveva senza verificare le fonti veniva chiamato yellow journalist, e i primi giornalisti-liquidatori innamorati del proprio potere politico furono Joseph Pulitzer e William Hearst (Citizen Kane nel film di Orson Welles).
Perché giornalismo giallo? Perché un vignettista di Pulitzer aveva dato questo nome - yellow kid - al protagonista dei propri fumetti. Ma quelli erano gli inizi del grande giornalismo, fatto anche di preziose inchieste. Perfino il compassato Economist apprezzava la cosiddetta furia mediatica. Negli Anni 50, il direttore Geoffrey Crowther prescrisse ai redattori il motto seguente: «Semplifica, e poi esagera» (simplify, then exaggerate).
Ora tuttavia non siamo agli inizi ma alla fine di una grande avventura. Per ogni giornale stampato è apocalisse, e a ogni giornalista tocca esaminarsi allo specchio e interrogarsi sulla professione che ha scelto, sul perché intende continuare, su quel che vuol difendere e in primis: su chi sono gli interlocutori che cerca, cui sarà fedele. Nel declino gli animi tendono a agitarsi ancora più scompostamente, e questo spiega lo squasso morale di tante testate (e tante teste) legate al magnate dei media che è Berlusconi. Se quest’ultimo volesse davvero governare normalmente, come pretende, dovrebbe interiorizzare le norme che intelaiano la democrazia e non solo rinunciare agli scudi che lo immunizzano dai processi ma ai tanti, troppi mezzi di comunicazione che possiede. Lo dovrebbe per rispetto della carica che ricopre. Aiuterebbe l’informazione a rinascere, a uscire meglio dalla crisi che comunque traversa.
Chi scrive queste righe, si è sforzato di avere come sola bussola i lettori: non sempre con successo, ma sempre tentando una risposta alle loro domande. Ritengo che il lettore influenzi il giornalista più di quanto il giornalista influenzi il pubblico: in ogni conversazione, l’ascoltatore ha una funzione non meno maieutica di chi parla. Per un professionista che ami investigare sulla verità dei fatti, questo legame con chi lo legge prevale su ogni altro legame, con politici o colleghi. Una tavola rotonda fra giornalisti, senza lettori, ha qualcosa di osceno.
Tanto più sono colpita dalla condotta di esponenti del nostro mestiere che sembrano appartenere alle bande mafiose dei romanzi di Chandler. Nella loro distruttività usano la parola, i dossier o le foto alla stregua di pistole. Minacciano, prima ancora di mettersi davanti al computer.
Soprattutto, gridano alla libertà di stampa assediata, quando il velo cade e li svela. Hanno ragione quando difendono il diritto alle inchieste più trasgressive, e sempre può capitare l’errore: chi non sbaglia mai non è un reporter. Quel che non si può fare, è telefonare alla persona su cui s’indaga e intimidirla, promettendo di non agire in cambio di qualcosa. In tal caso non è inchiesta ma ricatto, seguito semmai da vendetta. È qui che entriamo nel romanzo criminale, nella logica non dell’articolo ma del pizzino. Il giornalista Lonnie Morgan dice a Marlowe, nel Lungo Addio: «Per come la penso io, bloccare le indagini su un omicidio con una telefonata e bloccarle stendendo il testimone è solo questione di metodo. La civiltà storce il naso in entrambi i casi».
Conviene ascoltare e riascoltare le parole pronunciate dai vertici del Giornale, perché inaudita è la violenza che emanano. Sentiamo quel che il vicedirettore Porro dice al telefono, pochi minuti dopo aver spedito un minatorio sms, a Rinaldo Arpisella, portavoce della Marcegaglia: «Ora ci divertiamo, per venti giorni romperemo il c... alla Marcegaglia come pochi al mondo. Abbiamo spostato i segugi da Montecarlo a Mantova». Perché? «Perché non sembra berlusconiana,... e non ci ha mai filati». Porro s’è presentato tempo fa in tv come «volto umano» del quotidiano (la «belva umana» è secondo lui Sallusti). Il presidente della Confindustria, come Boffo o Fini, ha criticato il premier: questo peccato mortale, non altri ritenuti veniali, indigna i giornalisti-vendicatori.
Il turpiloquio non è perseguibile: alla cornetta si dicono tante cose. Quel che è scandaloso viene dopo la telefonata. Spaventata dai malavitosi avvertimenti, la Marcegaglia telefona a Confalonieri, presidente di Mediaset e consigliere d’amministrazione del Giornale. Confalonieri telefona a Feltri, direttore editoriale. Si ottiene un accordo. Si parlerà della Marcegaglia, ma con cura: pubblicando magari articoli, fin qui ignorati, di altri giornali. È così che il giornalista si tramuta in smistatore di pizzini, e demolitore della propria professione.
Quello del giornalista è un bel mestiere con brutte abitudini, e tale doppiezza gli sta accanto sempre. È qui che l’occhio del lettore aiuta a star diritti, a non farsi usare: è il lettore il suo sovrano, anche se la maggior parte dei giornali dipende purtroppo, in Italia, da industriali e non da editori. Berlusconi ha reso più che mai evidente un vizio ben antico. Così come lui carezza la sovranità del popolo senza rispettarlo, così rischiamo di fare noi con i lettori. Rispettarli è l’unica via per lottare contro la nostra fine, e le opportunità non mancano: è il resoconto veritiero, è smascherare le falsità. È servire la persona che ancora acquista giornali. Ci vuole qualcuno che trattenga l’apocalisse, cioè l’avvento dell’anomia, dell’illegalità generalizzata: un katéchon, come nella seconda lettera di Paolo ai Tessalonicesi (2,6-7).
Il giornalista che aspira a «trattenere» lo squasso è in costante stato di Lungo Addio, come il private eye di Chandler. Il suo è un addio alle manipolazioni, alle congetture infondate, alla politica da cui è usato, ai tempi del Palazzo, a tutto ciò che lo allontana da tanti lettori che perdono interesse nei giornali scritti, troppo costosi per esser liberi. Chi vive nella coscienza d’un commiato sempre incombente sa che c’è un solo modo di congedarsi dalle male educazioni del mestiere: solo se il Lungo Addio, come per Philip Marlowe, ignora le bombe a orologeria ed è «triste, solitario e finale».
Se apocalisse significa letteralmente ritiro del velo che copre le cose, quella che viviamo in Italia è l’apocalisse del giornalismo: è giornalismo denudato, svelato. È giornalismo che si trova davanti a un incrocio: se si fa forte, rinasce e ritrova lettori; se si compiace del proprio ruolo di golem della politica, perde i lettori per il semplice motivo che non ha mai pensato a loro. Diciamo subito che il male oltrepassa la piccola storia del Giornale di Sallusti e Feltri, nonostante la piccola storia sia tutt’altro che irrilevante: se la redazione è stata perquisita come fosse un covo di banditi, è perché da tempo il quotidiano si conduce in modo tale da suscitare sospetti, apprensione.
I suoi vertici orchestrano campagne di distruzione che colpiscono uno dopo l’altro chiunque osi criticare i proprietari della testata (la famiglia Berlusconi, il cui capo è premier): prima vennero le calunnie contro Veronica Lario, poi contro Dino Boffo direttore dell’Avvenire, poi per mesi contro Fini, adesso contro il presidente della Confindustria Emma Marcegaglia. Il male oltrepassa questa catena di operazioni belliche perché tutti i giornali scritti sono oggi al bivio.
La crisi è mondiale, i lettori si disaffezionano e invecchiano, i giovani cercano notizie su altre fonti: blog, giornali online. Philip Meyer, professore di giornalismo all’Università della Carolina del Nord, sostiene che l’ultimo quotidiano cartaceo uscirà nel 2040.
Viviamo dunque gli ultimi giorni della stampa scritta e vale la pena meditarli in un Paese, l’Italia, che li vive così male. Per questo le aggressioni a Fini e alla Marcegaglia sono decisive, vanno studiate come casi esemplari. Si dirà che è storia antica, che da sempre il giornalismo sfiora il sensazionalismo. Alla fine dell’800, chi scriveva senza verificare le fonti veniva chiamato yellow journalist, e i primi giornalisti-liquidatori innamorati del proprio potere politico furono Joseph Pulitzer e William Hearst (Citizen Kane nel film di Orson Welles).
Perché giornalismo giallo? Perché un vignettista di Pulitzer aveva dato questo nome - yellow kid - al protagonista dei propri fumetti. Ma quelli erano gli inizi del grande giornalismo, fatto anche di preziose inchieste. Perfino il compassato Economist apprezzava la cosiddetta furia mediatica. Negli Anni 50, il direttore Geoffrey Crowther prescrisse ai redattori il motto seguente: «Semplifica, e poi esagera» (simplify, then exaggerate).
Ora tuttavia non siamo agli inizi ma alla fine di una grande avventura. Per ogni giornale stampato è apocalisse, e a ogni giornalista tocca esaminarsi allo specchio e interrogarsi sulla professione che ha scelto, sul perché intende continuare, su quel che vuol difendere e in primis: su chi sono gli interlocutori che cerca, cui sarà fedele. Nel declino gli animi tendono a agitarsi ancora più scompostamente, e questo spiega lo squasso morale di tante testate (e tante teste) legate al magnate dei media che è Berlusconi. Se quest’ultimo volesse davvero governare normalmente, come pretende, dovrebbe interiorizzare le norme che intelaiano la democrazia e non solo rinunciare agli scudi che lo immunizzano dai processi ma ai tanti, troppi mezzi di comunicazione che possiede. Lo dovrebbe per rispetto della carica che ricopre. Aiuterebbe l’informazione a rinascere, a uscire meglio dalla crisi che comunque traversa.
Chi scrive queste righe, si è sforzato di avere come sola bussola i lettori: non sempre con successo, ma sempre tentando una risposta alle loro domande. Ritengo che il lettore influenzi il giornalista più di quanto il giornalista influenzi il pubblico: in ogni conversazione, l’ascoltatore ha una funzione non meno maieutica di chi parla. Per un professionista che ami investigare sulla verità dei fatti, questo legame con chi lo legge prevale su ogni altro legame, con politici o colleghi. Una tavola rotonda fra giornalisti, senza lettori, ha qualcosa di osceno.
Tanto più sono colpita dalla condotta di esponenti del nostro mestiere che sembrano appartenere alle bande mafiose dei romanzi di Chandler. Nella loro distruttività usano la parola, i dossier o le foto alla stregua di pistole. Minacciano, prima ancora di mettersi davanti al computer.
Soprattutto, gridano alla libertà di stampa assediata, quando il velo cade e li svela. Hanno ragione quando difendono il diritto alle inchieste più trasgressive, e sempre può capitare l’errore: chi non sbaglia mai non è un reporter. Quel che non si può fare, è telefonare alla persona su cui s’indaga e intimidirla, promettendo di non agire in cambio di qualcosa. In tal caso non è inchiesta ma ricatto, seguito semmai da vendetta. È qui che entriamo nel romanzo criminale, nella logica non dell’articolo ma del pizzino. Il giornalista Lonnie Morgan dice a Marlowe, nel Lungo Addio: «Per come la penso io, bloccare le indagini su un omicidio con una telefonata e bloccarle stendendo il testimone è solo questione di metodo. La civiltà storce il naso in entrambi i casi».
Conviene ascoltare e riascoltare le parole pronunciate dai vertici del Giornale, perché inaudita è la violenza che emanano. Sentiamo quel che il vicedirettore Porro dice al telefono, pochi minuti dopo aver spedito un minatorio sms, a Rinaldo Arpisella, portavoce della Marcegaglia: «Ora ci divertiamo, per venti giorni romperemo il c... alla Marcegaglia come pochi al mondo. Abbiamo spostato i segugi da Montecarlo a Mantova». Perché? «Perché non sembra berlusconiana,... e non ci ha mai filati». Porro s’è presentato tempo fa in tv come «volto umano» del quotidiano (la «belva umana» è secondo lui Sallusti). Il presidente della Confindustria, come Boffo o Fini, ha criticato il premier: questo peccato mortale, non altri ritenuti veniali, indigna i giornalisti-vendicatori.
Il turpiloquio non è perseguibile: alla cornetta si dicono tante cose. Quel che è scandaloso viene dopo la telefonata. Spaventata dai malavitosi avvertimenti, la Marcegaglia telefona a Confalonieri, presidente di Mediaset e consigliere d’amministrazione del Giornale. Confalonieri telefona a Feltri, direttore editoriale. Si ottiene un accordo. Si parlerà della Marcegaglia, ma con cura: pubblicando magari articoli, fin qui ignorati, di altri giornali. È così che il giornalista si tramuta in smistatore di pizzini, e demolitore della propria professione.
Quello del giornalista è un bel mestiere con brutte abitudini, e tale doppiezza gli sta accanto sempre. È qui che l’occhio del lettore aiuta a star diritti, a non farsi usare: è il lettore il suo sovrano, anche se la maggior parte dei giornali dipende purtroppo, in Italia, da industriali e non da editori. Berlusconi ha reso più che mai evidente un vizio ben antico. Così come lui carezza la sovranità del popolo senza rispettarlo, così rischiamo di fare noi con i lettori. Rispettarli è l’unica via per lottare contro la nostra fine, e le opportunità non mancano: è il resoconto veritiero, è smascherare le falsità. È servire la persona che ancora acquista giornali. Ci vuole qualcuno che trattenga l’apocalisse, cioè l’avvento dell’anomia, dell’illegalità generalizzata: un katéchon, come nella seconda lettera di Paolo ai Tessalonicesi (2,6-7).
Il giornalista che aspira a «trattenere» lo squasso è in costante stato di Lungo Addio, come il private eye di Chandler. Il suo è un addio alle manipolazioni, alle congetture infondate, alla politica da cui è usato, ai tempi del Palazzo, a tutto ciò che lo allontana da tanti lettori che perdono interesse nei giornali scritti, troppo costosi per esser liberi. Chi vive nella coscienza d’un commiato sempre incombente sa che c’è un solo modo di congedarsi dalle male educazioni del mestiere: solo se il Lungo Addio, come per Philip Marlowe, ignora le bombe a orologeria ed è «triste, solitario e finale».
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4.10.10
La forza degli sconfitti
Non molti mesi fa, quando Angela Merkel fu catturata da calcoli politici talmente piccoli e brevi da perdere di vista l’interesse del proprio stesso Paese al salvataggio europeo della Grecia, il filosofo Jürgen Habermas scrisse un articolo importante sulla Zeit, il 20 maggio, in cui la mise in guardia da una paura comune a tanti europei: «Il timore delle armi di distruzione di massa che sono i tabloid popolari non vi fa vedere le armi di distruzione di massa dei mercati finanziari».
È una paura introversa, nazionalista, che rischia soprattutto di vanificare quello che per mezzo secolo è stato in Germania il principale punto di forza, appreso secondo il filosofo grazie all’Olocausto: un’attitudine popolare diffusa a mutare mentalità, ad assumersene le «fatiche infinite», a riconoscere che esistono necessità che generano nuove libertà. La Repubblica Federale nacque con queste qualità. Edificò con Parigi l’Europa, forte delle istituzioni federali che perfezionò in patria e che facilitarono un pensiero post-nazionale.
Si accinse all’immane impresa dell’unificazione, di cui oggi celebra il decimo anniversario, e che ebbe costi altissimi: in 10 anni, più di 1.500 miliardi di euro. Come scrive Bernd Ulrich sulla Zeit del 30 settembre, l’unificazione smosse anche le sicumere della vecchia Repubblica di Bonn, immettendo in essa «16 milioni di punti interrogativi».
Questo adattamento tedesco alla sovranità ridotta (a una «costellazione postnazionale», dice Habermas) ha vissuto ripetute stasi, ma ora sta rivenendo in superficie, potente. Spinto dagli eventi, e dalla consapevolezza che Berlino con le sole proprie virtù non si salva né in Europa né nel mondo, il governo tedesco ha scelto ancora una volta l’Europa: non solo ha consentito al salvataggio della Grecia, ma con tenacia vuole adesso che l’Unione si dia nuove regole per affrontare crisi future. Come scrive Beda Romano, sono le stesse antiche virtù - costanza, tenacia, pazienza - che oggi spiegano l’inattesa ripresa dell’economia tedesca, il realismo ineguagliato dei sindacati, infine la scelta di «impegnarsi in prima fila per il futuro dell’Europa» chiedendo norme più severe e federali per frenare i deficit pubblici (Il Sole - 24 Ore, 1-10-10).
Di qui l’appoggio tedesco alla riforma, proposta il 29 settembre dall’esecutivo europeo, del Patto di stabilità: una riforma che toglie agli Stati il potere di bloccare le sanzioni con una maggioranza di due terzi, creando una disciplina automatica gestita dall’Unione, trasformata di fatto in governo economico. Ancora una volta dunque la Germania è pronta a mutare, e a dare un’impronta europea alla propria leadership economica: purché tuttavia gli alleati colgano l’occasione, scorgendo in essa un’occasione non tedesca ma di tutti.
La storia dimostra che tale condizione è essenziale, perché la paziente costanza tedesca non è affatto continuativa. La preferenza per una costellazione postnazionale si è attenuata quando il Paese, riunificandosi, ha riacquisito parte della sovranità. La sua scommessa europea si è fatta più scettica, egoista: lo slancio di Adenauer e Brandt, di Schmidt e Kohl, si è appannato.
Ma è un appannamento non dovuto solo al computo di tornaconti nazionali male intesi: il computo di chi vede nell’Europa un «interesse esterno», estraneo a quello interno. La regressione tedesca si manifesta ogni qual volta gli alleati (Parigi in primis) si mostrano prigionieri della chimera della sovranità, e si convincono che il suo limite sia un’opzione anziché un fatto.
Quando Kohl trattò con Mitterrand l’unità tedesca offrì la rinuncia al marco in cambio di un’unione politica europea, e non l’ottenne. Non l’ottenne né da Parigi né dagli Stati dell’Est, appena usciti dall’incubo della sovranità limitata teorizzata da Brezhnev nel ’68. Seguirono anni in cui egemone dell’Unione divenne Blair. Oggi non è più così, ma gli animi rimangono riottosi: altre proposte di Berlino sono state respinte, durante la crisi greca, a cominciare dal Fondo monetario europeo e dalla revisione dei trattati.
Resta che la crisi ha messo fine allo stallo europeo, nonostante i cavalieri inesistenti delle sovranità nazionali e le loro armi distruttive. Gli stessi veleni delle dispute tedesche sulla Grecia (i tabloid che invitavano a non pagare per i peccaminosi; la certezza che l’autarchica disciplina fosse un bastevole scudo) hanno prodotto, omeopaticamente, quello di cui l’Europa ha più bisogno: una grande contesa sulla natura dell’Unione.
D’un tratto negli Stati, e specialmente in Germania, si è iniziato a parlare delle condotte degli alleati come di condotte di concittadini di un’unica pòlis. Nello stesso momento in cui si riconosceva che malato non era l’euro ma i singoli deficit pubblici, economie e bilanci cominciavano a esser dibattuti come affare interno europeo.
La necessità della globalizzazione apriva nuovi spazi di libertà, inventiva. Sulla Frankfurter Allgemeine, Klaus-Dieter Frankenberger scrisse, il 26 agosto: «La crisi dell’euro, che è in realtà crisi dei debiti pubblici, può infine riesumare quel che restò incompiuto o fallì alla nascita dell’euro: l’unione politica». Secondo il grande storico Heinrich August Winkler, il neo-nazionalismo tedesco può grazie a tale crisi esser superato: «Nel giro d’una notte, essa risvegliò negli europei la coscienza che nel frattempo era nata qualcosa come una politica interna europea». Quando l’età pensionabile, i salari degli statali, le linee sindacali, la disciplina di bilancio, il debito pubblico d’un singolo diventano oggetti di disputa in altri Stati dell’Unione, quel che si crea è, anche se all’inizio distorto, spazio pubblico europeo: «Al progetto Europa, la crisi offre l’occasione insperata: esso deve esser di nuovo legittimato; non può più essere un progetto di élite» (Frankfurter Allgemeine, 13-8-10).
La Germania ha un vantaggio rispetto a altri europei. Ha una storia maledetta: non mascherabile, falsificabile, come nella Francia postbellica di De Gaulle, nell’Italia delle amnesie, nella Grecia succube per decenni del potere militare Usa. La sconfitta le ha insegnato a vedere le sciagure delle sovranità nazionali totali. Anche la sconfitta dello Stato comunista l’ha aiutata, perché i tedeschi dell’Est sono entrati nell’Ovest tedesco iniettandovi una predisposizione ai mutamenti mentali, ai sacrifici dello status quo, che i connazionali ricchi stavano smarrendo.
Naturalmente, la tentazione di regredire esiste: nello stesso momento in cui apre all’Europa, ad esempio, Berlino torna a chiedere per se stessa (e non per l’Unione) un seggio permanente nel Consiglio di sicurezza dell’Onu. Lo stesso Joschka Fischer fu incostante, come ministro degli Esteri: nel famoso discorso all’Università Humboldt, il 12 maggio 2000 a Berlino, propose una Costituzione europea prima dell’allargamento. Poi fece marcia indietro, sulla scia dell’11 settembre, preferendo a istituzioni più forti un allargamento alla Turchia che desse all’Unione dimensioni geografiche più grandi. I criteri di Copenhagen, che impongono ai Paesi candidati non solo disciplina economica ma sovranità delegate e un riconoscimento della superiore autorità dell’Unione - ricorda Winkler - si persero per strada. È il motivo per cui l’allargamento ha funzionato male, e rischia di degenerare se il rafforzamento delle istituzioni non torna a esser prioritario.
Se a un certo punto scemano costanza e tenacia, è perché la crisi è una lama a doppio taglio: può produrre presa di coscienza ma anche nuove illusioni, e l’infausta passione dell’impazienza descritta da Hegel nella Fenomenologia dello Spirito: «L’impazienza esige l’impossibile, cioè il raggiungimento del fine ma senza i mezzi». Nell’Unione, l’impazienza ti fa credere che basta invocare l’Europa, senza darle i mezzi per esistere.
È una paura introversa, nazionalista, che rischia soprattutto di vanificare quello che per mezzo secolo è stato in Germania il principale punto di forza, appreso secondo il filosofo grazie all’Olocausto: un’attitudine popolare diffusa a mutare mentalità, ad assumersene le «fatiche infinite», a riconoscere che esistono necessità che generano nuove libertà. La Repubblica Federale nacque con queste qualità. Edificò con Parigi l’Europa, forte delle istituzioni federali che perfezionò in patria e che facilitarono un pensiero post-nazionale.
Si accinse all’immane impresa dell’unificazione, di cui oggi celebra il decimo anniversario, e che ebbe costi altissimi: in 10 anni, più di 1.500 miliardi di euro. Come scrive Bernd Ulrich sulla Zeit del 30 settembre, l’unificazione smosse anche le sicumere della vecchia Repubblica di Bonn, immettendo in essa «16 milioni di punti interrogativi».
Questo adattamento tedesco alla sovranità ridotta (a una «costellazione postnazionale», dice Habermas) ha vissuto ripetute stasi, ma ora sta rivenendo in superficie, potente. Spinto dagli eventi, e dalla consapevolezza che Berlino con le sole proprie virtù non si salva né in Europa né nel mondo, il governo tedesco ha scelto ancora una volta l’Europa: non solo ha consentito al salvataggio della Grecia, ma con tenacia vuole adesso che l’Unione si dia nuove regole per affrontare crisi future. Come scrive Beda Romano, sono le stesse antiche virtù - costanza, tenacia, pazienza - che oggi spiegano l’inattesa ripresa dell’economia tedesca, il realismo ineguagliato dei sindacati, infine la scelta di «impegnarsi in prima fila per il futuro dell’Europa» chiedendo norme più severe e federali per frenare i deficit pubblici (Il Sole - 24 Ore, 1-10-10).
Di qui l’appoggio tedesco alla riforma, proposta il 29 settembre dall’esecutivo europeo, del Patto di stabilità: una riforma che toglie agli Stati il potere di bloccare le sanzioni con una maggioranza di due terzi, creando una disciplina automatica gestita dall’Unione, trasformata di fatto in governo economico. Ancora una volta dunque la Germania è pronta a mutare, e a dare un’impronta europea alla propria leadership economica: purché tuttavia gli alleati colgano l’occasione, scorgendo in essa un’occasione non tedesca ma di tutti.
La storia dimostra che tale condizione è essenziale, perché la paziente costanza tedesca non è affatto continuativa. La preferenza per una costellazione postnazionale si è attenuata quando il Paese, riunificandosi, ha riacquisito parte della sovranità. La sua scommessa europea si è fatta più scettica, egoista: lo slancio di Adenauer e Brandt, di Schmidt e Kohl, si è appannato.
Ma è un appannamento non dovuto solo al computo di tornaconti nazionali male intesi: il computo di chi vede nell’Europa un «interesse esterno», estraneo a quello interno. La regressione tedesca si manifesta ogni qual volta gli alleati (Parigi in primis) si mostrano prigionieri della chimera della sovranità, e si convincono che il suo limite sia un’opzione anziché un fatto.
Quando Kohl trattò con Mitterrand l’unità tedesca offrì la rinuncia al marco in cambio di un’unione politica europea, e non l’ottenne. Non l’ottenne né da Parigi né dagli Stati dell’Est, appena usciti dall’incubo della sovranità limitata teorizzata da Brezhnev nel ’68. Seguirono anni in cui egemone dell’Unione divenne Blair. Oggi non è più così, ma gli animi rimangono riottosi: altre proposte di Berlino sono state respinte, durante la crisi greca, a cominciare dal Fondo monetario europeo e dalla revisione dei trattati.
Resta che la crisi ha messo fine allo stallo europeo, nonostante i cavalieri inesistenti delle sovranità nazionali e le loro armi distruttive. Gli stessi veleni delle dispute tedesche sulla Grecia (i tabloid che invitavano a non pagare per i peccaminosi; la certezza che l’autarchica disciplina fosse un bastevole scudo) hanno prodotto, omeopaticamente, quello di cui l’Europa ha più bisogno: una grande contesa sulla natura dell’Unione.
D’un tratto negli Stati, e specialmente in Germania, si è iniziato a parlare delle condotte degli alleati come di condotte di concittadini di un’unica pòlis. Nello stesso momento in cui si riconosceva che malato non era l’euro ma i singoli deficit pubblici, economie e bilanci cominciavano a esser dibattuti come affare interno europeo.
La necessità della globalizzazione apriva nuovi spazi di libertà, inventiva. Sulla Frankfurter Allgemeine, Klaus-Dieter Frankenberger scrisse, il 26 agosto: «La crisi dell’euro, che è in realtà crisi dei debiti pubblici, può infine riesumare quel che restò incompiuto o fallì alla nascita dell’euro: l’unione politica». Secondo il grande storico Heinrich August Winkler, il neo-nazionalismo tedesco può grazie a tale crisi esser superato: «Nel giro d’una notte, essa risvegliò negli europei la coscienza che nel frattempo era nata qualcosa come una politica interna europea». Quando l’età pensionabile, i salari degli statali, le linee sindacali, la disciplina di bilancio, il debito pubblico d’un singolo diventano oggetti di disputa in altri Stati dell’Unione, quel che si crea è, anche se all’inizio distorto, spazio pubblico europeo: «Al progetto Europa, la crisi offre l’occasione insperata: esso deve esser di nuovo legittimato; non può più essere un progetto di élite» (Frankfurter Allgemeine, 13-8-10).
La Germania ha un vantaggio rispetto a altri europei. Ha una storia maledetta: non mascherabile, falsificabile, come nella Francia postbellica di De Gaulle, nell’Italia delle amnesie, nella Grecia succube per decenni del potere militare Usa. La sconfitta le ha insegnato a vedere le sciagure delle sovranità nazionali totali. Anche la sconfitta dello Stato comunista l’ha aiutata, perché i tedeschi dell’Est sono entrati nell’Ovest tedesco iniettandovi una predisposizione ai mutamenti mentali, ai sacrifici dello status quo, che i connazionali ricchi stavano smarrendo.
Naturalmente, la tentazione di regredire esiste: nello stesso momento in cui apre all’Europa, ad esempio, Berlino torna a chiedere per se stessa (e non per l’Unione) un seggio permanente nel Consiglio di sicurezza dell’Onu. Lo stesso Joschka Fischer fu incostante, come ministro degli Esteri: nel famoso discorso all’Università Humboldt, il 12 maggio 2000 a Berlino, propose una Costituzione europea prima dell’allargamento. Poi fece marcia indietro, sulla scia dell’11 settembre, preferendo a istituzioni più forti un allargamento alla Turchia che desse all’Unione dimensioni geografiche più grandi. I criteri di Copenhagen, che impongono ai Paesi candidati non solo disciplina economica ma sovranità delegate e un riconoscimento della superiore autorità dell’Unione - ricorda Winkler - si persero per strada. È il motivo per cui l’allargamento ha funzionato male, e rischia di degenerare se il rafforzamento delle istituzioni non torna a esser prioritario.
Se a un certo punto scemano costanza e tenacia, è perché la crisi è una lama a doppio taglio: può produrre presa di coscienza ma anche nuove illusioni, e l’infausta passione dell’impazienza descritta da Hegel nella Fenomenologia dello Spirito: «L’impazienza esige l’impossibile, cioè il raggiungimento del fine ma senza i mezzi». Nell’Unione, l’impazienza ti fa credere che basta invocare l’Europa, senza darle i mezzi per esistere.
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