Barbara Spinelli (La Repubblica)
Hanno la memoria corta, coloro che guardando fuori dalla finestra, e vedendo i tempi come son brutti, concludono che non è sotto cieli sì rabbuiati che si può fare dell´Europa una grande potenza.Una grande potenza decisa a non farsi abbattere dalle raffiche dei mercati e da quel che le raffiche dicono: la crisi di un mondo, non del mondo; la nascita di un universo multipolare, non più egemonizzato da America e Occidente. L´idea dell´unificazione europea non nacque nei sogni di uomini che se ne stavano sdraiati su verdi prati, ma nella tormenta e nella guerra, quando le forze dei nazionalismi e delle dittature mietevano morte.
Lo sanno gli italiani, che da quelle guerre uscirono più saggi perché vinti. Lo sanno soprattutto i tedeschi, per i quali l´Europa fu redenzione democratica. Sembrano averlo dimenticato, ma se negli Anni ´30 la crisi li spezzò, anche spiritualmente, fu perché la Germania era stata trattata, dopo il 14-18, come uno Stato da vessare, da punire economicamente. I suoi creditori furono esosi e sterminatamente vacui, le riparazioni imposte al vinto divennero un cappio insostenibile. I disoccupati, alla fine del ´31, erano 6 milioni. Mancò nei vincitori la saggezza della solidarietà e fu catastrofe, per i tedeschi e per l´Europa.
I moderni euroscettici non sanno la storia che fanno e che ripetono, intontiti. Anche, quando commentano tristemente che mancano stavolta i grandi uomini, che il vento della crisi è troppo forte per prendere decisioni, che la decadenza essendo alle porte non resta che intirizzire e rimpicciolirsi, non sanno quel che dicono. È vero, mancano i grandi, la bufera travolge e sparpaglia gli uomini: che altro fare, se non pregare? È quel che fanno i politici: invece di agire, predicano. Viene in mente il Tifone di Joseph Conrad: «È questa la forza disgregatrice di un gran vento: isola l´uomo dai propri simili».
Quel breve romanzo di Conrad vale la pena rimeditarlo, perché in esso oggi ci rispecchiamo e perché nostra è la domanda che assilla il protagonista, il capitano MacWhirr. Il suo vice, Jukes, gli fa capire a un certo punto che l´immane tempesta forse la potrebbe schivare, deviando dalla rotta stabilita. Perché MacWhirr non segue questo consiglio in apparenza prudente, di buon senso? Perché si getta a capofitto nel tifone quando potrebbe aggirarlo? MacWhirr ha qualcosa di ottuso, cocciuto, non immaginativo, lo sguardo perso nel vuoto. Quel che dice a se stesso, provo a riassumerlo in un monologo immaginario: «Cosa dirò, quando arriverò al porto con due giorni di ritardo avendo allungato il percorso pur di scansare la tormenta? Non potrò giustificarmi evocandola, perché neppure l´avrò vista («Come sapere di cosa è fatta una tempesta prima che ti cada addosso?»). Di quale impedimento ciancerò, non avendolo neanche sfiorato? Dirò che ho letto tanti manuali, ma in quale manuale è contemplato il preciso tifone che mi s´accampa forse davanti? Non sono, tutte le «strategie della tempesta» enumerate dagli esperti, figlie – come dice Keynes – di qualche economista defunto? Il fatto è che dovevo arrivare al porto di Fu-Chau venerdì a mezzogiorno, col mio carico umano di coolies cinesi, e che per evitare un tifone che mi resta ignoto ho fatto tutto un giro di Peppe e non ho rispettato i patti. Questo mi rende inaffidabile, non atto al comando, ora e in futuro. La tua occasione è questa, ed è ora e qui».
Ecco, a me sembra che gli uomini eccelsi siano creature delle occasioni, colte nel momento in cui si presentano. Non appaiono prima che l´ora spunti e il vento li metta alla prova, minacciando di separare individui e nazioni. Si può contrastare infatti la sua forza disgregatrice, traversando da forti il tifone. In Europa, oggi, quel che salva è guardare in faccia la tempesta, farsi da essa educare alla grandezza, arrivare in porto all´ora giusta. Quel che ci perde è allungare il tragitto di 300 miglia, far deviare la nave di cinquanta gradi verso Est: un incubo, per il capitano della Nan-Shan.
Gli euroscettici somigliano al primo ufficiale Jukes, che suggerisce di allungare la via: gli stessi tremori e timori li indolenziscono. L´ora del grande vento non è la migliore – dicono – per azioni ardite. Non è questo il momento, in tanta turbolenza, di ripensare l´Europa, di immaginare quel che si perde scassandola, di escogitare i mezzi perché possa resistere solidalmente alla recessione, non isolando i popoli uno dall´altro. Salvare l´idea europea dello Stato sociale, ricominciare a crescere ma in maniera diversa, risparmiando energia e sintonizzandosi con i Paesi emergenti che crescono al posto nostro: tale la via. E dare agli europei un corpo politico più vasto: perché la taglia conta nella mondializzazione, se vuoi governarla e non affidarla solo ai mercati.
Gli eurobond di cui si parla in questi giorni (proposti da Tremonti e il presidente dell´Eurogruppo Jean-Claude Juncker, da Mario Monti, da Romano Prodi e Alberto Quadrio Curzio) sono frecce che l´Unione potrebbe mettere nella sua faretra. E certo son tanti i problemi, ma anche per l´Europa vale la domanda sorta in Italia di fronte agli sconquassi berlusconiani: se non ora, quando? È ora che va riaggregato quel che il vento disgrega. È ora che i politici sono chiamati a farsi modellare dal tifone e apprendere il comando. È ora che occorre avere fiducia nella società e nelle nuove generazioni, le più colpite dalla crisi perché a lungo trascurate dalle generazioni precedenti.
Che la Germania sia oggi la più paralizzata ha qualcosa di stupefacente e tragico. Proprio lei che ha sperimentato la rinascita dopo il disastro oggi si chiude, si assoggetta a defunti dottrinari del mercato. Pensa che ognuno debba far prima ordine in casa propria. È tentata dal destino della piccola Svizzera, sfiancata da una moneta troppo forte. Senza ben saperlo, è immersa in discorsi decadenti sull´Europa.
I discorsi sulla decadenza sono un´impostura, sempre: per l´Europa e ancor più per i giovani (con che faccia tosta dir loro che il mondo finisce?). I rinvii e le ignavie fanno comodo ai gruppi di interesse che corrodono le democrazie, ma il comodo è breve anche per loro. Le deviazioni non ci fanno tornare indietro agli Stati-nazione, come alcuni sperano o temono. Non ritorneremmo, se l´Euro si sfasciasse, allo Stato sovrano descritto da Nietzsche («il più freddo di tutti i mostri freddi») perché quel che accade è per buona parte del mondo un progresso, col quale entreremo in contatto solo se faremo blocco. Solo se gli Stati risaneranno le proprie economie, e al contempo faranno in modo che una nuova crescita parta dal continente Europa.
Gli eurobond potrebbero aiutare questa crescita collettiva, perché implicano l´istituzione di un Fondo finanziario europeo, che emetta titoli di due tipi: titoli per trasformare i debiti degli Stati in debito europeo, e titoli per finanziare nuovi piani infrastrutturali comuni. All´inizio l´idea fu considerata utopica. La proposero fin dal maggio 2008 tre economisti – Alfonso Iozzo, Stefano Micossi, Maria Teresa Salvemini – in un progetto per il Centro studi di politica europea a Bruxelles (Ceps). L´estendersi della crisi resuscita l´idea. Ma allo stesso modo in cui fu necessario creare nuove condizioni perché l´Euro nascesse – sostiene Alfonso Iozzo – oggi occorre un salto di qualità dell´Unione: «Nel caso della moneta unica, fu necessario rassicurare i tedeschi con il Trattato di Maastricht e il Patto di stabilità. Non diversa la sfida degli eurobond: per il passaggio dai debiti nazionali al debito federale europeo, saranno necessarie norme costituzionali dell´Unione che garantiscano la supremazia delle decisioni europee sulla possibilità di fare deficit a livello nazionale».
L´altro scenario c´è: è il giro di Peppe. Se aspettiamo il bel tempo saremo perduti, perché è quando fa brutto che l´uomo escogita l´ombrello, i tetti sopra le case, il fuoco per scaldarsi. Anche il Welfare fu concepito da Beveridge in piena guerra, nel ´42. I giovani, quando vedranno che i vecchi s´inventano tetti e ombrelli, non si ribelleranno.
Nessun commento:
Posta un commento