12.9.11

Dialogo sulla Scuola che insegna a vivere

Cesare Segre e Irene Gianotti (Corriere 12.09.2011)

«Cari studenti, anche se pare non più di moda, vi auguro un buon anno scolastico. Imparare è un piacere, ma anche una fatica che un giorno vi ripagherà dell’impegno…». «Caro professore, conosco l’importanza dello studio, ma in una scuola sempre più sganciata dalla realtà vivo con l’angoscia del futuro…». Sul senso della scuola che inizia, dialogo tra un prof e uno studente.

Cari studenti, tra i banchi imparate la ricchezza delle differenze
di CESARE SEGRE
Cari studenti,
anche se dirlo non pare più di moda, l’inizio dell’anno scolastico è sempre un evento importante nella vostra vita. Vi auguro che sia per voi molto felice. Voi entrate, o rientrate, in quella “società degli studi” che, secondo un progetto messo a punto nel corso dei secoli, dovrebbe fornirvi le conoscenze che vi saranno utili nella vita. Non parlo solo dell’utilità pratica, certo importante, ma anche di quella che consiste nel saper godere di tutti i piaceri che l’esercizio dell’intelligenza e della sensibilità può fornire. La vostra fortuna nel futuro può essere maggiore o minore; ma voi potrete sempre, se trarrete profitto dagli anni di scuola, ricorrere al tesoro costituito dall’acquisita capacità di comprendere i fatti e di saper riflettere sulla realtà. Poi, la “società degli studi” dovrebbe fornirvi non solo conoscenze, ma anche strumenti per l’interpretazione, persino la capacità di apprezzare la bellezza e la sensibilità per l’equilibrio del nostro ecosistema. Leggendo un libro — è vitale continuare a farlo — penserete con gratitudine a chi vi ha insegnato a leggere e capire; vedendo una pittura o un edificio, sarete in grado di apprezzarne le qualità. Avrete sempre maggiori curiosità per il mondo che vi circonda.
Imparare è un piacere, ma è anche una fatica. Pedagoghi troppo indulgenti hanno cercato di trasformare questa fatica in divertimento, o di alleggerirla. Ma c’è poco da fare. Perché le nuove conoscenze entrino nelle nostre teste, è necessario un impegno, dunque uno sforzo; solo poi, una volta assimilate queste conoscenze, sentiamo il sollievo, anzi la gioia di chi ha fatto una conquista. Se ci pensate bene, sforzo e sollievo sono analoghi a quelli di chi esercita uno sport: eliminarli sarebbe come offuscare la realtà dello sport. Notate poi che l’allenamento aumenta la capacità di allargare il nostro orizzonte, sinché apprendere diventa quasi un’abitudine.
Da oggi, voi farete parte di classi in cui incomincerete a esercitare l’arte della convivenza sociale: i rapporti con gli altri studenti, con i docenti, con le autorità scolastiche, sono un piccolo modello di Stato. Vi accorgerete che seguendo i principi della giustizia, e magari della carità, questi rapporti si rivelano scorrevoli; e l’impegno comune (insegnamento e apprendimento) li garantisce. Non incominciate nemmeno per leggerezza a praticare la prepotenza, peggio se in gruppo. La parola vigliaccheria, parente di vergogna, dovrebbe farvi detestare qualunque cedimento a questa tentazione, anche perché questi cedimenti vi priverebbero moralmente dei vostri diritti entro la comunità. Quanto poi alla furbizia, ricordatevi che è l’arma dei deboli, lasciatela perdere.
Soprattutto se siete in una scuola di Stato, constaterete differenze di opinione tra i docenti. È una grande ricchezza. Perché potrete riflettere su queste differenze, e farvi un’opinione personale. Da tutti si può imparare; nessuno va condannato per le sue idee. Tenete presente che lo spirito critico vi mette al sicuro dagli impostori grandi e piccoli, che ci insidiano tutti. E ricordatevi che anche i mass media, preziosa fonte di notizie e spettacoli e modi d’essere, vanno sempre, dico sempre, sottoposti a verifica, facile per chi è un po’ scaltrito. Utilizziamo tutti Internet; ma dobbiamo renderci conto che qualunque dato o notizia che fornisce è soggetto a errori o mistificazioni, e va controllato.
E non dobbiamo chiudere gli occhi. Sono in atto cambiamenti nell’organizzazione degli studi: non sappiamo ancora come funzioneranno, e occorre una certa duttilità, oltre che la capacità di segnalare con fermezza gli errori di programmazione. Per di più, i cambiamenti hanno luogo in un momento di crisi economica europea, e particolarmente italiana. Questo significa, non nascondiamocelo, gravissime riduzioni di spesa e di personale, in un ambito nel quale il nostro Paese è già molto arretrato. Qui non è possibile dare suggerimenti. Bisogna comunque farsi sentire a tutti i livelli degli organismi scolastici, insistendo soprattutto sul fatto che dalla nostra scuola verranno fuori i futuri cittadini e cittadine, che la vostra generazione costituirà il fulcro dell’Italia di domani. Anche in questo caso la lucidità e la forza delle idee potrà essere una buona base.

Cari prof, troppo distacco tra i manuali e il mondo fuori dall’aula
di IRENE GIANOTTI *
Cari professori,
sto per cominciare l’ultimo dei cinque anni di liceo. Conosco bene le raccomandazioni che vengono fatte ogni volta che si torna in classe: studia, a scuola si impara a vivere, la tua fatica sui libri sarà ripagata nella vita.
Ma oggi ho molti dubbi: in classe mi sembra di vivere fuori dal mondo reale. Penso a quelli della mia età, che fanno i conti con le cose fatte e le occasioni perdute. Quale futuro avremo?
Personalmente uscirò cambiata dalla lezione ricevuta dal confronto continuo, non sempre facile, con i compagni di classe, e con i diversi professori. Una abitudine a far gruppo che mi mancherà all’università, perché, a quello che ho sentito, almeno negli atenei italiani, l’impegno è soprattutto individuale. Né conterà più il sostegno dei genitori.
Voi che venite da un mondo fatto di maggiori sacrifici ci rimproverate di non essere disposti all’impegno. Vi assicuriamo che non è così. In cinque anni, nessuno ci ha regalato nulla: abbiamo studiato dalla matematica al greco antico, dalla storia alla filosofia, dalla biologia alla letteratura.
Cinque o sei ore in classe al mattino e almeno quattro ore per i compiti a casa. Tutti i giorni per nove mesi. Ma sono contenta perché consapevole che una preparazione come quella che dà il liceo statale italiano trova pochi riscontri nelle scuole di pari grado americane o anche europee.
Certo, leggo che le scuole che funzionano davvero sono minoranza, ma voglio dire che non mi sento di appartenere a una «casta inferiore», come spesso viene dipinta la popolazione scolastica italiana.
Sono dunque grata al liceo classico per avermi dato l’opportunità di una cultura generale vasta, ma mi rendo conto che certi punti, credo anche per un problema di costi, siano stati trascurati. Mi riferisco ai computer (non ci sono pc in classe ma una sala computer per tutta la scuola) e a un uso critico di Internet, che, anche se malvisto da alcuni professori «conservatori», domina nel mondo esterno.
Alcune facoltà richiedono un «patentino informatico» tra i requisiti per la laurea. Non si potrebbe anticipare questo passo alla scuola secondaria?
Un altro punto, cari professori, è il distacco tra l’aula del liceo e quello che sta fuori. Il liceo ci dà una «cultura universale» e noi ne siamo ben contenti.
Ma l’universo che abbiamo appreso (e amato) sui manuali e sui testi dei classici (da Tacito a Dante, da Svevo a Pavese) che ci avete spinto a leggere durante tutte le scorse estati sa un po’ di «orticello chiuso».
In un’ora di storia civica, poi, non si ha certo il tempo non dico per approfondire ma per sfiorare la cultura delle civiltà che stanno sfidando e mettendo in crisi la nostra.
Mi riferisco alla Cina e all’India e alla loro storia millenaria. Dovremmo avere gli strumenti per dialogare con le ragazze e i ragazzi di Shangai o di Bangalore, già oggi protagonisti di un mercato globale e nostri futuri concorrenti.
Alla fine di quest’anno dirò arrivederci ai miei compagni di Quinta B (anche se secondo la vecchia divisione del liceo classico, in vigore sino all’anno scorso, saremmo nella Terza F).
Dieci maschi e diciotto femmine: due o tre faranno giurisprudenza, molti, ho sentito, tenteranno di entrare a medicina, uno a lettere moderne, un paio faranno i test per la facoltà di economia e commercio, io forse mi iscriverò ad architettura. Come vedete, sono scelte molto diverse.
Una cosa ci accomuna: il futuro incerto. Negli anni Settanta, quando i nostri genitori uscivano dalla scuola secondaria, non avevano questo tipo di angoscia.
Chi andava a lavorare subito, chi si iscriveva all’università, nella certezza che avrebbe trovato un posto di lavoro. Oggi in Italia non è più così. E questa, forse, è la nostra preoccupazione più grande.
Un’angoscia che non pretende risposte certe al mille per mille, ma almeno un quadro più solido entro il quale muoversi. Come avviene all’estero.
* Liceo class ico Tito Livio di Milano (Quinta B)

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