Luigi Ferrarella
Il braccio di ferro indica che il premier vuole scegliersi le regole, senza seguire quelle che valgono in tutti i tribunali
Non è un capriccio del premier o un'impuntatura dei pm il braccio di ferro sulla testimonianza che Berlusconi, convocato dalla Procura di Napoli, si rifiuta di rendere se non gli verrà consentito di farsi accompagnare dai suoi avvocati e quindi di potersi avvalere delle facoltà (compresa quella di non rispondere o di mentire) che il codice riconosce agli indagati in procedimenti connessi e non ai testimoni, obbligati invece a rispondere e a dire la verità.
La posta in gioco è molto più alta dell'orgoglio delle parti in causa, e perfino della sorte della singola inchiesta: è invece l'uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, e perciò è affare di tutti e non soltanto di Berlusconi o dei suoi pm, dell'arrestato Tarantini o del latitante Lavitola, la cui sorte è appesa proprio ai chiarimenti che la parte offesa Berlusconi potrebbe dare con la propria deposizione. È insomma la possibilità stessa di celebrare un procedimento secondo le regole valide per ricchi e poveri, potenti e diseredati.
Tutti i giorni, infatti, in tutti i palazzi di giustizia d'Italia ci sono persone che, citate come testimoni, vorrebbero tanto farne a meno: lamentano di dover sacrificare impegni lavorativi e personali, sbuffano per il fatto di dover sobbarcarsi magari anche lunghe trasferte a fronte di miserrimi rimborsi chilometrici, si chiedono perché non possano cavarsela spedendo una memoria scritta, e nei casi più delicati mandano (proprio come Berlusconi) il proprio avvocato a chiedere di essere ascoltati con le facoltà degli indagati anziché con gli obblighi dei testi. E tutti i giorni, in tutti i palazzi di giustizia d'Italia, queste persone si sottopongono infine alle decisioni dei vari soggetti previsti dalla legge (di volta in volta Procure, Tribunali, Corti d'Appello), pena l'ordine ai carabinieri di accompagnare coattivamente il teste recalcitrante.
Ecco perché il braccio di ferro sulla testimonianza va ben oltre la contingenza dell'inchiesta di Napoli: pretendendo per sé regole diverse da quelle che valgono per tutti gli altri cittadini chiamati ogni giorno come lui ad adempiere al dovere civico di testimoniare, il presidente del Consiglio vuole scegliersi le regole del deporre, proprio come già ha voluto scegliersi i giudici (legge Cirami sul legittimo sospetto e conflitti di attribuzione su Ruby), le prove (legge sulle rogatorie e ddl sulle intercettazioni), i reati (legge sul falso in bilancio), i tempi (legge ex Cirielli sulla prescrizione e ddl processo lungo), le impugnazioni (legge Pecorella), le immunità (legge Schifani e legge Alfano). Ecco perché, a prescindere dal merito dell'indagine, è una sconfitta il fatto che oggi il premier, invece di concordare con i pm napoletani la data della propria testimonianza che la legge gli consente di rendere stando a Palazzo Chigi, preferisca farsi scudo di una sonnolenta miniudienza (si comincia addirittura alle ore 11 e c'è un solo teste minore da ascoltare) di un processo-zombie come il processo Mills, la cui prescrizione tra quattro mesi è ormai da tempo assicurata dalla combinazione tra vecchie leggi ad personam e attuali impasse procedurali, amplificate dall'accordo informale richiesto mesi fa da Berlusconi e concessogli dalla presidenza del Tribunale per procedere di norma con udienze soltanto il lunedì.
A meno che il premier non abbia un sussulto e, per rendere più credibili i suoi «non mollo», oggi venga al processo Mills, dove lo si accusa di aver corrotto un testimone in giudizio, per annunciare la sua decisione di rinunciare a godere in febbraio della sicura prescrizione. Proprio quello, peraltro, che il partito del premier reclama a gran voce dall'indagato pd Filippo Penati.
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