di Paolo Flores d'Arcais (Il Fatto Quotidiano)
Il programma di Matteo Renzi è pessimo, il suo stile insopportabile. Il 25 novembre alle primarie voterò Matteo Renzi, firmando anche il “giuramento” per il centrosinistra alle elezioni di primavera. Nelle quali invece, hic stantibus rebus, voterò Grillo. Non mi sentirò in contraddizione e meno che mai disonesto.
Infatti. Il programma di Renzi è pessimo: i diritti dei lavoratori, per i quali si batte ormai solo la Fiom, non esistono. Eppure se si vogliono le primarie, si dovrebbe volere pure il voto dei lavoratori per eleggere i delegati e approvare o respingere gli accordi sindacali. Ma Renzi è un fan di Marchionne stile curva-sud. Anzi era: ora che ha insultato Firenze fa l’offeso, finché calpesta gli operai va benissimo.
Renzi ciancia di tolleranza zero contro la corruzione, e anzi propone perfino il reato di traffico di influenze (lo fa anche la Severino) e il ripristino del falso in bilancio, ma lascia le pene nel vago, e resta il bonus di tre anni della famigerata legge bipartisan. Non una parola sull’abrogazione di tutte le leggi ad personam, sulla prescrizione dopo il rinvio a giudizio, su pene effettivamente deterrenti (cioè anni di galera effettivamente scontati) per l’autoriciclaggio, l’evasione fiscale e soprattutto l’intralcio alla giustizia, e sull’eccetera tante volte analiticamente esposto su questo giornale: la lotta alla corruzione resta grida manzoniana. Eppure le cifre di un solo anno di corruzione, evasione e mafie corrispondono alle manovre “lacrime e sangue” di un’intera legislatura. Ci sarebbero soldi sia per ridurre il debito pubblico, sia per aumentare il welfare (anziché ucciderlo), sia per ridurre le tasse.
Quanto allo stile, la democrazia avrebbe bisogno di vedere al suo centro il primato dell’argomentazione razionale, una sorta di illuminismo di massa, che faccia da antidoto ai veleni della politica spettacolo con cui la democrazia è stata inquinata fino allo sfinimento e alla degenerazione. Mentre lo stile di Renzi è media-set puro, un “format” di spettacolo replicato in ogni teatro con scenografie, spezzoni di filmati e un caravanserraglio di effetti speciali e battute ad effetto. Esattamente come lo spot con cui vendere un’auto o un profumo. Ma il voto non è una merce, la democrazia non è “consumo” ma cittadinanza attiva.
Perché allora votare questo Berlusconi formato pupo, che per soprammercato vuole turlupinarci parlando (di tanto in tanto) di “sinistra”? Perché la sua vittoria distruggerebbe il Pd, lo manderebbe letteralmente in pezzi, lo disperderebbe come un sacchetto di coriandoli. E in questo modo i milioni di elettori animati da volontà di “giustizia e libertà” e dall’intenzione di realizzare la Costituzione (tranne l’articolo 7, da abrogare), elettori che credo siano una decisa maggioranza nel paese, non sarebbero più imbrigliati, congelati, manipolati, usati dalla nomenklatura partitocratica (il Pd, ma anche Idv, Sel e residui rifondazionisti). Una situazione del genere sarebbe rischiosa, ovviamente. Ne potrebbe scaturire un peggio.
Ma a forza di “male minore” abbiamo un governo Napolitano-Monti che realizza una legge pro-concussori chiamandola “anticorruzione” e una legge-bavaglio che non era riuscita a Berlusconi.
Al ricatto del “rischio peggio” bisogna sottrarsi, perciò. Solo sulla tabula rasa del fu centro-sinistra potrebbe infatti nascere una forza “giustizia e libertà”, un “partito d’azione” di massa anziché d’élite, propiziato dalla Fiom, dalle testate non allineate, dai movimenti di opinione della società civile in lotta (e da tanti quadri locali del Pd, anch’essi “liberati”).
Quanto alla “immoralità” di sottoscrivere il documento del centrosinistra già programmando lo “spergiuro” di un voto per altra lista (M5S), credo sia venuto il momento di praticare in forma sistematica il cinismo costituzionale. L’articolo 49 stabilisce che i partiti sono un nostro strumento, quello tramite cui (strumento) i cittadini (soggetto) “concorrono con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. I partiti hanno rovesciato di fatto questo dettame costituzionale, sono diventati i padroni della politica, e noi i loro strumenti.
Vanno di nuovo strumentalizzati. Usandoli come taxi (lo teorizzava Enrico Mattei, ma da posizioni di potere, non di cittadinanza) e salendo secondo le nostre esigenze, visto che per la Costituzione i sovrani siamo noi.
I link ai giornali degli articoli spesso cambiano e diventa difficile se non impossibile recuperare i testi ai quali si riferivano. Questo è l'archivio on-line del blog Giornale-NOTIZIEOGGI
28.10.12
Matteo Renzi è pessimo, quindi lo voterò
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26.10.12
Ultima fermata Dallas
Massimo Gramellini (La Stampa)
Dopo Silvio, anche J. R. ha fatto un passo indietro, precipitando in un burrone di sbadigli che ha costretto Canale 5 a sospendere la nuova serie di Dallas già alla seconda puntata. Ogni tanto la vita sa offrire coincidenze ineffabili. Chi fra voi è diversamente giovane ricorderà come la saga dei petrolieri texani abbia segnato il destino pubblico del Cavaliere. Prima di Dallas, un imprenditore in carriera come tanti. Dopo Dallas, il rabdomante dei gusti popolari che acquista uno sceneggiato americano rottamato dalla Rai e trasforma Canale 5 e se stesso in fenomeni televisivi di massa. Esagerando un po’, ma neppure troppo, senza Dallas non avremmo avuto il ventennio berlusconiano. Fu quel telefilm a lanciare la tv commerciale in Italia e a rieducare al ribasso i palati degli italiani, abituandoli al lusso volgare, alla ricchezza ostentata, al cinismo simpatico e agli altri stereotipi con cui la cultura pop degli Anni Ottanta ha innervato la proposta politica del berlusconismo.
La riproposizione, trent’anni dopo, di quei valori di sfrontato materialismo va letto come l’ultimo tentativo di restare aggrappati a un mondo della memoria. L’esito è stato inevitabilmente patetico. La seconda serie di Dallas, con i divi incartapecoriti che si muovevano fra giovani affamati di denaro e potere, restituiva l’atmosfera falsamente allegra di certe «cene eleganti» o, nei momenti peggiori, dei vertici di palazzo Grazioli. E la faccia liftata dell’ottantenne J.R. richiamava inesorabilmente quella che ieri, col sopracciglio sinistro ormai paralizzato dal bisturi, ha letto sul gobbo di una telecamera il suo testamento politico.
Dopo Silvio, anche J. R. ha fatto un passo indietro, precipitando in un burrone di sbadigli che ha costretto Canale 5 a sospendere la nuova serie di Dallas già alla seconda puntata. Ogni tanto la vita sa offrire coincidenze ineffabili. Chi fra voi è diversamente giovane ricorderà come la saga dei petrolieri texani abbia segnato il destino pubblico del Cavaliere. Prima di Dallas, un imprenditore in carriera come tanti. Dopo Dallas, il rabdomante dei gusti popolari che acquista uno sceneggiato americano rottamato dalla Rai e trasforma Canale 5 e se stesso in fenomeni televisivi di massa. Esagerando un po’, ma neppure troppo, senza Dallas non avremmo avuto il ventennio berlusconiano. Fu quel telefilm a lanciare la tv commerciale in Italia e a rieducare al ribasso i palati degli italiani, abituandoli al lusso volgare, alla ricchezza ostentata, al cinismo simpatico e agli altri stereotipi con cui la cultura pop degli Anni Ottanta ha innervato la proposta politica del berlusconismo.
La riproposizione, trent’anni dopo, di quei valori di sfrontato materialismo va letto come l’ultimo tentativo di restare aggrappati a un mondo della memoria. L’esito è stato inevitabilmente patetico. La seconda serie di Dallas, con i divi incartapecoriti che si muovevano fra giovani affamati di denaro e potere, restituiva l’atmosfera falsamente allegra di certe «cene eleganti» o, nei momenti peggiori, dei vertici di palazzo Grazioli. E la faccia liftata dell’ottantenne J.R. richiamava inesorabilmente quella che ieri, col sopracciglio sinistro ormai paralizzato dal bisturi, ha letto sul gobbo di una telecamera il suo testamento politico.
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14.10.12
L'austerità e la rivincita di Keynes
di Fabrizio Galimberti (ilsole24ore)
«Le idee degli economisti e dei filosofi della politica, sia quando son giuste che quando son sbagliate, sono più potenti di quanto si creda. In verità, son loro che governano il mondo. Gli uomini di azione, che si credono esenti da ogni influenza intellettuale, son di solito schiavi di qualche economista defunto. Pazzi al potere, che odono voci nell'aria, distillano le loro frenesie da scribacchini accademici di qualche anno fa…». Dure parole, queste di John Maynard Keynes. Ma son parole che tornano alla mente guardando al dibattito fra sostenitori dell'austerità e i sostenitori della crescita.
Il problema è questo. Quando una crisi economica colpisce un Paese, il suo bilancio pubblico ne soffre. Si tratta di una sofferenza "voluta", dato che con la crisi si riducono le entrate da una parte, e dall'altra aumentano le spese di sostegno al reddito. Il bilancio pubblico vira così "automaticamente" verso il deficit, e fa da baluardo all'involuzione del ciclo: una tendenza, questa, che si chiama appunto «stabilizzazione automatica». Questa virata verso l'inchiostro rosso dei conti è stata forte negli ultimi anni, che hanno visto la peggior crisi economica dagli anni Trenta. Il supporto all'economia è andato al di là degli automatismi: tutti i Paesi hanno preso anche misure discrezionali di supporto.
Ne sono risultati grossi disavanzi che sono appunto alla radice dell'attuale «crisi da debiti sovrani». Come fare per uscire da deficit e debiti? Le economie sono ancora deboli, e le misure ovvie - aumentare le entrate e diminuire le spese - rischiano di mettere sale sulle ferite della crisi. O no?
A questo punto si apre quel dibattito che avrebbe fatto cascare le braccia a Keynes. C'è - o, per fortuna, c'era - una scuola di pensiero dell'«austerità espansionista» che suona così: riducete il deficit e l'economia ripartirà, perché famiglie e imprese, confortate da queste «coraggiose» misure, ritroveranno fiducia e voglia di spendere: la maggiore spesa privata si sostituirà alla minore spesa pubblica e l'economia, alleggerita e salubre, ritroverà la via della crescita. Questa è stata specialmente la posizione della Germania. «Per i tedeschi l'economia è una branca della filosofia morale»: la battuta di Mario Monti evoca una governante arcigna che intende premiare la buona condotta e punire i cattivi, ignorando quel calcolo delle forze e delle resistenze senza il quale, come scrisse Massimo d'Azeglio, «neppure si fa girare la macina d'un mulino».
Le cose, come sappiamo, non stanno andando così. Nei Paesi dove è stata più forte l'austerità imposta da quella improbabile scuola di pensiero l'economia sta soffrendo di più. La polemica sull'eccesso di austerità si è riaccesa a causa di un capitoletto nell'ultimo World Economic Outlook del Fondo monetario. Il box, di cui è autore lo stesso capo-economista del Fmi, Olivier Blanchard, sostiene che i moltiplicatori fiscali sono stati sottostimati. Cosa vuol dire? Vuol dire che quando si prendono misure restrittive, per ridurre il deficit, mettiamo, di 100, si sa che l'economia ne sarà, in prima battuta, danneggiata, poco o tanto. E questo danno veniva quantificato in genere con un moltiplicatore di 0,5: cioè a dire, una riduzione del deficit di 100 riduceva il Pil di 50. Un sacrificio, dicevano i fan dell'austerità, accettabile se vale a riportare i conti sulla retta via. Ma cosa succede se invece il moltiplicatore è di 1,5? Se una riduzione di 100 del deficit riduce il Pil di 150?
Succede che il bilancio non si risana mai, perché il Pil minore riduce le entrate fiscali e crea disoccupazione, con le conseguenze che già sappiamo. E il Fmi ha appunto calcolato che, col senno di poi, i moltiplicatori fiscali possono essere stimati a livelli fra 0,9 e 1,7!
Tutto questo rappresenta una grande rivendicazione delle teorie keynesiane. Un tempo passate di moda, sono tornate in auge per la forza delle cose. Quando la Grande recessione ha colpito, tutti i Paesi hanno adottato risposte keynesiane: aumento del deficit di bilancio. Quando la casa brucia, è inutile discettare di aspettative razionali e altre digressioni teoriche: bisogna far lavorare gli idranti. E ora che bisognava affrontare la coda velenosa della Grande recessione - la crisi da debiti sovrani - il fallimento dell'austerità fine a se stessa è andato suonando come un'altra affermazione delle teorie keynesiane: ridurre la spesa e aumentare le entrate debilita l'economia, non la rafforza.
Ma anche questa affermazione è vera sempre e in tutti i casi? I sostenitori dell'austerità espansionista hanno sempre torto? Andrew Lo, un economista del Mit, affermò un giorno che «la fisica ha tre leggi che spiegano il 99% dei fenomeni, e l'economia ha 99 leggi che spiegano il 3% dei fenomeni». Per far funzionare l'austerità espansionista ci vorrebbero molte condizioni di contorno: la politica economica dovrebbe irradiare concordia e determinazione, spargere fiducia, comunicare sicurezza, rimuovere incertezza... Se i governanti europei non irradiano, non spargono e non comunicano, sappiamo perché l'austerità non funziona
«Le idee degli economisti e dei filosofi della politica, sia quando son giuste che quando son sbagliate, sono più potenti di quanto si creda. In verità, son loro che governano il mondo. Gli uomini di azione, che si credono esenti da ogni influenza intellettuale, son di solito schiavi di qualche economista defunto. Pazzi al potere, che odono voci nell'aria, distillano le loro frenesie da scribacchini accademici di qualche anno fa…». Dure parole, queste di John Maynard Keynes. Ma son parole che tornano alla mente guardando al dibattito fra sostenitori dell'austerità e i sostenitori della crescita.
Il problema è questo. Quando una crisi economica colpisce un Paese, il suo bilancio pubblico ne soffre. Si tratta di una sofferenza "voluta", dato che con la crisi si riducono le entrate da una parte, e dall'altra aumentano le spese di sostegno al reddito. Il bilancio pubblico vira così "automaticamente" verso il deficit, e fa da baluardo all'involuzione del ciclo: una tendenza, questa, che si chiama appunto «stabilizzazione automatica». Questa virata verso l'inchiostro rosso dei conti è stata forte negli ultimi anni, che hanno visto la peggior crisi economica dagli anni Trenta. Il supporto all'economia è andato al di là degli automatismi: tutti i Paesi hanno preso anche misure discrezionali di supporto.
Ne sono risultati grossi disavanzi che sono appunto alla radice dell'attuale «crisi da debiti sovrani». Come fare per uscire da deficit e debiti? Le economie sono ancora deboli, e le misure ovvie - aumentare le entrate e diminuire le spese - rischiano di mettere sale sulle ferite della crisi. O no?
A questo punto si apre quel dibattito che avrebbe fatto cascare le braccia a Keynes. C'è - o, per fortuna, c'era - una scuola di pensiero dell'«austerità espansionista» che suona così: riducete il deficit e l'economia ripartirà, perché famiglie e imprese, confortate da queste «coraggiose» misure, ritroveranno fiducia e voglia di spendere: la maggiore spesa privata si sostituirà alla minore spesa pubblica e l'economia, alleggerita e salubre, ritroverà la via della crescita. Questa è stata specialmente la posizione della Germania. «Per i tedeschi l'economia è una branca della filosofia morale»: la battuta di Mario Monti evoca una governante arcigna che intende premiare la buona condotta e punire i cattivi, ignorando quel calcolo delle forze e delle resistenze senza il quale, come scrisse Massimo d'Azeglio, «neppure si fa girare la macina d'un mulino».
Le cose, come sappiamo, non stanno andando così. Nei Paesi dove è stata più forte l'austerità imposta da quella improbabile scuola di pensiero l'economia sta soffrendo di più. La polemica sull'eccesso di austerità si è riaccesa a causa di un capitoletto nell'ultimo World Economic Outlook del Fondo monetario. Il box, di cui è autore lo stesso capo-economista del Fmi, Olivier Blanchard, sostiene che i moltiplicatori fiscali sono stati sottostimati. Cosa vuol dire? Vuol dire che quando si prendono misure restrittive, per ridurre il deficit, mettiamo, di 100, si sa che l'economia ne sarà, in prima battuta, danneggiata, poco o tanto. E questo danno veniva quantificato in genere con un moltiplicatore di 0,5: cioè a dire, una riduzione del deficit di 100 riduceva il Pil di 50. Un sacrificio, dicevano i fan dell'austerità, accettabile se vale a riportare i conti sulla retta via. Ma cosa succede se invece il moltiplicatore è di 1,5? Se una riduzione di 100 del deficit riduce il Pil di 150?
Succede che il bilancio non si risana mai, perché il Pil minore riduce le entrate fiscali e crea disoccupazione, con le conseguenze che già sappiamo. E il Fmi ha appunto calcolato che, col senno di poi, i moltiplicatori fiscali possono essere stimati a livelli fra 0,9 e 1,7!
Tutto questo rappresenta una grande rivendicazione delle teorie keynesiane. Un tempo passate di moda, sono tornate in auge per la forza delle cose. Quando la Grande recessione ha colpito, tutti i Paesi hanno adottato risposte keynesiane: aumento del deficit di bilancio. Quando la casa brucia, è inutile discettare di aspettative razionali e altre digressioni teoriche: bisogna far lavorare gli idranti. E ora che bisognava affrontare la coda velenosa della Grande recessione - la crisi da debiti sovrani - il fallimento dell'austerità fine a se stessa è andato suonando come un'altra affermazione delle teorie keynesiane: ridurre la spesa e aumentare le entrate debilita l'economia, non la rafforza.
Ma anche questa affermazione è vera sempre e in tutti i casi? I sostenitori dell'austerità espansionista hanno sempre torto? Andrew Lo, un economista del Mit, affermò un giorno che «la fisica ha tre leggi che spiegano il 99% dei fenomeni, e l'economia ha 99 leggi che spiegano il 3% dei fenomeni». Per far funzionare l'austerità espansionista ci vorrebbero molte condizioni di contorno: la politica economica dovrebbe irradiare concordia e determinazione, spargere fiducia, comunicare sicurezza, rimuovere incertezza... Se i governanti europei non irradiano, non spargono e non comunicano, sappiamo perché l'austerità non funziona
1.10.12
In Italy, a comedian is getting the last laugh (Washington Post)
by Anthony Faiola (Washington Post)
PARMA, Italy — He looks like Jerry Garcia, jokes like Jon Stewart and says the world has nothing to fear from Italy’s funniest man. So why is Europe trembling from the political earthquake that is Beppe Grillo?
For answers, look no further than the TV comedian-turned-political phenomenon’s recent address in this ancient city renowned for wheels of Parmesan cheese and slabs of prosciutto, and now the epicenter of the “Grillo revolution.” Four months after his Five Star Movement swept into government here in a surprise victory that sent his national profile soaring, he stood in a town square and delivered a breathless tirade against “the forces” seeking to destroy Italian society.
In the country that could make or break the future of the euro with its next election, he described Germany and France as European paymasters who would bleed Italy dry. He called for a referendum on the euro and said Rome should follow in the footsteps of Argentina and Ecuador by suspending payments on the national debt. He called Mario Monti — Italy’s interim prime minister hailed by European leaders for pushing painful economic reforms on a reluctant nation — the “Rigor Monti,” a pun on rigor mortis, that is turning Italy into a corpse.
Last year, opinion polls showed support for Grillo’s movement hovering below 4 percent. But as he fills the political vacuum here, more recent surveys suggest that almost one in five Italians now back it, placing his movement only single digits behind the nation’s two leading parties in popularity. He is touting his Italy-first revolution from open piazzas across the nation, drawing inevitable comparisons to Benito Mussolini. But Grillo, whose left-leaning anti-corruption message more closely mirrors that of American liberal Michael Moore, says those who accuse him of echoing Il Duce are missing the point.
“They are calling me a populist, calling us Nazis, calling me Hitler, but they do not understand,” he said in an interview. “What is happening is that our movement is filling a similar space as the Nazis did in Germany or [nationalist Marine] Le Pen has in France. But we are nothing like them. We are moderate, beautiful people, and we are the only thing left standing between Italy and the real extremists.”
In populist company
Mired in debt, locked in a cycle of austerity and confronting a crisis of leadership, parts of Europe are facing a period of economic and political upheaval that some liken to the disenchantment of the 1930s, when the Nazis rose to power. Across the region, unconventional and unpredictable political forces are taking root. On the streets of broken Greece, the right-wing pseudo-militias of the Golden Dawn organization are menacing immigrants, racial minorities and political opponents. In Austria, the 80-year-old anti-euro billionaire Frank Stronach has 10 percent support in the polls despite not even having launched an official party. Over the past year in France and Finland, nationalists have posted their strongest election results ever.
But here in Italy, Grillo’s core followers are anything but a mob of Il Duce-loving extremists. Rather, his movement began in the mid-2000s as a group of netizens linked by social media and united by a shared disgust with Italian political elites, including chauffeur-driven lawmakers with criminal records and CEO-level compensation. Nevertheless, pundits see his rise as underscoring the political uncertainty in Italy that is quickly becoming one of the biggest wild cards of the European debt crisis.
In a nation that — unlike Greece — is considered too big to fail, last year’s emergency appointment of Monti, a technocrat and former university president, to take over for the sullied playboy Silvio Berlusconi was seen as Europe’s saving grace. Just as Italy was falling off a cliff, Monti forced through tough austerity measures that reassured investors and pulled Rome back from the brink.
Last week, Monti did not rule out continuing as prime minister if asked, though whether he would be depends largely on whether those who support him in Italy’s center-right parties win at the ballot box. But he added that he would not run as a candidate, effectively leaving the premiership up for grabs.
Even as Europe appears to be getting a grip on its three-year-old crisis, Italians in the coming months could open its most troubling chapter yet. They are ditching traditional political parties in droves, with the fracturing political landscape making the scenario of a weak, divided parliament or one skeptical of Monti’s reforms increasingly likely.
Grillo’s call for a referendum on the euro in Italy and his anti-austerity message put him in similar company as an array of populist leaders in Europe, including Le Pen in France, Stronach in Austria and Geert Wilders in the Netherlands. But although few — including Grillo himself — expect the wild-haired, acerbic comedian to rise to national office, political leaders say anything is possible in the current climate.
“Grillo represents a sort of blurring of the far left and far right,” said Massimo Franco, political columnist for Corriere della Sera. “He is a thermometer of Italy’s political temperature, and the success of a demagogue like him would send a dangerous message to our allies in Europe that credibility and sacrifice are no longer on Italy’s agenda.”
Transition to activism
Yet, to a segment of Italians, the funny man and anti-corruption crusader from the musty port of Genoa has seemed almost prophetic. In September, a scandal broke over allegations that local lawmakers from Berlusconi’s People of Freedom party embezzled funds and hosted lavish toga parties. Leaked images of party elites being fed grapes and cavorting in pig masks with women only seemed to prove Grillo’s point that Italy’s political class is morally bankrupt and beyond salvation.
Enter Grillo. The 64-year-old comedian rose to national fame in the 1970s and 1980s. His lampooning and disrespect of the political class led to his blacklisting by state television in 1987. When Italy’s then-Prime Minister Bettino Craxi, a Socialist, was on a visit to China, Grillo joked that a party colleague had queried of Craxi: “If all the Chinese are socialists, too, who do they steal from?”
Today, the father of four from two marriages, including his current one to a half-Iranian wife, lives in Genoa in a gracious villa befitting a man who became one of Italy’s best-known celebrities.
The funny man transitioned to full-fledged activism in the 2000s, launching a popular blog (200,000 hits a day) and forming a Web-based community that held “revenge” protests in which the public gathered to chastise traditional politicians.
After winning a series of minor victories in local elections, Grillo’s movement harnessed the economic crisis as an issue, scoring its biggest victory in May, when its candidate won the mayoral seat in Parma, a city of about 413,000. Victory came despite the party’s decision to reject state funding for political parties, instead operating the mayoral race on a shoestring budget of $7,500 raised through T-shirt and book sales and the aid of Grillo’s personal fortune.
Qualms have arisen since then. With the movement as shocked as anyone by its success, it took the new mayor, former computer technician Federico Pizzarotti, about 40 days to pull together a working cabinet. Though pundits in the city say it is too early to tell whether the party can deliver on its promises — including a pledge to stop a new incinerator from opening — it is also too early to determine whether it will fail.
Pizzarotti may be mayor, but Grillo is the star of the show. Grillo’s growing popularity and strong skepticism about the euro are sending jitters through Europe’s political establishment. On a visit to Italy last month, Martin Schulz, the German socialist and president of the European Parliament, said, “I think it is more dangerous when comedians become politicians than when politicians go to see a comedy.”
In an interview, Grillo called himself the “spokesman,” rather than the leader, of a freethinking movement. But the strongest accusations yet that he brooks no dissent in the organization surfaced recently. Giovanni Favia, 31, a regional council member from the movement, was caught off-camera complaining of a lack of freedom to act independently within the movement. In response, Grillo cut off all contact with Favia. The young council member said he has since received death threats from the movement’s followers, including one posted on Facebook saying he should have his throat slit in public.
Yet even Favia says he still sees Grillo as the only instrument in Italy capable of ushering in real change.
“He is the only one brave enough to break the grip of the old parties,” Favia said. “The figure of Beppe Grillo is a necessity if Italy is going to be a different place.”
PARMA, Italy — He looks like Jerry Garcia, jokes like Jon Stewart and says the world has nothing to fear from Italy’s funniest man. So why is Europe trembling from the political earthquake that is Beppe Grillo?
For answers, look no further than the TV comedian-turned-political phenomenon’s recent address in this ancient city renowned for wheels of Parmesan cheese and slabs of prosciutto, and now the epicenter of the “Grillo revolution.” Four months after his Five Star Movement swept into government here in a surprise victory that sent his national profile soaring, he stood in a town square and delivered a breathless tirade against “the forces” seeking to destroy Italian society.
In the country that could make or break the future of the euro with its next election, he described Germany and France as European paymasters who would bleed Italy dry. He called for a referendum on the euro and said Rome should follow in the footsteps of Argentina and Ecuador by suspending payments on the national debt. He called Mario Monti — Italy’s interim prime minister hailed by European leaders for pushing painful economic reforms on a reluctant nation — the “Rigor Monti,” a pun on rigor mortis, that is turning Italy into a corpse.
Last year, opinion polls showed support for Grillo’s movement hovering below 4 percent. But as he fills the political vacuum here, more recent surveys suggest that almost one in five Italians now back it, placing his movement only single digits behind the nation’s two leading parties in popularity. He is touting his Italy-first revolution from open piazzas across the nation, drawing inevitable comparisons to Benito Mussolini. But Grillo, whose left-leaning anti-corruption message more closely mirrors that of American liberal Michael Moore, says those who accuse him of echoing Il Duce are missing the point.
“They are calling me a populist, calling us Nazis, calling me Hitler, but they do not understand,” he said in an interview. “What is happening is that our movement is filling a similar space as the Nazis did in Germany or [nationalist Marine] Le Pen has in France. But we are nothing like them. We are moderate, beautiful people, and we are the only thing left standing between Italy and the real extremists.”
In populist company
Mired in debt, locked in a cycle of austerity and confronting a crisis of leadership, parts of Europe are facing a period of economic and political upheaval that some liken to the disenchantment of the 1930s, when the Nazis rose to power. Across the region, unconventional and unpredictable political forces are taking root. On the streets of broken Greece, the right-wing pseudo-militias of the Golden Dawn organization are menacing immigrants, racial minorities and political opponents. In Austria, the 80-year-old anti-euro billionaire Frank Stronach has 10 percent support in the polls despite not even having launched an official party. Over the past year in France and Finland, nationalists have posted their strongest election results ever.
But here in Italy, Grillo’s core followers are anything but a mob of Il Duce-loving extremists. Rather, his movement began in the mid-2000s as a group of netizens linked by social media and united by a shared disgust with Italian political elites, including chauffeur-driven lawmakers with criminal records and CEO-level compensation. Nevertheless, pundits see his rise as underscoring the political uncertainty in Italy that is quickly becoming one of the biggest wild cards of the European debt crisis.
In a nation that — unlike Greece — is considered too big to fail, last year’s emergency appointment of Monti, a technocrat and former university president, to take over for the sullied playboy Silvio Berlusconi was seen as Europe’s saving grace. Just as Italy was falling off a cliff, Monti forced through tough austerity measures that reassured investors and pulled Rome back from the brink.
Last week, Monti did not rule out continuing as prime minister if asked, though whether he would be depends largely on whether those who support him in Italy’s center-right parties win at the ballot box. But he added that he would not run as a candidate, effectively leaving the premiership up for grabs.
Even as Europe appears to be getting a grip on its three-year-old crisis, Italians in the coming months could open its most troubling chapter yet. They are ditching traditional political parties in droves, with the fracturing political landscape making the scenario of a weak, divided parliament or one skeptical of Monti’s reforms increasingly likely.
Grillo’s call for a referendum on the euro in Italy and his anti-austerity message put him in similar company as an array of populist leaders in Europe, including Le Pen in France, Stronach in Austria and Geert Wilders in the Netherlands. But although few — including Grillo himself — expect the wild-haired, acerbic comedian to rise to national office, political leaders say anything is possible in the current climate.
“Grillo represents a sort of blurring of the far left and far right,” said Massimo Franco, political columnist for Corriere della Sera. “He is a thermometer of Italy’s political temperature, and the success of a demagogue like him would send a dangerous message to our allies in Europe that credibility and sacrifice are no longer on Italy’s agenda.”
Transition to activism
Yet, to a segment of Italians, the funny man and anti-corruption crusader from the musty port of Genoa has seemed almost prophetic. In September, a scandal broke over allegations that local lawmakers from Berlusconi’s People of Freedom party embezzled funds and hosted lavish toga parties. Leaked images of party elites being fed grapes and cavorting in pig masks with women only seemed to prove Grillo’s point that Italy’s political class is morally bankrupt and beyond salvation.
Enter Grillo. The 64-year-old comedian rose to national fame in the 1970s and 1980s. His lampooning and disrespect of the political class led to his blacklisting by state television in 1987. When Italy’s then-Prime Minister Bettino Craxi, a Socialist, was on a visit to China, Grillo joked that a party colleague had queried of Craxi: “If all the Chinese are socialists, too, who do they steal from?”
Today, the father of four from two marriages, including his current one to a half-Iranian wife, lives in Genoa in a gracious villa befitting a man who became one of Italy’s best-known celebrities.
The funny man transitioned to full-fledged activism in the 2000s, launching a popular blog (200,000 hits a day) and forming a Web-based community that held “revenge” protests in which the public gathered to chastise traditional politicians.
After winning a series of minor victories in local elections, Grillo’s movement harnessed the economic crisis as an issue, scoring its biggest victory in May, when its candidate won the mayoral seat in Parma, a city of about 413,000. Victory came despite the party’s decision to reject state funding for political parties, instead operating the mayoral race on a shoestring budget of $7,500 raised through T-shirt and book sales and the aid of Grillo’s personal fortune.
Qualms have arisen since then. With the movement as shocked as anyone by its success, it took the new mayor, former computer technician Federico Pizzarotti, about 40 days to pull together a working cabinet. Though pundits in the city say it is too early to tell whether the party can deliver on its promises — including a pledge to stop a new incinerator from opening — it is also too early to determine whether it will fail.
Pizzarotti may be mayor, but Grillo is the star of the show. Grillo’s growing popularity and strong skepticism about the euro are sending jitters through Europe’s political establishment. On a visit to Italy last month, Martin Schulz, the German socialist and president of the European Parliament, said, “I think it is more dangerous when comedians become politicians than when politicians go to see a comedy.”
In an interview, Grillo called himself the “spokesman,” rather than the leader, of a freethinking movement. But the strongest accusations yet that he brooks no dissent in the organization surfaced recently. Giovanni Favia, 31, a regional council member from the movement, was caught off-camera complaining of a lack of freedom to act independently within the movement. In response, Grillo cut off all contact with Favia. The young council member said he has since received death threats from the movement’s followers, including one posted on Facebook saying he should have his throat slit in public.
Yet even Favia says he still sees Grillo as the only instrument in Italy capable of ushering in real change.
“He is the only one brave enough to break the grip of the old parties,” Favia said. “The figure of Beppe Grillo is a necessity if Italy is going to be a different place.”
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