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19.7.14

Bungaburla (Gramellini) (e: «Non ci fu la concussione», ecco perché Berlusconi è stato assolto (Ferrarella), e ancora: Innocente a sua insaputa (Travaglio)

Massimo Gramellini  (La Stampa)

Dunque non era un reato, ma solo una gigantesca figura di m. Prima che, sull’onda della sentenza di assoluzione, l’isteria superficiale dei media trasformi il fu reprobo Silvio in un martire, ci si consenta (direbbe lui) di ricordare che il bunga bunga potrà anche essere legale, ma rimane politicamente incompatibile con un ruolo istituzionale quale quello che il sant’uomo rivestiva all’epoca dei fatti.

Tocca ricorrere al solito esempio stucchevole, ma non c’è purtroppo altro modo per fare intendere a certe crape giulive il nocciolo della questione. Se il capo di qualsiasi governo occidentale, poniamo Obama, avesse telefonato dalla Casa Bianca a un funzionario della polizia di New York per informarlo che la giovane prostituta da lui fermata per furto era la nipote del presidente messicano e andava subito consegnata a Paris Hilton invece che ai servizi sociali – e si fosse poi scoperto che Obama medesimo nella sua casa privata di Chicago si intratteneva in dopocena eleganti con la medesima prostituta e una fitta schiera di «obamine» – forse il presidente americano sarebbe stato costretto a dimettersi l’indomani, ma più probabilmente la sera stessa. E allora quell’erotomane di John Kennedy che si intratteneva con due donne al giorno? Intanto è morto prima che lo si scoprisse, ma soprattutto agiva con discrezione, appunto, presidenziale. Non è moralismo. E’ la consapevolezza di rappresentare un Paese senza mettersi nelle condizioni di sputtanarlo a livello planetario. E’ senso dello Stato. Qualcosa che Berlusconi e i suoi seguaci non comprenderanno mai.

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«Non ci fu la concussione», ecco perché Berlusconi è stato assolto

In Appello cade anche l’accusa di prostituzione minorile.
L’ex premier non avrebbe saputo dell’età della ragazza

Luigi Ferrarella (Corriere)

Quando ad Arcore ebbe rapporti sessuali con una prostituta di 17 anni, Silvio Berlusconi non era consapevole che Karima «Ruby» el Mahroug fosse appunto minorenne. E la notte del 27 maggio 2010, quando da Parigi telefonò al capo di gabinetto della Questura milanese Pietro Ostuni per anticipargli che sarebbe arrivata la consigliere regionale Nicole Minetti a prendere in carico una ragazza che gli si segnalava come parente del presidente egiziano Mubarak, giuridicamente questa sua telefonata non ebbe contenuto di minaccia (anche solo implicitamente) costrittiva della volontà dei funzionari di polizia Pietro Ostuni e Giorgia Iafrate: costoro, invece, solo per un eccesso di zelo frutto di una propria condizione psicologica di timore reverenziale, operarono poi fino alle 2 di notte per propiziare un esito (l’affidamento di Ruby a Minetti) sicuramente gradito da Berlusconi benché da lui non illegittimamente preteso. È quanto «racconta», in attesa delle motivazioni tra 90 giorni, il dispositivo della sentenza con la quale ieri la Corte d’Appello di Milano (presidente Enrico Tranfa, relatrice Ketty Lo Curto, a latere Alberto Puccinelli) ha cancellato la condanna di primo grado a 7 anni di carcere, e ha assolto nel merito l’ex premier e attuale leader di Forza Italia, senza alcuna prescrizione e senza richiami alla vecchia insufficienza di prove.

Dall’accusa di prostituzione minorile Berlusconi è stato assolto «perché il fatto non costituisce reato», cioè perché nell’imputato mancava l’elemento psicologico che trasforma una condotta (pur verificatasi) in un illecito penale, in questo caso la consapevolezza che la ragazza fosse minorenne. L’accusa ricavava questa consapevolezza da accenni di Ruby in alcune intercettazioni con amiche (ai quali la difesa contrapponeva però altri spezzoni di segno opposto nelle intercettazioni della ragazza), e da elementi logici come il fatto che a portare Ruby ad Arcore da Berlusconi fosse stato chi (l’ex direttore del Tg5 Emilio Fede) la sapeva minorenne per essere stato suo giurato in un concorso di bellezza in Sicilia: la difesa replicava trattarsi di una deduzione sdrucciolevole, adombrava che Fede (insieme a Lele Mora legato a Berlusconi anche da forti prestiti di denaro) potesse comunque avere magari un interesse a tacere al premier l’età della ragazza, e rimarcava come tutti i testi avessero riferito che Ruby sembrava avere 23/24 anni. L’assoluzione odierna si presta a una curiosità «postuma»: nel senso che la medesima condotta del 2010, se commessa dopo l’entrata in vigore nell’ottobre 2012 della ratifica della Convenzione di Lanzarote del 2007, non sarebbe più stata scriminata, posto che da allora il cliente di una prostituta minorenne non può più invocare a propria scusa l’ignoranza dell’età della persona offesa minorenne, salvo che si tratti di ignoranza inevitabile, cioè non rimproverabile quantomeno a titolo di colpa.
Sei dei sette anni di pena in primo grado, però, dipendevano dalla concussione, reato del pubblico ufficiale che abusa della sua qualità per costringere qualcuno a dargli indebitamente una utilità. Qui Berlusconi è stato assolto con la formula «perché il fatto non sussiste», segno che per i giudici non ci fu costrizione dei funzionari della Questura. E nemmeno vi fu una loro «induzione indebita», fattispecie tipizzata nel 2012 dalla legge Severino che, se ieri fosse stata sposata dai giudici, avrebbe condotto a riqualificare il reato e ricondannare l’ex premier, sebbene a pena inferiore.

Sin dall’inizio la concussione era statisticamente impervia visto che (nel caso propugnato dai pm Ilda Boccassini e Antonio Sangermano) la persona «costretta» dal pubblico ufficiale (il premier Berlusconi) era anch’essa un pubblico ufficiale (il capo di gabinetto della Questura). Non è un caso, dunque, che in questi giorni sia l’arringa dei difensori Franco Coppi e Filippo Dinacci, sia i tavoli dei giudici avessero (oltre alla sentenza delle Sezioni Unite su concussione/induzione) un libro in comune: quello di Gianluigi Gatta (professore associato di diritto penale alla Statale di Milano, «scuola» Marinucci-Dolcini) sulla condotta penalmente rilevante di «minaccia». Muovendo dall’osservazione del giurista Carrara sulla matrice latina del termine «concussione» («l’idea dello scuotere un albero per farne cadere i frutti»), lo studioso nel 2013 propendeva per l’idea che la minaccia, per essere presupposto di una concussione, dovesse essere un fatto aggressivo/prevaricatore ben diverso dal mero timore reverenziale che il soggetto passivo può provare nei confronti del superiore gerarchico, all’interno della propria condizione psicologica e senza che questo timore reverenziale sia determinato dalla minaccia esterna del soggetto attivo. Coppi aveva perciò sostenuto che, «se il concusso è idealmente solo chi sia preso per il collo e messo spalle al muro di fronte a un aut-aut, sotto inesorabile minaccia, questo non è il caso di Ostuni, i cui moti interni non dipendono dalla condotta di Berlusconi, ma dalla soggezione psicologica verso chi ha ruolo superiore.

Chi non ha il coraggio di dire no, non è protetto dal diritto: se Ostuni al massimo si è sentito condizionato dalla richiesta di Berlusconi, se ha avuto timore reverenziale verso chi magari ha pensato di compiacere, questi (lo dico elegantemente) sono fatti suoi, non ricollegabili a una minaccia di Berlusconi». Il pg Piero de Petris indicava l’architrave della concussione nella balla di Berlusconi sulla storia di Ruby parente di Mubarak: «Poiché la Questura già in pochi minuti verifica che non è vero, il potenziale intimidatorio percepito da Ostuni sta proprio nella falsità della parentela con Mubarak prospettata da Berlusconi come foriera di un incidente diplomatico con l’Egitto: e dunque Ostuni esegue la prestazione richiesta da Berlusconi (affidare Ruby a Minetti) in esecuzione dell’ordine ricevuto, e non certo perché indotto dalla storia dell’inesistente parentela» o da un generico «timore reverenziale verso il premier». Argomento rovesciato dalla difesa: «Solo un pazzo incosciente avrebbe usato una bugia con le gambe cortissime: era invece segno che Berlusconi credeva davvero Ruby parente di Mubarak, e non la sapeva minorenne, tanto da poi subito allontanarla. La riprova è che, quando dopo 8 giorni Ruby è di nuovo in Questura, nessuno più fa nulla e Ruby finisce in comunità».

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Innocente a sua insaputa
Marco Travaglio (Il Fatto Quotidiano)
Cambiata la legge salvato il Caimano

Ormai è un giochino un po’ frusto, ma ben si attaglia al nostro caso: Silvio Berlusconi è innocente a sua insaputa. Da settimane sia lui sia i suoi legali davano per scontata una condanna anche in appello, almeno per le telefonate intimidatorie alla Questura di Milano per far affidare Ruby al duo Minetti-Conceicao, ed escludevano dal novero delle cose possibili la sconcertante assoluzione plenaria che invece è arrivata ieri. Speravano in uno sconto di pena per la concussione; e confidavano nella vecchia insufficienza di prove per la prostituzione minorile. Non era scaramanzia, la loro. E neppure sfiducia congenita nelle “toghe rosse”, nel “rito ambrosiano” e nei giudici “appiattiti” sui pm: questa è propaganda da dare in pasto agli elettori-tifosi più decerebrati. Ma B. e i suoi avvocati sanno benissimo che ogni collegio giudicante fa storia a sé, come dimostrano i tanti verdetti favorevoli al Caimano proprio a Milano (molte prescrizioni, anche grazie a generose attenuanti generiche, e poche assoluzioni).

Perché allora l’avvocato Coppi confessa, in un lampo di sincerità, che l’assoluzione va al di là delle sue più rosee aspettative? Perché sa bene che il primo dei due capi di imputazione, quello sulle ripetute telefonate di B. dal vertice internazionale di Parigi ai vertici della Questura, è un fatto documentato e pacificamente ammesso da tutti: ed è impossibile negare che, quando un capo di governo chiede insistentemente un favore a un pubblico funzionario, lo mette in stato di soggezione o almeno di timore reverenziale. Che, nel diritto penale, si chiama concussione. Magari non per costrizione (come invece ritenne il Tribunale), ma per induzione (come sostennero la Procura e, nel nostro piccolo, anche noi con l’articolo di Marco Lillo di qualche giorno fa). Se il processo si fosse concluso entro il 2012, entrambe le fattispecie di concussione sarebbero rientrate nello stesso reato, con pene graduate. Il 30 dicembre 2012, invece, il governo Monti e la maggioranza di larghe intese Pd-Pdl varò la legge Severino che scorporava l’ipotesi dell’induzione, trasformandola in un reato minore, di cui rispondono anche le ex-vittime trasformate in complici (ma la Procura di Bruti Liberati, testardamente, ha sempre difeso i vertici della Questura, insistendo a considerarli vittime). In pratica, nel bel mezzo della partita, si modificò la regola del fuorigioco, alterando il risultato finale. Cambiata la legge, salvato il Caimano. Ora vedremo dalle motivazioni della sentenza in che misura quella scriteriata “riforma”–fatta apposta per salvare Penati e B., nella migliore tradizione dell’“una mano lava l’altra”, anzi le sporca entrambe – ha inciso sul verdetto di ieri. Ma il sospetto è forte, anche perché – come osserva lo stesso Coppi – “i giudici non potevano derubricare il reato” dalla concussione per costrizione al nuovo reato di induzione: le sezioni unite della Cassazione, infatti, hanno già stabilito che l’induzione deve portare un “indebito vantaggio” a chi la subisce. E i vertici della Questura non ebbero alcun vantaggio indebito, affidando Ruby a Minetti&Conceicao: al massimo evitarono lo svantaggio indebito di essere trasferiti sul Gennargentu. Dunque pare proprio che la sentenza di ieri, più che Tranfa (il presidente della II Corte d’appello), si chiami Severino. Vedremo se reggerà davanti alla Cassazione. Che potrà confermarla, chiudendo definitivamente il caso; oppure annullarla per motivi di illegittimità, ordinando un nuovo processo di appello e precisando esattamente i confini della costrizione e dell’induzione. E non osiamo immaginare che accadrà se nel processo Ruby-ter si accerterà che le Olgettine, principali testimoni del bunga-bunga, sono state corrotte dall’imputato del Ruby-uno per mentire ai giudici: ce ne sarebbe abbastanza per una revisione del processo principale, inficiato dalle eventuali false testimonianze di chi avrebbe potuto provare ciò che, a causa delle loro menzogne, non fu ritenuto provato. Nell’attesa, alcuni punti fermi si possono già fissare. 1) Chi sostiene che questo processo non avrebbe mai dovuto iniziare non sa quel che dice. Il giro di prostituzione, anche minorile, nella villa di Arcore, così come le telefonate di B. alla Questura, sono fatti assolutamente accertati, dunque meritevoli di una verifica dibattimentale (doverosa, non facoltativa) in base a due leggi del governo B. (Prestigiacomo e Carfagna sulla prostituzione minorile) e a una terza votata anche dal Pdl (Severino). Tantopiù che la Corte d’appello, se giudica insussistente il fatto (cioè il reato) della concussione/ induzione, ritiene che invece il fatto degli atti sessuali a pagamento con Ruby sussista eccome, ma non costituisca reato (forse per mancanza di dolo o “elemento soggettivo”: cioè perché non è provato che B. sapesse della minore età di Ruby). 2) L’assoluzione in appello non significa che la Procura che ha condotto le indagini e il Tribunale che ha condannato B. abbiano sbagliato per dolo e colpa grave e vadano dunque puniti in base alla tanto strombazzata “responsabilità civile”: sia perché gli errori giudiziari non sono soltanto le condanne degli innocenti, ma anche le assoluzioni dei colpevoli, sia perché tutti i magistrati hanno deciso in base al proprio libero convincimento sulla base di un materiale probatorio che, dal punto di vista fattuale, è indiscutibile (i soli dubbi riguardavano se B. avesse consumato atti sessuali con Ruby e se fosse consapevole dell’età della ragazza, che indubitabilmente si prostituiva lautamente pagata). 3) Il discredito nazionale e internazionale per B. non è dipeso dalla condanna di primo grado (giunta soltanto un anno fa, dopo la sconfitta elettorale), ma dai fatti emersi dalle indagini con assoluta certezza: il giro di prostituzione nelle sue ville, l’abuso di potere delle telefonate alla Questura, i milioni di euro alle Olgettine dopo l’esplodere dello scandalo e le tragicomiche giustificazioni (“nipote di Mubarak”, “cene eleganti” e simili) sfoderate dal protagonista su quelle condotte indecenti. Indecenti in sé: lo erano ieri e lo sono anche oggi. A prescindere dalla loro rilevanza penale, visto che nessuna sentenza di assoluzione potrà mai dire che quei fatti non siano avvenuti. 4) Sarebbe puerile collegare la sentenza di ieri con l’atteggiamento remissivo di B. sulle “riforme” e sul governo Renzi: se il Caimano s’è trasformato in agnellino, anzi in zerbino del Pd, è perché spera sempre nella grazia da Napolitano o da chi verrà dopo (che lui confida di concorrere a eleggere con la stessa maggioranza delle “riforme”). Non certo perché i giudici, giusti o sbagliati che siano i loro verdetti, prendano ordini dal governo o dal Pd. Altrimenti non si spiegherebbero le tre condanne in primo grado che B. si beccò fra il 1997 e il ’98, nel bel mezzo dell’altro inciucio: quello della Bicamerale D’Alema. 5) Nessuna sentenza d’appello può più “r i abilitare” B.: né per i fatti oggetto del processo Ruby, che sono in gran parte assodati; né per quelli precedenti, che appartengono ormai alla storia, anzi alla cronaca, e nera. Ieri si è deciso in secondo grado sulle telefonate alla Questura e sulla prostituzione minorile di Ruby, non si è condonata una lunga e inquietante carriera criminale. Quale reputazione può mai invocare un pregiudicato per frode fiscale, ora detenuto in affidamento in prova ai servizi sociali, che per giunta si circondava di un complice della mafia come Dell’Utri, attualmente associato al carcere di Parma, e di un corruttore di giudici per comprare sentenze in suo favore come Previti, cacciato dal Parlamento e interdetto in perpetuo dai pubblici uffici? Mentre si discute sul reato o meno di riempirsi la casa di mignotte, e si chiede ai giudici di dirci ciò che sappiamo benissimo da noi, si dimentica che in quella stessa casa soggiornò per due anni il mafioso sanguinario Vittorio Mangano. Nemmeno quello è un reato: ma è un fatto. Molto più grave di tutti i reati mai contestati all’imputato B. Erano i primi anni 70 e Renzi non era ancora nato. Ma è bene ricordarglielo, specialmente ora che il Caimano rialza il capino. Quousque tandem, Matteo, gabellerai l’ex Papi Prostituente per un Padre Costituente?

26.10.12

Ultima fermata Dallas

Massimo Gramellini (La Stampa)

Dopo Silvio, anche J. R. ha fatto un passo indietro, precipitando in un burrone di sbadigli che ha costretto Canale 5 a sospendere la nuova serie di Dallas già alla seconda puntata. Ogni tanto la vita sa offrire coincidenze ineffabili. Chi fra voi è diversamente giovane ricorderà come la saga dei petrolieri texani abbia segnato il destino pubblico del Cavaliere. Prima di Dallas, un imprenditore in carriera come tanti. Dopo Dallas, il rabdomante dei gusti popolari che acquista uno sceneggiato americano rottamato dalla Rai e trasforma Canale 5 e se stesso in fenomeni televisivi di massa. Esagerando un po’, ma neppure troppo, senza Dallas non avremmo avuto il ventennio berlusconiano. Fu quel telefilm a lanciare la tv commerciale in Italia e a rieducare al ribasso i palati degli italiani, abituandoli al lusso volgare, alla ricchezza ostentata, al cinismo simpatico e agli altri stereotipi con cui la cultura pop degli Anni Ottanta ha innervato la proposta politica del berlusconismo.

La riproposizione, trent’anni dopo, di quei valori di sfrontato materialismo va letto come l’ultimo tentativo di restare aggrappati a un mondo della memoria. L’esito è stato inevitabilmente patetico. La seconda serie di Dallas, con i divi incartapecoriti che si muovevano fra giovani affamati di denaro e potere, restituiva l’atmosfera falsamente allegra di certe «cene eleganti» o, nei momenti peggiori, dei vertici di palazzo Grazioli. E la faccia liftata dell’ottantenne J.R. richiamava inesorabilmente quella che ieri, col sopracciglio sinistro ormai paralizzato dal bisturi, ha letto sul gobbo di una telecamera il suo testamento politico.

29.6.12

Una lira da scordare

Massimo Gramellini

Mettono tenerezza i cittadini che chiedono la rottamazione dell’euro e il ritorno alla vecchia moneta. Non rimpiangono la lira, ma il tempo della lira. Quando le famiglie risparmiavano ancora, l’economia cresceva poco ma cresceva, e la svalutazione gonfiava gli affari. Fare un mutuo costava il doppio di adesso e l’inflazione viaggiava a due cifre, però i cinesi stavano dietro la Muraglia, gli slavi ansimavano dietro il Muro e i brasiliani e gli indiani esportavano solo miseria. Il mondo era un posto relativamente piccolo e ordinato che coincideva con l’Occidente. Ma se oggi tornasse la lira, di quel tempo tornerebbe soltanto lei. Insieme con l’inflazione a due cifre. I cinesi non andrebbero certo indietro, e nemmeno i brasiliani. In compenso noi andremmo al supermercato con la carriola: non per infilarci la spesa ma i soldi necessari a comprarla. Una pila di cartaccia che della vecchia lira conserverebbe soltanto il nome. Secondo i calcoli più ottimistici perderemmo in un giorno il 30 per cento del valore di tutto ciò che ci resta, diventando la replica della Germania di Weimar che fece da culla al nazismo.

Mettono tenerezza i cittadini spaventati dal futuro, quando si aggrappano a un passato che non può tornare. Mentre provocano soltanto rabbia quei politici che queste cose le sanno benissimo, ma preferiscono lisciare il pelo del popolo impaurito invece di guardarlo negli occhi e dirgli parole adulte: che chi perde la strada deve resistere alla tentazione di tornare indietro, perché solo andando avanti troverà il sentiero che lo riporterà sulla strada perduta.

1.6.12

Il Codice Grillo

Massimo Gramellini (La Stampa)

Quando saremo al potere, spiega Grillo in un’intervista a «Sette», i politici verranno giudicati da un tribunale di cittadini incensurati estratti a sorte, che li condannerà ai lavori socialmente utili e alla restituzione del malloppo. Vedo già formarsi una ola da Bolzano a Trapani. Sorprende la moderazione del gabibbo barbuto: se avesse proposto di mozzare le mani ai ladri e la lingua agli ospiti dei talk show sarebbe stato portato in trionfo da tutti i sondaggi che chiedono agli italiani se preferiscono l’aumento della benzina o quello dello stipendio. Le persone hanno fame di capri espiatori per calmare l’ansia. Fin troppo facile blandirle con il populismo. Perciò merita rispetto la presa di distanza di Enrico Strabotti Bon, militante del movimento 5 Stelle sezione adulti: «La crisi ha ragioni più complesse. Magari potessimo ridurla a una vicenda di guardie e ladri. Ciò detto, chi ha commesso dei reati non la passerà liscia. Ma guai se a giudicarlo fossero i tribunali del popolo. Erano già poco democratici nella democratica Atene, dominati dall’emotività e dall’odio che si porta dietro altro odio. Giacobini, nazisti, stalinisti, talebani: non c’è epuratore che non li abbia usati per epurare, salvo esserne epurato a sua volta. Prima o poi, Beppe, quel tribunale giudicherebbe anche te. Il peggior Stato di diritto è meglio della migliore giustizia popolare».

Condivido Enrico Strabotti Bon. Non foss’altro perché me lo sono dovuto inventare. Sempre in attesa che un seguace reale di Grillo trovi la forza di ricordargli che non ci siamo liberati di un contaballe per consegnarci a un ayatollah.

12.4.12

Il vecchietto dove lo metto

Massimo Gramellini

Diventar vecchi è una tragedia. Ma fortunatamente non più per i vecchi. Per l’umanità intera. Questo delicato pensiero traspare dalla profezia del Fondo Monetario Internazionale, noto ente benefico con il cuore a forma di trappola. «Se entro il 2050 la vita media dovesse aumentare di tre anni più delle stime attuali» sostengono i buttafuori dell’economia globale, «i già elevati costi del Welfare crescerebbero del 50 per cento». Lo scenario è da film catastrofico. Milioni di anziani che vanno e vengono dagli ospedali terremotando i bilanci delle Asl e le mazzette dei politici. I prezzi dei badanti alle stelle (basta vedere quanto ci è costata Rosy Mauro). Il peso di un esercito di indomiti e canuti nullafacenti a gravare sulle spalle di rari lavoratori precari e precocemente invecchiati. I fondi pensione - senza più nessuno che paga la pensione finiranno per andare a fondo, trascinandosi dietro le Borse, gli Stati e lo stesso Fondo Monetario, che per la gioia del suo ex presidente Strauss-Khan sarà costretto a rifugiarsi in Brasile, uno degli ultimi luoghi del pianeta dove le scuole di samba vantano più iscritti delle bocciofile.

Come scongiurare lo sfacelo annunciato? Qualcuno dovrà pur sacrificarsi. Escludendo che quel qualcuno sia il Fondo Monetario, non restiamo che noi, i vecchietti del 2050. Se l’assenza di diluvi universali dovesse malauguratamente protrarsi, ci toccherà mettere in pratica la soluzione avanzata dallo scrittore Martin Amis: entrare in una cabina al compimento del novantesimo anno, schiacciare un bottone e adios. Per lo spread, questo e altro.

12.11.11

Buonanotte

Massimo Gramellini

Oggi è il giorno che chiude un ventennio, uno dei tanti della nostra storia. E il pensiero va al momento in cui tutto cominciò. Era il 26 gennaio 1994, un mercoledì. Quando, alle cinque e mezzo del pomeriggio, il Tg4 di Emilio Fede trasmise in anteprima la videocassetta della Discesa In Campo. La mossa geniale fu di presentarsi alla Nazione non come un candidato agli esordi, ma come un presidente già in carica. La libreria finta, i fogli bianchi fra le mani (in realtà leggeva da un rullo), il collant sopra la cinepresa per scaldare l’immagine, la scrivania con gli argenti lucidati e le foto dei familiari girate a favore di telecamera, nemmeno un centimetro lasciato al caso o al buongusto.

E poi il discorso, limato fino alla nausea per ottenere un senso rassicurante di vuoto: «Crediamo in un’Italia più prospera e serena, più moderna ed efficiente... Vi dico che possiamo, vi dico che dobbiamo costruire insieme, per noi e per i nostri figli, un nuovo miracolo italiano». Era la televendita di un sogno a cui molti italiani hanno creduto in buona fede per mancanza di filtri critici o semplicemente di alternative. Allora nessuno poteva sapere che il set era stato allestito in un angolo del parco di Macherio, durante i lavori di ristrutturazione della villa. C’erano ruspe, sacchi di cemento e tanta polvere, intorno a quel sipario di cartone. Se la telecamera avesse allargato il campo, avrebbe inquadrato delle macerie.
Oggi è il giorno in cui il set viene smontato. Restano le macerie. La pausa pubblicitaria è finita. È tempo di costruire davvero.

24.8.11

Domenico Straussi Cani

La disavventura giudiziaria di Dominique Strauss Kahn, il banchiere snob dagli impulsi erotici non controllabili (i suoi antenati di Neanderthal vestivano peggio, ma erano più evoluti) è terminata nel pieno rispetto del pronostico. Con i soldi della moglie (sufficientemente viziata e antipatica per essere affascinata da un maschio simile) l’imputato ha foraggiato avvocati formidabili e indagini spregiudicate, così da riuscire nell’impresa di trasformare la cameriera vittima in un’approfittatrice e ottenere un verdetto di archiviazione. Ma quel quarto d’ora di libidine alberghiera ha comunque distrutto la carriera politica di DSK. Il quale avrà anche evitato le conseguenze giuridiche dei suoi atti, ma non quelle sociali: le dimissioni dalla presidenza del Fondo Monetario e la rinuncia alla candidatura socialista per le Presidenziali francesi del 2012.

Cosa sarebbe successo in Italia a un suo ipotetico avatar? Esattamente l’opposto. Intanto si sarebbe cementificato alla poltrona: «Per spirito di servizio», «per senso di responsabilità», «perché me lo chiede l’Europa». Poi avrebbe gridato al complotto dei Poteri Forti contro di lui, si sarebbe presentato alle elezioni e le avrebbe pure vinte, indossando quei panni da perseguitato che portano male ovunque tranne che da noi, dove il lamento del farabutto, purché dotato di charme, fa scattare un moto immediato di solidarietà. In compenso, invece che tre mesi il processo per stupro sarebbe andato avanti vent’anni e avremmo visto l’imputato raggiungere la pace dei sensi in tribunale.

8.2.11

È qui la festa

Massimo Gramellini

Il Centocinquantesimo dell’Italia Unita ricorda quelle feste di compleanno dell’adolescenza dove gli invitati all’ultimo danno buca o si trascinano per inerzia e col segreto desiderio di provocare qualche pasticcio. Ieri ci siamo persi il presidente della provincia di Bolzano: si sente un austriaco all’estero, ha fatto sapere che l’Alto Adige il 17 marzo non festeggerà. La presidente degli industriali, magnanima, quel giorno è pronta a stappare una bottiglia di spumante, ma sui luoghi di lavoro: niente vacanza, perché nell’economia globale occorre aumentare il pil anche sullo stomaco.

A quaranta giorni dal lieto evento gli italiani ignorano di che cosa si tratti (un lettore: «Non andavo alle feste dell’Unità quando c’era il partito comunista, si figuri adesso»), oppure se ne infischiano, oppure prendono a pretesto la ricorrenza dell’unità per tornare a dividersi daccapo. I borbonici vorrebbero trascinare i piemontesi davanti alla Corte di Giustizia dell’Aja. I padani si dividono fra chi considera Cavour vittima di Garibaldi e chi un connivente: imputato di concorso esterno nel reato di associazione italiana. Ma sotto sotto tutti gli italiani sono convinti di stare insieme per sbaglio, per un incidente della storia al quale rassegnarsi, ma di cui non menare vanto. La festa interessa solo a Napolitano e a un centinaio di torinesi eredi delle truppe di occupazione. Potremmo cavarcela col minimo del disturbo, invitando a cena il Presidente in una piola di Torino. Menù di bagna cauda, così all’uscita dispenseremo aliti di patriottismo alle popolazioni oppresse.

3.2.11

Altre domande?

Massimo Gramellini

1. Presidente, negli ultimi due anni l’Italia ha tenuto alto l’argine della stabilità dei conti, come hanno riconosciuto l’Europa e il Fondo Monetario Internazionale. Ora è il momento di tornare a crescere. In che modo?

2. Molti analisti affermano che l’Italia è ancora un Gulliver, ovvero un gigante bloccato da lacci e laccioli. Lei è sceso in politica nel 1994 promettendo la rivoluzione liberale. Per dare una scossa alla nostra economia è arrivato il momento di andare fino in fondo?

3. Proprio su questi temi lei ha fatto una proposta all’opposizione che ha risposto che non è credibile. Ma dietro questo rifiuto, secondo lei, aleggia il partito della patrimoniale, la vecchia ricetta che per risolvere i conti della nostra economia punta sempre sulla scorciatoia dell’aumento della pressione fiscale?

Domande dure, niente da dire. Di quelle che lavorano ai fianchi l’interlocutore, specie nel caso in cui soffra di solletico. A volte capita di leggerle anche sui giornali, ma sussurrate all’ora di cena sul primo canale della tv di Stato fanno tutto un altro effetto. Pur intimidito dalla prospettiva di trovarmi al cospetto di un superuomo che teneva entrambe le mani sopra la cartina geografica del mondo intero, al posto dell’intervistatore del Tg1 avrei approfittato della storica circostanza per rivolgere a Berlusconi una domanda ancora più insidiosa.

4. Presidente, come va?

10.9.10

Impiccioni

Emilio Alessandrini, magistrato. Giorgio Ambrosoli, avvocato. Vittorio Bachelet, magistrato. Marco Biagi, professore. Paolo Borsellino, magistrato. Bruno Caccia, magistrato. Luigi Calabresi, poliziotto. Rocco Chinnici, magistrato. Carlo Casalegno, giornalista. Nini Cassarà, poliziotto. Francesco Coco, magistrato. Fulvio Croce, avvocato. Carlo Alberto Dalla Chiesa, generale. Massimo D’Antona, professore. Mauro De Mauro, giornalista. Giuseppe Diana, sacerdote. Giovanni Falcone, magistrato. Francesco Fortugno, medico e politico. Boris Giuliano, poliziotto. Peppino Impastato, conduttore radiofonico. Pio La Torre, politico. Rosario Livatino, magistrato. Oreste Leonardi e con lui tutti gli agenti di scorta caduti sul lavoro. Giorgiana Masi, studentessa. Piersanti Mattarella, politico. Aldo Moro, politico. Francesca Morvillo, magistrato. Emanuele Notarbartolo, banchiere. Vittorio Occorsio, magistrato. Giuseppe «Joe» Petrosino, poliziotto. Pino Puglisi, sacerdote. Guido Rossa, sindacalista. Roberto Ruffilli, professore. Giancarlo Siani, giornalista. Antonino Scopelliti, magistrato. Giovanni Spampinato, giornalista. Ezio Tarantelli, professore. Walter Tobagi, giornalista. Angelo Vassallo, sindaco. E tanti, tanti altri.

Grazie, perché ve la siete andata a cercare. («Senatore Andreotti, come mai Ambrosoli, l’avvocato che indagava sugli illeciti di Sindona, fu ucciso da un killer nel 1979?». «Non voglio sostituirmi a polizia e giudici, certo è una persona che in termini romaneschi se l’andava cercando». Da La storia siamo noi, in onda ieri su Raitre).

15.5.10

L'arma disarmante

Massimo Gramellini

La settimana scorsa, la maestra napoletana Maria Marcello si era tuffata in una zuffa di bambini per separarli ed era stata colpita da un calcio che le aveva fracassato la milza. Al risveglio dall’operazione, le sue prime parole erano state irrituali: voleva rivedere il piccolo che l’aveva mandata all’ospedale e perdonarlo. Ieri il bambino le ha spedito una lettera di scuse, un mazzo di fiori e il vangelo della sua prima comunione. Libro Cuore? Può darsi.

Per me quella maestra è una rivoluzionaria e ha raccolto il frutto di un gesto non buonista, ma anticonformista. Esiste oggi qualcosa di più banale che vendicarsi delle offese subìte? Pare sia rimasta l’unica regola morale accettata da tutti: ogni torto va riequilibrato con un’offesa di segno uguale e contrario. Centinaia di film gialli e di curve ultrà non fanno che ripetercelo di continuo: l’onore, la giustizia e il rispetto si ottengono soltanto con la ritorsione. Un bambino ti spacca la milza? Che sia cacciato dal consesso urbano, umiliato lui e la sua famiglia. Così il bimbo crescerà avvelenato contro il mondo, in preda a un astio vittimista che i familiari non mancheranno di alimentare. Poi arriva una maestra da 1100 euro al mese che dice: «Ti perdono». E lo scenario di colpo si ribalta. Perché come fai a sentirti ancora vittima della società, quando la «tua» vittima ti chiede di stringerle la mano?
Il perdono è l’arma disarmante. Non puoi farci nulla: ti vince, ti conquista, ti redime. Ed è una medicina che alleggerisce il cuore di chi lo riceve, ma ancor più quello di chi lo offre.

5.5.10

Casa e Chiesa

Massimo Gramellini

Lo confesso: nel leggere le parole del cardinal Bagnasco sull’Unità d’Italia che «è un tesoro per tutti e non va bistrattata» mi sono commosso. Ho pensato al mio unico idolo politico, Cavour, morto gridando in faccia al suo confessore: «Frate, libera Chiesa in libero Stato!». Alle invettive di quel mangiapreti inguaribile di Garibaldi. Alle scomuniche di Pio IX contro Vittorio Emanuele «re di briganti». Al destino zoppo di un Paese nato dall’azione di un pugno di liberali e di massoni, nel disinteresse delle masse analfabete e con l’aperta ostilità della Chiesa, che fin dal Seicento impedì la nascita di uno Stato nazionale, evocando di volta in volta un protettore straniero per impedirla. C’è voluto del tempo, ma ora i nostri padri risorgimentali possono stropicciarsi gli occhi nell’aldilà, scorrendo le interviste patriottiche del cattolicissimo Andreotti e la ferma scelta di campo del capo dei vescovi. Quante lotte, sofferenze e inimicizie per arrivare a pensarla tutti alla stessa maniera. Non fosse che per questo, dobbiamo ringraziare la Lega, che con le sue sparate (l’ultima è il sito web con il rotolo di carta igienica bianco rosso e verde) mi ricorda un compagno delle elementari, il quale disegnava sul sussidiario un paio di corna sopra l’immagine di Garibaldi «che ci ha riempito il Nord di terroni», rivelando così per contrasto a tutti noi il fascino dell’Italia unita.

Già pregusto il Buongiorno che scriverò fra un secolo e mezzo, quando il pronipote di Calderoli inneggerà ai prefetti e al tricolore.

17.4.10

Il rogo di Gomorra

MASSIMO GRAMELLINI
Sono d’accordo con l’Amato Premier. La mafia italiana è appena la sesta nel mondo (il prossimo anno non parteciperà neanche alla Champions), la sua fama è tutta colpa di «Gomorra». Che in realtà parla di camorra ed è pubblicato dalla casa editrice dell’Amato. Ma sono quisquilie. Piuttosto: perché fermarsi a Saviano, dico io. Si chiami il ministro fuochista Calderoli e gli si commissioni un bel falò per buttarci dentro altri libri disfattisti. Comincerei dai «Promessi sposi»: tutti quei bravacci e signorotti arroganti, che agli stranieri suggeriscono l’immagine fasulla di un Paese senza regole, dove la prepotenza e la furbizia prevalgono sul diritto. E «Il fu Mattia Pascal»? Vogliamo continuare a diffondere la favola negativa dell’uomo che cerca un legittimo impedimento per potersi fare i fatti suoi? Nel fuoco, insieme con «La coscienza di Zeno», un inetto che non riesce nemmeno a liberarsi del vizio del fumo, quanto di più diseducativo per una gioventù che ha bisogno di modelli positivi come il vincitore di «Amici».

Porrei quindi rimedio alla leggerezza sconsiderata del «Gattopardo». «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi». Hai trovato la formula segreta del potere e la spiattelli in giro così? In America nessun romanzo ha mai raccontato la ricetta della Coca-Cola. Nel fuoco anche Tomasi di Lampedusa: con quel cognome da nobile sarà di sicuro comunista. E poi «Il nome della rosa». Morti e sesso torbido in un monastero. Di questi tempi! Il nome della Rosa è Pantera. Il resto al rogo. Su con quelle fiamme e linea alla pubblicità.

23.2.10

Decide il Poppolo

di Massimo Gramellini

«Popolo di Raiuno! Popolo di Canale 5! Benvenuti a Decide il Poppolo, il programma a reti unificate che da oggi sostituisce il Parlamento. (Vivissimi applausi dalla platea). Basta Casta, gli onorevoli adesso... siete voi!!! (boati). Ma veniamo al tema di questa sera. Si vota sui lavoratori clandestini: regolarizzarli o rispedirli indietro? Chiamo sul palco Malik Barak, che ci esporrà in tre minuti le ragioni per cui andrebbero accolti... Grazie, Malik... E ora, per i fautori del rimpatrio forzato, Giasone Pecoracci... Grazie anche a te, Giasone... Popolo! Pensate di aver acquisito una conoscenza approfondita del problema? (Coro: Sììììì!)... Allora... si decide! Se volete regolarizzare i clandestini come Malik, il codice di televoto è lo 01. Se invece volete cacciarli come proposto da Giasone, il codice è lo 02... Notaio, push the botton! Stop al televoto...

Ecco, mi stanno consegnando la busta con l’esito della votazione... Il popolo sovrano ha deciso... Vorrei un po’ di atmosfera... Regista, spegni lo studio... La volontà... insindacabile... del popolo... italiano... è che i lavoratori... clandestini... siano... rimandati a casa loro! Mi dispiace, Malik. Domani verrete tutti rimpatriati, ma non disperare: ci sono ancora i ripescaggi... Popolo di Raiuno! Popolo di Canale 5! Vi aspetto la settimana prossima per una nuova puntata di Decide il Poppolo. Voteremo la Finanziaria: siete favorevoli all’abolizione delle tasse?». Mi sveglio di soprassalto. Il telefono dorme ignaro sul comodino, attaccato al caricatore. E’ stato solo un sogno.

23.1.10

La cura del bullo

Massimo Gramellini

Sul Lago di Garda abita una ragazza dello Sri Lanka, venuta in Italia per guadagnare i seimila euro che servono a pagare le cure del fratellino malato di tumore. Lavando i pavimenti di giorno, facendo la badante di notte, e risparmiando ferocemente su tutto, giorno e notte, in un anno la ragazza riesce a mettere da parte la cifra agognata. Si accinge a mandare il vaglia a casa, ma non resiste alla tentazione di telefonare alla mamma per anticiparle la grande notizia. Entra in una cabina (la ragazza non ha il telefonino), tenendo a tracolla la borsa con i seimila euro. Quando quattro ragazzetti gliela strappano, lei lancia un urlo nella cornetta e la madre, dall’altra parte del mondo, vive il suo dramma in diretta.

I carabinieri identificano subito i rapinatori: li conoscono già. Sono adolescenti della zona, molto ricchi e molto annoiati, che cercano di scuotere l’abulia delle proprie esistenze con gesti che procurino scariche violente di adrenalina: per esempio rubare soldi a chi ne ha bisogno per andarli a spendere in cose di cui loro non hanno alcun bisogno. Vengono acciuffati mentre stanno finendo di dilapidare il bottino in un negozio di oggetti griffati. Lo scontro fra bene e male è così lampante che per mettere tutto a tacere, anche la coscienza, i genitori dei bulletti rifondono i seimila euro. «Sono i nostri figli, cosa possiamo fare?», si giustificano. Un’idea l’avrei. Vivere come la ragazza per un anno: lavando i pavimenti di giorno, facendo i badanti di notte, e risparmiando ferocemente su tutto, giorno e notte. Magari funziona.

29.9.09

Il canone spuntato

Massimo Gramellini

Molti lettori mi chiedono di aderire alla campagna del Giornale contro il canone Rai. Vittorio Feltri ha ragione, sostengono, non se ne può più di sovvenzionare col nostro denaro «Porta a Porta» e il Tg1. A dire il vero certe battute me le sarei aspettate dall’opposizione, se solo fosse guidata da esseri viventi. Invece da lì sono uscite le consuete lamentazioni ispirate al politicamente corretto: vergogna, evasori, giù le mani dal servizio pubblico. Ma siamo sicuri che per la buona tv sarebbe così terribile se il canone si trasformasse da tassa di possesso a tassa d’uso e ognuno di noi finanziasse soltanto i programmi che intende guardare? Una pay-per-view a prezzi popolari. Adesso io pago il balzello in un colpo solo, poi me ne dimentico e per un anno intero mi sorbisco le peggio sconcezze con l’atteggiamento tollerante di chi sta ricevendo qualcosa gratis. Immaginiamo invece che ogni trasmissione mi costi, anche solo cinque centesimi. Sarei curioso di vedere quanti di noi li investirebbero ancora in certi spettacoli della mutua. La nevrosi dello zapping subirebbe una contrazione salutare. L’indice di ascolto coinciderebbe finalmente con quello di gradimento. E la pubblicità sarebbe obbligata a diventare adulta, rivolgendosi a un pubblico selezionato e spostandosi in parte su altri media, come avviene nelle nazioni che frequentano l’alfabeto. Sì, più ci penso e più mi convinco che Feltri abbia ragione. Con le dovute eccezioni. Pensando a chi soffre d’insonnia, continuerei a somministrare gratis Marzullo, dietro presentazione di regolare certificato medico.

15.9.09

L'indice della felicità

Massimo Gramellini

La culla dell’Illuminismo ha sfornato un’idea non peregrina: l’uccisione del famigerato Pil, il prodotto interno lordo che da decenni è lo strumento pressoché unico con cui si valuta il peso specifico delle nazioni. Una commissione di economisti insediata in Francia da Sarkozy propone di sostituirlo con un indice che tenga conto non solo della quantità, ma anche della qualità della vita: tempo libero, ambiente, servizi pubblici.

Aiuto. Come essere umano ne sono entusiasta. Ho sempre detestato la religione dei numeri, questo Auditel esistenziale in base al quale l’importanza di un popolo o di una persona viene fatta dipendere soltanto dalla massa di cose che produce e possiede. Ma come italiano temo che le nuove regole ci trascinerebbero nel girone dei dannati. Già il nostro Pil deve sottrarre dal computo i guadagni degli evasori e dei mafiosi (che insieme fanno praticamente un altro Pil). Se poi l’indice dovesse allargarsi alle esperienze mistiche che ogni giorno colorano la vita di chi decide di spostarsi da una città all’altra o di chiedere un documento in un ufficio, prevedo che la nostra partecipazione ai G8 e ai G20 si ridurrebbe al ramo «ricevimento e catering». A meno che gli economisti di Sarkò inseriscano nel paniere del benessere la voce «anarchia e impunità», che all’estero molti ci contestano e al tempo stesso ci invidiano: allora rischieremmo di tornare in testa, e per distacco.

19.4.08

Silvio finge di sparare in difesa di zar Vladimir

La gag fuori ordinanza dopo la notte del Bagaglino-show
MASSIMO GRAMELLINI
Questo è un sondaggio post-elettorale. Che effetto produce sulla vostra psiche la visione del presidente del Consiglio in (doppio) pectore che, durante un’arzilla conferenza stampa con traduzione simultanea in russo, punta le mani a mitraglietta contro una giornalista moscovita terrea in volto, che aveva appena chiesto a Putin notizie sul suo divorzio?
Prima di azzardare una risposta, è opportuno che vi facciate un quadro completo della situazione. Dunque: è in corso l’ultimo atto della visita di zar Vladimir a Porto Rotondo, allietata la sera prima dall’arrivo nella villa padronale, tramite apposito volo charter, dell’intera compagnia del Bagaglino. Con questa mossa che spacca irrimediabilmente il Paese (ci sono milioni di italiani che non riuscirebbero a sorridere per una battuta del Bagaglino neanche passandosi una piuma di struzzo sotto le piante dei piedi), Berlusconi ha voluto ricompensare l’amico del cuore. Il quale, sei mesi fa, nella sua dacia in Russia, gli aveva regalato uno spettacolo di professioniste della danza del ventre: ancor oggi il Cavaliere ne conserva ricordi vividi, più di quanti gliene lascino i vertici con Bossi e Fini per la spartizione della vittoria.
Sorvoliamo sull’immagine, per qualcuno deprimente ma per altri democratica, di due fra gli uomini più potenti del mondo che se la spassano condividendo gli stessi svaghi degli ospiti di una crociera aziendale. E andiamo a sederci anche noi in mezzo al pubblico della conferenza stampa: sta filando liscia, facilitata dal confronto con quelle di Romano Prodi, che provocavano improvvisi attacchi di sonnolenza persino fra le guardie del corpo, con rischi gravissimi per l’ordine pubblico. Quand’ecco che al microfono si accosta una ragazza bionda e minuta, che attira subito l’attenzione del pubblico a casa, composto a quell’ora del mattino soprattutto dai giornalisti maschi che piantonano gli schermi di Sky. Si chiama Natalia Melikova e scrive per la «Nezavsinaya Gazeta». Contravvenendo alla convinzione che Putin si trascini in trasferta soltanto i reggicoda (oppure ribadendola, se credete che si sia trattato di una messinscena orchestrata da lui per poter smentire certe voci), la giornalista gli chiede conto delle indiscrezioni sul suo legame con la venticinquenne Alina Kabayeva, ex ginnasta e neodeputata. Putin diventa paonazzo, assumendo per un attimo lo stesso color terracotta del Cavaliere, e trafigge la Melikova con uno sguardo amichevole quanto le sue parole: «Non mi sono mai piaciuti quelli che infilano il loro naso colante nella vita altrui».
L’atmosfera è leggermente più tiepida di quella che si respira in Siberia durante una notte invernale. Ma a riscaldarla ci pensa un «entertainer» molto più divertente dei comici del Bagaglino: Silvio, naturalmente, che sotto lo sguardo benedicente di Putin punta le mani verso la giornalista, mimando una mitragliatrice. Nella sua testa, come in quella di molti suoi elettori, quel gesto non evoca morte e desolazione, ma un unico autorevole precedente storico: l’ex centravanti della Fiorentina Batistuta, che dopo i gol sventagliava le mani a mo’ di mitra. A essere pignoli, più che un mitra la mimica del Cavaliere richiama alla mente le due pistole estratte in contemporanea da Clint Eastwood nelle scene-madri dei film di Sergio Leone. Sfumature. Di sicuro De Gasperi non avrebbe mai imitato Batistuta e neanche Clint Eastwood. Ma se è per questo, nemmeno Breznev si sarebbe mai lasciato intervistare in pubblico sulle proprie amanti patinate. E De Gaulle non ne avrebbe sposata una, come invece ha fatto Sarkozy, che ha pure festeggiato la vittoria alle Presidenziali andandosene in giro per il Mediterraneo sullo yacht di un amico miliardario.
Eccoci dunque al sondaggio. Se l’ultima cassanata in mondovisione di Berlusconi (mimare scherzosamente l’omicidio di una giornalista russa ficcanaso, incurante che negli ultimi anni siano stati ammazzati oltre duecento giornalisti russi ficcanaso) vi indigna e vi sconvolge, siete Nanni Moretti. Se vi fa sorridere, siete berlusconiani. Se vi fa proprio morire dal ridere, siete Berlusconi. Se invece vi ritrovate a rimpiangere l’orribile ipocrisia che un tempo, nelle famiglie come nei vertici di governo, teneva il posto della buona educazione e serviva quantomeno a mascherare i cattivi pensieri, siete solo dei borghesi confusi e probabilmente antiquati, come il sottoscritto.
E la signorina Melikova, intanto? A lei la mitragliata ha fatto venire gli occhi lucidi, ma quando qualcuno ha tentato di rassicurarla, dicendole: «Guarda che scherzava, è fatto così», la giornalista russa ha risposto: «Lo so che scherzava, lui». Povera figlia. Non erano state le mani a mitraglia di Berlusconi a farla precipitare nel panico, ma gli occhi di ghiaccio di quell’altro. Come la capisco. Anch’io, nel dubbio, fra i due mi tengo la mitraglia.
lastampa.it