12.4.13

Contro la povertà

di Donatella Di Cesare (Micromega)

Segnali sempre più forti ci indicano che nella sfera pubblica sta nascendo una sorta di “neopauperismo”. Non ci si può tuttavia rassegnare all’esistenza della povertà, né tantomeno giustificarla. Bisogna restituire al povero la possibilità di dare.

L’esplosione della povertà nel ricco Occidente costringe a ripensare un fenomeno che sembrava relegato in gran parte ai confini del passato e alle periferie del mondo. A parte rare eccezioni, hanno dominato finora sconcerto, sdegno, rassegnazione. Ed è risuonato il messaggio: «la povertà rende liberi»[1]. Quasi che al filosofo, o al teologo, non restasse, di fronte alla povertà altrui, che condividerla indicandola a stile di vita. C’è da chiedersi se stia nascendo, o sia già nato, un neopauperismo.

Certo si comprende l’esigenza che la vita pubblica non umili ulteriormente chi è nel bisogno. La ricchezza sfacciata ha di questi tempi un aspetto lugubre. E si comprende anche l’urgenza, avvertita da molti, di sottrarsi all’iperconsumo imposto dalla crescita infinita[2]. Ma la stessa regola di Francesco d’Assisi era il progetto di abdicare alla proprietà per una forma di vita comune fondata sull’uso[3].

Appare perciò dubbio il tentativo di anestetizzare con un concetto elevato di povertà il dolore dell’indigenza. Chi è povero subisce una privazione che non può essere in alcun modo giustificata – né come volere divino, né come calamità naturale, né tanto meno come inevitabile esito della storia. Proprio perché non può essere giustificata, reclama giustizia.

La povertà ha a che fare con la schiavitù, non con la libertà. Ed è dunque tra i mali peggiori. Perché il povero è oppresso dalla mancanza, prigioniero del debito. È lo schiavo. Non occorre risalire all’antichità. Le nuove forme di schiavitù – a cominciare dall’indebitamento incoraggiato dal sistema economico – sono sotto gli occhi di tutti. Che il debito sia stato contratto o, più spesso, ereditato, e non voluto, i nuovi schiavi sono schiacciati dal fardello del passato che non permette di intravedere il futuro.

Non stupisce, perciò, che la povertà sia sempre stata vista non solo come privazione dei beni materiali. Il povero, soffocato dalla ristrettezza, vive nell’angustia e nell’angoscia. E questa condizione esistenziale va di pari passo anche con l’esclusione sociale. Il povero è isolato, rinviato a se stesso, estromesso dalla condivisione non solo della proprietà, ma anche della dignità. Ecco perché nella Bibbia è paragonato allo straniero, avvicinato, per la sua debolezza, all’orfano e alla vedova. Di qui l’ingiunzione: «e se un tuo fratello impoverirà e le sue forze vacilleranno presso di te, tu dovrai sostenerlo, sia anche un forestiero o un avventizio, sicché possa vivere presso di te»[4].

Alla base di questo versetto vi è l’idea – dimenticata in molte epoche e occultata nel capitalismo – che la povertà non sia un evento naturale e ineluttabile. Povertà e ricchezza sono condizioni provvisorie, dovute a un processo che con il tempo si fa iniquo e che perciò deve essere interrotto. Non c’è una equità intrinseca al mercato. Chi lavora duramente viene premiato. Ma non sempre. E chi si affatica, può sperimentare l’inutilità dei propri sforzi. Nel corso degli anni le traversie personali, le disgrazie familiari, i rovesci finanziari, decretano la povertà di molti, la ricchezza di pochi. Dall’andamento dei rapporti economici non emerge una giusta ripartizione. E se è così, sarebbe semmai un furto mutare il possesso temporaneo in appropriazione definitiva.

Il povero non è colpevole. Porta il peso del debito, non quello della colpa. Non ha bisogno che altri condividano la sua condizione in un ideale di rinuncia. Quel che il povero, con la sua stessa presenza, richiede è che venga spezzato il circolo vizioso della povertà.

In nessun modo, dunque, il povero può essere stigmatizzato. È la posizione di Marx che, com’è noto, radicalizza la prospettiva: dove da un canto c’è accumulazione di capitale, dall’altro c’è accumulazione di povertà, tormento lavorativo, schiavitù. La ricchezza, nella produzione capitalistica, è fondata sulla povertà. Non si tratta allora né di disprezzare, ma neppure di esaltare la povertà – prendendo la strada di un pauperismo egualitarista. Piuttosto occorre recuperare ricchezza e povertà, fuori e oltre l’economia politica, nei loro valori umani. Ricco è chi ha bisogno dell’umanità dell’altro, chi nella povertà avverte quel vincolo passivo che «fa sentire all’uomo il bisogno della ricchezza più grande, dell’altro uomo»[5].

Se oggi si tende a giudicare l’economia non più solo in termini economici, è perché non è possibile ignorare quanto il capitalismo abbia deteriorato nel profondo le relazioni interpersonali. Non c’è economia che non debba rispondere della giustizia sociale e della dignità umana. Ha assunto così un nuovo rilievo la domanda sulla povertà che non va misurata solo sul reddito. Sono in molti – da Amarya Sen a Martha Nussbaum – ad aver introdotto criteri ulteriori che tengono conto dell’essere umano nella sua complessità. Così la povertà non si limita solo ai bisogni materiali della sussistenza, ma si amplia alla istruzione, alla partecipazione, alla libertà personale, al rispetto della dignità, alla condivisione dei beni pubblici. Sotto quest’ultimo aspetto è chiamata in causa la comunità. In breve, essere poveri vuol dire non poter attuare le proprie capacità[6].

D’altronde già il Talmud distingue tra ciò di cui il povero «ha bisogno» e ciò che «gli mancherà»[7]. Cibo, alloggio, arredi indispensabili costituiscono quel bisogno materiale che riguarda tutti. Non si tralascia però una povertà ulteriore, più difficilmente definibile, anche perché varia da caso a caso: è l’assenza di quel che si aveva prima e che viene a mancare. Questa povertà provoca umiliazione, incrina il rispetto di sé, toglie la dignità. E asservisce – nei modi più subdoli.

I nuovi poveri di oggi, che d’improvviso restano senza ciò che prima avevano, a cominciare dal lavoro e dalla casa, sono colpiti da questa “mancanza”. Colpevolizzati nel fallimento, mentre sono rinviati all’aiuto altrui, vengono paradossalmente estromessi dai legami sociali.

La carità non basta. Perché non muta i rapporti esistenti. Pur alleviandone lì per lì le sofferenze, lascia il povero nella povertà. Ma l’aiuto non può essere occasionale. E il sostegno è obbligo costitutivo della comunità. Qui chi è rimasto nell’indigenza deve essere reintrodotto per ritrovare la sua libertà. L’atto supremo di giustizia sociale è offrire un posto di lavoro.

Spezzare il circolo della privazione vuol dire restituire al povero la possibilità di dare. C’è infatti una dignità umana del dare che si traduce nella comune responsabilità per un terzo. Prima ancora che dalla condivisione della proprietà, nessuno può essere escluso dalla condivisione di questa dignità.

NOTE

[1] Cfr. ad esempio l’articolo di B. Forte, La povertà che rende liberi, “il Sole 24 ore”, 31 marzo 2013.

[2] Cfr. S. Latouche, Breve trattato sulla decrescita serena, trad. it. di F. Grillenzoni, Bollati Boringhieri, Torino 2008, pp. 30-31.

[3] Cfr. G. Agamben, Altissima povertà. Regole monastiche e forma di vita, Neri Pozza, Vicenza 2011, pp. 151 sgg.

[4] Levitico 25, 35.

[5] K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, in id., Opere filosofiche giovanili, trad. it. di G. Della Volpe, Editori Riuniti, Roma 1977, p. 234.

[6] Cfr. M. Nussbaum, Creare capacità. Liberarsi dalla dittatura del Pil, trad. it. di R. Falcioni, Il Mulino, Bologna 2012.

[7] Talmud, bKetubot, 67b.

Donatella Di Cesare è professore ordinario di Filosofia teoretica alla Sapienza di Roma. Ha insegnato presso numerose università straniere ed è stata Distinguished Visiting Professor of Arts and Humanities alla Pennsylvania State University. Gli ultimi volumi pubblicati sono: Utopia of Understanding. Between Babel and Auschwitz, Suny Press, Albany 2012; La giustizia deve essere di questo modo. Paesaggi dell’etica ebraica, Fazi, Roma 2012; Se Auschwitz è nulla. Contro il negazionismo, Il melangolo, Genova 2012; Grammatica dei tempi messianici, Giuntina, Firenze 2011.

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