Leader e «peones» fanno finta di ignorare che le accuse li riguardano. Non tutti: «Ci ha fatto un mazzo a quadretti»
Gian Antonio Stella (Corriere)
«Siete stati sordi». E loro applaudono. «Inconcludenti». E si  spellano le mani. «Irresponsabili». E vanno in delirio. Pare quasi una  seduta di autocoscienza psichiatrica quella d'insediamento di Giorgio  Napolitano. Passata la sbronza correntizia finita in rissa, proprio  quelli che hanno fatto arrabbiare il nonno saggio non si accontentano di  ascoltare la ramanzina in silenzio. A capo chino.
Ma accolgono ogni ceffone in faccia, guancia destra e guancia sinistra, come se fosse rivolto ad altri. Chi? Altri. Ma quali altri? Boh... Mai e poi mai a loro.
«Ci  ha fatto un mazzo a quadretti e come grandi elettori ce lo meritavamo»,  riconoscerà con onesto imbarazzo il governatore ligure Claudio  Burlando: «Ci ha detto che siamo stati a trastullarci di votazione in  votazione anziché trovare un'intesa nell'interesse del Paese. Tanto più  in un momento che per il Paese è drammatico». «La cosa divertente è che  ho visto battergli le mani», ride Felice Casson, «colleghi che nei  giorni scorsi hanno fatto l'esatto contrario di quello che il Presidente  ci raccomanda». «E che domani hanno intenzione di restare esattamente inchiodati là dove stavano ieri», rincara Claudio Bressa. 
Ugo Sposetti invita a non chiamare «Anonima Sicari» i franchi  tiratori: «In passato hanno consentito di bocciare alcune candidature  sbagliate per far passare uomini come Sandro Pertini o Oscar Luigi  Scalfaro». A proposito, ha votato per Marini e poi per Prodi? «Il voto è  segreto, lo dice la Costituzione». Ma se il partito aveva deciso...  «Come: per alzata di mano?» Il senatore democratico Andrea Marcucci lo  rivendica: «Dopo le campagne diffamatorie degli ultimi giorni oggi  riaffermiamo l'orgoglio di aver votato Napolitano e non gli altri  candidati in gara».
Manco il tempo di sfollare verso le uscite ed ecco «il giovane  turco» Matteo Orfini interpretare già a modo suo il monito del  presidente: «Un discorso perfetto, ineccepibile che chiede un'assunzione  di responsabilità da parte di tutti per un accordo comune di governo».  Però... Però «è importante che il sostegno arrivi da parte delle tre  principali forze politiche. Se non c'è il MoVimento 5 Stelle cambia  tutto e io sono contrario a un patto politico tra Pd e Pdl». Quindi? «Il  voto di fiducia è un voto di coscienza, non c'è disciplina di  partito... Se sono contrario voto contro». Poco più in là il deputato  grillino Giorgio Girgis Sorial butta lì: «L'ultima volta che ho sentito  un discorso così era quando in Egitto si è insediato Morsi». 
Avrebbe  potuto scommetterci prima ancora di scendere sotto la pioggia dal  Quirinale verso Montecitorio, Napolitano, di essere destinato a ricevere  inchini e baciamano, elogi e salamelecchi, senza però riuscire a  scalfire la scorza di tanti. Troppo duro, lo scontro dei giorni scorsi.  Troppo profonde le fratture. Troppo calloso l'odio personale che ormai  divide le diverse fazioni dello stesso Pd. L'aveva messo in conto. Come  aveva messo in conto il diluvio di applausi trasversali indispensabili a  coprire pudicamente certe fratture.
Ed eccolo là, l'anziano Re Giorgio, che sale a fatica, senza  neppure provarci a mostrare un'elasticità giovanile che non ha più, le  scalette che portano alla presidenza. Perché mai dovrebbe rassicurare  l'Aula sulla sua salute? Al contrario, raccolta l'ovazione di tutti con  l'eccezione dei pentastellati che si alzano in segno di rispetto ma  salvo eccezioni non battono le mani manco per cortesia, spiega le sue  perplessità davanti a questo secondo mandato anche per «ragioni  strettamente personali, legate all'ovvio dato dell'età». Come a dire: mi  avete costretto voi, a restare. E lui ha dovuto accettare per il «senso  antico e radicato d'identificazione con le sorti del Paese».  (Sottinteso: «Che molti di voi non hanno»).
Ciò precisato, comincia a rinfacciare ai presenti «una lunga  serie di omissioni e di guasti, di chiusure e di irresponsabilità». E li  bacchetta per non avere dato risposte alle «esigenze fondate e domande  pressanti di riforma delle istituzioni e di rinnovamento della politica e  dei partiti» facendo «prevalere contrapposizioni, lentezze, esitazioni  circa le scelte da compiere, calcoli di convenienza, tatticismi e  strumentalismi». 
Tanto da svuotare, accusa, «quel tanto di  correttivo e innovativo che si riusciva a fare nel senso della riduzione  dei costi della politica, della trasparenza e della moralità nella vita  pubblica» col risultato che alla fine «l'insoddisfazione e la protesta  sono state con facilità, ma anche con molta leggerezza, alimentate e  ingigantite da campagne di opinione demolitorie e da rappresentazioni  unilaterali e indiscriminate in senso distruttivo del mondo dei  politici, delle organizzazioni e delle istituzioni in cui essi si  muovono». Ed ecco che, muti e silenti sotto i ceffoni sui ritardi nei  tagli e le riforme, esplodono tutti nell'applauso liberatorio: ooh,  finalmente gliele canta a chi accusa la politica di aver dato solo delle  sforbiciatine!
Ed è lì che Napolitano esce dal discorso scritto e ferma  l'entusiasta battimani: «Attenzione: il vostro applauso a quest'ultimo  richiamo che ho sentito di dover esprimere non induca ad alcuna  autoindulgenza». E vabbé, meglio che niente: e vai con nuovi applausi!
Pier Luigi Bersani, tradito prima dal risultato elettorale che si  era illuso di avere in qualche modo già acquisito quando parlava del  suo «squadrone» e poi tradito dai compagni di partito prima nelle sue  disastrose aperture ai pentastellati e poi nelle votazioni per il Colle,  se ne sta lì, deluso e cupo, il gomito piantato sul banco, il mento  appoggiato nel cavo della mano. Dirà poi che «Napolitano ha detto quel  che doveva dire, con un discorso di una efficacia eccezionale». Ma lo sa  che, quando il Presidente ricorda che «piaccia o non piaccia, occorre  fare i conti con la realtà delle forze in campo nel Parlamento da poco  eletto», parla anche di lui.
Sull'altro fronte, Silvio Berlusconi sprizza allegria. Sette anni  fa, dopo la prima elezione di «Re Giorgio», le cronache raccontarono  che aveva raccomandato ai suoi: «Mi raccomando. Composti. Come fosse un  funerale». E successivamente non aveva fatto mancare le sue riserve.  Come quando, in una manifestazione a Vicenza, urlò che le elezioni erano  state «taroccate» e che le sinistre avevano occupato tutte le  istituzioni: «Il presidente della Repubblica è uno di loro, così come i  presidenti di Camera e Senato, la Corte costituzionale...». Quando il  Colle rifiutò di firmare il decreto su Eluana andò oltre: «Vi ho visto  tutta la cupezza di un armamentario culturale figlio di una stagione che  non è ancora tramontata».
Tutto cambiato, oggi. Tanto da spingere il Cavaliere, compiaciuto  del discorso di insediamento dove il capo dello Stato «ha invitato a  buttare a mare la parola inciucio perché la politica è fatta di  compromessi e collaborazione e la realtà comporta la necessità di  superare le distanze», ad ammiccare: «Ho pregato le mie parlamentari per  oggi di cambiare l'inno del Pdl in "meno male che Giorgio c'è"».
E come potrebbe non essere allegro Pier Ferdinando Casini? «Ora  chi è andato a chiedergli di rimanere, chi lo ha pressato per fare ciò  che non voleva, ha il dovere morale di fare subito un governo.  Altrimenti siamo nel regno dei buffoni». Bella sfida. Ce la faranno?
 
 
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