8.12.13

Mitico Tempo Pieno

 da Educazione&Scuola

MITICO (?!) TEMPO PIENO…Ragioni e immaginario di un persistente successo
di Giancarlo Cerini

Un tempo per “resistere”, ma non solo…
    Diciamolo pure; la scuola elementare a tempo pieno ha un suo fascino, lo ha avuto nei decenni passati e prevedibilmente lo avrà ancora nei prossimi anni.
    Il “tempo pieno” in Italia ha circa 30 anni di storia alle spalle. La sua data di nascita ufficiale è infatti legata alla legge n. 820 del 24 settembre 1971, anche se non erano mancati negli anni precedenti i precursori “ufficiosi” di questo modello innovativo di organizzazione scolastica. Oggi, la scuola a tempo pieno, riscuote un indubbio successo di pubblico e di critica (il gradimento del “pubblico” è comunque superiore a quello della “critica”, cioè degli studiosi) e si presenta con una sua freschezza e reattività di fronte alle prossime scadenze delle riforme scolastiche.
   Nel 2000/2001 risultava iscritto a classi a tempo pieno il 21,80 % degli alunni frequentanti le scuole elementari, una percentuale che si è mantenuta stabile nel tempo (anzi è in leggero aumento) e che si è venuta consolidando anche dopo l’attuazione della legge di riforma del 1990 (Legge n. 148 del 5-6-1990), che sembrava accantonare, o quanto meno congelare, la scuola a tempo pieno in favore di modelli più flessibili di tempo lungo. Se scorporiamo il dato tra città capoluogo e resto della provincia, il dato del tempo pieno aumenta fino al 33,59 % degli alunni nelle scuole delle aree urbane. Analogamente se ci riferiamo alle variabili regionali, con una incidenza decrescente dal Nord al Sud.
    Questo dato deve far riflettere tutti coloro che si propongono di introdurre variazioni nell’attuale organizzazione della scuola di base italiana. Ci riferiamo, in primo luogo, alla legge di riordino dei cicli (Legge 28-3-2003, n. 53), che in verità nulla afferma circa la durata temporale dei curricoli scolastici, ma soprattutto alle ipotesi di nuove Indicazioni programmatiche per la scuola elementare (e dei relativi orari di funzionamento) che sono state “imbastite” durante l’estate del 2002. La sperimentazione di tali ipotesi (DM n. 100 del 18-9-2002) ha coinvolto nell’anno scolastico 2002/2003 circa 250 istituzioni scolastiche elementari e dell’infanzia, statali e paritarie (ma meno del 3 % del totale delle scuole). Il modello sperimentale non incide direttamente sull’orario della scuola elementare, tanto è vero che ad essa hanno partecipato anche classi a tempo pieno, ma va detto che il quadro complessivo di riferimento (cioè i diversi documenti che accompagnano il nuovo progetto di scuola) propone un diverso approccio alla questione del tempo scuola.

Ridurre il tempo scuola ?
Troviamo espresse nuove idee sul tempo scuola soprattutto nel documento preliminare elaborato dalla Commissione di studio presieduta dal prof. Giuseppe Bertagna e presentato in occasione degli Stati Generali della scuola (dicembre 2001). Nei testi della Commissione, di cui esistono diverse versioni[1], si affaccia l’ipotesi di ridurre il tempo obbligatorio da dedicare al curricolo comune per tutti i ragazzi, affiancandolo con una quota “facoltativa” di attività educative liberamente scelte dagli allievi e dalle famiglie.
    La proposta, secondo gli estensori, avrebbe il pregio di rendere molto più attraente l’offerta integrativa della scuola, mettendola direttamente in competizione con le altre opportunità di formazione che i genitori potrebbero scegliere non necessariamente solo all’interno dell’ambiente scolastico. Un gradito effetto collaterale sarebbe una maggiore flessibilità dei percorsi formativi, da interpretare non più in termini rigidamente scolastici, ma in sintonia con il principio di una maggiore personalizzazione dell’apprendimento, un leit-motiv che sta molto a cuore ai sostenitori delle nuove ipotesi di riforma. Maliziosamente qualcuno ha però affacciato il risvolto di un consistente contenimento della spesa pubblica attraverso la chiamata in causa del principio di sussidiarietà ed il concorso di altri soggetti pubblici e privati nella gestione delle attività educative.

Un curricolo di 25 ore ?
    Tecnicamente, la proposta iniziale suggeriva per il ciclo di base un tempo scuola minimo obbligatorio di 25 ore settimanali, da dedicare agli insegnamenti fondamentali (prevalentemente in orario antimeridiano, in situazioni di tipo frontale, con una prescrittiva definizione di obiettivi specifici di apprendimento) e un tempo aggiuntivo di ulteriori 10 ore settimanali, destinate agli arricchimenti formativi opzionali, con largo ricorso ai laboratori, alle esperienze esterne, agli apprendimenti informali. Il tutto al netto del tempo della mensa (o refezione scolastica) derubricato a pura questione di servizio ausiliario e quindi da delegare alla competenza degli enti locali.
    In alcune ipotesi “ventilate” in sede di prima applicazione della legge di delega, il quadro orario si assesterebbe sulle 27 ore settimanali, cui si aggiungono 3 ore per attività facoltative, mentre nulla si prevede per l’eventuale copertura del differenziale di tempo scuola tra le 30 e le 40 ore. In una diversa proposta diffusa in provincia di Trento (che gode di un’ampia autonomia) il tempo pieno viene strutturato secondo uno schema orario 30+3+7, quasi per evidenziare il diverso carattere e peso delle attività comuni (30 ore), di quelle facoltative (3 ore), di quelle dedicate alla mensa e all’interscuola (7 ore). Sono elaborazioni che si erano già affacciate nel panorama educativo italiano: ricordiamo, ad esempio, l’ipotesi delle “30 ore nette” di curricolo per il tempo pieno, formulata da E.Damiano per tentare l’equiparazione tra tempo modulare e tempo pieno, agli albori della legge 148/90.
    Anche se generose sul piano pedagogico (perché è corretto proporre un curricolo unitario per la scuola di base) la persistenza dei due modelli organizzativi è un dato ormai consolidato, e si collega alla valenza sociale che il contenitore “tempo” assume per gli utenti della scuola. Non è un caso che gli stessi genitori, interpellati dal Ministero in previsione degli Stati Generali, abbiano espresso grande diffidenza nei confronti dell’ipotesi di riduzione o contenimento del tempo obbligatorio dell’istruzione scolastica. Solo il 18,6 % vede con favore l’introduzione di forme di facoltatività per una parte dell’orario scolastico.[2]  
   

La policy community

Per cogliere meglio questi atteggiamenti radicati dell’opinione pubblica è utile ripercorrere –seppure a grandi linee- le vicende della scuola a tempo pieno, fin da quando vide la luce agli inizi degli anni settanta. Si potrà notare come attorno a questa esperienza si siano coagulate grandi speranze, aspettative e sentimenti dei protagonisti, alleanze istituzionali, pratiche innovative, costituendo una vera e propria policy community[3], cioè una sorta di gruppo di pressione (di sostenitori, non necessariamente autoreferenziali o clientelari) capace di fare opinione (e quindi di costruire consenso) a livello politico, sindacale, nella stampa specializzata, nelle università.
    Un esempio recente di questa “buona immagine” del tempo pieno è rappresentato dall’intervento del Sen. Giuliano Amato (già Presidente del Consiglio) in sede di dibattito parlamentare sul disegno di legge n. 1306, poi approvato definitivamente come legge n. 53 del 28-3-2003. Nel suo intervento nell’aula del Senato il 13 novembre 2002[4], il tempo pieno della scuola elementare viene visto come un progetto educativo di forte valenza democratica, capace di riscattare sul piano culturale larghi strati della popolazione italiana, cioè di quei ragazzi che a casa non avrebbero mai potuto usufruire di un’assistenza educativa per lo studio e i compiti.

Un po’ di storia
   La storia intensa del tempo pieno si identifica per molti versi con la storia dell’innovazione scolastica nel nostro paese, con le fonti più originali del pensiero pedagogico italiano (Raffaele La Porta, Francesco De Bartolomeis, Bruno Ciari), ma anche con l’impegno di tanti docenti e dirigenti scolastici meno famosi. Il suo raggio di azione culturale è andato molto al di là delle stesse differenziazioni ideologiche, anche se non possiamo dimenticare le asprezze di conflitti tra sostenitori e detrattori del tempo pieno; battaglie campali dove sembravano in gioco modelli educativi “radicali”, valori alternativi, idealità profonde, piuttosto che un confronto sereno su strategie professionali di organizzazione dell’insegnamento.
    Poi, per uno strano gioco delle parti, dopo l’avvento della riforma dei programmi del 1985 e degli ordinamenti del 1990, il tempo pieno si è sentito “tradito” dalle nuove scelte legislative, si è quasi rifugiato su un Aventino pedagogico, in un “mondo a parte”, rivendicando quasi il diritto alla propria splendida obsolescenza. Detto per inciso, la tesi che adombriamo è che il peso culturale del tempo pieno è stato determinante per arrivare alla riforma del 1990, ma che poi il “padre” (il tempo pieno”) non si è riconosciuto nel “figlio” (l’organizzazione modulare).
    Oggi che ci stiamo interrogando sul futuro della scuola elementare e la stessa organizzazione modulare sembra essere messa in discussione dalla novità della figura del docente “tutor” (un’ipotesi che riguarda direttamente anche la struttura della coppia docente di ogni classe a tempo pieno) è opportuno uscire dalla rispettive nicchie, capire domande e sfide nuove, misurarsi con nuovi scenari (l’autonomia, i nuovi saperi, il riordino complessivo degli studi), portando però il peso “virtuoso” della propria storia.
   Il tempo pieno può portare un contributo originale, fatto di valori pedagogici profondi, nel processo di innovazione educativa. Le riforme, infatti, non sono mai un punto e a capo. Le innovazioni di successo sono uno spazio condiviso in cui ci si deve riconoscere in molti: serve, appunto, un accordo di alto profilo sui valori di fondo che la società vuole attribuire alla scuola (l’educazione “disinteressata” delle persone, ma anche la formazione “finalizzata” allo sviluppo sociale e produttivo del paese).
    I valori del tempo pieno sarebbero in grado di conferire un valore aggiunto alle innovazioni in cantiere, per avvalorare un segno “positivo” del cambiamento. E’ paradossale inoltrarsi verso la scuola del futuro, ignorando uno dei modelli educativi più pregnanti della scuola italiana
    Ma prima di arrivare al prossimo futuro dobbiamo ricostruire –almeno a grandi linee- questo lungo cammino, compiuto negli ultimi 50 anni dalla nostra scuola. Piuttosto che una analisi didascalica e filologica serviranno alcune chiavi di lettura complessive. Le abbiamo individuate:
-         nelle scelte politiche;
-         nella cultura organizzativa;
-         nelle dinamiche gestionali;
-         nel profilo pedagogico-didattico.
    Sono 4 criteri di lettura che ci aiuteranno a mettere ordine nel passato e, forse, a capire il futuro…[5].
    Abbiamo poi incrociato questi criteri con un asse longitudinale, cronologico, che comprende almeno quattro stagioni del tempo pieno:
a)     i precursori: gli  anni ‘50 e ‘60;
b)     la nascita istituzionale e l’espansione degli anni ‘70, con la legge 820;
c)      l’età della maturità e del consolidamento degli anni ‘80 e ‘90;
d)     le prospettive future, oltrepassata la “boa” del 2000.

Le quattro stagioni del tempo pieno
    I decenni che stiamo considerando sono caratterizzati ognuno da un preciso “clima” sociale, da uno stile pedagogico che si intreccia straordinariamente con la storia materiale (i bisogni/i problemi) dello sviluppo del nostro paese e della nostra scuola (e, in fondo, della nostra vita). Procediamo, allora, con qualche immagine emblematica.

Gli anni dell’emergenza (anni ’50)
   Gli anni ‘50 sono gli anni dell’emergenza assistenziale, del pasto caldo assicurato dalla refezione scolastica, delle gallette “biscottate” inviate dagli aiuti internazionali, del soccorso invernale assicurato dal “patronato scolastico”, con il suo corredo di scarpe grosse e di mantelline plastificate, di quaderni e matite (…e, d’estate, tanta “colonia”). Era questo il diritto allo studio degli anni ‘50 (l’assistenza scolastica per i capaci e meritevoli di cui parla anche la Costituzione del 1948), con il sapore delle cose semplici e antiche, con un buonismo ante-litteram, ma anche con tanto paternalismo.

I favolosi anni ‘60

    Poi arrivarono gli anni ’60 (anzi, i favolosi anni ’60), annunciati da squilli di trombe e sventolii di bandiere, con i Comuni alla riscossa e tante idee pedagogiche in movimento provenienti anche da altri paesi (sono gli anni di Dewey, Freinet, Piaget, Bruner). Fioriscono le scuole alternative (un nome su tutti, Barbiana), i tanti doposcuola con la voglia di rovesciare il quieto vivere “antimeridiano” dei programmi Ermini. E’ l’idea del riscatto degli umili attraverso la scuola, con approcci e itinerari assai diversi, ora più rigorosi, ora più giocati sul versante dell’animazione, dei linguaggi alternativi, degli stili di conduzione molto libertari: anni forse un po’ disordinati, ma ricchi di fermenti per il futuro.

La via istituzionale alle riforme
    Negli anni ’70 questo movimento pedagogico trova uno sbocco istituzionale, attraverso l’approvazione parlamentare di leggi importanti come la L. 18 marzo 1968, n. 444 (che istituiva la scuola materna statale), la legge 24 settembre 1971, n. 820 (che avviava il tempo pieno “statale”), la legge 6 dicembre 1971, n. 1044 (che istituiva gli asili nido).
    La legge 820/71 rappresenta senza dubbio il frutto di molte mediazioni (come tante leggi della prima Repubblica). Nella strutturazione degli articoli si coglie un equilibrato dosaggio di soluzioni pedagogiche ed organizzative: dal tempo pieno alle attività integrative, fino agli insegnamenti speciali.
    Infatti, nella legge, il tempo pieno “classico”, come settimana scolastica unitaria gestita da due docenti contitolari per ogni classe (secondo un progetto ben illustrato nelle Direttive ministeriali di orientamento del 1972) è solo uno dei modelli proposti. Tra l’altro,  in molte realtà il doppio organico è fittizio, con una netta demarcazione tra curricolo (e insegnante “forte”) del mattino e curricolo (e insegnante “debole”) del pomeriggio.
   Molto diffusa appare la formula delle attività integrative, attraverso soluzioni di estrema (e non sempre qualificata) flessibilità, con arricchimenti pomeridiani dell’offerta formativa, messa un po’ a norma dalla successiva legge 517/77 (che auspicava una ricaduta della flessibilità anche nelle attività curricolari del mattino). Più limitata resta l’esperienza dei cosiddetti insegnamenti speciali, che configurano un avvio sperimentale di insegnamenti specialistici, come quelli relativi alla musica, alla lingua straniera, alle arti, ecc.
    Sono soluzioni pedagogiche ed organizzative di cui si discute anche oggi, a seguito delle ipotesi contenute nelle bozze di Indicazioni Nazionali proposte dalla Commissione Bertagna[6].

Gli anni ’80: il consolidamento

   L’esperienze complessiva della legge 820/71 (di cui non è facile trovare riscontri probanti)[7] si presenta con esiti differenziati. Accanto alle “scuole di eccellenza”, come Adro, Rho, Spilamberto  e tante altre, ci sono anche situazioni fragili, con una persistente separatezza tra insegnanti curricolari ed extracurricolari, tra attività del mattino obbligatorie ed attività del pomeriggio facoltative, tra discipline fondamentali e “nicchie” di specialismo disciplinare.
    Con il consolidamento degli anni ’80 l’esperienza del tempo pieno raggiunge una sua stabilità; anzi, i grandi numeri portano quasi ad un effetto di burocratizzazione dell’esperienza. Sono gli anni della maturità, del guardarsi indietro con aria soddisfatta per quanto si è realizzato, ma forse con un pizzico di nostalgia per il recente passato considerato più fascinoso. C’è nell’aria un timore diffuso per il nuovo, rappresentato dai programmi del 1985, come se ci fosse dall’alto il tentativo di normalizzare un’esperienza che mal sopporta di essere istituzionalizzata, ricondotta ad un modo ordinario di funzionare della scuola elementare. La legge 148/90 viene percepita come un vero e proprio “alto là” alla scuola a tempo pieno.
    Ci si confronta con una amara verità. Nei suoi primi vent’anni di vita, il tempo pieno non è riuscito a diventare un modello “nazionale” di scuola: le percentuali oscillano dal 50 % ed oltre di province come Bologna, Modena, Milano al poco più che 3 o 4 % di grandi città come Palermo, Napoli, Bari (là ove magari la scuola dovrebbe offrire molto di più ai ragazzi).
    Ma la “situazione di stallo” è piuttosto legata alla difficoltà del tempo pieno a ricollocare le proprie idealità in uno scenario sociale profondamente mutato: a capire i nuovi bisogni e le nuove esigenze delle famiglie (prima ancora che dei bambini), ad interpretare le propensioni dell’utenza verso l’uno o l’altro modello (la realtà, anche nel dopo riforma, è la persistenza di due modelli alternativi di tempo scuola, con il rischio di veicolare una stratificazione sociale degli utenti), a “leggere” le nuove condizioni esistenziali dei bambini (più iperstimolati, ma anche più “soli” nelle dinamiche domestiche).

La reattività degli anni ‘90
    Negli anni ’90 si assiste ad una reazione del tempo pieno, ritornano le bandiere anche ideologiche, spesso agitate nei confronti di una riforma “modulare” di cui si mettono in evidenza frammentarietà e schematismi disciplinari. Il tempo pieno viene presentato come un ambiente più accogliente, più compatto e disteso; gli stessi insegnanti lo percepiscono come luogo professionale più semplice e sereno, al riparo dai ritmi frenetici che può assumere una mal interpretata organizzazione modulare.
    C’è anche una nuova domanda sociale per il tempo pieno, legata all’espansione dell’occupazione femminile extradomestica. Le norme sugli organici (comprese quelle sull’organico funzionale di circolo) sembrano consentire un rilancio del tempo pieno, anche se resta l’esigenza di fare un po’ più di luce in certe zone d’ombra (come ad esempio, l’eccessiva quantità di risorse necessarie per far funzionare un tempo pieno “classico” nei piccoli plessi, con pochi alunni per classe).

L’incognita del riordino dei cicli

    La scuola a tempo pieno, appena superata la boa di una verifica parlamentare positiva della legge 148/90 (1995), si è poi misurata con la questione del riordino dei cicli proposto dall’Ulivo (1996) e con la successiva legge 30/2000.
    Difficile da decifrare rimaneva la collocazione della scuola elementare a tempo pieno nell’ambito della scuola di base settennale prevista dalla “riforma Berlinguer” (2000), con un rapporto tutto da costruire con la scuola media (in particolare, con la scuola media a tempo prolungato). L’idea di scuola di base era talmente innovativa, da implicare un ripensamento “forte” non solo del “tempo-scuola”, ma del ruolo stesso della prima formazione e delle modalità più efficaci dei processi apprendimento, in una diversa logica di continuità curricolare. Questa riflessione, appena avviata, è stata poi interrotta dalla sospensione dell’attuazione della legge 30/2000 e dall’avvio di un diverso profilo di riforma (estate 2001).
   Siamo così giunti ai giorni nostri con i nuovi interrogativi sul significato del tempo scuola, con le diverse prospettive elaborate dalla Commissione Bertagna (dicembre 2001), con le scelte ed i silenzi della legge 53/2003 in merito al futuro del tempo pieno.

L’eredità del tempo pieno
La scuola a tempo pieno, dunque, è una presenza ampia e radicata nel panorama scolastico nazionale. Ma che cosa ci ha insegnato questa storia ? Quali sono i frutti delle diverse stagioni del tempo pieno ? Qual è il “capitale” che viene consegnato agli eredi (che si spera meno distratti di quanto appaiano oggi)?

a)     La politica.
    Sul piano delle politiche scolastiche, il tempo pieno ha contribuito allo spostamento di prospettiva dall’assistenza scolastica al diritto allo studio e quindi a far vivere il diritto all’istruzione come uno dei diritti fondamentali di cittadinanza; oggi diremmo: dall’enunciazione del principio dell’obbligo scolastico all’impegno per il successo formativo. La scuola a tempo pieno si è qualificata come scuola della comunità, come un ambiente pedagogico “totale” (“ai cretini, dategli più tempo” era l’invettiva dei ragazzi di Barbiana). La sua visibilità pubblica è stata molto più forte della legge 148/90, forse perché il tempo pieno si è presentato non solo come modello organizzativo più compatto e integrato (ricco di servizi accessori), ma anche come una istituzione educativa “aperta” verso la città, come “scuola con le luci accese” sull’educazione permanente della comunità, con una necessaria attenzione alla qualità delle strutture, dei servizi, dei laboratori, delle biblioteche.
    Il messaggio pedagogico è stato altrettanto chiaro: un rapporto più coraggioso con la comunità, con la cultura del territorio, con una grande capacità di accoglienza e accettazione delle diversità, di rispetto e valorizzazione delle identità e delle radici, ma da proiettare in un orizzonte più vasto con la forza della conoscenza, dell’istruzione che emancipa e libera.

b) La gestione.
    Sul piano gestionale i veri protagonisti del tempo pieno sono stati i Comuni, assai prima che all’orizzonte apparissero la legge sull’autonomia (Legge 57/1997), il decentramento delle competenze agli Enti locali (D.lvo 112/1998), il “federalismo scolastico” (Legge Cost. n. 3 del 18-10-2001). Il tempo pieno suggella l’alleanza scuola-territorio. Così, gli indicatori di spesa monitorati in fase di attuazione della legge 148/90 sono correlati positivamente alla capacità degli enti locali di sostenere lo sviluppo della scuola a tempo pieno. E’ vero, il tempo pieno costa di più, ma la qualità ha un costo: quanti assessori di un Comune devono interessarsi al buon funzionamento di una scuola elementare a tempo pieno ?
    Il rapporto della scuola con la città è fondamentale, sotto il profilo strutturale e culturale, come pure il coinvolgimento dei genitori che è assai meno formale di quello ipotizzato nei decreti delegati del 1974. Insomma, nel tempo pieno si sono gettate le basi per la futura integrazione tra scuola e territorio, che ha portato ad un vero e proprio Progetto Educativo di Territorio, a forme di progettazione partecipata, in cui l’Ente locale non solo mette servizi di supporto, ma alimenta nuove risorse educative.

c) L’organizzazione.
    Sul piano della cultura organizzativa il tempo pieno ha aperto le porte dell’autonomia, intesa come capacità di autogoverno, come iniziativa progettuale, come assunzione di responsabilità. Questo processo è avvenuto innanzi tutto all’interno del gruppo degli insegnanti, strutturati in forma di team teaching (specie nei piccoli plessi “affiatati”) o di coppia “collaudata” (perché, nel tempo pieno, la cultura di “coppia” ha prevalso sulla cultura del gruppo).
    La condivisione delle responsabilità è stata la cifra interpretativa del tempo pieno: un senso di appartenenza alla istituzione “scuola a tempo pieno” che si è inverato attraverso una organizzazione leggera, basata sulle persone e sulle loro motivazioni, piuttosto che sugli incastri perfetti degli orari e delle presenze (come è apparso poi nel “modulo”). La valutazione è stata vissuta in termini di rendicontazione “sociale” partecipata, piuttosto che come tecnica docimologia.
    Oggi l’autonomia delle scuole esige affidabilità, rendicontazione, visibilità sociale, ma esiste il rischio che il sistema valutativo sia affetto da una deriva tecnicistica e docimologica.

d) La didattica.
    Sul piano pedagogico il tempo pieno ha optato per una didattica “narrativa” ove il progetto di un anno (o di un plesso, o di una classe) era imperniato su una storia o un’idea forte, piuttosto che su una miriade di microprogetti (è questo il tormentone dell’autonomia di oggi, quando è male intesa). Insomma: una didattica del canovaccio, una programmazione come “ballata popolare” che si arricchisce con la partecipazione dei diversi attori, anche perché ha un tempo lungo a disposizione.
    Le indagini sulla scuola elementare post-riforma[8], in effetti, premiano le classi a tempo pieno (almeno quelle iniziali) perché si presentano come un ambiente didattico ricco di sollecitazioni operative (la scuola del fare e non solo del dire), di situazioni sociali (con relazioni più distese ed un uso cognitivo dell’interazione sociale), di incontro variegato con linguaggi e saperi, di graduale iniziazione all’organizzazione disciplinare della conoscenza. Tutte qualità più difficili da accertare all’interno delle classi a modulo, più protese a “intensificare” i tempi della didattica, perché spinte dalla “miscela” dei diversi insegnanti responsabili delle varie aree disciplinari (a volte precocemente frammentate).         
    Questi temi sono oggi di estrema attualità, perché si torna ad apprezzare la qualità di ciò che succede in classe, ad esigere non tanto “più” tempo, ma un tempo “meglio” organizzato e comunque non in affanno.

Il tempo delle scelte
    Questa breve retrospettiva sulla storia del tempo pieno ci può aiutare a cogliere anche le sue prospettive e la sua collocazione nello scenario complessivo delle trasformazioni della scuola. 
    Sono tre, almeno, le questioni da affrontare:
-         la prima riguarda l’attualità del tempo pieno, la sua capacità di rispondere alle esigenze educative della società e dei bambini di oggi;
-         la seconda attiene alla natura del modello organizzativo e professionale, al contributo che il tempo pieno può offrire alla “revisione” dell’organizzazione modulare che sembra ormai in atto;
-         la terza riguarda le prospettive operative, la necessità di adattamenti del modello alla luce del mutato contesto gestionale e istituzionale.

L’attualità del tempo pieno

    La domanda sull’attualità e sul futuro del tempo pieno fa tutt’uno con le domande sul futuro della scuola nel suo insieme: è possibile, come ci ricorda l’OCSE in un recente documento di prospettiva, che una società sempre più attratta dallo sviluppo delle reti telematiche, da conoscenze disponibili in modo pervasivo, dalla possibilità di apprendere “ovunque e comunque”, sia tentata dall’idea di ridurre la presenza della scuola nella società chiamata della conoscenza (anzi, dell’apprendimento).
    Un malinteso concetto di sussidiarietà (…ci si può istruire a casa, tanto papà e mamma fanno il telelavoro…) sarebbe assai ben apprezzato anche dai custodi dei conti pubblici: perché sarà sempre più difficile far pagare le tasse per garantire alcuni beni pubblici “disinteressati”. Insomma, i “poteri forti” potrebbero riproporre una versione della descolarizzazione in chiave monetaristica. E’ ciò che temono molti difensori del tempo pieno: un’idea di riduzione e flessibilità del tempo scuola (liberato degli oneri “assistenziali”) potrebbe celare una ruvida riduzione di risorse (organici, finanziamenti, ecc.) per la scuola.[9]
    A questo punto scatta l’ottica difensiva, come ammette la stessa OCSE: genitori, forze sociali e, soprattutto “addetti ai lavori” si aggrappano ai modelli esistenti di scuola, con tutto il loro carico di storia, di valori, di consenso, ma anche di convenienze, routine, abitudini. Questo sta avvenendo anche per il tempo pieno, oggi alle prese con le amnesie della legge 53/2003, come già era avvenuto agli inizi degli anni novanta, con la legge 148/90 e poi di fronte alla stagione di riforme di Berlinguer, con la legge 30/2000. Il mondo del tempo pieno ha mantenuto una sorta di diffidenza pregiudiziale nei confronti delle riforme della scuola.[10]
    Ma al di là di un “romanticismo pedagogico” che vagheggia il tempo pieno delle origine, è la stessa OCSE che ci aiuta a riscoprire l’attualità del tempo pieno, quando rilancia alla scuola l’imperativo del “ripensare e riprofessionalizzare” i propri compiti, verso il duplice obiettivo di:
a)     garantire accoglienza, tenuta sociale, confronto tra diverse culture, condivisione di regole, convivenza civile e, soprattutto
b)     assicurare competenze di base, sotto forma di una solida formazione al pensare, di gusto nell’affrontare i problemi, di creatività, di capacità metacognitiva.
   Con questa piattaforma educativa si torna al punto di partenza, ai caratteri originari di un “buon tempo pieno”, al suo dispiegarsi tra vocazione all’accoglienza sociale e rigore nella proposta didattica (come nelle più sentite riflessioni “ciariane”, ancora oggi di stretta attualità).

Il modello professionale: tra “coppia” e “tutor”

    Siamo così giunti ai più pressanti interrogativi sul futuro del tempo pieno, a quel rimettere in gioco uno degli assunti fondamentali del team docente, cresciuto attorno all’idea della contitolarità, della pari dignità professionale, della condivisione della conduzione educativa della classe.
    Oggi, la ricerca di una figura forte di “tutor” nelle classi iniziali, sembra voler mettere in discussione assetti professionali consolidati e viene vissuta con disagio nell’ambiente del tempo pieno, oltre che dei moduli. Noi riteniamo che la questione del tutor (o meglio, delle funzioni tutoriali) richieda un supplemento di indagine e debba essere affrontata non in termini ideologici, riflettendo anche sul successo persistente del modello a tempo pieno, cioè di docenti con un forte legame con la vita affettiva, cognitiva ed organizzativa delle proprie classi.
    In particolare, la questione del tutor dovrebbe essere analizzata sotto diversi aspetti:
-         “le funzioni tutoriali (di accoglienza, ascolto, orientamento, accompagnamento, esplorazione delle potenzialità e degli stili di apprendimenti di ogni alunno); sono funzioni talmente intime e connaturate alla qualità di ogni docente che non è pensabile privare qualcuno di questa funzione; meglio condividerle tra tutti i docenti di un team, studiando forme di affidamento tutoriale di gruppi di alunni;
-          il coordinamento di un’equipe docente, cioè di un gruppo di professionisti, come capacità di coesione, tenuta del compito, documentazione dei percorsi, ecc.: come si possono svolgere tali funzioni, a quali condizioni, con quali responsabilità, con quali vantaggi ?
-          tempi delle diverse discipline, anche con diversa consistenza oraria (ad esempio, più lingua italiana e matematica), la loro aggregazione in ambiti (che è responsabilità attribuita al collegio dei docenti, in base al Regolamento dell’autonomia), i ritmi della settimana, l’equilibrio di una giornata “distesa (questioni che non possono essere affrontate a colpi di decreti legislativi)”[11].
Il modello di tempo pieno è in grado di fornire utili suggerimenti per affrontare questi tre distinti aspetti della vita della scuola elementare, con soluzioni rispettose delle professionalità dei docenti.

Un tempo scuola “dalla parte” dei bambini

    Al di là del pur necessario dibattito politico e sociale, il futuro del tempo pieno deve misurarsi anche con inedite questioni pedagogiche. Qual è ad esempio, il rapporto dei bambini con i tempi della scuola?
    In una ricerca effettuata con i bambini di Reggio Emilia, nella fase di passaggio dalla scuola dell’infanzia alla scuola elementare, gli alunni hanno chiesto come mai non fosse prevista una giornata intera a scuola, come nella materna. Poi, via via, hanno scoperto la presenza di troppi orologi nelle classi, nei corridoi, negli spazi comuni: quasi una premonizione sull’abuso di un tempo tutto organizzato dagli adulti.
    Più avanti negli anni, verso i 10/12 anni, sembra venir meno la voglia di tempo-scuola. Spesso i bambini che hanno frequentato il tempo pieno alle elementari non scelgono il tempo prolungato alla scuola media. C’è una esigenza di organizzazione diversa dei tempi di vita e di scuola dei ragazzi. Chiediamoci se non sia necessario un tempo “scuola” diversamente configurato lungo l’intero arco della formazione obbligatoria.
    Da un tempo inizialmente più compatto e protetto, nella scuola dell’infanzia e nelle prime classi elementari, ad un tempo che poi si struttura e si organizza con più libertà da parte dei singoli allievi. Una ricerca che, sotto gli auspici dell’autonomia, merita di essere approfondita e sviluppata, magari a partire dagli istituti comprensivi che potrebbero caratterizzarsi come un vero e proprio laboratorio anche per lo studio di un tempo scuola “necessario”, ma “equo” per tutti, i bambini, i genitori, gli insegnanti.



[1] Una prima versione firmata dal coordinatore del Gruppo Ristretto di Lavoro (novembre 2001) è stata seguita da un documento sottoscritto da tutti i membri del Gruppo (28 novembre  2001) e da una sintesi per punti presentata agli Stati Generali della scuola (14 dicembre 2001). Tutti i documenti sono pubblicati in due numeri monografici degli Annali dell’istruzione, Le Monnier, 2001. Per una ricostruzione del dibattito cfr. G.Cerini-M.Spinosi, Riforma della scuola. La nuova proposta, Notes 3, Tecnodid, 2002.
[2] Cfr. Annali dell’Istruzione, Stati generali 2001, Le Monnier, 1-2-, 2001: cap. V – Piani di studio, Tavola 5.7 – pag. 218 – “Suddivisione dell’orario scolastico settimanale in 25 ore obbligatorie e in 10 facoltative”.
[3] La definizione è mutuata da M.G.Dutto, L’ambizione pedagogica, Firenze, La Nuova Italia, 2002.
[4] “(…) la scuola a tempo pieno … non serve soltanto per risolvere i problemi pratici delle famiglie giovani, come chi per andare a prendere il figlio a mezzogiorno e mezzo dovrebbe assentarsi dal posto di lavoro. E già questo è un gigantesco problema in nome del quale la nostra civiltà, prevalentemente maschilista, finisce per condannare la donna ad arrangiarsi, a non lavorare e quindi a rimanere casalinga perché deve provvedere al ritorno a casa del figlio. Tuttavia, al di là di questo problema, ce n’è un altro che tutti conosciamo: i compiti a casa, che rappresentano un potente fattore di conservazione della divisione di classe tra i bambini. E’ così! Anche se non vi piace l'espressione "di classe", le cose – ripeto - stanno così; la mia nipotina ha me che le spiego i compiti a casa o il contenuto dei libri, mentre tanti bambini non hanno genitori che glieli possono spiegare. Il giorno dopo a scuola gli occhi della mia nipotina riflettono il fatto che lei ha capito la lezione, mentre quelli di altri bambini dimostrano il contrario. E questo si consolida giorno per giorno mantenendo una differenza. Non neghiamo la realtà! Se non vi piace l'espressione "di classe", ne uso un'altra, ma la sostanza è esattamente questa.”Intervento di G.Amato in aula il 13-11-2002 (www.parlamento.it).
[5] E.Damiano, Adro tempo pieno, Brescia, La Scuola, 1977;  L.Guasti, Modelli organizzativi e aree curricolari nel tempo pieno, Bologna, Il Mulino, 1982; E.Becchi, Tempo pieno e scuola elementare, Milano, Angeli, 1979; E.Damiano, Il tempo per insegnare, IRRSAE Lombardia, Milano, 1992.
[6] Per un commento a più voci di tali documenti si vedano i contributi pubblicati in: F.Frabboni, G.Cerini, M.Spinosi, Come cambia la scuola primaria, Tecnodid, Napoli, 2002.
[7] Una buona ricostruzione della vicenda della scuola a tempo pieno è rappresentata dal volume Censis, Tempo-scuola: quanto e come ? Angeli, Milano, 1984, in cui si presentano anche gli esiti di ricerche qualitative sugli esiti dell’apprendimento degli allievi frequentanti classi a tempo pieno.
[8] Ministero P.I.., Rapporto sull’attuazione della riforma della scuola elementare, Roma, 1996. Cfr. anche: F.Frabboni-G.Cerini, Sui sentieri della riforma. Didattica e organizzazione nella scuola elementare, La Nuova Italia, Firenze, 1993.
[9] Va ricordato che l’ipotesi di tempo scuola facoltativo della Commissione Bertagna  (2001) prevedeva, comunque, l’assicurazione di disponibilità di risorse per far fronte alle richieste di tempo facoltativo espresse dai genitori. Nelle ultime proposte attuative della legge 53/2003, invece, l’orario aggiuntivo è subordinato alla disponibilità di docenti e di risorse della scuola,  anche per incarichi esterni.
[10] Una ricostruzione, a volte in chiave apertamente polemica, del rapporto tra recenti riforme e scuola a tempo pieno è riportata negli atti del convegno sul tempo pieno tenutosi a Bologna nel marzo 2003, ora accessibili sul sito internet: www.comune.bologna.it/iperbole/cespbo/atti.htm .
[11] Stralcio da un articolo di G.Cerini in fase di pubblicazione sulla rivista “La vita scolastica”, n. 1, settembre 2003.

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