di Pierluigi Battista (Corriere.it)
Tagli e denunce per Moravia, Malaparte, Bianciardi e Testori
Quando in Italia sembrava osceno anche l’«Ulisse» di Joyce
In una scena memorabile del film Nuovo Cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore, il Totò oramai adulto guarda commosso tutte le scene di baci tagliate dal prete del paese e rimesse insieme per lui, come in un ardente collage, dal vecchio Philippe Noiret: è un nuovo film, tutto fatto di baci censurati. Un massiccio libro appena uscito da Aragno, Maledizioni di Antonio Armano, rivela i tratti di un’altra storia, parallela, della cultura dell’Italia democratica: quella tagliata dalla censura, sforbiciata, mutilata, sottoposta a sequestro, messa sul banco degli imputati. Un Indice dei libri (almeno provvisoriamente) proibiti e sequestrati che descrive le zone d’ombra di un modello culturale, di una mentalità conformista, di una mai domata volontà censoria. Che prosegue fino ad oggi, anche se si ammanta di nobili intenzioni, in nome del politicamente corretto, anzi immacolato.
Spesso le motivazioni censorie mescolano invocazione del «senso del pudore» offeso e imbarazzo politico. Gli editori spagnoli di obbedienza franchista aizzarono la magistratura italiana per perseguitare e cancellare l’edizione Einaudi dei Canti della nuova resistenza spagnola, raccolti e antologizzati da Sergio Liberovici e Michele Straniero nel 1963. Ma invece di rendere palese il motivo politico dei tentativi di sequestro del libro, l’indignazione si concentrò su una strofetta considerata indecente e blasfema: «Al Cristo de Limpias dicen que crece al pelo/ la qua crece es la polla/ de darla en culo al clero», così tradotta: «Al Cristo di Limpias dicono che gli crescono i capelli/ ma quel che gli cresce è il cazzo/ per darlo in culo al clero». Versi forti, non c’è che dire. E la mannaia si abbatté sul libro einaudiano. Difeso anche dall’etnologo Ernesto De Martino, che denunciava analoghe commistioni tra «blasfemia» e politica: «Quando ho fatto le mie raccolte di folklore religioso nel Sud d’Italia, le mie difficoltà le ho avute da parte della reazione. E tutto per strofette innocue come: “Santo Paolo mio delle Tarante/ che pizzichi le ragazze tutte quante”». Forbici vereconde, anche qui.
Moltissimi scrittori, racconta dettagliatamente Armano, entrarono nel mirino censorio degli inflessibili e austeri sacerdoti del pudore offeso che, come Alberto Sordi nel Moralista del 1959, magari finivano per gestire un giro di locali notturni. Ovviamente si accanirono contro Garzanti e Pier Paolo Pasolini per Ragazzi di vita nel 1955. «Io ho dei figli e non vorrei certo che il suo libro andasse per le loro mani», disse il presidente della IV sezione penale del Tribunale di Milano quando il romanzo venne denunciato e sequestrato. Erano i tempi in cui, come ricorda Armano, «in Rai la parola “rinculo” si sostituiva con “contraccolpo”». Pasolini tentò strenuamente di difendersi e, quando l’accusa mostrò il passo che aveva destato più scandalo, quello che descriveva il rapporto tra un ragazzo e una capra («Mo er pastore m’ha visto che me la inc…, li mortacci sua, e m’ha denunciato»), lo scrittore, a sua discolpa, contrattaccò: «Quanto alle parolacce, come vede, ho fatto molto uso di puntini». Alberto Moravia, poi, è come se avesse avuto appuntamento fisso con censori e denunciatori a ogni uscita di romanzo. Non venne risparmiata La ciociara nel 1956, ma non per la scena celeberrima e terribile dello stupro della figlia da parte delle truppe marocchine, bensì per certi passaggi sulla sessualità della madre, la vedova ciociara Cesira: «Così lui mi spinse sopra certi sacchi di carbon dolce, e io mi diedi a lui e sentii mentre mi davo a lui che era la prima volta che mi davo veramente a un uomo». Noie, è il caso di dire, Moravia le ebbe anche per La noia e per La vita interiore, a causa di certi passaggi irriferibili. Ma d’altronde tutta l’opera di Moravia sfiorava le fiamme dell’inferno, non foss’altro perché nel provvedimento in latino con cui il Vaticano metteva all’indice i suoi libri, si leggeva: «Opera omnia Alberti Pincherli».
Giovanni Testori ebbe molti guai con la censura. Non solo, come è ampiamente noto, per la trasposizione teatrale dell’Arialda, con la regia di Visconti, che scatenò proteste in sala, all’Eliseo, per talune «espressioni scatologiche» o «da lupanare», come scrisse un giornale di allora. Ma anche per Il ponte della Ghisolfa, grazie ad alcuni passaggi che suonavano come autentiche bestemmie. Non sfuggì alla tenaglia censoria Luciano Bianciardi, autore nel 1965 del racconto «La solita zuppa», all’interno di una raccolta di autori vari pubblicata dall’editore Sugar con il titolo L’arte di amare. Anche qui: immediata accusa per Bianciardi e l’editore Massimo Pini per «oltraggio al pudore» e «vilipendio della religione di Stato». A differenza di Riccardo Bacchelli, che in sostanza condivideva l’offensiva censoria, Oreste del Buono difese Bianciardi («Il racconto è uno scherzo, uno scherzo non per minorenni, ma uno scherzo che mira a colpire una stortura»). Ma per l’autore della Vita agra, i guai giudiziari furono pesantissimi. E non fu certo l’ultima volta che il «comune senso del pudore» si sentì oltraggiato, secondo quanto denunciato da chi se ne è sempre considerato, abusivamente, l’unico interprete autorizzato.
È curioso ricordare che a far le spese dello zelo dei «moralisti» alla Alberto Sordi fu anche negli anni Sessanta una Guida ai piaceri di Londra, perché venivano indicati gli hotel che rappresentavano, ad avviso dei curatori un po’ scombinati, «i posti migliori per uccidersi». Se Jacovitti, racconta Armano, avesse voluto continuare con la sua fortunatissima serie del «Diario-Vitt», il prezzo, imposto dall’editore, doveva essere l’immediata cessazione dei disegni per un Kamasutra i cui testi erano il parto del talento di Marcello Marchesi («Ammucchiata. Congresso carnale multiplo di almeno dieci persone. Fino a sei è un rapporto sentimentale»). Viene anche ampiamente ricostruito l’interdetto, con relativo e canonico sequestro, di Porci con le ali di Marco Lombardo Radice e Lidia Ravera, e la lettera aperta al magistrato che sul «Corriere della Sera» vergò Giuliano Zincone, per denunciare il doppio standard morale che sfavoriva in modo iniquo il libro censurato: «I ragazzini leggono giornaletti chiamati “Sorchella”, “Spermula” e favolette porno dove i sette nani hanno nomi che è bello tacere», eppure in questo caso nessuno si muoveva. E la ghigliottina censoria colpì anche negli anni Ottanta Pier Vittorio Tondelli per il suo romanzo Altri libertini e Aldo Busi per Sodomie in corpo 11. Alla fine della sua vita Tondelli deciderà di rimettere mano al romanzo, purgandolo delle bestemmie. Fu ostinata la battaglia di Busi contro l’accusa di «oscenità»: «Che cos’è “sessualismo fine a se stesso”? Cosa vuol dire “rappresentazioni crudamente veristiche di amplessi”?». Ostinata come la decisione, molti anni prima, di Curzio Malaparte, di non chiedere scusa alla città di Napoli dopo la messa al bando «morale» che esponenti illustri di questa città avevano decretato contro l’autore di La pelle, considerata un atto di oltraggio nei confronti di Napoli, uno sfregio tremendo alla sua immagine.
Ovviamente la mannaia censoria non poteva non abbattersi anche su quegli autori stranieri che già in giro per il mondo avevano subito tagli e mutilazioni sotto l’accusa di «oscenità». A cominciare dall’Ulisse di James Joyce, uscito a Parigi per la Shakespeare & Co di Sylvia Beach, che vide la luce in Italia solo nel 1961, scatenando subito le velleità censorie di agguerriti delatori: «In data 23 gennaio 1961 alla Questura di Genova perveniva una segnalazione con la quale si faceva notare che nella parte terminale del romanzo Ulisse di Joyce vi erano pagine a sfondo erotico con descrizioni che potrebbero rivestire carattere pornografico». Erano le pagine del monologo di Molly Bloom, il monumento del «flusso di coscienza» che i censori italiani non potevano tollerare, anche se a Verona un giudice dichiarò «improponibile l’azione penale» contro il capolavoro di Joyce. Stessa sorte, denunce, accuse e sequestri, ovviamente per L’amante di Lady Chatterley di D.H. Lawrence, la vicenda di una donna sposata a un marito paralizzato e reso impotente, a causa delle ferite di guerra, che troverà un rovente approdo erotico con un robusto guardiacaccia: un libro peraltro messo al bando in Inghilterra fino all’inizio degli anni Sessanta.
Sorte non dissimile per il Tropico del Capricorno di Henry Miller, tradotto in italiano dallo stesso Luciano Bianciardi. Ma sfiora il ridicolo la storia ricostruita da Armano delle vicissitudini subite in Italia dalla traduzione di Jukebox all’idrogeno di Allen Ginsberg, pubblicata nel 1965 grazie all’ostinazione di Fernanda Pivano. Per evitare guai con la censura si provvide a una «snervante contrattazione», condotta eroicamente dalla stessa Pivano, allo scopo di edulcorare con eufemismi e attenuazioni le espressioni più crude, che avrebbero esposto il libro alle rappresaglie censorie. Ma tutti gli sforzi non impedirono che Ginsberg venisse addirittura arrestato a Spoleto, ospite del Festival dei Due Mondi allora diretto dal suo creatore Giancarlo Menotti. Secondo la Pivano, Ginsberg aveva affrontato l’arresto con molto nervosismo. Perché? «Perché stava perdendo un incontro con Ezra Pound». Un grande contro la censura, ottusa e piccina.
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