3.9.14

Democrazia come diarchia. Intervista a Nadia Urbinati

di Alessandro Mulieri (Micromega)

Riprendendo alcuni spunti dal suo recente “Democrazia sfigurata. Il popolo fra opinione e volontà” (UBE), Nadia Urbinati spiega, in questa intervista concessa al “Rasoio di Occam”, perché la democrazia non è tale se non riposa su una duplice sorgente d’autorità, quella della volontà (l’autorità formale della legge) e quella dell’opinione (il giudizio dei cittadini). È questo delicato equilibrio fra volontà e opinione che è messo in pericolo da populismo e plebiscitarismo.

Cominciamo dall’inizio. Il suo pensiero combina in maniera originale la storia delle idee politiche e un’attenzione particolare allo studio teorico delle realtà politiche contemporanee. Secondo lei, qual è l’importanza di una prospettiva storica nel fare teoria della politica e della democrazia?

La politica è un’arte del discorso e della decisione. Si nutre della conoscenza umana, individuale e collettiva, psicologica e storica; questa conoscenza è la condizione che orienta il giudizio verso l’azione. Muovere la volontà comporta usare l’arma della parola per far valere un ragionamento e guidare le emozioni. Per questo Artistotle aveva incluso la politica nel genere del sillogismo retorico, non di quello scientifico. Questo vale soprattutto per la democrazia, un sistema di governo e una forma politica che riposa essenzialmente sul discorso, l’arte della persuasione che muove in concerto persone tra loro diverse ed estranee. Incanalare le azioni verso la decisione (ovvero verso un esito univoco) è opera delle procedure democratiche, convenzioni che sono coerenti ai principi di questa forma di governo: contare voti di egual peso secondo la regola di maggioranza e lasciare che ciascuno contribuisca con la parola alla costruzione della decisione. Il legame con il mondo sociale e storico è inevitabile in quanto queste procedure agiscono su una materia che à fatta di interessi e opinioni di individui concreti, i protagonisti del governo democratico. John Dewey scriveva che in quanto progetto in permanente formazione, la democrazia ha necessariamente una storia e si tinge della specificità della società nella quale si fa strada. Le democrazie rappresentative contemporanee sono l’esito e l’espressione permanente di una lunga serie di lotte volte a contenere poteri gerarchici fondati su ragioni non estendibili a tutti, e in questo senso arbitrarie, come l’età, una competenza specifica, la proprietà, la sacralità, la forza militare. La secolarizzazione, l’evoluzione di un sistema di scambio fondato sul mercato, l’invenzione della stampa, hanno contribuito in vario modo alla crescita di relazioni sociali rette su una qualche eguaglianza e infine alla costruzione di uno spazio pubblico separato nel quale un’eguaglianza più ampia potesse consentire al maggior numero di competere per incarichi pubblici. In questo senso possiamo dire che lo studio della democrazia non può essere concepito in una prospettiva antistorica o puramente astratta, anche se i suoi principi hanno una validità che trascende il tempo nel quale sono stati ideati e sperimentati. Il processo storico di sviluppo della democrazia è una sintesi composita di principi ed esperienze che si sono consolidati nel corso di un tempo lungo. Comincia nell’antica Grecia e arriva fino a noi, alle nostre democrazie rappresentative. Diverse condizioni storiche, diverse istituzioni e diverse forme di governo democratico, ma un simile principio di libertà politica come sfera separata dalla dimensione sociale.

Ci può spiegare più nel dettaglio quali sono questi principi?

Innanzitutto l’eguale libertà politica di darsi leggi, ovvero l’autonomia, un principio che attraversa l’intera storia occidentale. Quella democratica è un’eguaglianza artificiale per cui persone di diversa condizione sociale, economica, e oggi dobbiamo aggiungere culturale, religiosa e di genere, hanno un potere eguale di prendere parte al processo politico, sia approvando direttamente le leggi che votando per chi dovrà coprire questa funzione. E’ questa la condizione per vivere liberi: non sottostare al potere di chi lo reclama dichiarandosi superiore in una qualche cosa che non può essere acquisita anche dagli altri e idealmente da tutti. Gli antichi ateniesi chiamavo questa eguaglianza isonomia o per legge ovvero per una ragione che nulla aveva a che fare con qualità naturali o situazioni sociali. Quando Solone dichiarò che i poveri erano uguali ai ricchi, intese dire che come cittadini di Atene essi erano uguali e la legge li doveva proteggere dal rischio derivante dalla traduzione delle diseguaglianze sociali in diseguaglianze di potere politico. La democrazia fece dunque una promessa di ugual potere in qualcosa, non in tutto. Due sono i principi correlati a questo: isegoria o il potere eguale che ogni cittadino ha di partencipare con la parola alla formazione della decisione, e parrhesia o il sapere di poter con sicurezza parlare francamente in pubblico. La condizione democratica è di tranquillità e di sicurezza non solo di libertà. Essa non promette se non questo e per tanto il suo valore come ordine politico sta nell’essere un metodo, una procedura.

Parlando di quest’aspetto, mi viene in mente che nel suo libro lei insiste molto sul rapporto stretto che lega la democrazia al liberalismo politico. Come lei scrive, “la democrazia prima di tutto promette la libertà e usa l’eguaglianza politica e legale per proteggere ed esaudire questa promessa”. In altre parole, sulla scia di Bobbio e Habermas, lei insiste sul ruolo dell’eguaglianza come necessario complemento della libertà. Come risponde a quei teorici, come Chantal Mouffe, che guardano al rapporto tra liberalismo e democrazia in termini di opposizione?

Credo che sia davvero difficile concepire la democrazia senza il principio della libertà di scelta da parte dei cittadini. Sia Hans Kelsen che Norberto Bobbio (che si ispirava a Kelsen) hanno ben spiegato la relazione tra democrazia e libertà. La mia visione del rapporto tra democrazia e liberalismo è simile a quella di questi autori e riposa su un’idea semplice: il liberalismo politico (governo moderato e fondato sui diritti individuali) e la democrazia sono intrecciati perché senza le libertà di parola e associazione i cittadini non possono contribuire a costruire opzioni politiche e a scegliere di schierarsi, pro o contro, ovvero a formare una maggioranza o a finire all’opposizione. Si ritorna insomma al ruolo fondamentale che la libertà politica assume nel garantire l’isegoria. Autori come Chantal Mouffe che insistono sulla centralità del conflitto in democrazia hanno però difficoltà a contemplare il momento della decisione. Quando si decide, si verifica un’interruzione momentanea del processo conflittuale o di antagonismo – o meglio quel processo si sposta fuori dalle istituzioni, le quali procedono secondo quella specifica visione selezionata dalla maggioranza. Quindi non è sufficiente dire che la democrazia è basata sul conflitto (o il suo opposto, il consenso); bisogna specificare che la democrazia è prima di tutto metodo di decisione basato sulla regola di maggioranza. Questa specificazione è fondamentale perché elimina alla radice il consenso unanimistico, che non fa parte della democrazia anche perchè esso può conferire il potere di veto anche a uno solo, ovvero assegnare potere alla minoranza invece che alla maggioranza. La democrazia comincia quando non si è d’accordo e si deve poter decidere e quando di decide di decidere contando i singoli voti secondo il principio di maggioranza, che, come si intuisce, presuppone l’esistenza di una minoranza (cosa che, invece, il principio unanimista non presuppone: qui, infatti, l’esistenza dell’opposizione è vista come una sconfitta). La regola di maggioranza e il voto individuale sono le condizioni fondamentali che caratterizzano la democrazia rispetto a sistemi non-democratici. E’ per questo che liberalismo (quello politico) e democrazia si implicano a vicenda, hanno bisogno l’uno dell’altro.

‘Democrazia sfigurata’. Questo il titolo del suo ultimo libro in uscita con università Bocconi editore in cui racconta la crisi delle democrazie contemporanee (edizione in Inglese Democracy Disfigured. Opinion, Truth and the People per Harvard University Press). Lei descrive la democrazia come un sistema diarchico basato sui concetti di volontà e opinione. Allo stesso tempo, la sua intenzione dichiarata è quella di difendere una concezione procedurale della democrazia. Può spiegarci cosa intende?

L’espressione ‘diarchia” vuol significare che in democrazia ci sono due poteri o due sorgenti di autorità e poi che essi non sono in opposizione ma che, pur restando diversi e distinti, sono in permanente relazione. Una, la volontà, è l’autorità formale della legge e di chi la fa e l’applica (il voto dei cittadini, quello dei corpi elettivi, le regole e le istituzioni dello Stato) e il cui procedere è secondo norme stabilite in una costituzione scritta; uso il termine volontà riferendomi alla tradizione delle teorie della sovranità che identificavano la legge con la volontà (Rousseau in particolare, dove la volontà è la legge del sovrano). L’altro potere, quella che chiamo opinione, sta e vive fuori delle istituzioni, nel mondo regolato dai diritti individuali politici che servono ad articolare il giudizio dei cittadini e a esprimere il dissenso nella società, a raccogliere informazioni. Questa seconda forma di autorità include forme diverse di partecipazione. Per opinione (che dovrebbe essere pensata al plurale), intendo il mondo vario di formazione delle idee che coinvolge settori diversi della società civile. L’opinione ha tre funzioni: la prima è conoscitiva-cognitiva e cioè raccoglie e diffonde informazioni grazie alle quali noi formuliano i nostri giudizi politici; la seconda è politica e consiste nello schierarsi al momento di costruire o scegliere agende politiche; la terza è estetica nel senso che si basa sull’idea dell’esposizione pubblica da parte di chi gestisce il potere e le istituzioni (noi cittadini vogliamo vedere quello che avviene dentro il palazzo per poter giudicare). Queste tre funzioni costituiscono insieme l’idea di autorità dell’opinione.

Una concezione, questa della diarchia democratica, che sembra molto simile a quella di Habermas per cui la democrazia deliberativa si basa su una struttura doppia della deliberazione formale e informale. Quali le differenze con la teoria habermasiana?

Sicuramente queste due forme di autorità politica, volontà e opinione, sono presenti in diversi autori, soprattutto nel lavoro di Jürgen Habermas. Tuttavia, in Fatti e Norme di Habermas le due forme di autorità, le procedure che corrispondono alla volontà e l’opinione, rimangono indipendenti l’una dall’altra. Inoltre, la democrazia come deliberazione sulla quale Habermas ha focalizzato la sua teoria politica dà molto rilievo alla funzione integrativa dell’interazione etica tra cittadini che argomentano delle questioni pubbliche e meno alla funzione decisionale che nasce dal suffragio e si manifesta con le opzioni partigiani ovvero in partiti politici. Infine, l’opinione ragionata di cui parla Habermas intende in qualche modo emendare gli interessi e le opinioni non riflessive, modi se così si può dire inferiori di partecipazione perchè esposti alla ragione strumentale. Secondo me le due dimensioni devono essere pensate insieme benchè ciascuna abbia una funzione sua propria e il loro potere sia diverso; e infine, la dimensione dell’opinione deve contemplare le ragioni partigiane e interessi e non escluderle come forme contaminate di deliberazione.

E qual è la posizione di Bobbio su quest’aspetto?

A differenza di Habermas, Bobbio sembra suggerire l’idea della democrazia come diarchia. Quando in Il futuro della democrazia Bobbio definisce la democrazia un metodo, egli aggiunge che questo metodo presuppone che la società sia luogo di espressione e contestazioni delle opinioni, un esercizio di dissenso che necessita di un metodo per convergere verso decisioni. In Bobbio la democrazia promette l’elezione dei rappresentanti, e si basa anche su un processo di partecipazione regolata diretta e indiretta alla formazione del consenso, di condivisione del potere da parte di tutti. La forma razionale della deliberazione è una componente, non però ciò che vale a nobilitare la democrazia: sono invece le procedure a nobilitarla perchè consentono il libero gioco delle idee e degli interessi, il rispetto dell’esito della gara a patto che le regole consentano sempre di provare a vincere domani. E’ la temporaneità di ogni decisione che ci rende liberi, il fatto che nessuna vittoria è ultima. Quello che faccio rispetto a Bobbio è di schematizzare la distinzione servendono dell’idea diarchica di volontà e opinione. La mia idea è che i due poteri debbano rimanere separati e distinti e interagire senza mai confondersi o sovrapporsi. Questo equilibrio o meglio la tendenza a mantenere questo equilibrio è il lavoro in cui consiste la democrazia, un ordine politico e insieme un modo di agire nello spazio pubblico (definito sia dal voto che dalla sfera dell’opinione).

Il libro arriva a conclusione di un periodo decennale in cui il suo pensiero si è contraddistinto per un’attenzione particolare, storica e teorica, al concetto di democrazia rappresentativa. L’idea alla base del suo libro del 2006 Representative Democracy: Principles and Genealogy è che la democrazia rappresentativa sia “una forma unica di governo democratico peculiare delle società moderne” che non costituisca un’alternativa alla partecipazione. In contrasto rispetto al democratismo radicale alla Rousseau e l’elitismo schumpeteriano (che convergono nel definire rappresentanza e partecipazione come opposti concettuali) lei sostiene che la partecipazione ha bisogno della rappresentanza per dispiegarsi e dipinge la rappresentanza come una forma complessa di partecipazione, un processo politico che genera e si sostiene su un continuo flusso di influenza, controllo e comunicazione tra cittadini e rappresentanti. In che modo quest’idea della rappresentanza come partecipazione si rapporta (o si evolve) nel concetto diarchico di democrazia come volontà e opinione?

La diarchia di cui parlo in questo libro è lo svolgimento di quello che già avevo messo in luce nel libro del 2006. Comune a entrambi è l’idea che la democrazia sia fatta delle regole che conosciamo proprio perchè retta sull’opinione e quindi il dissenso (in quanto contrariamento alla verità l’opinione non ha altra autorità che il numero dei consensi che riesce a ottenere). Tuttavia, in quest ultimo lavoro faccio un passo ulteriore approfondendo il concetto di potere dell’opinione e individuando le possibili deformazioni cui la diarchia può andare incontro. Mi sembra che le maggiori metamorfosi avvengano proprio sul versante dell’opinione, nel modo in cui le tre funzioni dell’opinione sono espresse. Presumendo la democrazia procedurale come la figura essenziale, parlo di variazioni della sua figura e anche di sfiguramenti.

Si può pensare che le deformazioni della democrazia convivano con la concezione diarchica?

Le deformazioni non devono essere viste come alternative rispetto alla democrazia, ovvero come forme non-democratiche; nella maggior parte dei casi, esse convivono e nascono dall’interno della democrazia, come forme estreme di stiracchiamento di una funzione dell’opinione rispetto alle altre. Proprio in virtù di questa coabitazione della democrazia con le sue sfigurazioni, è importante interrogarci su quali sono le condizioni che portano allo sviluppo di quest’ultime. Ce ne sono molte e tutte attuali. Penso ad esempio all’invenzione di Internet, la cui importanza è sicuramente paragonabile a quella che l’invenzione della stampa ebbe per la nascita della democrazia moderna. Ma penso anche al problema della regolamentazione dei finanziamenti economici e agli squilibri legati alla globalizzazione che mettono in crisi la forma statale della democrazia. Credo che la particolare pericolosità delle deformazioni della democrazia cominci a essere evidente quando queste cominciano a diventare narrative dominanti.

Come spiega lei stessa, il concetto di democrazia epistemica è particolarmente attuale perché guarda in modo falsato al tema del rapporto tra democrazia e verità. In che modo le concezioni epistemiche della democrazia si rapportano o modificano la democrazia come diarchia?

Nel rapporto tra le due autorità è possibile che questa seconda, l’autorità dell’opinione, si trasformi così da voler svolgere la funzione della volontà. Questo avviene nella prima sfigurazione della democrazia che analizzo, quella sostenuta dalle teorie epistemiche della democrazia. La mia critica a questa sfigurazione parte dal fatto che la democrazia ha e ha sempre avuto un rapporto molto complicato con la verità e la teoria politica con la filosofia. Questo perché il suo metodo di decisione non ammette che ci sia una verità assoluta. Sulla verità non si ha senso votare. Quando Rousseau dice che in assemblea chi si trova in opposizione sbaglia, egli non presuppone una concezione di verità assoluta, ma un’idea di verità legata alla nozione di cittadinanza (la volontà generale). Secondo il filosofo ginevrino, per il cittadino la giustizia e l’utilità devono andare insieme: questo è il senso del patto sociale. La volontà generale non ha contenuto ma è un medoto grazie al quale i cittadini si fanno la domanda alla quale devono rispondere quando sono chiamati a votare, a operare cioè come attori pubblici, come cittadini. Quando un cittadino deve giudicare una proposta da votare non si deve chiedere: “mi piace questa proposta?”. Si deve invece chiedere: “è questa proposta in accordo col patto fondativo del contratto sociale per il quale l’utilità individuale deve andare insieme alla giustizia?” Rousseau non dice quindi che chi è all’opposzione sbaglia nel senso che si oppone a u certo contenuto o a una verità assoluta; lo dice invece presumendo che come cittadini dobbiamo farci la domanda giusta, alla quale, secondo lui, non ci possono essere due risposte diverse ma una sola. Il punto di riferimento – i principi fondamentali – è il termine centrale sul quale il goudizio politico si forma, rispetto al quale chi ha ottenuto meno voti è prevedibilmente nel torto (presupponendo che tutti ragionino senza malevolenza o che nessuno usi l’arte della retorica per persuadere). La lezione di Rousseau è importante per questa ragione: ci ricorda che la democrazia presume la diversità di opinione e l’argomentazione, anche se non possiamo seguire Rousseau nella regola del silenzio per tenere lotanto il discorso e l’arte della persuasione (sulle quali del resto riposa la rappresentanza, che Rousseau come sappiamo esclude). Retorica e ideologia sono le armi che i cittadini usano quendo partecipano alla formazione delle opinioni, le quali sono plurali. I filosofi alla ricerca della verità non sono contenti di questa soluzione e credono che la democrazia non debba soltanto concederci di vivere nell’eguale opportunità di participare alla formazione della volontà politica; vorrebbero inoltre che le sue procedure ci diano la possibilità di ottenere decisioni buone o migliori di quelle che otterremmo se seguissimo procedure non-democratiche. Tuttavia, le procedure democratiche non sono costruite perché noi otteniamo risultati di un certo tipo. Noi abbiamo quelle procedure perché prendiamo decisioni all’interno di situazioni per nulla omogenee o organiche e questo ci può portare anche a decisioni non soddisfacenti. Lo scopo delle procedure non è di darci buoni risultati ma risultati che siano sempre modificabili – direi quindi che la democrazia è il regno delle decisioni penultime.

In altre parole, le teorie epistemiche della democrazia rigettano una visione procedurale della democrazia e preferiscono considerarla un mezzo per ottenere certi risultati. Ma quale può essere una risposta democratica a queste teorie?

Un esponente di punta delle teorie epistemiche della democrazia, David Estlund, critica Habermas per diferere il proceduralismo senza dargli nessun valore oltre la procedura stessa; in questo senso il proceduralismo habermasiano sarebbe indicativo di un atteggiamento nichilista. Questa è la visione propria delle teorie epistemiche della democrazia che vedono nella procedura una struttura in sè priva di valore se non finalizzata a un esito buono. La mia risposta a questa visione consequenzialista è che nella procedura c’è un valore perché le regole dicono chi siamo, cioè uguali cittadini che liberamente partecipano alla costruzione delle decisioni. Le procedure della democrazia sono piene di contenuto in questo senso. Tra l’altro, l’idea epistemica della democrazia è storicamente infondata. La democrazia non ci promette dove andare ma soltanto come dobbiamo camminare, non è uno strumento quindi ma un fine in se stesso. Questo si porta alla mente Machiavelli, secondo il quale la politica assomiglia all’acqua che gli argini incanalano per approfittare al massimo della sua forza e tener sotto controllo le sue potenzialità disastrose. La democrazia procedurale fa le veci degli argini. La visione epistemica ci porta invece a vedere la procedura politica come un mezzo per raggiungere certi risultati ovvero per correggere le nostre opinioni nella ricerca di ottenere risposte vere o corrette ai problemi. Gli epistemici vogliono una democrazia la cui bontà sta nelle buone leggi che produce. E invece, la democrazia produce anche decisioni pessime, eppure noi continuiamo a preferirla a sistemi dispotici che promettono e forse anche producono bone decisioni. Perchè scegliamo la democrazia invece del dispotismo illuminato? Se noi ci basiamo su quello che produce, rischiamo davvero di svalutare la democrazia, la quale come regime politico produce molto spesso mediocri o pessime decisioni.

Tra l’altro, è difficile non riscontrare delle somiglianze tra le teorie epistemiche della democrazia e la crescente importanza della tecnocrazia o dei tecnici nei governi democratici contemporanei. Ad esempio, al livello europeo adesso si parla spesso di ‘output democracy’ intendendo con quest’espressione il fatto che la democrazia debba essere un regime in grado di raggiungere risultati tanto legittimi quanto efficienti. Che rapporto c’è tra le teorie epistemiche e questa visione efficientista della democrazia?

Credo che gli epistemici, a differenza degli efficientisti, partano dal concetto di eguaglianza. La democrazia dà la stessa voce a tutti perché c’è una base di uguaglianza di potenzialità intellettuali in tutti. Secondo la visione epistemica, la procedura è già contenuta nel principio di eguaglianza della capacità intellettiva. Per gli efficientisti, invece, la situazione è più estrema e, credo, pericolosa perché trasformano la democrazia in una questione di problem-solving, proprio come accade nella governance. Il ragionamento sembra sia il seguente: dato che le democrazie sono incapaci di prendere con certezza decisioni efficaci o efficienti, occorre restringere il raggio d’azione della scelta politica. Questo è il discorso che emerge per esempio dal libro Republicanism di Philip Pettit, che discuto nel secondo capitolo del mio libro. Secondo Pettit, i parlamenti devono diventare silenti mentre tutto il lavoro deve essere fatto da commissioni di esperti che sanno meglio ragionare imparzialmente perchè non soggetti al verdetto popolare; ai parlamenti si lascia il voto finale si/no. In quest’ottica, l’opinione deve essere superata, non può entrare nel gioco deliberativo se la democrazia deve raggiungere ‘buone’ decisioni. Ma se le decisioni nei luoghi deliberativi elettivi non sono più rilevanti, allora ci dirigiamo verso una forma di deliberazione spoliticizzata. Come si vede, il rischio è l’esautoramento dei corpi elettivi. Ma al di là di ciò, la procedura non ha bisogno di una giustificazione basata sull’eguaglianza delle capacità intellettive per essere legittima: del resto l’idea di universalità del suffragio è una risposta radicale contro il principio della capacità intellettiva. Bobbio ha ben chiarito questo: la democrazia non ha un fine specifico da raggiungere. Se riempi il fine della democrazia con qualcosa, da quel momento tu limiti le possibilità dei cittadini, la loro libertà. La democrazia ci lascia quindi la capacità di sbagliare e rifare decisioni. E’ un sistema aperto di decisione: il regno, appunto, delle decisioni penultime. Tra l’altro, se la ragione dovesse essere il fondamento della sovranità allora dovrebbero votare solo i più sapienti (un’idea permanente nella storia, da Platone fino a Guizot). Invece, è la nostra libertà la ragione della nostra partecipazione. E’ per questo che credo che, sia la democrazia epistemica che quella efficientista siano un ossimoro. Nel dialogo platonico del Protagora c’è un esempio interessante per capire il rapporto tra la democrazia e la competenza tecnica. In questo dialogo, Platone ci spiega che se il popolo vuole costruire una nave si rivolge ovviamente ai tecnici competenti e ai costruttori di navi, non le costruisce da solo. Però è il popolo che decide se quelle navi servono e se devono essere costruite: questo è il loro potere politico, che risiede appunto nel potere eguale di decidere non nel potere di decidere bene o correttamente (per cui si possono delegare competenti o tecnici).

Passiamo a quella che lei considera nel libro la seconda disfigurazione della politica, e cioè il populismo. In che modo esso si appropria del concetto di volontà in una democrazia e lo riformula in senso anti-democratico?

Delle tre disfigurazioni, il populismo è l’unico che agisce in maniera radicale anche sulla trasformazione del concetto di volontà. Per i populisti, l’ideologia del popolo unisce volontà e opinione: l’opinione più omogenea o quella che ha più largo sostegno dovrebbe essere eo ipso la volontà o la legge. Mentre la democrazia epistemica si concentra sull’opinione (per negarla) qua abbiamo a che fare con una critica serrata al concetto di rappresentanza che svuota la volontà di qualsiasi aspetto formale e procedurale per essere espressione dell’opinione popolare. Il populismo usa le procedure solo nella fase della propria affermazione, allo scopo di vincere. In un secondo momento, il leader populista tenta in tutti i modi di realizzare la propria idea facendo ad essa coincidere il potere dello stato. Se nella visione epistemica la democrazia è giudicata dal punto di vista della verità esterna alla procedura, qui è giudicata dal punto di vista dell’aderenza della procedura a quel che il popolo (ovvero il leader) vuole che la verità sia. Un esempio di questa visione viene o è spesso venuto dall’America latina, dove i leader populisti o i caudilli hanno utilizzato il potere dello stato per favorire la propria costituency e quindi togliere le armi all’opposizione. Questo modo di concepire il potere, tuttavia, toglie valore alle procedure democratiche concepire come mezzi al servizio di un’idea di popolo. In questa visione della democrazia, il liberalismo è espunto. Il vero obiettivo polemico del populismo è la democrazia rappresentativa, la competizione e il pluralismo partitico, espressioni del fatto che nella società ci sono interessi diversi e non tutti unificabili sotto un’idea egemonica di popolo.

La sua critica alla deformazione populista della democrazia ha come obiettivo principale il libro di Ernesto Laclau, la ragione populista. Qual è la sua critica principale al libro del filosofo argentino scomparso recentemente?

Laclau è stato forse l’unico pensatore contemporaneo che ha cercato di dare al populismo una statura teorica autonoma; per fare questo ha sostenuto un’identità di populismo, democrazia e politica. Quest’ultima avrebbe a che fare con la costruzione collettiva del sovrano (Laclau non lo chiama sovrano ma popolo). Il popolo di Laclau è tale nel senso romano di plebe, cittadini meno abbienti, coloro che cercano nell’unità sotto un tribuno la loro protezione dai potenti. La politica è costruzione ideologica dell’unità del popolo. Laclau è giungo a questo esito con due mosse teoriche notevoli: ha prima emancipato il popolo dall’identificazione con la massa ignorante e la democrazia oclocratica (nella tradizione di Gustave le Bon o Ortega-i-Gasset); poi, ha emancipato l’azione politica della massa dall’accusa di irrazionalità che è servita a giusitificare la teoria della scelta razionale, cioè la dissoluzione del soggetto collettivo immettendo nella politica il ragionamento strumentale economico individuale. Laclau emancipa la politica dalla razionalità economica ed emancipa la massa dall’irrazionalità rivendicando l’unicità della ragione politica, che è fatta di miti e di retorica ed in questo profondamente razionale allo scopo: uniformare una massa di individui portatori di varie rivendicazioni in un popolo attore collettivo è agire politico. Laclau rivendica l’originalità dell’azione politica e popolare collettiva attraverso un processo egemonico. Questo è indubbiamente un importante contributo. Se non che la politica non è soltanto costruzione dell’egemonia. Oltretutto, come spiego nel libro, il modo in cui Laclau usa l’idea gramsciana di egemonia è discutibile. La teoria di Laclau è inquietante perché l’identificazione tra populismo e politica ci dice che tutto è populismo. Se è così, allora perché parlare di democrazia e di populismo? Secondo me le cose stanno in un modo diverso. Il populismo per essere definito ha bisogno della democrazia, esso non è la democrazia. E’ una radicalizzazione del principio maggioritario che non è abolito ma realizzato e poi usato in maniera così intensa da rendere l’opposizione nana o inutile. Questo utilizzo strumentale del principio maggioritario fa del populismo una creatura parassita della democrazia, che sugge dalla democrazia la linfa e che per questo può corromperla. Il populismo sta al confine estremo della democrazia, oltre il quale ci può essere dittatura.

Tuttavia lei distingue il populismo da certi movimenti popolari come gli Indignados o OccupyWallStreet…

E’ impossibile dare una definizione categorica del populismo. Quel che faccio è identificare alcune categorie che lo contraddistinguono. Lo distinguo prima di tutto dal movimento popolare. Un movimento popolare è democratico e non è la stessa cosa del populismo. Indignados e OccupyWallStreet sono stati movimenti popolari che non hanno voluto e avuto un capo unico e hanno invece contribuito alla dialettica democratica dei regimi rappresentativi, anche se li hanno radicalmente contestati. Al contrario, il populismo è un progetto di governo e di trasformazione della democrazia da parlamentare e partitica a consensuale e mono-archica. In quest’ultimo caso, il rischio è di andar fuori dalla democrazia e avere un altro regime.

Qualcuno potrebbe leggere la sua critica al populismo come un tentativo di mettere sullo stesso piano fenomeni molto diversi come quello quelli del populismi europei di Le Pen o della Lega Nord e i populismi sud-Americani di Chavez e Correa. E’ possibile distinguere politiche populiste ‘buone’ e populismi ‘cattivi’?

Non credo. Il populismo è l’affermazione di un maggioritarismo estremo e in questo senso la distinzione tra populismo di destra e di sinistra non è rilevante; essa è contingente. La forma populista ha delle caratteristiche costanti. Se dovessero prendere in mano il potere, i due populismi farebbero le stesse cose. Il populismo è antiliberale e non sopporta le minoranze politiche. Unisce il popolo contro l’élite e per raggiungere quest’obiettivo la distinzione tra destra e sinistra non ha grande importanza.

Nell’ultima parte del libro, lei discute una terza disfigurazione della democrazia che lei definisce plebiscitarismo. Quali sono le differenze col populismo?

Il plebiscitarismo è imparentato al populismo ma mantiene la distinzione tra procedure e opinione e le distribuisce tra due gruppi diversi: chi opera nelle istituzioni (l’elite) e il pubblico che sta fuori. Nel plebiscitarismo i pochi sono eletti e i molti fanno un’altra cosa, assistono all’esercizio del potere da parte dei primi. C’è una divisione del corpo sovrano in due gruppi, e quindi la funzione del popolo viene ad essere passiva in rapporto a quella svolta dai pochi. Il popolo diventa spettatore o occhio (come lo chiama Jeffrey Edward Green) ma è privato dell’elemento della cittadinanza attiva. Dato che il popolo è svilito a plebiscito, la figura della leadership fa tutto il lavoro e le procedure si risolvono nell’andare a votare, nel sancire il leader, secondo una logica Schumpeteriana, che ben si lega a questa visione della democrazia. E’ chiaro che nel caso del populismo c’è una presenza dirigistica assai forte, come nel caso del plebiscitarismo; ma la differenza è che nel primo l’elemento popolare è più attivo che nel secondo. Nel populismo c’è la massa mobilitata mentre nel plebiscitariamo ci sono soprattutto gli spettatori che guardano la televisione o usano Twitter o seguono il leader nelle sue permanenti esternazioni pubbliche. Nel populismo la voce è centrale mentre nel plebiscitarismo è la vista a farla da padrone. Nel plebiscitarismo non c’è bisogno che il tema del popolo sia centrale perchè ci sia un leader. Come dice Bernard Manin, nella democrazia dell’audience i veri attori sono gli esperti di comunicazione dei partiti che diventano mezzi di costruzione dell’audience e non sono più strumenti di elaborazione politica.

Nel suo libro, lei spiega che il concetto di Cesarismo (cioè il rapporto diretto tra un leader carismatico e il suo popolo) ha varie declinazioni e può essere interpretato sia come una conseguenza del populismo che come una componente del plebiscitarismo. Quali sono gli elementi di specificità del cesarismo populista in rapporto a quello plebiscitario?

In effetti, il concetto di Cesarismo assume un aspetto diverso nel populismo e nel plebiscitarismo. Il leader plebiscitario è un leader carismatico come di insegna Max Weber, e ha bisogno di essere amato dalle masse e di dare loro quella forma che esse non sanno darsi da sole. Il leader del nostro tempo tuttavia non cresce nel parlamenro e nemmeno nel partito, ma nella sfera dell’opinione. Ecco perchè uso l’espressione plebiscitarismo dell’audience. Questo leader non ha più vita privata e paga questo prezzo in cambio del potere. Questo nuovo plebiscitarismo pensa che finalmente il pubblico riesca a controllare il leader senza più doversi affidare a istituzioni non democratiche, come le corti costituzionali o la dovisione dei poteri o il bicamenralismo. Si tratta di visione idealistica del ruolo dei mezzi di comunicazione, che si scontra con l’esperienza recente e recentissima: noi non abbiamo in effetti alcun controllo o potere sul leader, è la sua immagine che controlla noi; egli vuole il nostro consenso e di serve di strategie commerciali o mediatiche per ottenerlo. Quel che noi facciamo è vedere quel che qualcuno ha deciso che dobbiamo vedere. Al contrario, nel populismo il leader cesarista è un attore politico: c’è unione mistica tra popolo e leader in tutti e due i casi, ma viene raggiunta in maniera diversa in ciascun caso. Nel populismo, il leader va in piazza, interagisce col popolo, talvolta si confonde con esso e in mezzo a questo. Nel caso del plebiscitarismo, invece, la costruzione del leader carismatico dei media è un’immagine, una costruzione mediatica dai contorni mitici e sfumati. Il leader rappresenta se stesso: è un esemplare di uno di noi. L’aspetto estetico è essenziale mentre nel populismo c’è un aspetto politico preminente. Credo tuttavia che la deformazione totalitaria sia molto più pericolosa nel caso del plebiscitarismo perché qui il popolo scompare per diventare pubblico. In entrambi, i corpi intermedi sono comuque esautorati. Esempi di leader plebiscitari sono stati Bettino Craxi, Tony Blair e, più recentemente Matteo Renzi. Silvio Berlusconi combinava fattori populisti e plebiscitari, se non altro perchè aveva un apparato ideologico (liberali contro comunisti) del quale si serviva per gestire la dialettica “amici”/”nemici”. Ma queste semplificazioni sono semopre stiracchiate; in realtà tra populismo e plebiscitarianismo c’è osmosi, soprattutto nella società dell’opinione mediatica.

Il dibattito recente sulla rappresentanza, soprattutto nel mondo anglofono, tende a valorizzare sempre di più il ruolo costitutivo ed estetico della rappresentanza come creazione del politico o come interazione dinamica tra pretese rappresentative e un concetto molto ampio di pubblico (penso ad autori come Frank Ankersmit e Michael Saward). Questa tendenza, che ha delle similitudini nel concetto estetico di doxa che lei critica nella deformazione plebiscitaria della democrazia, radicalizza l’idea che la rappresentanza sia una sorta di sovranità riflessiva (quello che lei definisce opinione) e, in certi casi, tende a isolarla dal concetto di volontà da lei descritto, promuovendo forme post-rappresentative e post-sovrane di democrazia. Qual è il suo giudizio sulla qualità democratica di queste forme di rappresentanza estetica?

Le forme di rappresentanza estetica esprimono solo una parte del discorso sulla rappresentanza. La rappresentanza politica è una categoria complessa che ha bisogno di un’autorizzazione formale, della volontà. Di conseguenza, mi sembra che queste forme estetiche di rappresentanza siano imparentate alla sfigurazione plebiscitaria della democrazia la quale, da sola, non qualifica la rappresentanza democratica. Inoltre, mi sembra che esse non abbiano un’accredito normativo democratico perché presumono che la rappresentanza sia un’azione autoreferenziale che si impone acquistando visibilità senza sottostare al controllo dei rappresentati visto che c’è rifiuto dell’indicazione del rappresentante per via di elezioni. Che dunque il loro programma le qualifichi come rappresentative ovvero che la rappresentanza avvenga per auto-legittimazione mi sembra problematico. L’uso della rappresentanza estetica è un modo per legittimare la rappresentanza degli interessi o dei valori e ci ricorda Schmitt, quando nei suoi scritti parlava di rappresentanza dell’autorità ecclesiatica come simbolo di una forma di rappresentanza superiore al consenso dei rappresentati. Giova ricordare che questo tipo di rappresentanza serve a giustificare l’autorità dei rappresentanti più che a dare potere ai rappresentati.

L’impatto della globalizzazione sulle democrazie contemporanee è alla base di una buona parte dei fenomeni di spoliticizzazione e anti-politica descritti nel suo libro. Crede che la crescita dell’interdipendenza globale e della complessità sociale e politica della governance transnazionale stiano avendo un impatto negativo sulle democrazie contemporanee? E come guarda alle diverse teorie che cercano di dare una risposta democratica ‘cosmopolitica’ al deficit democratico globale?

Indubbiamente i processi di globalizzazione stanno avendo un impatto fondamentale sulle trasformazioni della democrazia rappresentativa. Il problema non è la democrazia ma la condizione statale dell’autorità politica. Tuttavia sono molto scettica sulla possibilità di uno stato globale come soluzione a questo problema. Chi è il cittadino di una democrazia globale? Thomas Piketty nel suo ultimo libro parla molto della necessità di una tassazione globale. Il problema è chi decide che ci debba essere una tassazione al livello globale? Chi sono gli attori politici e come li si seglie e controlla?

Un’ultima domanda è sul futuro della democrazia. Dall’ascesa dei populismi (soprattutto alle ultime lezioni europee) al peso crescente della globalizzazione, sembra che le democrazie contemporanee siano sempre più incapaci di dare risposte adeguate alla realtà politica in cui operano. Ci sono secondo lei degli aspetti prioritari su cui dovremmo concentrarci per cercare di rimediare alla crisi delle democrazie?

Credo che la cosa più importante da evitare di fronte allo stato di crisi delle democrazie sia una forma di rassegnazione che può rivelarsi fatale. Certo, è innegabile che gli strumenti che abbiamo al momento sono insufficienti. Ci sono due aspetti che ritengo assolutamente prioritari per cercare di arginare la crisi che contraddistingue le democrazie contemporanee. Bisogna essere più radicali nel creare le condizioni economiche della democrazia: la cittadinanza deve avere delle proprie risorse, delle basi economiche auonome dal mercato privato, per finanziare il potere della volontà e quello dell’opinione (ovvero partiti, campagne elettorali e mezzi di informazione). Devolvere al privato questi mezzi di formazione della scelta politica non è la strada migliore per irrobustire la democrazia. La democrazia ha un costo e costa, e questo non è uno scandalo (è fatta da cittadini ordinari, non da plutocratici o da nobili!). Questa attenzione alle procedure e ai costi per ben attuarle riporta in primo piano il valore delle elezioni e mette in guardia dalla trendenza in atto a restringere il numero e le funzioni degli organi elettivi per designare a comitati di nominati compiti politici.

Alessandro Mulieri è dottorando in filosofia politica presso il Centre for Global Governance Studies e l’Istituto di filosofia politica dell’Università di Lovanio in Belgio. In passato ha studiato filosofia all’Università “La Sapienza” e Relazioni internazionali presso la London School of Economics.

(3 settembre 2014)

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