Guia Soncini (repubblica.it)
A un certo punto c'era Alba Parietti - giuro: Alba Parietti - che diceva che, se scoprisse suo figlio trentatreenne a girare la foto di una sua amante a un amico, lo prenderebbe a schiaffi. La puntata di ieri sera di AnnoUno, che pareva prodotta dalla Rai di Bernabei, non ha fornito risposte a: ma perché una madre dovrebbe controllare cosa diamine manda agli amici un trentatreenne?
Il modo in cui si parla di internet sugli altri mezzi di comunicazione di massa fa sempre molto ridere, ma ieri sera il tono in cui veniva scandita ogni volta la locuzione "su internet" stava tra il modo in cui i nostri genitori dicevano "la droga" e quello in cui i nostri nonni dicevano "i Beatles".
C'era un servizio su ragazzini dediti ai videogiochi in Cina, uno dei quali ha detto all'inviato che aveva abbandonato la scuola per dedicarsi a tempo pieno ai videogiochi. Abbiamo sicuramente perso un potenziale candidato al Nobel per la medicina; in compenso abbiamo conquistato giornalisti che, undici anni dopo il giorno in cui un ragazzino mollò l'università per metter su Facebook, ancora trasecolano perché, signora mia, i giovani d'oggi preferiscono il joystick alla carriera accademica (che, quella sì, garantisce un reddito sicuro).
Tuttavia non è il caso di sottovalutare i gravissimi (!) sintomi "tipici di chi trascorre anche dieci ore al giorno davanti a internet" (!!): ragazzini che perdono il controllo e ne picchiano altri, disturbi ossessivo-compulsivi, e insomma spesso il male di vivere ho incontrato, ed era un adsl. E ora non ditemi che, come un po' chiunque di questi tempi, voi di ore al giorno collegati ne passate anche quindici, altrimenti mando Di Pietro (c'era anche lui, ospite: sono proprio gli anni Novanta) a dirvi che è "una tossicodipendenza".
Con un certo compiacimento, ragazzine in studio raccontavano di suicidi di compagne di classe che, su internet, erano state insultate da coetanei. Nessuno, neanche per sbaglio, ha buttato lì che, se ti ammazzi perché i compagni di classe t'irridono, la soluzione forse è fornirti gli strumenti per imparare a fregartene, sanare la fragilità psichica per cui te ne importa così tanto. La soluzione è fare di te uno con le spalle larghe, che sopravvive anche quando si ritrova, trentatreenne, con una madre con le extension che va in tv a minacciare di prenderti a scapaccioni.
Twitter: @lasoncini
I link ai giornali degli articoli spesso cambiano e diventa difficile se non impossibile recuperare i testi ai quali si riferivano. Questo è l'archivio on-line del blog Giornale-NOTIZIEOGGI
29.5.15
Il male di vivere sulla linea adsl
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27.5.15
La "nuova classe operaia" non va all'università
Il crollo delle immatricolazioni nasconde un altro dato: in realtà dai licei arrivano più iscritti, mentre da tecnici e professionali sono crollati di quasi il 50% dieci anni. La conferma che la crisi morde impiegati ed operai, e che l'ascensore sociale è ormai bloccato
di Salvo Intravaia
Il calo degli immatricolati all'università colpisce soltanto i figli dei meno abbienti: operai e impiegati, possibilmente meridionali. E, mentre il Parlamento si trova alle prese con l'approvazione della legge di riforma della scuola targata Renzi-Giannini, torna alla ribalta la questione del diritto allo studio. Con le immancabili critiche rivolte al governo delle organizzazioni studentesche. La pubblicazione di qualche giorno fa, da parte del Cineca, degli immatricolati all'università di quest'anno - il 2014/2015 - certifica l'impressionante crollo delle immatricolazioni negli ultimi dieci anni: meno 20 per cento dal 2004/2005 al 2014/2015. Calo che si accompagna con quello dei laureati che, secondo le richieste dell'Unione europea dovrebbero invece crescere, visto che l'Italia è ultima nel Vecchio Continente dietro la Romania: meno 37mila in appena un anno..
Ma spulciando i dati forniti dal consorzio interunivesitario, che cura una parte della statistica sugli atenei, si scopre che la fuga dalle aule universitarie ha in pratica colpito esclusivamente i ragazzi degli istituti tecnici e professionali, prevalentemente figli di famiglie di classi sociali ed economiche più esposte alla crisi. Famiglie di operai ed impiegati unite nella medesima difficoltà, come ha raccontato su Repubblica Ilvo Diamanti. I dati sugli immatricolati, insomma, svelano l'ennesimo divario che si cresce fra italiani ricchi o benestanti, che possono permettersi di pagare tasse universitarie ormai salate dappertutto, e meno. Perché il grosso degli oltre 66mila immatricolati in meno - due terzi dei quali al Sud - che le segreterie universitarie hanno registrato negli ultimi dieci anni appartiene a ragazzi col diploma dell'istituto tecnico e del professionale. E residente al Sud.
I dati sono impressionanti. In appena un decennio, i giovani immatricolati nelle università della Penisola in possesso di un diploma tecnico o professionale sono crollati del 46 e 41 per cento rispettivamente. In altre parole, in due lustri la presenza tra i banchi universitari di coloro che provengono da famiglie meno abbienti - per tradizione in Italia gli istituti tecnici e professionali sono frequentati dai figli degli operai e degli impiegati di profilo basso - si è quasi dimezzato. Mentre la presenza dei liceali - soprattutto provenienti da classici e scientifici - si è addirittura incrementata del 4 per cento. Un dato in controtendenza che potrebbe anche spiegare il boom dei licei certificato dall'ultimo report sulle iscrizioni al superiore nel 2015/2016.
L'ultimo resoconto pubblicato dal ministero dell'Istruzione sulle iscrizioni al secondo grado fa registrare il sorpasso dei licei su tutti gli altri indirizzi scolastici. Con un 51 per cento sul totale dei ragazzini di terza media che lo scorso gennaio hanno espresso una preferenza per il prossimo mese di settembre che non si era mai verificato prima. Ma che potrebbe testimoniare anche la mutazione delle scelte delle famiglie italiane a seguito della crisi che ha fatto schizzare in alto la percentuale di giovani disoccupati - di età compresa fra i 15 e i 29 anni - negli ultimi anni: dal 17,5 del 2004 al 31,6 per cento del 2014. Accompagnato da un numero sempre crescente (il 26 per cento) di Neet - giovani che non studiano né lavorano - per i quali proprio oggi l'Ocse ha rifilato l'ennesima bocciatura all'Italia su giovani e occupazione.
Per sfuggire alla disoccupazione la scelta degli italiani potrebbe avere portato più iscritti verso i licei con prosieguo all'università a scapito degli istituti tecnici e professionali che non assicurano più, com'è avvenuto negli anni del boom economico, un lavoro dopo il diploma. Fermo restando che a pagare il conto più salato sono
stati i figli dei nuclei familiari meno fortunati. E che, con la crisi,
l'ascensore sociale invocato anche dalla Carta costituzionale si è
definitivamente fermato al piano terra. Per questa ragione le
organizzazioni studentesche invocano più interventi per il diritto allo
studio.
di Salvo Intravaia
Il calo degli immatricolati all'università colpisce soltanto i figli dei meno abbienti: operai e impiegati, possibilmente meridionali. E, mentre il Parlamento si trova alle prese con l'approvazione della legge di riforma della scuola targata Renzi-Giannini, torna alla ribalta la questione del diritto allo studio. Con le immancabili critiche rivolte al governo delle organizzazioni studentesche. La pubblicazione di qualche giorno fa, da parte del Cineca, degli immatricolati all'università di quest'anno - il 2014/2015 - certifica l'impressionante crollo delle immatricolazioni negli ultimi dieci anni: meno 20 per cento dal 2004/2005 al 2014/2015. Calo che si accompagna con quello dei laureati che, secondo le richieste dell'Unione europea dovrebbero invece crescere, visto che l'Italia è ultima nel Vecchio Continente dietro la Romania: meno 37mila in appena un anno..
Ma spulciando i dati forniti dal consorzio interunivesitario, che cura una parte della statistica sugli atenei, si scopre che la fuga dalle aule universitarie ha in pratica colpito esclusivamente i ragazzi degli istituti tecnici e professionali, prevalentemente figli di famiglie di classi sociali ed economiche più esposte alla crisi. Famiglie di operai ed impiegati unite nella medesima difficoltà, come ha raccontato su Repubblica Ilvo Diamanti. I dati sugli immatricolati, insomma, svelano l'ennesimo divario che si cresce fra italiani ricchi o benestanti, che possono permettersi di pagare tasse universitarie ormai salate dappertutto, e meno. Perché il grosso degli oltre 66mila immatricolati in meno - due terzi dei quali al Sud - che le segreterie universitarie hanno registrato negli ultimi dieci anni appartiene a ragazzi col diploma dell'istituto tecnico e del professionale. E residente al Sud.
I dati sono impressionanti. In appena un decennio, i giovani immatricolati nelle università della Penisola in possesso di un diploma tecnico o professionale sono crollati del 46 e 41 per cento rispettivamente. In altre parole, in due lustri la presenza tra i banchi universitari di coloro che provengono da famiglie meno abbienti - per tradizione in Italia gli istituti tecnici e professionali sono frequentati dai figli degli operai e degli impiegati di profilo basso - si è quasi dimezzato. Mentre la presenza dei liceali - soprattutto provenienti da classici e scientifici - si è addirittura incrementata del 4 per cento. Un dato in controtendenza che potrebbe anche spiegare il boom dei licei certificato dall'ultimo report sulle iscrizioni al superiore nel 2015/2016.
L'ultimo resoconto pubblicato dal ministero dell'Istruzione sulle iscrizioni al secondo grado fa registrare il sorpasso dei licei su tutti gli altri indirizzi scolastici. Con un 51 per cento sul totale dei ragazzini di terza media che lo scorso gennaio hanno espresso una preferenza per il prossimo mese di settembre che non si era mai verificato prima. Ma che potrebbe testimoniare anche la mutazione delle scelte delle famiglie italiane a seguito della crisi che ha fatto schizzare in alto la percentuale di giovani disoccupati - di età compresa fra i 15 e i 29 anni - negli ultimi anni: dal 17,5 del 2004 al 31,6 per cento del 2014. Accompagnato da un numero sempre crescente (il 26 per cento) di Neet - giovani che non studiano né lavorano - per i quali proprio oggi l'Ocse ha rifilato l'ennesima bocciatura all'Italia su giovani e occupazione.
Per sfuggire alla disoccupazione la scelta degli italiani potrebbe avere portato più iscritti verso i licei con prosieguo all'università a scapito degli istituti tecnici e professionali che non assicurano più, com'è avvenuto negli anni del boom economico, un lavoro dopo il diploma. Fermo restando che a pagare il conto più salato sono
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Università, crolla numero laureati. Al Sud -45mila iscritti. Udu: "Atenei stanno morendo"
Corrado Zunino (La Repubblica)
E' la cifra delle ultime tre stagioni: il Sud delle università perde immatricolati, iscritti, laureati. Anche l'analisi dei dati 2014-2015, pubblici con l'Anagrafe nazionale degli studenti universitari elaborata dal Miur e in via di assestamento, dice che gli atenei meridionali hanno perso in dieci anni 45 mila iscritti e dice anche che il Centro del paese (+1,58% immatricolati, ovvero iscritti al primo anno) e il Nord (+1,25%) sono usciti dalla crisi di richiamo. Dice ancora che alcune università capaci di trasformare il sapere in lavoro registrano una crescita al primo anno notevole. Per esempio, Macerata, Ferrara, Firenze, Verona, ma anche le due romane Sapienza e Tor Vergata.
E' un percorso conosciuto, che sta lasciando solchi nel nostro paese. Visto con gli occhi dell'Unione degli universitari, che questi dati ha iniziato ad analizzare, c'è dell'altro. C'è che il calo dei laureati è di 37.616 unità, il peggiore dalla stagione 2003-04, gli ultimi dieci anni ecco. Vuol dire che molti studenti si perdono per strada, che gli atenei italiani non si riempiono solo di fuoricorso, ma di giovani che abbandonano perché non ce la fanno sul piano economico, perché trovano un lavoro che non richiede il diploma di laurea, perché non credono più nella funzione di acceleratore della propria vita da parte dell'università italiana. In un anno, spiegano i dati in assestamento, si sono persi iscritti pari a 71.784 studenti: è il 4,23 per cento. Gli immatricolati calano di 737 unità, non molti, ma i nuovi iscritti al primo anno sono in discesa da dieci anni e a fronte della ripresa del Centro-Nord, sprofonda il Sud. Per la prima volta, dato significativo, sono in calo anche i laureati: sono 258.052 nel 2014, 37.616 in meno, il 12,72 per cento. L'Udu parla di riforma Gelmini come spartiacque del rapporto tra diplomati e università. Quel dicembre 2010 - approvazione della riforma universitaria numero 240 - ha comunque coinciso con l'inizio della fase peggiore della peggiore crisi economica del Dopoguerra.
"Le prime rilevazioni su immatricolazioni e iscrizioni per l'anno accademico 2014-15 sono in linea con le nostre paure e previsioni", scrive il coordinatore Udu Gianluca Scuccimarra. "Assistiamo a una consistente migrazione di studenti dovuta allo squilibrio nelle politiche e nei finanziamenti per il diritto allo studio tra Sud e Centro-Nord. E il pesante incremento di numeri programmati ha colpito particolarmente gli atenei meridionali". Dal 2010 a oggi gli iscritti totali del sistema universitario sono passati da 1.787.752 a 1.624.208. "Senza interventi immediati e strutturali l'università italiana rischia di morire".
La Crui, la Conferenza dei rettori contraltare degli studenti, conferma preoccupazioni in linea con gli universitari sulla tenuta del sistema. Nell'ultimo documento, approvato il 7 maggio scorso, la conferenza ha rilevato nel 2015 la diminuzione di 87,4 milioni di euro per il Fondo di finanziamento ordinario: partendo dal 2009, il taglio è stato di oltre 800 milioni. Oggi l'Ffo girato dallo Stato alle università italiane rappresenta lo 0,42 per cento del Prodotto interno lordo contro lo 0,99 per cento in Francia e lo 0,92 per cento in Germania. "I risparmi progressivi, unitamente al blocco del turnover, hanno determinato la perdita di oltre diecimila docenti e ricercatori".
Il 2015 dovrà essere, nelle intenzioni del governo della "Buona scuola", l'anno rifondante degli atenei italiani. La Crui, ricordando che per il settore universitario "le dinamiche salariali sono ferme da cinque anni", chiede l'incremento del finanziamento complessivo: "L'Ffo deve coprire interamente i costi standard per studente". Gli universitari dell'Udu, certificata la nuova emorragia di laureati e iscritti, dicono dal loro canto: "Gli atenei del nostro paese perdono migliaia di studenti ogni mese. Di fronte a questo massacro pensare a una "Buona università" nata nelle stanze di partito e senza contatto con il mondo universitario sarebbe follia. E' indispensabile affrontare le vere priorità a partire dalle condizioni degli studenti: finanziamento reale del diritto allo studio da portare a livelli europei, riforma delle tasse universitarie per ridurle e introdurre criteri uniformi di progressività ed equità a livello nazionale, quindi eliminazione dei numeri programmati per favorire l'iscrizione".
E' la cifra delle ultime tre stagioni: il Sud delle università perde immatricolati, iscritti, laureati. Anche l'analisi dei dati 2014-2015, pubblici con l'Anagrafe nazionale degli studenti universitari elaborata dal Miur e in via di assestamento, dice che gli atenei meridionali hanno perso in dieci anni 45 mila iscritti e dice anche che il Centro del paese (+1,58% immatricolati, ovvero iscritti al primo anno) e il Nord (+1,25%) sono usciti dalla crisi di richiamo. Dice ancora che alcune università capaci di trasformare il sapere in lavoro registrano una crescita al primo anno notevole. Per esempio, Macerata, Ferrara, Firenze, Verona, ma anche le due romane Sapienza e Tor Vergata.
E' un percorso conosciuto, che sta lasciando solchi nel nostro paese. Visto con gli occhi dell'Unione degli universitari, che questi dati ha iniziato ad analizzare, c'è dell'altro. C'è che il calo dei laureati è di 37.616 unità, il peggiore dalla stagione 2003-04, gli ultimi dieci anni ecco. Vuol dire che molti studenti si perdono per strada, che gli atenei italiani non si riempiono solo di fuoricorso, ma di giovani che abbandonano perché non ce la fanno sul piano economico, perché trovano un lavoro che non richiede il diploma di laurea, perché non credono più nella funzione di acceleratore della propria vita da parte dell'università italiana. In un anno, spiegano i dati in assestamento, si sono persi iscritti pari a 71.784 studenti: è il 4,23 per cento. Gli immatricolati calano di 737 unità, non molti, ma i nuovi iscritti al primo anno sono in discesa da dieci anni e a fronte della ripresa del Centro-Nord, sprofonda il Sud. Per la prima volta, dato significativo, sono in calo anche i laureati: sono 258.052 nel 2014, 37.616 in meno, il 12,72 per cento. L'Udu parla di riforma Gelmini come spartiacque del rapporto tra diplomati e università. Quel dicembre 2010 - approvazione della riforma universitaria numero 240 - ha comunque coinciso con l'inizio della fase peggiore della peggiore crisi economica del Dopoguerra.
"Le prime rilevazioni su immatricolazioni e iscrizioni per l'anno accademico 2014-15 sono in linea con le nostre paure e previsioni", scrive il coordinatore Udu Gianluca Scuccimarra. "Assistiamo a una consistente migrazione di studenti dovuta allo squilibrio nelle politiche e nei finanziamenti per il diritto allo studio tra Sud e Centro-Nord. E il pesante incremento di numeri programmati ha colpito particolarmente gli atenei meridionali". Dal 2010 a oggi gli iscritti totali del sistema universitario sono passati da 1.787.752 a 1.624.208. "Senza interventi immediati e strutturali l'università italiana rischia di morire".
La Crui, la Conferenza dei rettori contraltare degli studenti, conferma preoccupazioni in linea con gli universitari sulla tenuta del sistema. Nell'ultimo documento, approvato il 7 maggio scorso, la conferenza ha rilevato nel 2015 la diminuzione di 87,4 milioni di euro per il Fondo di finanziamento ordinario: partendo dal 2009, il taglio è stato di oltre 800 milioni. Oggi l'Ffo girato dallo Stato alle università italiane rappresenta lo 0,42 per cento del Prodotto interno lordo contro lo 0,99 per cento in Francia e lo 0,92 per cento in Germania. "I risparmi progressivi, unitamente al blocco del turnover, hanno determinato la perdita di oltre diecimila docenti e ricercatori".
Il 2015 dovrà essere, nelle intenzioni del governo della "Buona scuola", l'anno rifondante degli atenei italiani. La Crui, ricordando che per il settore universitario "le dinamiche salariali sono ferme da cinque anni", chiede l'incremento del finanziamento complessivo: "L'Ffo deve coprire interamente i costi standard per studente". Gli universitari dell'Udu, certificata la nuova emorragia di laureati e iscritti, dicono dal loro canto: "Gli atenei del nostro paese perdono migliaia di studenti ogni mese. Di fronte a questo massacro pensare a una "Buona università" nata nelle stanze di partito e senza contatto con il mondo universitario sarebbe follia. E' indispensabile affrontare le vere priorità a partire dalle condizioni degli studenti: finanziamento reale del diritto allo studio da portare a livelli europei, riforma delle tasse universitarie per ridurle e introdurre criteri uniformi di progressività ed equità a livello nazionale, quindi eliminazione dei numeri programmati per favorire l'iscrizione".
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13.5.15
L’ipocrisia dell’Europa si chiama diseguaglianza
di Kenneth Rogoff (ilsole24ore)
L’emergenza dei migranti che sta vivendo l’Europa rivela un vizio di fondo, se non un’enorme ipocrisia, nell’attuale dibattito sulla disuguaglianza economica. Un vero progressista non sosterrebbe l’idea di pari opportunità per tutti gli abitanti del pianeta, anziché soltanto per quelli che hanno avuto la fortuna di nascere e crescere in Paesi ricchi?
Molti leader di pensiero nelle economie avanzate perorano la mentalità del diritto. Tale diritto, però, si ferma al confine, e anche se una maggiore redistribuzione della ricchezza all’interno dei singoli Paesi viene ritenuta un imperativo assoluto, le persone che vivono in Paesi emergenti o in via di sviluppo sono lasciate fuori.
Se le attuali preoccupazioni circa la disuguaglianza fossero espresse esclusivamente in termini politici, questo ripiegamento su se stessi sarebbe comprensibile; dopotutto, i cittadini dei Paesi poveri non possono votare in quelli ricchi. Invece, la retorica del dibattito sulla diseguaglianza nei Paesi ricchi tradisce una certezza morale che opportunamente ignora i miliardi di persone che in altre parti del mondo vivono in condizioni molto peggiori.
Non bisogna dimenticare che, anche dopo un periodo di stagnazione, la classe media nei Paesi ricchi, vista in una prospettiva globale, resta comunque una classe alta. Soltanto circa il 15% della popolazione mondiale vive in economie sviluppate. Eppure, i Paesi avanzati sono a tutt’oggi responsabili di oltre il 40% dei consumi globali e dell’esaurimento delle risorse. Aumentare le tasse sulla ricchezza è senz’altro un modo per ridurre la disuguaglianza all’interno di un Paese, ma non risolve il problema della povertà profonda nel mondo in via di sviluppo.
E neppure lo risolve appellarsi a una superiorità morale per giustificare il fatto che una persona nata in Occidente usufruisca di così tanti vantaggi. Senza dubbio, delle istituzioni politiche e sociali solide sono il fondamento di una crescita economica sostenuta, anzi rappresentano un ingrediente essenziale per la buona riuscita dello sviluppo.
Tuttavia, la lunga storia di sfruttamento coloniale dell’Europa rende difficile immaginare come sarebbero evolute le istituzioni asiatiche e africane in un universo parallelo in cui gli europei fossero arrivati solo per commerciare, non per conquistare.
Molte questioni politiche appaiono distorte quando si osservano con una lente che mette a fuoco solo la disuguaglianza interna di un Paese e ignora quella globale. L’affermazione marxiana di Thomas Piketty che il capitalismo sta fallendo perché la disuguaglianza nazionale è in aumento in realtà dice il contrario. Quando si dà lo stesso peso a tutti i cittadini del mondo, le cose appaiono sotto una luce diversa. Le stesse forze della globalizzazione che hanno contribuito alla stagnazione dei salari della classe media nei Paesi ricchi, altrove hanno affrancato dalla povertà milioni di persone.
La disuguaglianza globale si è ridotta negli ultimi tre decenni, il che implica che il capitalismo ha avuto un successo straordinario. Potrà aver eroso il livello delle rendite di cui i lavoratori nei Paesi avanzati godono in virtù dell’essere nati lì, ma ha fatto di più per aiutare i lavoratori a reddito medio, concentrati in Asia e nei mercati emergenti.
Consentire una più libera circolazione delle persone attraverso le frontiere bilancerebbe le opportunità in modo più rapido rispetto al commercio, ma un’ipotesi del genere incontra resistenza. I partiti politici anti-immigrazione hanno preso piede in Paesi come Francia e Regno Unito.
Certo, i milioni di disperati che vivono in zone di guerra e in Paesi falliti non hanno molta altra scelta se non chiedere asilo in un paese ricco, a prescindere dai rischi che ciò comporta. Le guerre in Siria, Eritrea, Libia e Mali hanno avuto un ruolo enorme nell’attuale impennata di profughi che cercano di raggiungere l’Europa. E se anche questi Paesi dovessero stabilizzarsi, l’instabilità di altre regioni si imporrebbe al loro posto.
Le pressioni economiche rappresentano un’altra forte spinta alla migrazione. I lavoratori dei Paesi poveri accolgono con favore l’opportunità di lavorare in un Paese avanzato, anche con salari da fame. Purtroppo, il dibattito in corso nei Paesi ricchi verte perlopiù, sia a destra che a sinistra, su come tenere gli altri fuori dai propri confini, una soluzione che potrà essere pratica, ma non è giustificabile da un punto di vista morale.
Inoltre, la pressione migratoria è destinata ad aumentare se il riscaldamento globale evolverà secondo le previsioni dei climatologi. Quando le regioni equatoriali diventeranno troppo calde e aride per sostenere l’agricoltura, nel Nord del mondo l’aumento delle temperature renderà invece l’agricoltura più produttiva. I mutamenti climatici potrebbero, quindi, incrementare la migrazione verso i paesi più ricchi fino a livelli che farebbero impallidire quelli dell’emergenza attuale, soprattutto tenuto conto che i paesi poveri e i mercati emergenti sono perlopiù ubicati in prossimità dell’equatore e in zone climatiche più vulnerabili.
Essendo la capacità di accoglienza e la tolleranza dei paesi ricchi verso l’immigrazione ormai limitate, è difficile immaginare di poter raggiungere in modo pacifico un nuovo equilibrio in termini di distribuzione della popolazione globale. Esiste, quindi, il rischio che il risentimento nei confronti delle economie avanzate, responsabili di una quota fin troppo sproporzionata d'inquinamento e consumo di materie prime globali, possa degenerare.
Mentre il mondo diventa più ricco, la disuguaglianza inevitabilmente si profilerà come un problema molto più vasto rispetto a quello della povertà, un’ipotesi che avevo già avanzato oltre un decennio fa. Purtroppo, però, il dibattito sulla disuguaglianza si è concentrato a tal punto su quella nazionale da oscurare il ben più grande problema della disuguaglianza globale. Questo è un vero peccato perché i paesi ricchi potrebbero fare la differenza in tanti modi, ad esempio fornendo assistenza medica e scolastica gratuita on-line, più aiuti allo sviluppo, una riduzione del debito, l’accesso al mercato e un maggiore contributo alla sicurezza globale. L’arrivo di persone disperate sulle coste dell’Europa a bordo di barconi è un sintomo della loro incapacità in tal senso.
L’emergenza dei migranti che sta vivendo l’Europa rivela un vizio di fondo, se non un’enorme ipocrisia, nell’attuale dibattito sulla disuguaglianza economica. Un vero progressista non sosterrebbe l’idea di pari opportunità per tutti gli abitanti del pianeta, anziché soltanto per quelli che hanno avuto la fortuna di nascere e crescere in Paesi ricchi?
Molti leader di pensiero nelle economie avanzate perorano la mentalità del diritto. Tale diritto, però, si ferma al confine, e anche se una maggiore redistribuzione della ricchezza all’interno dei singoli Paesi viene ritenuta un imperativo assoluto, le persone che vivono in Paesi emergenti o in via di sviluppo sono lasciate fuori.
Se le attuali preoccupazioni circa la disuguaglianza fossero espresse esclusivamente in termini politici, questo ripiegamento su se stessi sarebbe comprensibile; dopotutto, i cittadini dei Paesi poveri non possono votare in quelli ricchi. Invece, la retorica del dibattito sulla diseguaglianza nei Paesi ricchi tradisce una certezza morale che opportunamente ignora i miliardi di persone che in altre parti del mondo vivono in condizioni molto peggiori.
Non bisogna dimenticare che, anche dopo un periodo di stagnazione, la classe media nei Paesi ricchi, vista in una prospettiva globale, resta comunque una classe alta. Soltanto circa il 15% della popolazione mondiale vive in economie sviluppate. Eppure, i Paesi avanzati sono a tutt’oggi responsabili di oltre il 40% dei consumi globali e dell’esaurimento delle risorse. Aumentare le tasse sulla ricchezza è senz’altro un modo per ridurre la disuguaglianza all’interno di un Paese, ma non risolve il problema della povertà profonda nel mondo in via di sviluppo.
E neppure lo risolve appellarsi a una superiorità morale per giustificare il fatto che una persona nata in Occidente usufruisca di così tanti vantaggi. Senza dubbio, delle istituzioni politiche e sociali solide sono il fondamento di una crescita economica sostenuta, anzi rappresentano un ingrediente essenziale per la buona riuscita dello sviluppo.
Tuttavia, la lunga storia di sfruttamento coloniale dell’Europa rende difficile immaginare come sarebbero evolute le istituzioni asiatiche e africane in un universo parallelo in cui gli europei fossero arrivati solo per commerciare, non per conquistare.
Molte questioni politiche appaiono distorte quando si osservano con una lente che mette a fuoco solo la disuguaglianza interna di un Paese e ignora quella globale. L’affermazione marxiana di Thomas Piketty che il capitalismo sta fallendo perché la disuguaglianza nazionale è in aumento in realtà dice il contrario. Quando si dà lo stesso peso a tutti i cittadini del mondo, le cose appaiono sotto una luce diversa. Le stesse forze della globalizzazione che hanno contribuito alla stagnazione dei salari della classe media nei Paesi ricchi, altrove hanno affrancato dalla povertà milioni di persone.
La disuguaglianza globale si è ridotta negli ultimi tre decenni, il che implica che il capitalismo ha avuto un successo straordinario. Potrà aver eroso il livello delle rendite di cui i lavoratori nei Paesi avanzati godono in virtù dell’essere nati lì, ma ha fatto di più per aiutare i lavoratori a reddito medio, concentrati in Asia e nei mercati emergenti.
Consentire una più libera circolazione delle persone attraverso le frontiere bilancerebbe le opportunità in modo più rapido rispetto al commercio, ma un’ipotesi del genere incontra resistenza. I partiti politici anti-immigrazione hanno preso piede in Paesi come Francia e Regno Unito.
Certo, i milioni di disperati che vivono in zone di guerra e in Paesi falliti non hanno molta altra scelta se non chiedere asilo in un paese ricco, a prescindere dai rischi che ciò comporta. Le guerre in Siria, Eritrea, Libia e Mali hanno avuto un ruolo enorme nell’attuale impennata di profughi che cercano di raggiungere l’Europa. E se anche questi Paesi dovessero stabilizzarsi, l’instabilità di altre regioni si imporrebbe al loro posto.
Le pressioni economiche rappresentano un’altra forte spinta alla migrazione. I lavoratori dei Paesi poveri accolgono con favore l’opportunità di lavorare in un Paese avanzato, anche con salari da fame. Purtroppo, il dibattito in corso nei Paesi ricchi verte perlopiù, sia a destra che a sinistra, su come tenere gli altri fuori dai propri confini, una soluzione che potrà essere pratica, ma non è giustificabile da un punto di vista morale.
Inoltre, la pressione migratoria è destinata ad aumentare se il riscaldamento globale evolverà secondo le previsioni dei climatologi. Quando le regioni equatoriali diventeranno troppo calde e aride per sostenere l’agricoltura, nel Nord del mondo l’aumento delle temperature renderà invece l’agricoltura più produttiva. I mutamenti climatici potrebbero, quindi, incrementare la migrazione verso i paesi più ricchi fino a livelli che farebbero impallidire quelli dell’emergenza attuale, soprattutto tenuto conto che i paesi poveri e i mercati emergenti sono perlopiù ubicati in prossimità dell’equatore e in zone climatiche più vulnerabili.
Essendo la capacità di accoglienza e la tolleranza dei paesi ricchi verso l’immigrazione ormai limitate, è difficile immaginare di poter raggiungere in modo pacifico un nuovo equilibrio in termini di distribuzione della popolazione globale. Esiste, quindi, il rischio che il risentimento nei confronti delle economie avanzate, responsabili di una quota fin troppo sproporzionata d'inquinamento e consumo di materie prime globali, possa degenerare.
Mentre il mondo diventa più ricco, la disuguaglianza inevitabilmente si profilerà come un problema molto più vasto rispetto a quello della povertà, un’ipotesi che avevo già avanzato oltre un decennio fa. Purtroppo, però, il dibattito sulla disuguaglianza si è concentrato a tal punto su quella nazionale da oscurare il ben più grande problema della disuguaglianza globale. Questo è un vero peccato perché i paesi ricchi potrebbero fare la differenza in tanti modi, ad esempio fornendo assistenza medica e scolastica gratuita on-line, più aiuti allo sviluppo, una riduzione del debito, l’accesso al mercato e un maggiore contributo alla sicurezza globale. L’arrivo di persone disperate sulle coste dell’Europa a bordo di barconi è un sintomo della loro incapacità in tal senso.
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11.5.15
La regola, ovvero giorno dopo giorno la 'ndrangheta in Lombardia
Giuseppe Ceretti
Pare di vederlo l'Ivano Perego, 36 anni, con una cresta di capelli biondo ossigenati e l'aria da bullo che scende dal Suv, moderno bunker a quattro ruote che si compra a metri quadrati e dal quale si scende in ascensore. E' lui il padre padrone della Perego Strade, l'azienda di Cassago Brianza specializzata in costruzioni, movimento terra, servizi all'edilizia, ereditata dal padre Luigi.
Almeno così sembra, anche se tra i dipendenti dell'impresa che si chiamano Galbusera e Redaelli, si insinua il dubbio che qualcosa sia cambiato e non certo al meglio. Che ci fa in ditta quel Salvatore Strangio che si spaccia per geometra e che entra ed esce come fosse il padrone nell'ufficio del “signor Perego”? E chi è mai quell'Andrea Pavone che spunta dal nulla e diventa l'amministratore con stipendio e benefit da capogiro?
Incomincia con questa storia emblematica dell'estate del 2008 il diario dell'attività della 'ndrangheta in Lombardia fino a giorni nostri. Lo scrive con la passione e la meticolosità del cronista di razza, Giampiero Rossi, giornalista del Corriere, con alle spalle tanta, tanta strada percorsa nell'amata e dannata terra di Lombardia, per molti anni all'Unità, quotidiano al quale è approdato dopo la preziosa esperienza nel gruppo di società civile di Nando Dalla Chiesa, oggi responsabile del comitato antimafia del comune di Milano.
Non a caso il racconto che prende le mosse da Perego si conclude con le parole di Dalla Chiesa che meglio riassumono il senso di questa e di altre fatiche: “I mafiosi fanno i mafiosi tutti i giorni, a tempo pieno, dalla mattina alla sera; l'antimafia, invece, è discontinua”. Un rilievo che non ha tuttavia il senso della resa, al contrario esprime l'intensità dell'impegno necessario per combattere un nemico che, come recita l'esemplare titolo del libro, fa del crimine e del malaffare “la regola”, attraverso un impegno quotidiano, senza mai mollare la presa un'istante.
Dall'Ivano Perego, gaglioffo e guascone sì, ma insieme pupo nelle mani della 'ndrangheta, alle intercettazioni sulla grande torta dell'Expò, è un itinerario non già in un universo parallelo, ma nel nostro quotidiano. Non a caso il presidente della Corte d'Appello di Milano, Giovanni Canzio, all'apertura dell'anno giudiziario in corso, sottolinea come la presenza mafiosa al Nord debba essere letta in termini “non già di mera infiltrazione, quanto piuttosto d'interazione/occupazione”.
Giampiero Rossi ci narra il devastante lavoro di queste metastasi cresciute nella società lombarda, come si conviene a un moderno Caronte: ne sa più di noi, si è letto e riletto centinaia di ordinanze dei coraggiosi giudici che combattono questa guerra quotidiana (citiamo solo il magistrato Giuseppe Gennari, a titolo d'esempio di uomini d'ingegno e di coraggio), ha ascoltato tante persone esperte e alla fine s'è messo a scrivere, spesso nell'angolo di un bar con le mille pagine sparse sul tavolino. Ma racconta, come se fosse la prima volta, l'ingresso nel girone dell'inferno quotidiano. Giorno per giorno, come nel titolo, mossa per mossa, nome per nome.
Il risultato è una storia tragicamente vera, densa, che ci consegna mille sensazioni.
Innanzitutto la vastità del fenomeno. Quando si legge del lavoro capillare dei responsabili della “locale”, nel gergo le organizzazioni di comando territoriale della 'ndrangheta, si rimane colpiti. Nulla viene trascurato. Vincenzo Mandalari, uno dei boss intercettati, parla della gallina dalle uova d'oro dell'Expo e così ammonisce uno dei consiglieri comunali prezzolati: “Se tu sogni tutto l'Expo di Rho.. allora hai sbagliato a sederti con noi. Perché noi non stiamo pensando a questo!.. Stiamo pensando a mettere i chiusini invece.. si punta a centri sportivi... al sociale”.
Attirati sì dalle grandi torte, ma prima ancora attenti a sfruttare ogni tassello, anche minimo, del mosaico territoriale. La grande fetta sono i lavori del movimento terra, per la facilità d'impiego criminale a basso valore aggiunto, ma non mancano le capacità operative nei settori della finanza, frutto di una perfetta simbiosi tra impresa e mafia, come dimostra la mutazione della Perego, alla fine controllata da due fiduciarie che fanno da schermo ai veri proprietari.
Modernità operativa che trova la sua forza nella rigida struttura della 'ndrangheta S.p.A.: i tentativi di qualche incauto affiliato di superare i limiti territoriali delle “locali” sono per lo più perdenti, non solo dei possibili nuovi affari, ma sovente della vita. Esemplare al proposito il capitolo dedicato all'incontro del 31 ottobre 2009 a cena al circolo ARCI intitolato a Falcone e Borsellino (atroce beffa del destino) tra i boss della ''ndrangheta, il cosiddetto summit dei 22 che definisce strategie e limiti d'intervento territoriale di famiglie e locali, “la regola sociale” che di tutto s'occupa, persino delle modalità d'invito ai matrimoni e che fa della 'ndrangheta un organismo unitario a gestire droga, estorsioni, usura, voto di scambio.
Il ricatto, la paura, le minacce, le botte sono elementi indiscutibili di un rapporto impari tra carnefice e vittime. Ma non è solo per mancanza di coraggio che in Lombardia la 'ndrangheta è entrata negli uffici della classe dirigente. Talvolta è complicità, convenienza, si direbbe quasi logica d'impresa: “Sicuramente l'influenza migliore è stata la qualità del servizio, l'immagine- spiega con candore un importante manager dei servizi di trasporto della Tnt chiamato a deporre- Nel giro di un anno abbiamo cambiato sull'area milanese tutti i mezzi, dando un ottimo esempio”.
C'è naturalmente chi della “qualità del servizio” avrebbe ragione di lamentarsi, come la moglie dell'imprenditore pestato a sangue. Ma al telefono con la suocera dice: “Quella gente lì lo sai, oggi è così, domani cambia idea...Eravamo amici, ma come fai a capire, ma se lui vuole i suoi soldi, non siamo più amici”.
Qualità del servizio che piace a taluni esponenti della classe politica, coinvolta da destra a sinistra. Spiega al telefono Francesco Sorrentino, ex consigliere della Lega al Comune di Lecco: “La differenza tra questa gente e il politico è una sola, questa gente ammazza, il politico no. Però fidati, a questo gli dai una stretta di mano e la parola la mantiene”.
La regola è spietata, tuttavia non invincibile. Forse il più importante messaggio è proprio questo: c'è chi nella società non s'arrende, magistrati, politici, imprenditori, anche a rischio della pelle. Insomma la regola si può sovvertire. Parola di Giampiero Rossi che nella dedica “a tutti i calabresi per bene e a quelli che non accettano scorciatoie” offre l'immagine più bella e più vera.
(Giampiero Rossi, La regola.Giorno per giorno la 'ndrangheta in Lombardia - Pagg. 219, euro 18 - GLF Editori Laterza)
Pare di vederlo l'Ivano Perego, 36 anni, con una cresta di capelli biondo ossigenati e l'aria da bullo che scende dal Suv, moderno bunker a quattro ruote che si compra a metri quadrati e dal quale si scende in ascensore. E' lui il padre padrone della Perego Strade, l'azienda di Cassago Brianza specializzata in costruzioni, movimento terra, servizi all'edilizia, ereditata dal padre Luigi.
Almeno così sembra, anche se tra i dipendenti dell'impresa che si chiamano Galbusera e Redaelli, si insinua il dubbio che qualcosa sia cambiato e non certo al meglio. Che ci fa in ditta quel Salvatore Strangio che si spaccia per geometra e che entra ed esce come fosse il padrone nell'ufficio del “signor Perego”? E chi è mai quell'Andrea Pavone che spunta dal nulla e diventa l'amministratore con stipendio e benefit da capogiro?
Incomincia con questa storia emblematica dell'estate del 2008 il diario dell'attività della 'ndrangheta in Lombardia fino a giorni nostri. Lo scrive con la passione e la meticolosità del cronista di razza, Giampiero Rossi, giornalista del Corriere, con alle spalle tanta, tanta strada percorsa nell'amata e dannata terra di Lombardia, per molti anni all'Unità, quotidiano al quale è approdato dopo la preziosa esperienza nel gruppo di società civile di Nando Dalla Chiesa, oggi responsabile del comitato antimafia del comune di Milano.
Non a caso il racconto che prende le mosse da Perego si conclude con le parole di Dalla Chiesa che meglio riassumono il senso di questa e di altre fatiche: “I mafiosi fanno i mafiosi tutti i giorni, a tempo pieno, dalla mattina alla sera; l'antimafia, invece, è discontinua”. Un rilievo che non ha tuttavia il senso della resa, al contrario esprime l'intensità dell'impegno necessario per combattere un nemico che, come recita l'esemplare titolo del libro, fa del crimine e del malaffare “la regola”, attraverso un impegno quotidiano, senza mai mollare la presa un'istante.
Dall'Ivano Perego, gaglioffo e guascone sì, ma insieme pupo nelle mani della 'ndrangheta, alle intercettazioni sulla grande torta dell'Expò, è un itinerario non già in un universo parallelo, ma nel nostro quotidiano. Non a caso il presidente della Corte d'Appello di Milano, Giovanni Canzio, all'apertura dell'anno giudiziario in corso, sottolinea come la presenza mafiosa al Nord debba essere letta in termini “non già di mera infiltrazione, quanto piuttosto d'interazione/occupazione”.
Giampiero Rossi ci narra il devastante lavoro di queste metastasi cresciute nella società lombarda, come si conviene a un moderno Caronte: ne sa più di noi, si è letto e riletto centinaia di ordinanze dei coraggiosi giudici che combattono questa guerra quotidiana (citiamo solo il magistrato Giuseppe Gennari, a titolo d'esempio di uomini d'ingegno e di coraggio), ha ascoltato tante persone esperte e alla fine s'è messo a scrivere, spesso nell'angolo di un bar con le mille pagine sparse sul tavolino. Ma racconta, come se fosse la prima volta, l'ingresso nel girone dell'inferno quotidiano. Giorno per giorno, come nel titolo, mossa per mossa, nome per nome.
Il risultato è una storia tragicamente vera, densa, che ci consegna mille sensazioni.
Innanzitutto la vastità del fenomeno. Quando si legge del lavoro capillare dei responsabili della “locale”, nel gergo le organizzazioni di comando territoriale della 'ndrangheta, si rimane colpiti. Nulla viene trascurato. Vincenzo Mandalari, uno dei boss intercettati, parla della gallina dalle uova d'oro dell'Expo e così ammonisce uno dei consiglieri comunali prezzolati: “Se tu sogni tutto l'Expo di Rho.. allora hai sbagliato a sederti con noi. Perché noi non stiamo pensando a questo!.. Stiamo pensando a mettere i chiusini invece.. si punta a centri sportivi... al sociale”.
Attirati sì dalle grandi torte, ma prima ancora attenti a sfruttare ogni tassello, anche minimo, del mosaico territoriale. La grande fetta sono i lavori del movimento terra, per la facilità d'impiego criminale a basso valore aggiunto, ma non mancano le capacità operative nei settori della finanza, frutto di una perfetta simbiosi tra impresa e mafia, come dimostra la mutazione della Perego, alla fine controllata da due fiduciarie che fanno da schermo ai veri proprietari.
Modernità operativa che trova la sua forza nella rigida struttura della 'ndrangheta S.p.A.: i tentativi di qualche incauto affiliato di superare i limiti territoriali delle “locali” sono per lo più perdenti, non solo dei possibili nuovi affari, ma sovente della vita. Esemplare al proposito il capitolo dedicato all'incontro del 31 ottobre 2009 a cena al circolo ARCI intitolato a Falcone e Borsellino (atroce beffa del destino) tra i boss della ''ndrangheta, il cosiddetto summit dei 22 che definisce strategie e limiti d'intervento territoriale di famiglie e locali, “la regola sociale” che di tutto s'occupa, persino delle modalità d'invito ai matrimoni e che fa della 'ndrangheta un organismo unitario a gestire droga, estorsioni, usura, voto di scambio.
Il ricatto, la paura, le minacce, le botte sono elementi indiscutibili di un rapporto impari tra carnefice e vittime. Ma non è solo per mancanza di coraggio che in Lombardia la 'ndrangheta è entrata negli uffici della classe dirigente. Talvolta è complicità, convenienza, si direbbe quasi logica d'impresa: “Sicuramente l'influenza migliore è stata la qualità del servizio, l'immagine- spiega con candore un importante manager dei servizi di trasporto della Tnt chiamato a deporre- Nel giro di un anno abbiamo cambiato sull'area milanese tutti i mezzi, dando un ottimo esempio”.
C'è naturalmente chi della “qualità del servizio” avrebbe ragione di lamentarsi, come la moglie dell'imprenditore pestato a sangue. Ma al telefono con la suocera dice: “Quella gente lì lo sai, oggi è così, domani cambia idea...Eravamo amici, ma come fai a capire, ma se lui vuole i suoi soldi, non siamo più amici”.
Qualità del servizio che piace a taluni esponenti della classe politica, coinvolta da destra a sinistra. Spiega al telefono Francesco Sorrentino, ex consigliere della Lega al Comune di Lecco: “La differenza tra questa gente e il politico è una sola, questa gente ammazza, il politico no. Però fidati, a questo gli dai una stretta di mano e la parola la mantiene”.
La regola è spietata, tuttavia non invincibile. Forse il più importante messaggio è proprio questo: c'è chi nella società non s'arrende, magistrati, politici, imprenditori, anche a rischio della pelle. Insomma la regola si può sovvertire. Parola di Giampiero Rossi che nella dedica “a tutti i calabresi per bene e a quelli che non accettano scorciatoie” offre l'immagine più bella e più vera.
(Giampiero Rossi, La regola.Giorno per giorno la 'ndrangheta in Lombardia - Pagg. 219, euro 18 - GLF Editori Laterza)
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3.5.15
Se a sgocciolare è l’Expo
Guido Viale (il Manifesto)
Trickle-down (in italiano, sgocciolamento) è il nome di una teoria economica, ma anche di una filosofia, che molti hanno conosciuto attraverso la parabola di Lazzaro che si nutriva delle briciole che il ricco Epulone lasciava cadere dalla sua mensa (Luca, 16, 19–31). Dopo la loro morte le parti si sono invertite perché Lazzaro è stato ammesso al banchetto di Dio, in Paradiso, mentre Epulone è finito all’inferno a soffrire fame e sete. La teoria e la filosofia del Trickle–down in realtà si fermano alla prima parte della parabola.
La seconda parte è compito nostro realizzarla; e non in Paradiso, dopo la morte, ma su questa Terra, qui e ora.
In ogni caso, secondo la teoria, più i ricchi diventano ricchi, più qualche cosa della loro ricchezza “sgocciolerà” sulle classi che stanno sotto di loro, per cui che i ricchi siano sempre più ricchi conviene a tutti. Discende da questa teoria la progressiva riduzione delle tasse sui redditi maggiori (fino alla flat tax, l’aliquota uguale per tutti, predicata negli Usa dal partito repubblicano e, in Italia, da Matteo Salvini) che, a partire dagli anni Settanta, ha inaugurato la crescita incontrollata delle diseguaglianze. In Italia la progressiva riduzione delle aliquote marginali dell’imposta sui redditi più elevati (al momento dell’introduzione dell’Irpef era di oltre il 70 per cento; oggi supera di poco il 40) è stata giustificata sostenendo che aliquote troppo elevate incentivano l’evasione fiscale, mentre aliquote più “ragionevoli” l’avrebbero eliminata. I risultati si vedono. L’altro cavallo di battaglia della Trickle-down economics è che le misure di incentivazione economica dovrebbero essere destinate esclusivamente alle imprese, perché sono solo le imprese a creare buona occupazionee, quindi, reddito e benessere anche per i lavoratori. Tutte le altre spese, specie se di carattere sociale, sono, in termini economici, “sprechi”. Ma l’evoluzione tecnologica rende sempre di più job-less, cioè senza occupazione aggiuntiva, la crescita sia della singola impresa che del sistema nel suo complesso. Anzi, molto spesso la riduzione dell’occupazione in una impresa viene salutata con un drastico aumento del suo valore in borsa.
Trasposta sul piano sociale, la filosofia del Trickle-down ha assunto i connotati del “capitalismo compassionevole”, che negli Stati uniti costituisce la dottrina ufficiale dell’ala più reazionaria del partito repubblicano, e non solo di quella. In base ad essa il welfare, come insieme di misure tese a garantire in forma universalistica i diritti fondamentali del cittadino – pensione, cure sanitarie, istruzione, sostegno al reddito – va eliminato perché induce chi ne beneficia all’ozio; e va sostituito con la beneficienza gestita dalla generosità dei ricchi, nelle forme da loro prescelte e indirizzandola, ovviamente, solo a chi, a loro esclusivo giudizio, “se la merita”. Non c’è negazione più radicale della dignità dell’essere umano (e del vivente in genere) di una teoria come questa. Eppure è una concezione che sta progressivamente prendendo piede in tutti gli ambiti della cultura ufficiale, anche là dove gli istituti del Welfare State (che letteralmente significa Stato del benessere, e che da tempo viene tradotto sempre più spesso con l’espressione “Stato assistenziale”) sono, bene o male, ancora in funzione.
Non deve stupire quindi di ritrovare i capisaldi di questa concezione violentemente antidemocratica in quello che viene fin da ora ufficialmente indicato come “il lascito immateriale” della peggiore manifestazione della teoria e della prassi del capitalismo finanziario, o “finanzcapitalismo”: la cosiddetta “carta di Milano” dell’Expò. Lascito immateriale, perché quello materiale, come è ormai noto, non è che devastazione del territorio, asfalto e cemento, corruzione, nuovi debiti di Comune, Regione e Stato, violazione dei diritti, della dignità e della sicurezza del lavoro (l’Expò è stato il laboratorio del Job-act), propaganda per un’alimentazione, un’agricoltura e un’industria alimentare tossiche e, dulcis in fundo, un meccanismo di perpetuazione delle Grandi Opere inutili: perché, a Expò concluso, ci sarà da decidere che cosa fare, con nuovo cemento, nuovi debiti e nuova corruzione di quell’area ormai devastata.
Uno dei punti o propositi qualificanti della Carta di Milano è infatti la lotta contro lo spreco alimentare attraverso il recupero del cibo che oggi viene buttato via, destinandolo ai poveri. Nella carta i riferimenti a questo proposito sono tre: “ che il cibo sia consumato prima che deperisca, donato qualora in eccesso e conservato in modo tale che non si deteriori”; “individuare e denunciare le principali criticità nelle varie legislazioni che disciplinano la donazione degli alimenti invenduti per poi impegnarci attivamente al fine di recuperare e ridistribuire le eccedenze”; “creare strumenti di sostegno in favore delle fasce più deboli della popolazione, anche attraverso il coordinamento tra gli attori che operano nel settore del recupero e della distribuzione gratuita delle eccedenze alimentari”. Apparentemente si tratta di raccomandazioni di buon senso: dare a chi non può permetterselo il cibo che altrimenti butteremmo via. E’ quello che si cerca di fare con istituzioni e programmi benemeriti, come la legge detta del “Buon Samaritano” o il Last-minute market promosso dal prof. Andrea Segrè. Il fatto è che sono misure messe a punto nell’ambito della gestione dei rifiuti e tese alla loro minimizzazione (in vista del loro azzeramento, previsto dal programma Rifiuti zero, che le renderebbe superflue). Trasposte nell’ambito di un programma planetario per “nutrire il pianeta” hanno l’effetto di retrocedere all’ambito della gestione dei rifiuti il tema della sottoalimentazione di una parte decisiva dell’umanità, la cui condizione è invece il prodotto delle grandi e crescenti diseguaglianze mondiali nella distribuzione dei redditi, del lavoro e delle risorse.
Per cogliere meglio questo punto è necessario risalire a quella che è la matrice della Carta di Milano, cioè il “Protocollo di Milano”: un documento elaborato dalla fondazione Barilla – emanazione dell’omonima multinazionale alimentare – a cui l’Expò ha affidato il compito di individuare i capisaldi del programma “nutrire il pianeta”, che sono poi stati tradotti “in pillole” nella Carta di Milano; e che ha la pretesa di definire un programma di azione dei prossimi decenni per tutti i soggetti del mondo – Governi, imprese, associazioni, cittadini — impegnati nella filiera agroalimentare come produttori, distributori o consumatori.
Nel Protocollo di Milano il tema dello spreco di alimenti occupa il primo posto: “Primo paradosso – spreco di alimenti: 1,3 miliardi di tonnellate di cibo commestibile sono sprecati ogni anno, ovvero un terzo della produzione globale di alimenti e quattro volte la quantità necessaria a nutrire gli 805 milioni di persone denutrite nel mondo”. Nell’ambito dei programmi per sradicare la fame, tra cui “le disposizioni pertinenti nel quadro delle legislazioni internazionali, regionali e nazionali per la protezione e conservazione delle risorse e l’adozione di azioni finalizzate allo sviluppo sostenibile nella Direttiva quadro europea sulle acque, il Piano d’azione per un’Europa efficiente sotto il profilo delle risorse, gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio per sradicare la povertà estrema e la fame”, il Protocollo di Milano arriva a trattare questa prima emergenza planetaria con le stesse modalità con cui, in un qualsiasi Comune d’Italia, si affronta il problema della gestione dei rifiuti: “Le iniziative per la riduzione degli sprechi devono rispettare la seguente gerarchia:
1. Prevenzione; 2. Riutilizzo per l’alimentazione umana; 3. Alimentazione animale; 4. Produzione di energia e compostaggio”. Se la guerra alla fame nel mondo è in primo luogo una lotta contro la trasformazione degli alimenti in rifiuti (e non per una più equa distribuzione delle risorse), è ovvio che ai poveri e agli affamati del pianeta non spetti altro che il compito di smaltire ciò di cui i ricchi si vogliono sbarazzare. Cioè sedersi, come Lazzaro, ai piedi della tavola del ricco Epulone. Con il che la Trickle-down economics fa il suo ingresso trionfale nel “lascito” dell’Expò.
Trickle-down (in italiano, sgocciolamento) è il nome di una teoria economica, ma anche di una filosofia, che molti hanno conosciuto attraverso la parabola di Lazzaro che si nutriva delle briciole che il ricco Epulone lasciava cadere dalla sua mensa (Luca, 16, 19–31). Dopo la loro morte le parti si sono invertite perché Lazzaro è stato ammesso al banchetto di Dio, in Paradiso, mentre Epulone è finito all’inferno a soffrire fame e sete. La teoria e la filosofia del Trickle–down in realtà si fermano alla prima parte della parabola.
La seconda parte è compito nostro realizzarla; e non in Paradiso, dopo la morte, ma su questa Terra, qui e ora.
In ogni caso, secondo la teoria, più i ricchi diventano ricchi, più qualche cosa della loro ricchezza “sgocciolerà” sulle classi che stanno sotto di loro, per cui che i ricchi siano sempre più ricchi conviene a tutti. Discende da questa teoria la progressiva riduzione delle tasse sui redditi maggiori (fino alla flat tax, l’aliquota uguale per tutti, predicata negli Usa dal partito repubblicano e, in Italia, da Matteo Salvini) che, a partire dagli anni Settanta, ha inaugurato la crescita incontrollata delle diseguaglianze. In Italia la progressiva riduzione delle aliquote marginali dell’imposta sui redditi più elevati (al momento dell’introduzione dell’Irpef era di oltre il 70 per cento; oggi supera di poco il 40) è stata giustificata sostenendo che aliquote troppo elevate incentivano l’evasione fiscale, mentre aliquote più “ragionevoli” l’avrebbero eliminata. I risultati si vedono. L’altro cavallo di battaglia della Trickle-down economics è che le misure di incentivazione economica dovrebbero essere destinate esclusivamente alle imprese, perché sono solo le imprese a creare buona occupazionee, quindi, reddito e benessere anche per i lavoratori. Tutte le altre spese, specie se di carattere sociale, sono, in termini economici, “sprechi”. Ma l’evoluzione tecnologica rende sempre di più job-less, cioè senza occupazione aggiuntiva, la crescita sia della singola impresa che del sistema nel suo complesso. Anzi, molto spesso la riduzione dell’occupazione in una impresa viene salutata con un drastico aumento del suo valore in borsa.
Trasposta sul piano sociale, la filosofia del Trickle-down ha assunto i connotati del “capitalismo compassionevole”, che negli Stati uniti costituisce la dottrina ufficiale dell’ala più reazionaria del partito repubblicano, e non solo di quella. In base ad essa il welfare, come insieme di misure tese a garantire in forma universalistica i diritti fondamentali del cittadino – pensione, cure sanitarie, istruzione, sostegno al reddito – va eliminato perché induce chi ne beneficia all’ozio; e va sostituito con la beneficienza gestita dalla generosità dei ricchi, nelle forme da loro prescelte e indirizzandola, ovviamente, solo a chi, a loro esclusivo giudizio, “se la merita”. Non c’è negazione più radicale della dignità dell’essere umano (e del vivente in genere) di una teoria come questa. Eppure è una concezione che sta progressivamente prendendo piede in tutti gli ambiti della cultura ufficiale, anche là dove gli istituti del Welfare State (che letteralmente significa Stato del benessere, e che da tempo viene tradotto sempre più spesso con l’espressione “Stato assistenziale”) sono, bene o male, ancora in funzione.
Non deve stupire quindi di ritrovare i capisaldi di questa concezione violentemente antidemocratica in quello che viene fin da ora ufficialmente indicato come “il lascito immateriale” della peggiore manifestazione della teoria e della prassi del capitalismo finanziario, o “finanzcapitalismo”: la cosiddetta “carta di Milano” dell’Expò. Lascito immateriale, perché quello materiale, come è ormai noto, non è che devastazione del territorio, asfalto e cemento, corruzione, nuovi debiti di Comune, Regione e Stato, violazione dei diritti, della dignità e della sicurezza del lavoro (l’Expò è stato il laboratorio del Job-act), propaganda per un’alimentazione, un’agricoltura e un’industria alimentare tossiche e, dulcis in fundo, un meccanismo di perpetuazione delle Grandi Opere inutili: perché, a Expò concluso, ci sarà da decidere che cosa fare, con nuovo cemento, nuovi debiti e nuova corruzione di quell’area ormai devastata.
Uno dei punti o propositi qualificanti della Carta di Milano è infatti la lotta contro lo spreco alimentare attraverso il recupero del cibo che oggi viene buttato via, destinandolo ai poveri. Nella carta i riferimenti a questo proposito sono tre: “ che il cibo sia consumato prima che deperisca, donato qualora in eccesso e conservato in modo tale che non si deteriori”; “individuare e denunciare le principali criticità nelle varie legislazioni che disciplinano la donazione degli alimenti invenduti per poi impegnarci attivamente al fine di recuperare e ridistribuire le eccedenze”; “creare strumenti di sostegno in favore delle fasce più deboli della popolazione, anche attraverso il coordinamento tra gli attori che operano nel settore del recupero e della distribuzione gratuita delle eccedenze alimentari”. Apparentemente si tratta di raccomandazioni di buon senso: dare a chi non può permetterselo il cibo che altrimenti butteremmo via. E’ quello che si cerca di fare con istituzioni e programmi benemeriti, come la legge detta del “Buon Samaritano” o il Last-minute market promosso dal prof. Andrea Segrè. Il fatto è che sono misure messe a punto nell’ambito della gestione dei rifiuti e tese alla loro minimizzazione (in vista del loro azzeramento, previsto dal programma Rifiuti zero, che le renderebbe superflue). Trasposte nell’ambito di un programma planetario per “nutrire il pianeta” hanno l’effetto di retrocedere all’ambito della gestione dei rifiuti il tema della sottoalimentazione di una parte decisiva dell’umanità, la cui condizione è invece il prodotto delle grandi e crescenti diseguaglianze mondiali nella distribuzione dei redditi, del lavoro e delle risorse.
Per cogliere meglio questo punto è necessario risalire a quella che è la matrice della Carta di Milano, cioè il “Protocollo di Milano”: un documento elaborato dalla fondazione Barilla – emanazione dell’omonima multinazionale alimentare – a cui l’Expò ha affidato il compito di individuare i capisaldi del programma “nutrire il pianeta”, che sono poi stati tradotti “in pillole” nella Carta di Milano; e che ha la pretesa di definire un programma di azione dei prossimi decenni per tutti i soggetti del mondo – Governi, imprese, associazioni, cittadini — impegnati nella filiera agroalimentare come produttori, distributori o consumatori.
Nel Protocollo di Milano il tema dello spreco di alimenti occupa il primo posto: “Primo paradosso – spreco di alimenti: 1,3 miliardi di tonnellate di cibo commestibile sono sprecati ogni anno, ovvero un terzo della produzione globale di alimenti e quattro volte la quantità necessaria a nutrire gli 805 milioni di persone denutrite nel mondo”. Nell’ambito dei programmi per sradicare la fame, tra cui “le disposizioni pertinenti nel quadro delle legislazioni internazionali, regionali e nazionali per la protezione e conservazione delle risorse e l’adozione di azioni finalizzate allo sviluppo sostenibile nella Direttiva quadro europea sulle acque, il Piano d’azione per un’Europa efficiente sotto il profilo delle risorse, gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio per sradicare la povertà estrema e la fame”, il Protocollo di Milano arriva a trattare questa prima emergenza planetaria con le stesse modalità con cui, in un qualsiasi Comune d’Italia, si affronta il problema della gestione dei rifiuti: “Le iniziative per la riduzione degli sprechi devono rispettare la seguente gerarchia:
1. Prevenzione; 2. Riutilizzo per l’alimentazione umana; 3. Alimentazione animale; 4. Produzione di energia e compostaggio”. Se la guerra alla fame nel mondo è in primo luogo una lotta contro la trasformazione degli alimenti in rifiuti (e non per una più equa distribuzione delle risorse), è ovvio che ai poveri e agli affamati del pianeta non spetti altro che il compito di smaltire ciò di cui i ricchi si vogliono sbarazzare. Cioè sedersi, come Lazzaro, ai piedi della tavola del ricco Epulone. Con il che la Trickle-down economics fa il suo ingresso trionfale nel “lascito” dell’Expò.
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2.5.15
Milano, i riot che asfaltano il movimento
MayDay 2015. Trentamila persone in corteo e la città a ferro e fuoco. Il blocco nero prende la piazza, la polizia reagisce con intelligenza ed evita il contatto. Per i No Expo l'esposizione universale è cominciata nel peggiore dei modi
Luca Fazio (il Manifesto)
Le fiamme si sono appena spente, c’è ancora tanto fumo per le strade di Milano. A freddo, una volta dato sfogo al prevedibile sdegno, qualcuno dovrà pur avere il coraggio di ammettere una cosa piuttosto semplice, che ovviamente non nasconde il problema, anzi, ne pone più di uno: è andata esattamente come doveva andare. Lo sapevano tutti, era previsto da mesi. Non è stata una festa la MayDay 2015 e forse il peggio deve ancora accadere. In questo momento ci sta pure la retorica della “Milano ferita”, però sarebbe più utile cercare di abbozzare qualche ragionamento.
I fatti sono noti, è stata la manifestazione più spiata e fotografata degli ultimi anni. Una parte del centro storico di Milano, quella intorno a piazzale Cadorna — era previsto anche quello — è stata attaccata con una furia che non si era mai vista. Automobili date alla fiamme, finestrini mandati in frantumi con una rabbia disperata al limite dell’autolesionismo, lanci di bottiglie contro la polizia, vetrine infrante, accenni di barricate, negozi sfasciati. Silenzio assordante, rumori di cose che si spaccano, nuvole di lacrimogeni e adrenalina che sale quando poliziotti e carabinieri si innervosiscono e sembrano davvero intenzionati a fare sul serio.
La confusione è tanta, ci sono stati fermi ma non è chiaro quanti, si dice una decina di ragazzi. Ci sarebbero undici feriti tra gli agenti.
Lo spettacolo è desolante, sembrano immagini di un film girato in un altro paese, e ne sono stati già fatti di ragionamenti sulla rabbia cieca di chi si limita a spaccare tutto per cercare di resistere in qualche modo in un contesto dove è facile sentirsi tagliati fuori. A vent’anni soprattutto.
Sono delinquenti? Può darsi, poi si sfilano l’impermeabile col cappuccio — per terra ce ne sono decine — e hanno facce da ragazzini qualunque. Sono violenti? Sicuramente, violenti che si accaniscono sulle cose e non sulle persone. Lo scontro con la polizia è solo mimato, virtuale come un videogioco: viste le forze in campo gli incappucciati non potrebbero neppure pensare di avvicinarsi. La loro violenza è anche stupida e vigliacca. Un’auto inutilmente spaccata, mica tutte Ferrari, significa una persona colpita alle spalle e con l’aggravante della casualità. Anche i “black bloc” hanno una macchina parcheggiata da qualche parte.
A proposito. Qualche commentatore poco razionale, non l’editorialista di Libero o de il Giornale, a caldo ha detto che la polizia ha lasciato fare e che dovrà rispondere della gestione della piazza.
Molto semplicemente, invece, la polizia ha agito con grande freddezza e intelligenza.
Non c’è stato alcun contatto con i manifestanti. Non si è fatto male nessuno. Ci sono decine di automobili sfasciate e probabilmente un conto salato da pagare per tutti quei gruppi organizzati che invece sono stati almeno capaci di “portare a casa” un corteo determinato. Molto numerosi, almeno trentamila, a tratti anche felici di esserci. Per nulla spaventati, tantomeno sorpresi, per quello che stava accadendo nelle retrovie.
La polizia poteva evitare lo “sfregio alla città”? Forse sì, se il ministro degli Interni avesse deciso di rispolverare il metodo Genova e dare la caccia ai ragazzini che si sono mascherati da blocco nero. Adesso che (forse) è tutto finito si può azzardare la domanda: sarebbe forse stato meglio se ci fosse scappato il morto? Anche quello era previsto che non dovesse accadere, e meno male.
Angelino Alfano, almeno oggi, non si deve dimettere, le regole di ingaggio erano queste, la polizia non voleva il contatto con il blocco nero.
A proposito. Analisti e dietrologi se ne facciano una ragione. I cosiddetti “black bloc” non vengono da Marte, non si sono “infiltrati” nel corteo e non sono nemmeno al soldo della spectre. Ci sono, sono un problema e bisognerà tenerne conto. Erano nel corteo, dentro, nemmeno in fondo. Gli spezzoni della manifestazione hanno dovuto giocoforza tollerarli e cercare di tutelare il corteo da una reazione della polizia che a un certo punto sembrava scontata.
La MayDay era contro il blocco nero? Questo movimento, questa piazza, che è pur sempre il massimo che oggi si possa esprimere, non ne aveva la forza. Né militare, né politica. Questo è un limite.
Ecco perché questo primo maggio è “politicamente” disastroso.
Un’altra nota, non marginale. Quella di ieri, al netto di tutti i dispositivi di protezione che il corteo stesso ha messo in atto, era una piazza pericolosa. Eppure lì dentro hanno trovato posto ragazzini e ragazzine smarriti alla prima manifestazione, persone assolutamente non violente, decine di bande musicali che hanno continuato a suonare a festa. Si sono viste anche le solite vecchie volpi con la coda tra le gambe che non parlano più la stessa lingua delle piazze. Ma è come se inconsciamente ci si stesse abituando a considerare che ormai è nelle cose aspettarsi un conflitto sempre più aspro e con accenti disperati, senza obiettivi e tantomeno prospettive.
Banalmente: questa stessa piazza, dieci anni fa, sarebbero state due. I cattivi dietro a prenderle, gli altri davanti con le loro buone ragioni.
Gli “altri”, adesso, devono fare i conti con la realtà.
D’ora in poi, come governare la piazza, ammesso che ci siano altre occasioni altrettanto importanti, diventerà un problema quasi insormontabile. Perché la giornata di ieri significa che nessuno a Milano, e anche altrove, ha più l’autorevolezza di poter decidere come si deve stare in un corteo.
Questo è un problema politico: a posteriori, è chiaro che non si può accettare con leggerezza la convivenza con chi ha come uno unico obiettivo quello di spaccare tutto e basta.
Quanto al futuro, possiamo dire che sull’opportunità di cedere fette di sovranità a chi non vive e non lotta in questa città (e che certo non ne pagherà le conseguenze) è bene aprire un dibattito una volta tanto sincero.
I ragazzi e le ragazze del “blocco nero” si sono sfilati le felpe e sono a casa che si godono lo spettacolo dell’informazione mainstream, hanno vinto.
Qui a Milano, a leccarsi le ferite, rimane un movimento che rischia di essere asfaltato per i prossimi anni a venire. La polizia, che oggi è sotto botta, potrebbe anche decidere che il limite è stato superato. Questa mattina le “autorità” si guarderanno negli occhi durante una seduta straordinaria del Comitato per l’ordine e la sicurezza.
E qui a Milano è già cominciata una campagna elettorale che, anche alla luce di quello che è successo, non promette nulla di buono. L’Expo ha ancora sei mesi di vita, i No Expo hanno cominciato nel peggiore dei modi.
Luca Fazio (il Manifesto)
Le fiamme si sono appena spente, c’è ancora tanto fumo per le strade di Milano. A freddo, una volta dato sfogo al prevedibile sdegno, qualcuno dovrà pur avere il coraggio di ammettere una cosa piuttosto semplice, che ovviamente non nasconde il problema, anzi, ne pone più di uno: è andata esattamente come doveva andare. Lo sapevano tutti, era previsto da mesi. Non è stata una festa la MayDay 2015 e forse il peggio deve ancora accadere. In questo momento ci sta pure la retorica della “Milano ferita”, però sarebbe più utile cercare di abbozzare qualche ragionamento.
I fatti sono noti, è stata la manifestazione più spiata e fotografata degli ultimi anni. Una parte del centro storico di Milano, quella intorno a piazzale Cadorna — era previsto anche quello — è stata attaccata con una furia che non si era mai vista. Automobili date alla fiamme, finestrini mandati in frantumi con una rabbia disperata al limite dell’autolesionismo, lanci di bottiglie contro la polizia, vetrine infrante, accenni di barricate, negozi sfasciati. Silenzio assordante, rumori di cose che si spaccano, nuvole di lacrimogeni e adrenalina che sale quando poliziotti e carabinieri si innervosiscono e sembrano davvero intenzionati a fare sul serio.
La confusione è tanta, ci sono stati fermi ma non è chiaro quanti, si dice una decina di ragazzi. Ci sarebbero undici feriti tra gli agenti.
Lo spettacolo è desolante, sembrano immagini di un film girato in un altro paese, e ne sono stati già fatti di ragionamenti sulla rabbia cieca di chi si limita a spaccare tutto per cercare di resistere in qualche modo in un contesto dove è facile sentirsi tagliati fuori. A vent’anni soprattutto.
Sono delinquenti? Può darsi, poi si sfilano l’impermeabile col cappuccio — per terra ce ne sono decine — e hanno facce da ragazzini qualunque. Sono violenti? Sicuramente, violenti che si accaniscono sulle cose e non sulle persone. Lo scontro con la polizia è solo mimato, virtuale come un videogioco: viste le forze in campo gli incappucciati non potrebbero neppure pensare di avvicinarsi. La loro violenza è anche stupida e vigliacca. Un’auto inutilmente spaccata, mica tutte Ferrari, significa una persona colpita alle spalle e con l’aggravante della casualità. Anche i “black bloc” hanno una macchina parcheggiata da qualche parte.
A proposito. Qualche commentatore poco razionale, non l’editorialista di Libero o de il Giornale, a caldo ha detto che la polizia ha lasciato fare e che dovrà rispondere della gestione della piazza.
Molto semplicemente, invece, la polizia ha agito con grande freddezza e intelligenza.
Non c’è stato alcun contatto con i manifestanti. Non si è fatto male nessuno. Ci sono decine di automobili sfasciate e probabilmente un conto salato da pagare per tutti quei gruppi organizzati che invece sono stati almeno capaci di “portare a casa” un corteo determinato. Molto numerosi, almeno trentamila, a tratti anche felici di esserci. Per nulla spaventati, tantomeno sorpresi, per quello che stava accadendo nelle retrovie.
La polizia poteva evitare lo “sfregio alla città”? Forse sì, se il ministro degli Interni avesse deciso di rispolverare il metodo Genova e dare la caccia ai ragazzini che si sono mascherati da blocco nero. Adesso che (forse) è tutto finito si può azzardare la domanda: sarebbe forse stato meglio se ci fosse scappato il morto? Anche quello era previsto che non dovesse accadere, e meno male.
Angelino Alfano, almeno oggi, non si deve dimettere, le regole di ingaggio erano queste, la polizia non voleva il contatto con il blocco nero.
A proposito. Analisti e dietrologi se ne facciano una ragione. I cosiddetti “black bloc” non vengono da Marte, non si sono “infiltrati” nel corteo e non sono nemmeno al soldo della spectre. Ci sono, sono un problema e bisognerà tenerne conto. Erano nel corteo, dentro, nemmeno in fondo. Gli spezzoni della manifestazione hanno dovuto giocoforza tollerarli e cercare di tutelare il corteo da una reazione della polizia che a un certo punto sembrava scontata.
La MayDay era contro il blocco nero? Questo movimento, questa piazza, che è pur sempre il massimo che oggi si possa esprimere, non ne aveva la forza. Né militare, né politica. Questo è un limite.
Ecco perché questo primo maggio è “politicamente” disastroso.
Un’altra nota, non marginale. Quella di ieri, al netto di tutti i dispositivi di protezione che il corteo stesso ha messo in atto, era una piazza pericolosa. Eppure lì dentro hanno trovato posto ragazzini e ragazzine smarriti alla prima manifestazione, persone assolutamente non violente, decine di bande musicali che hanno continuato a suonare a festa. Si sono viste anche le solite vecchie volpi con la coda tra le gambe che non parlano più la stessa lingua delle piazze. Ma è come se inconsciamente ci si stesse abituando a considerare che ormai è nelle cose aspettarsi un conflitto sempre più aspro e con accenti disperati, senza obiettivi e tantomeno prospettive.
Banalmente: questa stessa piazza, dieci anni fa, sarebbero state due. I cattivi dietro a prenderle, gli altri davanti con le loro buone ragioni.
Gli “altri”, adesso, devono fare i conti con la realtà.
D’ora in poi, come governare la piazza, ammesso che ci siano altre occasioni altrettanto importanti, diventerà un problema quasi insormontabile. Perché la giornata di ieri significa che nessuno a Milano, e anche altrove, ha più l’autorevolezza di poter decidere come si deve stare in un corteo.
Questo è un problema politico: a posteriori, è chiaro che non si può accettare con leggerezza la convivenza con chi ha come uno unico obiettivo quello di spaccare tutto e basta.
Quanto al futuro, possiamo dire che sull’opportunità di cedere fette di sovranità a chi non vive e non lotta in questa città (e che certo non ne pagherà le conseguenze) è bene aprire un dibattito una volta tanto sincero.
I ragazzi e le ragazze del “blocco nero” si sono sfilati le felpe e sono a casa che si godono lo spettacolo dell’informazione mainstream, hanno vinto.
Qui a Milano, a leccarsi le ferite, rimane un movimento che rischia di essere asfaltato per i prossimi anni a venire. La polizia, che oggi è sotto botta, potrebbe anche decidere che il limite è stato superato. Questa mattina le “autorità” si guarderanno negli occhi durante una seduta straordinaria del Comitato per l’ordine e la sicurezza.
E qui a Milano è già cominciata una campagna elettorale che, anche alla luce di quello che è successo, non promette nulla di buono. L’Expo ha ancora sei mesi di vita, i No Expo hanno cominciato nel peggiore dei modi.
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