14.2.16

Nelle scuole italiane che resistono e innovano

Classe della scuola Feld a Suhr in Svizzera, settembre 2014
Quando sono andata all’Open day della scuola di mia figlia, quella specie di visita guidata che gli istituti organizzano per far sì che i genitori valutino bene la scuola in cui rinchiuderanno i loro pargoli per cinque anni, mi sono ricordata di quello che scriveva Natalia Ginzburg nelle Piccole virtù (1962), a proposito del successo e dell’insuccesso scolastico dei nostri bambini. E ho pensato che in fondo in questi Open day siamo noi genitori a scegliere la scuola che ci piace di più, e a volte è una scelta puramente estetica.
I bambini all’Open day sono distratti e, anche se talvolta sono organizzati giochi e “lavoretti” per intrattenerli, di solito non vedono l’ora di andare. Mia figlia, e non è un buon segno, l’avevo proprio lasciata a casa. Sarà vero che oggi “i bambini sono il nuovo baricentro del mondo”, come dice la psicanalista Costanza Jesurum? Maria Montessori considerava i bambini come una vera e propria “classe sociale” (“una classe di lavoratori: infatti essi lavorano a produrre uomini”) e lo faceva già nel secolo scorso.
In ogni caso, tornata a casa, sono andata a rileggere quel saggio breve della Ginzburg, che più invecchia e più diventa attuale, (in parte è leggibile qui), in cui la scrittrice consigliava ai genitori di non opprimere i figli con l’idea del “successo scolastico”. E concludeva con questa semplice idea: perché i ragazzi capiscano qual è la loro vocazione è necessario che i genitori abbiano, essi stessi, una vocazione.

Scuole da imitare
Naturalmente questo vale anche per i maestri. Se un maestro è appassionato, trasmette ai ragazzi una passione, quel famoso “desiderio di essere e di sapere”. Ma questo non basta o meglio, sostiene Giacomo Stella nel libro fresco di stampa Tutta un’altra scuola. Quella di oggi ha i giorni contati (Giunti), è impossibile. Non si può formare dei maestri o dei professori innamorati dell’insegnamento. Bisogna piuttosto rivoluzionare la scuola che, al livello didattico, “è ferma agli anni sessanta”. Rivoluzionare la nostra obsoleta, fatiscente, grigia, ma comunque essenziale, e nella stragrande parte dei casi, inevitabile, scuola pubblica.
Dunque questa scuola martoriata dalle devastanti riforme Moratti e Gelmini, ridotta all’osso da un taglio di nove miliardi (che rischiava di diventare di 21 se il governo Berlusconi non fosse caduto!) dovrebbe cambiare ancora, e questa volta in meglio. Secondo Stella, professore di psicologia clinica all’Università di Modena e Reggio e tra i massimi esperti italiani di dislessia e disturbi specifici dell’apprendimento (Dsa), bisognerebbe prima di tutto rovesciare le classi, abolire la lezione frontale con la cattedra, abolire i compiti e i voti, ristabilire il tempo pieno (quello in cui si gioca, si sta insieme, si fa comunità), e introdurre un uso attivo degli strumenti multimediali.
“Io sono prima di tutto per una scuola in cui si chiede l’opinione del bambino”, mi ha detto Stella. “E in cui non si danno nozioni, quelle i ragazzi le trovano già su Google, ma si insegna senza insegnare, facendo esperienza”. E poi mi ha fatto l’esempio dell’inglese, materia che notoriamente in Italia non s’impara: ecco, la scuola italiana è un po’ tutta così, tante nozioni, ma non vero apprendimento. “E comunque il problema non è la scuola primaria, ma la scuola media, il vero buco nero del nostro sistema educativo”.

I famigerati dati dell’Ocse/Pisa sembrano dar ragione a Stella. Gli studenti italiani non sono bravi, anzi sono tra i meno bravi d’Europa. E il numero di Neet (improponibile acronimo con cui s’intendono i ragazzi che abbandonano gli studi e non hanno un’occupazione) nel nostro paese è altissimo, al pari della Grecia. La nostra “buona scuola” non è così buona, dicono, insomma le prove Invalsi.
Ma siamo sicuri che la scuola sia ovunque così obsoleta? Siamo sicuri che non si stia invece muovendo qualcosa? Se non sbaglio, stiamo assistendo a un palpabile cambiamento, sia all’interno dell’istituzione scolastica sia al di fuori, dove sempre più maestri e genitori sono alla ricerca di alternative alla scuola tradizionale.
Non ho gli strumenti scientifici per sapere se è davvero così, ma provo a segnalare qui alcune esperienze di scuole primarie statali e pubbliche dove si stanno sperimentando altre direzioni, in certi casi anche da alcuni anni. Scuole che potrebbero diventare e, in parte lo sono già, modelli per altre scuole. E i risultati sono ottimi (e più che ascoltare le Invalsi, qui il test migliore è chiedere gli studenti se vanno a scuola volentieri).

La classe rovesciata
Di questo movimento “dal basso” è testimone anche anche l’Istituto nazionale di documentazione, innovazione e ricerca educativa (Indire), che nell’ultimo biennio sembra abbia avuto uno slancio concreto nelle proposte di aggiornamento dei docenti, ricerca e valutazione dei progetti. A Indire mi dicono che inizialmente si sono rivolte a loro 22 scuole, che adesso sono le scuole “pilota”, ma nel giro di un anno sono già 400. Scuole che hanno introdotto alcune delle 12 idee proposte dall’istituto (vai qui per leggerle tutte), tra cui nuovi modelli di apprendimento come la flipped classroom (la classe rovesciata) o l’introduzione di stampanti in 3d nelle scuole d’infanzia.
In generale, uno dei progetti più interessanti è quello dei Senza Zaino. Qualche anno fa Marco Orsi, maestro e pedagogista illuminato che insegna in una scuola di Lucca, è andato a visitare alcune scuole steineriane, montessoriane, libertarie, scuole non tradizionali insomma e, prendendo spunto da queste esperienze e non solo, si è inventato un vero metodo educativo.
Oggi alla Scuola Senza Zaino aderiscono più di cento scuole pubbliche. Il gesto di buttare lo zaino è simbolico, ma anche pratico: ci si muove con una cartellina leggera e a scuola si lasciano libri e materiale didattico. Le aule sono simili a open space, con aree dedicate a varie attività, e la cattedra è in un angolino. Il maestro supervisiona il lavoro degli studenti che sono responsabilizzati e attenti.

A Firenze alla Scuola Città Pestalozzi, uno dei tre istituti italiani che sperimentano la wikischool, si fanno grandi cose. Per averne un’idea consiglio la visione di Educazione affettiva di Federico Bondi e Clemente Bicocchi (in queste settimane il documentario è in tour per la penisola). Il documentario, girato con una grazia che ricorda Truffaut e candidato ai David di Donatello, è forse il più bel documentario italiano sulla scuola e racconta gli ultimi giorni di quinta elementare di una classe della scuola fiorentina.
I maestri, Paolo Scopettani e Matteo Bianchi, nel film parlano pochissimo. Quando lo fanno i bambini sono incantati. Spesso i maestri li abbracciano o semplicemente li guardano. Non sgridano, non urlano mai. Due maestri che si pongono sono davvero come guide, e non insegnanti, e sarebbero piaciuti molto a Maria Montessori.
La storia di Maria Montessori, che per molti è solo la signora ritratta sulle vecchie banconote da mille lire, è una tipica anomalia italiana: il metodo che il mondo intero riconobbe come rivoluzionario, in Italia, complice il fascismo, che la relegò ai margini, ancora oggi non stato è riassorbito del tutto dal sistema scolastico istituzionale. Le scuole montessoriane sono più numerose e rinomate all’estero che in Italia.
 
Comunque, anche da noi esistono istituti, statali o paritari, che usano sperimentalmente il metodo (una mappa completa delle scuole Montessori è qui). All’Istituto comprensivo Maria Montessori di Roma, una scuola statale, i bambini sono indaffarati e sereni. E anche gli insegnanti sono contenti, nonostante il lavoro sia molto impegnativo, come mi spiega Mariafrancesca Venturo, maestra della scuola primaria, autrice di Ho fame: il cibo cosmico di Maria Montessori (Mattioli 1885), un libro utile per capire tante cose sul metodo.
In viale Adriatico si lavora bene, grazie anche alle compresenze tra insegnanti, le quali lavorano anche fuori dell’orario di lezione per produrre i materiali necessari alle “presentazioni” (qui non si chiamano “lezioni”). La divisione tra le materie non esiste, i bambini sono abituati a muoversi liberamente tra i vari interessi.
Ci spostiamo a Bologna. Qui c’è la primaria Mario Longhena, una scuola con più di 300 alunni, situata nel parco del Pellegrino, sui colli. In città tutti la conoscono perché è la scuola dai cui gli studenti non uscirebbero mai (le foto dei bambini sporchi di fango sul sito non ufficiale della scuola parlano chiaro). “Siamo un gruppo di maestre molto unite”, racconta Marzia Mascagni. “Qui c’è stata la prima occupazione fatta di genitori, insegnanti e studenti, nel 2002, dopo la riforma Moratti”, mi dice con orgoglio. “Lavoriamo a classi aperte, con molte compresenze tra insegnanti, alterniamo momenti di studio e momenti di svago, spesso all’aperto. Il parco in cui giocano i nostri bambini è senza recinzione, li lasciamo liberi e ci aspettiamo un senso di responsabilità da parte loro. I voti? Solo in pagella, alla fine dell’anno”. Ma la scuola che resiste e che innova non è solo, necessariamente, nelle grandi città.
A Giove, in Umbria, un paesino di poche anime, insegnano Franco Lorenzoni e Roberta Passoni, i quali da anni mettono in pratica benissimo tutta la teoria appresa all’interno del Movimento di cooperazione educativa e lavorano proprio nella direzione dell’apprendimento esperienziale tanto agognato da Stella. Roberta Passoni ha scritto un libro sull’educazione alla lettura nella scuola primaria, A partire da un libro, che può essere uno strumento prezioso per i maestri che cerchino nuove strade per l’insegnamento.

Un fenomeno nuovo e prorompente
La provincia italiana è del resto storicamente teatro di esperienze pedagogiche fuori dal comune: Mario Lodi, che per primo importò gli insegnamenti del francese Célestin Freinet e che fu un vero riferimento per tantissimi insegnanti fino alla sua scomparsa avvenuta nel 2014, insegnava in un paesino del cremonese; ma anche don Milani – che non ci si stanca mai di rileggere (di recente è stato ripubblicato il suo La scuola della disobbedienza) – o Danilo Dolci hanno lavorato indisturbati in luoghi isolati e periferici; o Nora Giacobini, una delle animatrici del Movimento di cooperazione educativa, che rivoluzionò l’insegnamento della storia e che visse per tanti anni alla casa-laboratorio Cenci, in Umbria (proprio qui dal 21 al 25 aprile ci sarà un convegno in suo onore).
Il mio viaggio finisce in Alto Adige, dove forse la scuola “alternativa” e quella tradizionale stanno dialogando di più. Beate Weyland, professoressa di scienza della formazione alla Libera Università di Bolzano, racconta di aver accompagnato sette scuole pilota, di varie regioni italiane, nella stesura di una sorta di manifesto, un documento che propone una ristrutturazione degli edifici. “Un fenomeno del tutto nuovo e prorompente”, mi dice. “Le scuole e i loro comuni stanno cercando una forma personalizzata, e per farlo riflettono proprio sugli automatismi arrugginiti che per tanto tempo le hanno rese prigioni tristi. All’interno della scuola pubblica, che finora era un luogo ‘di tutti e di nessuno’, s’inizia a credere di poter dare identità al luogo di lavoro”.

1 commento:

Anonimo ha detto...

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