Se nei 13 anni compresi fra il 2002 e il 2014 si fossero combattute seriamente corruzione ed evasione fiscale il Pil reale italiano sarebbe oggi superiore del 17 per cento a quello attuale] Se nei 13 anni compresi fra il 2002 e il 2014 si fossero combattute seriamente corruzione ed evasione fiscale il Pil reale italiano sarebbe oggi superiore del 17 per cento a quello attuale
Sergio Rizzo (Corriere)
Secondo i dati del Fondo monetario internazionale non c’è in Eurolandia economia che dall’inizio del nuovo secolo sia andata peggio di quella italiana. Fra il 2001 e il 2015 il Prodotto interno lordo pro capite a prezzi costanti, cioè la ricchezza reale prodotta da ciascuno di noi, è diminuito dell’8,5 per cento. Anche la Grecia ha fatto meglio: meno 7,3 per cento.
Per non parlare del confronto con i Paesi più ricchi dell’Unione. Quindici anni fa il Pil pro capite di ogni tedesco era superiore di appena 1.700 euro a quello di ciascun italiano. Nel 2015 la differenza è salita a 8.500 euro. Crisi o non crisi. Vi chiederete: che cosa c’entra tutto questo con le tangenti dell’Anas che ieri hanno portato in carcere 19 persone? L’economista Mario Baldassarri ha calcolato che se nei 13 anni compresi fra il 2002 e il 2014 si fossero combattute seriamente corruzione ed evasione fiscale il Pil reale italiano sarebbe oggi superiore del 17 per cento a quello attuale.
E la classifica dell’autorevole Transparency international parla se possibile ancora più chiaro. Fra il 2001 e il 2015 la Germania, che ha registrato in quel periodo la migliore performance economica dell’area euro, con le sole eccezioni del Lussemburgo e dei Paesi dell’ex blocco sovietico, ha migliorato la propria posizione nella graduatoria internazionale della corruzione percepita di ben dieci posizioni, salendo dal ventesimo al decimo posto. Mentre l’Italia, invece, precipitava in basso di ben 32 caselle: dalla numero 29 alla 61. Nel 2001 ci separavano dalla Germania nove posizioni. Oggi, ben cinquantuno.
Il fatto è che nelle economie avanzate la corruzione non rappresenta soltanto un danno economico diretto per lo Stato, ma in combutta con la cattiva burocrazia si trasforma in un formidabile freno allo sviluppo.
La Corte dei conti non ha mai confermato la valutazione di un costo di 60 miliardi l’anno. Ma di sicuro, se sono vere le stime del governo Monti secondo cui la corruzione farebbe salire di almeno il 40 per cento il prezzo delle opere pubbliche, non ci andiamo troppo lontani. Questo però è ancora niente rispetto agli effetti nefasti sull’intera economia. La corruzione mortifica la concorrenza e blocca l’innovazione: perché spendere per migliorare i prodotti e rendere più efficiente la propria azienda quando si può vincere un appalto pagando una mazzetta? La corruzione colpisce dunque alle fondamenta la competitività del sistema Paese, in un rapporto simbiotico con la burocrazia parassitaria.
Più cresce la burocrazia, più aumentano le occasioni per corrotti e corruttori. È quasi una legge fisica che, si badi bene, non vale soltanto per le imprese e gli appalti pubblici. Ed è questo forse l’aspetto più grave e allarmante. Grazie a una burocrazia sempre più pervasiva e autoreferenziale la corruzione è diventata molecolare, penetrando così in profondità da impregnare interi pezzi della società italiana. A cominciare dalla stessa Capitale. Nel libro scritto dall’ex assessore alla Legalità del Comune di Roma Alfonso Sabella con Giampiero Calapà («Capitale infetta») si racconta di una metropoli nella quale le metastasi non hanno risparmiato alcun settore dell’amministrazione.
Il germe che ha fatto dilagare la corruzione a tutti i livelli, sostiene il presidente dell’Anac Raffaele Cantone, è nel fatto che per esercitare diritti elementari riconosciuti dalla Costituzione (come la salute…) siamo invece spesso costretti a chiedere favori. Tanto i labirinti burocratici sono impenetrabili che la ricerca delle scorciatoie è inevitabile. Se questo è vero basterebbe ricondurre la burocrazia alla sua funzione di semplificare, anziché complicare, la nostra vita. C’è solo il piccolo problema che dovrebbe occuparsene la politica. E purtroppo, in tutti questi anni, abbiamo visto i risultati.
I link ai giornali degli articoli spesso cambiano e diventa difficile se non impossibile recuperare i testi ai quali si riferivano. Questo è l'archivio on-line del blog Giornale-NOTIZIEOGGI
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12.3.16
Il costo del paese illegale
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6.1.12
La destra di classe difende gli evasori
Gad Lerner (La Repubblica)
Bentornata la politica, grazie agli ispettori dell´Agenzia delle Entrate. Un inequivocabile segno di classe contraddistingue le proteste della destra italiana contro il blitz antievasori di Cortina d´Ampezzo. Confermandoci quel che Karl Marx scriveva già nel 1859 nella sua celeberrima prefazione a «Per la critica dell´economia politica»: la coscienza dell´uomo è determinata dal suo essere sociale. Non c´è populismo che tenga, al dunque la nostra sensibilità è condizionata dal censo. E stavolta una malintesa vocazione a rappresentare gli interessi del proprio elettorato (ma ne siete sicuri, o ve lo figurate peggiore di quello che è?) precipita i malcapitati dirigenti del Pdl sulla soglia dell´autolesionismo. Da Paniz alla Santanchè, dal leghista Fugatti a Galan, è tutto un inorridire per l´«attentato alla libertà» perpetrato da «uno Stato di polizia fiscale», con tanto di solidarietà per i poveri commercianti ingiustamente accusati di disonestà e molestati a Capodanno nell´esercizio del loro lavoro. Fino al capogruppo Cicchitto che si scaglia direttamente contro il direttore dell´Agenzia delle Entrate, Attilio Befera, accusato di «confezione ideologica del controllo fiscale» o, peggio, di «operazione politica e mediatica di carattere propagandistico». Davvero? Propaganda contro chi? In favore di chi? Tocca infine alla Gelmini, fino a ieri responsabile dell´educazione dei nostri figli, manifestare sul piano culturale il proprio sdegno: «L´idea che la ricchezza sia male, un fondamento ideologico della sinistra radicale, non credo possa essere condivisa da un esecutivo che fonda la sua maggioranza sul Pdl». Che gli ottanta ispettori entrati in azione a Cortina siano in realtà dei militanti vendoliani travestiti? Perché mai la loro azione risulterebbe incompatibile col programma di un governo che pure ha assunto la lotta all´evasione fiscale fra le sue priorità? Siamo al dunque, perché l´incattivirsi di una crisi che impoverisce i ceti popolari e brucia posti di lavoro, ripropone con brutalità le differenze di classe. La prolungata, falsa rappresentazione di uno stile di vita omologato nel consumo di massa – l´illusione della fine delle classi sociali – non regge più quando lo Stato, per non fallire, è costretto a mettersi in caccia della ricchezza nascosta. Certo, chi ha protetto finora la ricchezza nascosta, addirittura esaltandola come risorsa, fatica a riconoscerla per quello che è: una vera e propria piaga nazionale. Per questo la destra italiana – antiborghese piuttosto che liberale – agita le acque. Incapace com´è di distinguere la ricchezza generata col talento imprenditoriale dalla ricchezza accumulata con l´illegalità e le rendite di posizione, addebita ai funzionari dello Stato un profilo ideologico esistente solo nella sua propaganda: la demonizzazione del benessere, l´incitazione all´odio di classe. Ma dove vivono? Temo per loro che ormai non attacchi più. Il vittimismo dei furbi abbindolava i poveracci quando s´illudevano di poterli emulare, e quindi li ammiravano. Ma ora che le ricette anticrisi incidono profondamente sul reddito e sul risparmio dei cittadini, torna a contare in politica quella nozione di giustizia sociale fino a ieri oltraggiata – talvolta perfino a sinistra – con l´ambigua raccomandazione a non lasciarsi tentare dalla cosiddetta “invidia sociale”. Alla fine pure la destra dovrà prenderne atto: i commercianti che moltiplicano gli incassi solo in presenza dell´ispettore e i proprietari di auto di lusso col reddito minimo, nell´Italia del 2012 hanno perduto l´egemonia culturale insieme alla reputazione. Una destra liberale dovrebbe difendere gli interessi della borghesia orgogliosa del reddito e del patrimonio conseguito grazie alla sua capacità di fare impresa, e quindi dichiarato. Crede forse, Cicchitto, che i molti benestanti proprietari di auto di lusso ispezionati a Cortina, e risultati in regola col fisco, facciano il tifo per i disonesti contro gli ispettori? Purtroppo una destra che ha lucrato sull´indulgenza per gli evasori, registra con ritardo questo diffuso bisogno di giustizia sociale che pure le spetterebbe declinare a tutela delle esigenze imprenditoriali, come avviene negli altri paesi occidentali. Rischia di pesare su taluni suoi esponenti perfino un´asincronia culturale che rende faticoso adeguare lo stile di vita nel tempo della crisi: il lusso ostentato fino a ieri come dimostrazione del proprio potere, diviene un handicap. Stupisce che non l´abbiano percepito tre politici navigati come Schifani, Casini e Rutelli volati a svernare in un costoso resort delle Maldive dopo aver votato i sacrifici, come se niente fosse, senza intuirne la sconvenienza. Un altro punto a favore dei tecnici che reggono il governo, benestanti anch´essi, ma addestrati per cultura alla sobrietà. L´Italia dei tartassati si dividerà inevitabilmente nel conflitto sociale che accompagna le riforme del fisco, della previdenza e del mercato del lavoro. La sinistra certo faticherà a recuperare un rapporto con le classi subalterne nella bufera della crisi. Ma la destra che agita lo spauracchio di un´Equitalia bolscevica quando finalmente si perseguono i disonesti, è messa peggio. Bentornata la politica, e niente paura: contro gli evasori potrà essere interclassista.
Bentornata la politica, grazie agli ispettori dell´Agenzia delle Entrate. Un inequivocabile segno di classe contraddistingue le proteste della destra italiana contro il blitz antievasori di Cortina d´Ampezzo. Confermandoci quel che Karl Marx scriveva già nel 1859 nella sua celeberrima prefazione a «Per la critica dell´economia politica»: la coscienza dell´uomo è determinata dal suo essere sociale. Non c´è populismo che tenga, al dunque la nostra sensibilità è condizionata dal censo. E stavolta una malintesa vocazione a rappresentare gli interessi del proprio elettorato (ma ne siete sicuri, o ve lo figurate peggiore di quello che è?) precipita i malcapitati dirigenti del Pdl sulla soglia dell´autolesionismo. Da Paniz alla Santanchè, dal leghista Fugatti a Galan, è tutto un inorridire per l´«attentato alla libertà» perpetrato da «uno Stato di polizia fiscale», con tanto di solidarietà per i poveri commercianti ingiustamente accusati di disonestà e molestati a Capodanno nell´esercizio del loro lavoro. Fino al capogruppo Cicchitto che si scaglia direttamente contro il direttore dell´Agenzia delle Entrate, Attilio Befera, accusato di «confezione ideologica del controllo fiscale» o, peggio, di «operazione politica e mediatica di carattere propagandistico». Davvero? Propaganda contro chi? In favore di chi? Tocca infine alla Gelmini, fino a ieri responsabile dell´educazione dei nostri figli, manifestare sul piano culturale il proprio sdegno: «L´idea che la ricchezza sia male, un fondamento ideologico della sinistra radicale, non credo possa essere condivisa da un esecutivo che fonda la sua maggioranza sul Pdl». Che gli ottanta ispettori entrati in azione a Cortina siano in realtà dei militanti vendoliani travestiti? Perché mai la loro azione risulterebbe incompatibile col programma di un governo che pure ha assunto la lotta all´evasione fiscale fra le sue priorità? Siamo al dunque, perché l´incattivirsi di una crisi che impoverisce i ceti popolari e brucia posti di lavoro, ripropone con brutalità le differenze di classe. La prolungata, falsa rappresentazione di uno stile di vita omologato nel consumo di massa – l´illusione della fine delle classi sociali – non regge più quando lo Stato, per non fallire, è costretto a mettersi in caccia della ricchezza nascosta. Certo, chi ha protetto finora la ricchezza nascosta, addirittura esaltandola come risorsa, fatica a riconoscerla per quello che è: una vera e propria piaga nazionale. Per questo la destra italiana – antiborghese piuttosto che liberale – agita le acque. Incapace com´è di distinguere la ricchezza generata col talento imprenditoriale dalla ricchezza accumulata con l´illegalità e le rendite di posizione, addebita ai funzionari dello Stato un profilo ideologico esistente solo nella sua propaganda: la demonizzazione del benessere, l´incitazione all´odio di classe. Ma dove vivono? Temo per loro che ormai non attacchi più. Il vittimismo dei furbi abbindolava i poveracci quando s´illudevano di poterli emulare, e quindi li ammiravano. Ma ora che le ricette anticrisi incidono profondamente sul reddito e sul risparmio dei cittadini, torna a contare in politica quella nozione di giustizia sociale fino a ieri oltraggiata – talvolta perfino a sinistra – con l´ambigua raccomandazione a non lasciarsi tentare dalla cosiddetta “invidia sociale”. Alla fine pure la destra dovrà prenderne atto: i commercianti che moltiplicano gli incassi solo in presenza dell´ispettore e i proprietari di auto di lusso col reddito minimo, nell´Italia del 2012 hanno perduto l´egemonia culturale insieme alla reputazione. Una destra liberale dovrebbe difendere gli interessi della borghesia orgogliosa del reddito e del patrimonio conseguito grazie alla sua capacità di fare impresa, e quindi dichiarato. Crede forse, Cicchitto, che i molti benestanti proprietari di auto di lusso ispezionati a Cortina, e risultati in regola col fisco, facciano il tifo per i disonesti contro gli ispettori? Purtroppo una destra che ha lucrato sull´indulgenza per gli evasori, registra con ritardo questo diffuso bisogno di giustizia sociale che pure le spetterebbe declinare a tutela delle esigenze imprenditoriali, come avviene negli altri paesi occidentali. Rischia di pesare su taluni suoi esponenti perfino un´asincronia culturale che rende faticoso adeguare lo stile di vita nel tempo della crisi: il lusso ostentato fino a ieri come dimostrazione del proprio potere, diviene un handicap. Stupisce che non l´abbiano percepito tre politici navigati come Schifani, Casini e Rutelli volati a svernare in un costoso resort delle Maldive dopo aver votato i sacrifici, come se niente fosse, senza intuirne la sconvenienza. Un altro punto a favore dei tecnici che reggono il governo, benestanti anch´essi, ma addestrati per cultura alla sobrietà. L´Italia dei tartassati si dividerà inevitabilmente nel conflitto sociale che accompagna le riforme del fisco, della previdenza e del mercato del lavoro. La sinistra certo faticherà a recuperare un rapporto con le classi subalterne nella bufera della crisi. Ma la destra che agita lo spauracchio di un´Equitalia bolscevica quando finalmente si perseguono i disonesti, è messa peggio. Bentornata la politica, e niente paura: contro gli evasori potrà essere interclassista.
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31.8.11
L'evasiva lotta all'evasione
Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella
Fateci capire: esistono diritti acquisiti di serie A e diritti acquisiti di serie B? È una domanda doverosa davanti alla clamorosa e offensiva disparità che emerge dall'ultima puntata della manovra di aggiustamento finanziario. Un tormentone che vede apparire e sparire (e chissà quanto ciò tranquillizzerà i mercati...) norme che sbattono le ali e muoiono come certe farfalle che vivono poche ore, giusto il tempo di incantare i fanciulli.
Di là non si possono toccare gli evasori che pagando uno zuccherino avevano riportato i capitali (anche sporchi) in Italia o i vitalizi parlamentari perché in entrambi i casi «lo Stato tradirebbe la parola data». Di qua lo stesso Stato può rimangiarsi altri impegni. Come quello preso con larghe fasce di cittadini che anche recentemente (perfino su pressione di campagne governative!) avevano riscattato, spesso a caro prezzo, gli anni del servizio militare, della laurea o della specializzazione (fino a 12 anni, in certi settori della medicina) e che si ritrovano oggi con la pensione che s'allontana di colpo di anni e anni. Una scelta che, ammesso che non venga rinnegata domani come tante altre (è già in corso uno scaricabarile) è platealmente punitiva verso un elettorato considerato, a torto o a ragione, ostile.
E il famoso «contributo di solidarietà» evaporato per tutti tranne i dipendenti pubblici di fascia superiore? Varrà, stavolta, anche per i dirigenti di Palazzo Chigi che, umma umma, furono salvati dai tagli della Finanziaria 2010 perché la cosa aveva «sollevato dubbi di natura interpretativa»? E quanto durerà, stavolta, la grancassa sui «tagli epocali ai costi della politica»? La famosa abolizione dei Comuni sotto i 1.000 abitanti, sparata poche settimane fa come «la soppressione di 54.000 poltrone», si spense il giorno stesso della pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Risparmi previsti: zero! Zero carbonella.
È questo il problema. In un momento in cui si moltiplicano le perplessità per i miliardi che mancano ai «saldi invariati» (quattro, cinque, chissà...) e autorevoli istituzioni segnalano che le entrate statali viaggiano verso il 50% del Pil, con il record assoluto di pressione fiscale a dispetto degli slogan «meno tasse per tutti», il governo, la maggioranza, la classe dirigente, avrebbero un disperato bisogno di credibilità. Messa a rischio da troppe norme sfarfalleggianti e sconcertanti contraddizioni.
Prendiamo la lotta all'evasione fiscale. Per anni il Cavaliere, al di là dei condoni a raffica, ha ripetuto che evadere, per chi deve dare allo Stato più di un terzo di quanto guadagna è «un diritto naturale nel cuore degli uomini». Ha detto che «dare soldi alla Guardia di finanza non è considerato reato dall'88% degli italiani». Ha raccontato barzellette tipo: «Due banditi entrano in un ufficio e urlano: "Questa è una rapina". Un impiegato: "Ah, credevo fosse la Finanza"».
È dura, adesso, far la guerra agli evasori. Tanto più avendo al fianco quel Bossi che sfondò in politica incitando alla rivolta fiscale («Io non lo farei mai», lo bacchettò Silvius Magnago: «La mia patria è l'Austria, ma sono un cittadino italiano. E i cittadini le tasse devono pagarle»).
E solo due mesi fa impose l'altolà alla offensiva contro gli evasori tuonando a Pontida: «Già martedì voteremo un decreto che metta dei paletti all'azione di Equitalia. Ci sono agricoltori che si sono visti sequestrare trattori, balle, mucche. Così non possono lavorare...». Tesi rafforzata, mentre venivano rimosse le «ganasce fiscali» e allungati di altri 180 giorni in tempi per i contenziosi, dalle parole di altri leghisti. Come Matteo Salvini: «In certi casi Equitalia pratica lo strozzinaggio». Per non dire della minaccia di Calderoli di uno sciopero fiscale se non fossero stati trasferiti alcuni ministeri al Nord.
Si sono convertiti? Bene: anche San Paolo, prima di restare folgorato sulla via di Damasco, aveva altre idee. Saranno però chiamati a darne prova in modo convincente su certi punti scabrosi. L'Agenzia delle Entrate sta lavorando, ad esempio, a una stretta sulle società di comodo. Quelle, per intenderci, cui sono intestate barche e ville (compresi lo yacht di Flavio Briatore o la Certosa di Porto Rotondo) per fare marameo al Fisco. Passerà, quella stretta? E come?
Non si tratta di convincere solo i cittadini. La stessa Corte dei Conti due anni fa, davanti all'ennesimo ipotetico pacco di miliardi da ricavare dalla guerra agli evasori e messo alla voce «entrate», usò parole dure: «Sussiste il problema dell'incertezza sugli effetti di gettito ascrivibili alla lotta all'evasione a causa dell'assenza di affidabili meccanismi e metodologie di verifica a posteriori che consentano di distinguere con certezza l'effettivo recupero di evasione agli effetti imputabili al ciclo economico o a fattori normativi o, anche, a meri errori di stima». Parole al vento. Ma pesanti come pietre. Tanto più alla luce di una manovra composta, come quella attuale, per oltre il 60% da aumenti delle entrate e per meno del 40 da tagli alle spese. Auguri.
Quanto ai «costi della politica», viene un sospetto: che per lasciare che tutto rimanga com'è, stiano «promettendo» che tutto cambierà. Vale per il dimezzamento dei parlamentari, vale per l'abolizione delle Province. Affidati a un mitico disegno di legge costituzionale destinato a fare 4 passaggi parlamentari in un anno e mezzo. Il tutto dopo anni di ringhiose barricate leghiste. Dopo che ai primi di luglio la stessa maggioranza aveva seppellito alla Camera sotto una valanga di no l'identica legge proposta dall'Italia dei Valori. Dopo che solo alla vigilia di Ferragosto, davanti ai crolli in Borsa, la prima versione della manovra aveva deciso di abolirne 37 poi scese a 29 e infine a 22. Anche qui, auguri.
Non possono pretendere però che i cittadini ci credano così, al buio. Non dopo avere scoperto che quel famoso progetto di riforma storica e immediata sventolato da Roberto Calderoli non è mai (mai) stato depositato. Non dopo aver letto sul «Giornale» tre anni fa un titolo a 9 colonne: «Via alla manovra: abolite nove Province». Non dopo avere trovato su «La Padania» di due settimane fa, a proposito di «svolte epocali» già oggi evaporate, il titolone «La Casta colpita al cuore». Questa volta gli annunci non bastano più. Non solo ai mercati: ai cittadini.
Fateci capire: esistono diritti acquisiti di serie A e diritti acquisiti di serie B? È una domanda doverosa davanti alla clamorosa e offensiva disparità che emerge dall'ultima puntata della manovra di aggiustamento finanziario. Un tormentone che vede apparire e sparire (e chissà quanto ciò tranquillizzerà i mercati...) norme che sbattono le ali e muoiono come certe farfalle che vivono poche ore, giusto il tempo di incantare i fanciulli.
Di là non si possono toccare gli evasori che pagando uno zuccherino avevano riportato i capitali (anche sporchi) in Italia o i vitalizi parlamentari perché in entrambi i casi «lo Stato tradirebbe la parola data». Di qua lo stesso Stato può rimangiarsi altri impegni. Come quello preso con larghe fasce di cittadini che anche recentemente (perfino su pressione di campagne governative!) avevano riscattato, spesso a caro prezzo, gli anni del servizio militare, della laurea o della specializzazione (fino a 12 anni, in certi settori della medicina) e che si ritrovano oggi con la pensione che s'allontana di colpo di anni e anni. Una scelta che, ammesso che non venga rinnegata domani come tante altre (è già in corso uno scaricabarile) è platealmente punitiva verso un elettorato considerato, a torto o a ragione, ostile.
E il famoso «contributo di solidarietà» evaporato per tutti tranne i dipendenti pubblici di fascia superiore? Varrà, stavolta, anche per i dirigenti di Palazzo Chigi che, umma umma, furono salvati dai tagli della Finanziaria 2010 perché la cosa aveva «sollevato dubbi di natura interpretativa»? E quanto durerà, stavolta, la grancassa sui «tagli epocali ai costi della politica»? La famosa abolizione dei Comuni sotto i 1.000 abitanti, sparata poche settimane fa come «la soppressione di 54.000 poltrone», si spense il giorno stesso della pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Risparmi previsti: zero! Zero carbonella.
È questo il problema. In un momento in cui si moltiplicano le perplessità per i miliardi che mancano ai «saldi invariati» (quattro, cinque, chissà...) e autorevoli istituzioni segnalano che le entrate statali viaggiano verso il 50% del Pil, con il record assoluto di pressione fiscale a dispetto degli slogan «meno tasse per tutti», il governo, la maggioranza, la classe dirigente, avrebbero un disperato bisogno di credibilità. Messa a rischio da troppe norme sfarfalleggianti e sconcertanti contraddizioni.
Prendiamo la lotta all'evasione fiscale. Per anni il Cavaliere, al di là dei condoni a raffica, ha ripetuto che evadere, per chi deve dare allo Stato più di un terzo di quanto guadagna è «un diritto naturale nel cuore degli uomini». Ha detto che «dare soldi alla Guardia di finanza non è considerato reato dall'88% degli italiani». Ha raccontato barzellette tipo: «Due banditi entrano in un ufficio e urlano: "Questa è una rapina". Un impiegato: "Ah, credevo fosse la Finanza"».
È dura, adesso, far la guerra agli evasori. Tanto più avendo al fianco quel Bossi che sfondò in politica incitando alla rivolta fiscale («Io non lo farei mai», lo bacchettò Silvius Magnago: «La mia patria è l'Austria, ma sono un cittadino italiano. E i cittadini le tasse devono pagarle»).
E solo due mesi fa impose l'altolà alla offensiva contro gli evasori tuonando a Pontida: «Già martedì voteremo un decreto che metta dei paletti all'azione di Equitalia. Ci sono agricoltori che si sono visti sequestrare trattori, balle, mucche. Così non possono lavorare...». Tesi rafforzata, mentre venivano rimosse le «ganasce fiscali» e allungati di altri 180 giorni in tempi per i contenziosi, dalle parole di altri leghisti. Come Matteo Salvini: «In certi casi Equitalia pratica lo strozzinaggio». Per non dire della minaccia di Calderoli di uno sciopero fiscale se non fossero stati trasferiti alcuni ministeri al Nord.
Si sono convertiti? Bene: anche San Paolo, prima di restare folgorato sulla via di Damasco, aveva altre idee. Saranno però chiamati a darne prova in modo convincente su certi punti scabrosi. L'Agenzia delle Entrate sta lavorando, ad esempio, a una stretta sulle società di comodo. Quelle, per intenderci, cui sono intestate barche e ville (compresi lo yacht di Flavio Briatore o la Certosa di Porto Rotondo) per fare marameo al Fisco. Passerà, quella stretta? E come?
Non si tratta di convincere solo i cittadini. La stessa Corte dei Conti due anni fa, davanti all'ennesimo ipotetico pacco di miliardi da ricavare dalla guerra agli evasori e messo alla voce «entrate», usò parole dure: «Sussiste il problema dell'incertezza sugli effetti di gettito ascrivibili alla lotta all'evasione a causa dell'assenza di affidabili meccanismi e metodologie di verifica a posteriori che consentano di distinguere con certezza l'effettivo recupero di evasione agli effetti imputabili al ciclo economico o a fattori normativi o, anche, a meri errori di stima». Parole al vento. Ma pesanti come pietre. Tanto più alla luce di una manovra composta, come quella attuale, per oltre il 60% da aumenti delle entrate e per meno del 40 da tagli alle spese. Auguri.
Quanto ai «costi della politica», viene un sospetto: che per lasciare che tutto rimanga com'è, stiano «promettendo» che tutto cambierà. Vale per il dimezzamento dei parlamentari, vale per l'abolizione delle Province. Affidati a un mitico disegno di legge costituzionale destinato a fare 4 passaggi parlamentari in un anno e mezzo. Il tutto dopo anni di ringhiose barricate leghiste. Dopo che ai primi di luglio la stessa maggioranza aveva seppellito alla Camera sotto una valanga di no l'identica legge proposta dall'Italia dei Valori. Dopo che solo alla vigilia di Ferragosto, davanti ai crolli in Borsa, la prima versione della manovra aveva deciso di abolirne 37 poi scese a 29 e infine a 22. Anche qui, auguri.
Non possono pretendere però che i cittadini ci credano così, al buio. Non dopo avere scoperto che quel famoso progetto di riforma storica e immediata sventolato da Roberto Calderoli non è mai (mai) stato depositato. Non dopo aver letto sul «Giornale» tre anni fa un titolo a 9 colonne: «Via alla manovra: abolite nove Province». Non dopo avere trovato su «La Padania» di due settimane fa, a proposito di «svolte epocali» già oggi evaporate, il titolone «La Casta colpita al cuore». Questa volta gli annunci non bastano più. Non solo ai mercati: ai cittadini.
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