Gad Lerner (La Repubblica)
Bentornata la politica, grazie agli ispettori dell´Agenzia delle Entrate. Un inequivocabile segno di classe contraddistingue le proteste della destra italiana contro il blitz antievasori di Cortina d´Ampezzo. Confermandoci quel che Karl Marx scriveva già nel 1859 nella sua celeberrima prefazione a «Per la critica dell´economia politica»: la coscienza dell´uomo è determinata dal suo essere sociale. Non c´è populismo che tenga, al dunque la nostra sensibilità è condizionata dal censo. E stavolta una malintesa vocazione a rappresentare gli interessi del proprio elettorato (ma ne siete sicuri, o ve lo figurate peggiore di quello che è?) precipita i malcapitati dirigenti del Pdl sulla soglia dell´autolesionismo. Da Paniz alla Santanchè, dal leghista Fugatti a Galan, è tutto un inorridire per l´«attentato alla libertà» perpetrato da «uno Stato di polizia fiscale», con tanto di solidarietà per i poveri commercianti ingiustamente accusati di disonestà e molestati a Capodanno nell´esercizio del loro lavoro. Fino al capogruppo Cicchitto che si scaglia direttamente contro il direttore dell´Agenzia delle Entrate, Attilio Befera, accusato di «confezione ideologica del controllo fiscale» o, peggio, di «operazione politica e mediatica di carattere propagandistico». Davvero? Propaganda contro chi? In favore di chi? Tocca infine alla Gelmini, fino a ieri responsabile dell´educazione dei nostri figli, manifestare sul piano culturale il proprio sdegno: «L´idea che la ricchezza sia male, un fondamento ideologico della sinistra radicale, non credo possa essere condivisa da un esecutivo che fonda la sua maggioranza sul Pdl». Che gli ottanta ispettori entrati in azione a Cortina siano in realtà dei militanti vendoliani travestiti? Perché mai la loro azione risulterebbe incompatibile col programma di un governo che pure ha assunto la lotta all´evasione fiscale fra le sue priorità? Siamo al dunque, perché l´incattivirsi di una crisi che impoverisce i ceti popolari e brucia posti di lavoro, ripropone con brutalità le differenze di classe. La prolungata, falsa rappresentazione di uno stile di vita omologato nel consumo di massa – l´illusione della fine delle classi sociali – non regge più quando lo Stato, per non fallire, è costretto a mettersi in caccia della ricchezza nascosta. Certo, chi ha protetto finora la ricchezza nascosta, addirittura esaltandola come risorsa, fatica a riconoscerla per quello che è: una vera e propria piaga nazionale. Per questo la destra italiana – antiborghese piuttosto che liberale – agita le acque. Incapace com´è di distinguere la ricchezza generata col talento imprenditoriale dalla ricchezza accumulata con l´illegalità e le rendite di posizione, addebita ai funzionari dello Stato un profilo ideologico esistente solo nella sua propaganda: la demonizzazione del benessere, l´incitazione all´odio di classe. Ma dove vivono? Temo per loro che ormai non attacchi più. Il vittimismo dei furbi abbindolava i poveracci quando s´illudevano di poterli emulare, e quindi li ammiravano. Ma ora che le ricette anticrisi incidono profondamente sul reddito e sul risparmio dei cittadini, torna a contare in politica quella nozione di giustizia sociale fino a ieri oltraggiata – talvolta perfino a sinistra – con l´ambigua raccomandazione a non lasciarsi tentare dalla cosiddetta “invidia sociale”. Alla fine pure la destra dovrà prenderne atto: i commercianti che moltiplicano gli incassi solo in presenza dell´ispettore e i proprietari di auto di lusso col reddito minimo, nell´Italia del 2012 hanno perduto l´egemonia culturale insieme alla reputazione. Una destra liberale dovrebbe difendere gli interessi della borghesia orgogliosa del reddito e del patrimonio conseguito grazie alla sua capacità di fare impresa, e quindi dichiarato. Crede forse, Cicchitto, che i molti benestanti proprietari di auto di lusso ispezionati a Cortina, e risultati in regola col fisco, facciano il tifo per i disonesti contro gli ispettori? Purtroppo una destra che ha lucrato sull´indulgenza per gli evasori, registra con ritardo questo diffuso bisogno di giustizia sociale che pure le spetterebbe declinare a tutela delle esigenze imprenditoriali, come avviene negli altri paesi occidentali. Rischia di pesare su taluni suoi esponenti perfino un´asincronia culturale che rende faticoso adeguare lo stile di vita nel tempo della crisi: il lusso ostentato fino a ieri come dimostrazione del proprio potere, diviene un handicap. Stupisce che non l´abbiano percepito tre politici navigati come Schifani, Casini e Rutelli volati a svernare in un costoso resort delle Maldive dopo aver votato i sacrifici, come se niente fosse, senza intuirne la sconvenienza. Un altro punto a favore dei tecnici che reggono il governo, benestanti anch´essi, ma addestrati per cultura alla sobrietà. L´Italia dei tartassati si dividerà inevitabilmente nel conflitto sociale che accompagna le riforme del fisco, della previdenza e del mercato del lavoro. La sinistra certo faticherà a recuperare un rapporto con le classi subalterne nella bufera della crisi. Ma la destra che agita lo spauracchio di un´Equitalia bolscevica quando finalmente si perseguono i disonesti, è messa peggio. Bentornata la politica, e niente paura: contro gli evasori potrà essere interclassista.
I link ai giornali degli articoli spesso cambiano e diventa difficile se non impossibile recuperare i testi ai quali si riferivano. Questo è l'archivio on-line del blog Giornale-NOTIZIEOGGI
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6.1.12
La destra di classe difende gli evasori
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8.3.09
Ma quale Marx
Rossana Rossanda
Breve il terrore seguito al crac della finanza: cielo, torna Marx! E perché? Perché i governi sono corsi in aiuto alle banche, rifinanziandole. L'intervento fatale dello stato, cioè il riaffacciarsi di Marx...
Che sciocchezza. Intanto lo spavento non è durato molto. Stati, o meglio governi, non sembrano chiedere nulla in cambio. Si limitano a dire che non si può lasciar fallire una banca perché questo trascinerebbe nel vortice risparmiatori e imprese. Lasciar fallire Lehman Brothers è stato un errore; salvare una banca è un atto di salute pubblica, come far fronte a una inondazione. Quindi altre imprese chiedono aiuto, per prime le grandi costruttrici di auto, perché quote ingenti dei loro clienti hanno smesso di cambiare la vettura, per cui rischiano il licenziamento centinaia di migliaia di lavoratori, che da disoccupati costano allo stato e producono tensione sociale. Solo in Europa si moltiplicano le cifre di disoccupati a breve, per non parlare dell'est che, gettato spensieratamente nel libero mercato, vi sprofonda più degli altri. Perfino gli oligarchi che avevano ammassato ricchezze nella svendita della proprietà pubblica ne stanno perdendo una parte.
Quindi gli stessi che per venti anni hanno strillato «meno stato più mercato» adesso chiedono l'intervento statale. C'entra Marx? Per niente. Prima di tutto non è mai stato un fautore dello stato, del quale anzi prevedeva a termine l'estinzione; se mai fu Lenin a pensare che la proprietà statale, ma d'uno stato proletario, fosse l'ultima fase prima della socializzazione della proprietà stessa. Nulla di simile passa per la testa dei governi, né delle opposizioni attuali.
I primi sono reticenti perfino a dichiarare la natura di queste erogazioni. Si tratta d'un prestito, oppure di un acquisto di parte delle banche e imprese, delle quali essi assumerebbero una congrua parte della proprietà? Sarkozy ha recentemente affermato per una operazione del genere che si tratta di un prestito a un buon tasso di interesse, l'8 per cento; insomma sarebbe un investimento un po' azzardato. Se ho capito bene soltanto nel Regno Unito Gordon Brown ha dichiarato che si tratta di una partecipazione al capitale azionario delle banche salvate, e qualcuno ha aggiunto «pro tempore», ma lo stato non vi metterà becco, non voterà a seconda delle azioni che detiene, interviene come cassa d'emergenza e basta.
Gran silenzio sugli interrogativi che si fa il semplice cittadino: i soldi che lo stato eroga come «aiuti» da dove li prende? Dalla finanza pubblica, cioè da noi? Con le tasse? Quali e quando? Solo Obama dichiara che aumenterà le imposte per gli alti redditi, ma ai fini di pagare l'estensione della sanità pubblica a tutti i cittadini. Gli Usa possono stampare moneta, aumentando così un deficit pubblico già cinque volte più elevato del nostro; ma gli stati europei non lo possono fare, lo potrebbe soltanto la Banca Centrale, che non ne manifesta alcuna intenzione. E fino a ieri dichiaravano di essere così a secco da dover tagliare energicamente la spesa pubblica - scuole, ospedali, enti locali. In Francia anche i tribunali.
Per ultimo, come appariranno nei bilanci dello stato le somme erogate per gli aiuti, se appariranno?
Le sinistre, se così si può chiamarle, che rappresenterebbero i lavoratori e i lavoratori medesimi che scendono in piazza gridano: il giocattolo finanza l'hanno rotto i padroni delle banche, paghino loro. Anche l'Onda ha usato lo stesso slogan: non pagheremo noi la vostra crisi. Ma dubito che gli uni e gli altri ci credano. Le sinistre non stanno marciando all'assalto del credito, non reclamano neanche che, salvato, diventi quota di proprietà pubblica - che non sarebbe affatto socialismo ma sì e no una misura keynesiana - e l'utilizzo ne sia discusso pubblicamente nei parlamenti e fra le parti sociali. Fino a poco fa anche esse tuonavano per la privatizzazione di quanto era pubblico. Non abbiamo strillato anche noi, il manifesto, contro la proprietà statale e i boiardi di stato? Non abbiamo scritto che è l'occhio del padrone che ingrassa il cavallo mentre le burocrazie statali sono inerti e corrotte? D'altra parte non avevamo le forze per proporre che la proprietà pubblica passasse in autogestione, anche per il dubbio (inespresso) di come funzionerebbe una autogestione nuda e cruda in un mondo globalizzato. Mancò poco che non giovassimo alle privatizzazioni della sanità e della scuola, cui sono allegramente andati i governi di centrosinistra.
Quindi dalle nostre parti, per dir così, silenzio o richiesta agli stati di salvare le imprese per salvare i dipendenti, in primis dell'auto. Di «nazionalizzazione» si parla a vanvera, come proprietà statale forse transeunte, certo non ammessa al controllo pubblico, a sua volta incontrollato (salvo forse dalla corte dei Conti). Una riflessione autocritica sullo slogan «meno stato più mercato» non la fa nessuno. O mi è sfuggita?
Neppure si domandano condanne per i responsabili della rovina. Nessuno di coloro che hanno lasciato andare in pezzi il proprio istituto, è imputato di nulla. In genere sono confermati nei loro incarichi. Ho, per così dire, sott'occhio l'amministrato delegato della Fortis che è stato sollevato, sì, dalla direzione ma con un paracadute d'oro e con un incarico ben retribuito di consulente speciale della medesima banca. Per configurare una frode bisogna proprio che gente come Madoff o Stanford abbiano visibilmente ingannato il prossimo proponendo per depositi fatti presso banche di loro fiducia, perlopiù nei paradisi fiscali, interessi favolosi pagati con i soldi dei nuovi piccioni via via acchiappati. Ma è frode o no far nascere nuovi titoli l'uno dall'altro, «derivarli» nella speranza che il mercato speculativo li acquisti e rivenda prima che atterrino su un pezzo di quella che chiamano «economia reale»? Una tradizionale bolla in borsa scoppiava quando i titoli emessi da una impresa triplicavano di valore rispetto alla base produttiva su cui li emettevano. Stavolta no. I famosi derivati derivano da altri titoli, sul principio che messo sul mercato il denaro produce da se stesso altro denaro. È una frode oppure va chiamata affettuosamente «ingegneria fiscale», e funziona fin quando la inesigibilità del titolo si rivela clamorosamente?
Al semplice cittadino questo genere di operazioni ricorda la storiella del furbo romano che, vedendo un contadino mirare stupefatto il Colosseo, gliene propone l'acquisto, lo sprovveduto sgancia e il furbo sparisce con i quattrini. Le banche hanno potuto vendere e rivendere un virtuale, un derivato, un future - dice Tremonti che i derivati sono pari a dodici volte e mezza il prodotto industriale lordo di tutto il mondo! - senza che questo configuri un reato. Fu forse reato che gli olandesi, incantati dai tulipani, si contendessero come l'oro il bulbo di quel fiore fino ad allora sconosciuto? È stata la prima speculazione, la racconta Galbraith, e durò fin che di colpo si avvidero che ci si poteva procurare quel rizoma con due centesimi.
La scorsa estate un trader della Société Générale ha lasciato aperto il suo computer un venerdì, un collega ci ha messo l'occhio, ha scorto che stava inanellando spericolatamente acquisti e vendite, ne ha avvisato la direzione; la quale prima di tutto ha rifilato a ogni buon conto ad altre banche i titoli giocati e poi lo ha denunciato. Ma che si riesce a imputargli? Ha operato per amor dell'arte, non ne ha intascato un soldo, nessun superiore è in grado né è tenuto a controllarlo, se il suo percorso non fosse stato interrotto la banca ne avrebbe tratto ingenti guadagni. L'ingegneria finanziaria lavora sul virtuale. Calcola sul desiderio.
Il povero Marx non lo immaginava proprio. Al contrario aveva razionalmente previsto la fine del rentier. Anche le famose righe dei Grundrisse nelle quali afferma che in futuro il lavoro sarebbe diventato una ben misera base per l'aumento della ricchezza mettevano in conto l'enorme mutamento delle tecnologie, non la crescita parassitaria di una speculazione (sempre in qualche misura virtuale), che diventando smisurata sfocia nelle bolle ed esplode in distruzione di ricchezza, come sta avvenendo ora, dopo essersi deposta di passaggio su questo o quel speculatore. Va da sé che anche quel che si chiama ora capitale cognitivo non si identifica nella capacità di George Soros di prevedere i movimenti delle borse.
In realtà chi sproloquia su Marx si dimentica spesso e volentieri che tutta la sua analisi riposa sul fatto, intollerabile per un nipotino della rivoluzione francese, che il modo capitalistico di produzione elude l'uguaglianza in diritti che sarebbe propria di ogni essere umano, perché si fonda al contrario sull'inuguaglianza fra chi possiede i mezzi di produzione e chi non possiede altro che la propria forza di lavoro, materiale o immateriale. Nella produzione al primo rimangono capitale, macchine (tecnologia), prodotto, il secondo è un accessorio vivente (magari intelligentissimo), della macchina (tecnologia), anche lui merce, magari individualmente preziosa, acquistabile e vendibile sul mercato del lavoro. Nella speculazione questo ingombrante soggetto scompare come tende a sparire, fino alla resa dei conti, l'ingombrante prodotto che dà origine nella quotazione in borsa.
Ugualmente fin che il soggetto lavoratore introduce nel processo una sua relativa autonomia di contrattazione del salario e dei diritti, ne modifica gli equilibri. Di qui la furia distruttiva di ogni traccia della sua organizzazione, anche la più elementare come il sindacato. Sacconi e Marcegaglia sono figure ottocentesche classiche. Su questa introduzione nel processo da parte dei lavoratori si è basato, con non poche semplificazioni ma con la forza di un corposo materiale umano, tutto il movimento operaio. In quello socialista per breve tempo, in quello comunista per dir così sempre - almeno in linea di principio - restò la convinzione che anche il più forte dei sindacati migliorava ma non modificava il rapporto di produzione, la cui inesorabile illibertà sta nell'usare l'uomo come strumento. Di qui la necessità di un passaggio rivoluzionario. Non è andata così, e non è affatto misterioso capirne le ragioni.
Ora il capitale ha vinto non nei rapporti di forza, da sempre inuguali, ma anche nella testa, nella idea di sé di chi lavora, senza più speranza di una propria emancipazione ma solo di salvare il suo posto di lavoro, cioè il salario, identificato con il salvataggio dell'impresa che glielo dà.
Questo ereditiamo dal Novecento. E vale la pena di tenerlo fermo, piuttosto che divagare su straordinarie innovazioni che renderebbero impossibile, anzi inutile, qualsiasi lotta al capitale proprio mentre si dibatte in clamorose contraddizioni interne.
Breve il terrore seguito al crac della finanza: cielo, torna Marx! E perché? Perché i governi sono corsi in aiuto alle banche, rifinanziandole. L'intervento fatale dello stato, cioè il riaffacciarsi di Marx...
Che sciocchezza. Intanto lo spavento non è durato molto. Stati, o meglio governi, non sembrano chiedere nulla in cambio. Si limitano a dire che non si può lasciar fallire una banca perché questo trascinerebbe nel vortice risparmiatori e imprese. Lasciar fallire Lehman Brothers è stato un errore; salvare una banca è un atto di salute pubblica, come far fronte a una inondazione. Quindi altre imprese chiedono aiuto, per prime le grandi costruttrici di auto, perché quote ingenti dei loro clienti hanno smesso di cambiare la vettura, per cui rischiano il licenziamento centinaia di migliaia di lavoratori, che da disoccupati costano allo stato e producono tensione sociale. Solo in Europa si moltiplicano le cifre di disoccupati a breve, per non parlare dell'est che, gettato spensieratamente nel libero mercato, vi sprofonda più degli altri. Perfino gli oligarchi che avevano ammassato ricchezze nella svendita della proprietà pubblica ne stanno perdendo una parte.
Quindi gli stessi che per venti anni hanno strillato «meno stato più mercato» adesso chiedono l'intervento statale. C'entra Marx? Per niente. Prima di tutto non è mai stato un fautore dello stato, del quale anzi prevedeva a termine l'estinzione; se mai fu Lenin a pensare che la proprietà statale, ma d'uno stato proletario, fosse l'ultima fase prima della socializzazione della proprietà stessa. Nulla di simile passa per la testa dei governi, né delle opposizioni attuali.
I primi sono reticenti perfino a dichiarare la natura di queste erogazioni. Si tratta d'un prestito, oppure di un acquisto di parte delle banche e imprese, delle quali essi assumerebbero una congrua parte della proprietà? Sarkozy ha recentemente affermato per una operazione del genere che si tratta di un prestito a un buon tasso di interesse, l'8 per cento; insomma sarebbe un investimento un po' azzardato. Se ho capito bene soltanto nel Regno Unito Gordon Brown ha dichiarato che si tratta di una partecipazione al capitale azionario delle banche salvate, e qualcuno ha aggiunto «pro tempore», ma lo stato non vi metterà becco, non voterà a seconda delle azioni che detiene, interviene come cassa d'emergenza e basta.
Gran silenzio sugli interrogativi che si fa il semplice cittadino: i soldi che lo stato eroga come «aiuti» da dove li prende? Dalla finanza pubblica, cioè da noi? Con le tasse? Quali e quando? Solo Obama dichiara che aumenterà le imposte per gli alti redditi, ma ai fini di pagare l'estensione della sanità pubblica a tutti i cittadini. Gli Usa possono stampare moneta, aumentando così un deficit pubblico già cinque volte più elevato del nostro; ma gli stati europei non lo possono fare, lo potrebbe soltanto la Banca Centrale, che non ne manifesta alcuna intenzione. E fino a ieri dichiaravano di essere così a secco da dover tagliare energicamente la spesa pubblica - scuole, ospedali, enti locali. In Francia anche i tribunali.
Per ultimo, come appariranno nei bilanci dello stato le somme erogate per gli aiuti, se appariranno?
Le sinistre, se così si può chiamarle, che rappresenterebbero i lavoratori e i lavoratori medesimi che scendono in piazza gridano: il giocattolo finanza l'hanno rotto i padroni delle banche, paghino loro. Anche l'Onda ha usato lo stesso slogan: non pagheremo noi la vostra crisi. Ma dubito che gli uni e gli altri ci credano. Le sinistre non stanno marciando all'assalto del credito, non reclamano neanche che, salvato, diventi quota di proprietà pubblica - che non sarebbe affatto socialismo ma sì e no una misura keynesiana - e l'utilizzo ne sia discusso pubblicamente nei parlamenti e fra le parti sociali. Fino a poco fa anche esse tuonavano per la privatizzazione di quanto era pubblico. Non abbiamo strillato anche noi, il manifesto, contro la proprietà statale e i boiardi di stato? Non abbiamo scritto che è l'occhio del padrone che ingrassa il cavallo mentre le burocrazie statali sono inerti e corrotte? D'altra parte non avevamo le forze per proporre che la proprietà pubblica passasse in autogestione, anche per il dubbio (inespresso) di come funzionerebbe una autogestione nuda e cruda in un mondo globalizzato. Mancò poco che non giovassimo alle privatizzazioni della sanità e della scuola, cui sono allegramente andati i governi di centrosinistra.
Quindi dalle nostre parti, per dir così, silenzio o richiesta agli stati di salvare le imprese per salvare i dipendenti, in primis dell'auto. Di «nazionalizzazione» si parla a vanvera, come proprietà statale forse transeunte, certo non ammessa al controllo pubblico, a sua volta incontrollato (salvo forse dalla corte dei Conti). Una riflessione autocritica sullo slogan «meno stato più mercato» non la fa nessuno. O mi è sfuggita?
Neppure si domandano condanne per i responsabili della rovina. Nessuno di coloro che hanno lasciato andare in pezzi il proprio istituto, è imputato di nulla. In genere sono confermati nei loro incarichi. Ho, per così dire, sott'occhio l'amministrato delegato della Fortis che è stato sollevato, sì, dalla direzione ma con un paracadute d'oro e con un incarico ben retribuito di consulente speciale della medesima banca. Per configurare una frode bisogna proprio che gente come Madoff o Stanford abbiano visibilmente ingannato il prossimo proponendo per depositi fatti presso banche di loro fiducia, perlopiù nei paradisi fiscali, interessi favolosi pagati con i soldi dei nuovi piccioni via via acchiappati. Ma è frode o no far nascere nuovi titoli l'uno dall'altro, «derivarli» nella speranza che il mercato speculativo li acquisti e rivenda prima che atterrino su un pezzo di quella che chiamano «economia reale»? Una tradizionale bolla in borsa scoppiava quando i titoli emessi da una impresa triplicavano di valore rispetto alla base produttiva su cui li emettevano. Stavolta no. I famosi derivati derivano da altri titoli, sul principio che messo sul mercato il denaro produce da se stesso altro denaro. È una frode oppure va chiamata affettuosamente «ingegneria fiscale», e funziona fin quando la inesigibilità del titolo si rivela clamorosamente?
Al semplice cittadino questo genere di operazioni ricorda la storiella del furbo romano che, vedendo un contadino mirare stupefatto il Colosseo, gliene propone l'acquisto, lo sprovveduto sgancia e il furbo sparisce con i quattrini. Le banche hanno potuto vendere e rivendere un virtuale, un derivato, un future - dice Tremonti che i derivati sono pari a dodici volte e mezza il prodotto industriale lordo di tutto il mondo! - senza che questo configuri un reato. Fu forse reato che gli olandesi, incantati dai tulipani, si contendessero come l'oro il bulbo di quel fiore fino ad allora sconosciuto? È stata la prima speculazione, la racconta Galbraith, e durò fin che di colpo si avvidero che ci si poteva procurare quel rizoma con due centesimi.
La scorsa estate un trader della Société Générale ha lasciato aperto il suo computer un venerdì, un collega ci ha messo l'occhio, ha scorto che stava inanellando spericolatamente acquisti e vendite, ne ha avvisato la direzione; la quale prima di tutto ha rifilato a ogni buon conto ad altre banche i titoli giocati e poi lo ha denunciato. Ma che si riesce a imputargli? Ha operato per amor dell'arte, non ne ha intascato un soldo, nessun superiore è in grado né è tenuto a controllarlo, se il suo percorso non fosse stato interrotto la banca ne avrebbe tratto ingenti guadagni. L'ingegneria finanziaria lavora sul virtuale. Calcola sul desiderio.
Il povero Marx non lo immaginava proprio. Al contrario aveva razionalmente previsto la fine del rentier. Anche le famose righe dei Grundrisse nelle quali afferma che in futuro il lavoro sarebbe diventato una ben misera base per l'aumento della ricchezza mettevano in conto l'enorme mutamento delle tecnologie, non la crescita parassitaria di una speculazione (sempre in qualche misura virtuale), che diventando smisurata sfocia nelle bolle ed esplode in distruzione di ricchezza, come sta avvenendo ora, dopo essersi deposta di passaggio su questo o quel speculatore. Va da sé che anche quel che si chiama ora capitale cognitivo non si identifica nella capacità di George Soros di prevedere i movimenti delle borse.
In realtà chi sproloquia su Marx si dimentica spesso e volentieri che tutta la sua analisi riposa sul fatto, intollerabile per un nipotino della rivoluzione francese, che il modo capitalistico di produzione elude l'uguaglianza in diritti che sarebbe propria di ogni essere umano, perché si fonda al contrario sull'inuguaglianza fra chi possiede i mezzi di produzione e chi non possiede altro che la propria forza di lavoro, materiale o immateriale. Nella produzione al primo rimangono capitale, macchine (tecnologia), prodotto, il secondo è un accessorio vivente (magari intelligentissimo), della macchina (tecnologia), anche lui merce, magari individualmente preziosa, acquistabile e vendibile sul mercato del lavoro. Nella speculazione questo ingombrante soggetto scompare come tende a sparire, fino alla resa dei conti, l'ingombrante prodotto che dà origine nella quotazione in borsa.
Ugualmente fin che il soggetto lavoratore introduce nel processo una sua relativa autonomia di contrattazione del salario e dei diritti, ne modifica gli equilibri. Di qui la furia distruttiva di ogni traccia della sua organizzazione, anche la più elementare come il sindacato. Sacconi e Marcegaglia sono figure ottocentesche classiche. Su questa introduzione nel processo da parte dei lavoratori si è basato, con non poche semplificazioni ma con la forza di un corposo materiale umano, tutto il movimento operaio. In quello socialista per breve tempo, in quello comunista per dir così sempre - almeno in linea di principio - restò la convinzione che anche il più forte dei sindacati migliorava ma non modificava il rapporto di produzione, la cui inesorabile illibertà sta nell'usare l'uomo come strumento. Di qui la necessità di un passaggio rivoluzionario. Non è andata così, e non è affatto misterioso capirne le ragioni.
Ora il capitale ha vinto non nei rapporti di forza, da sempre inuguali, ma anche nella testa, nella idea di sé di chi lavora, senza più speranza di una propria emancipazione ma solo di salvare il suo posto di lavoro, cioè il salario, identificato con il salvataggio dell'impresa che glielo dà.
Questo ereditiamo dal Novecento. E vale la pena di tenerlo fermo, piuttosto che divagare su straordinarie innovazioni che renderebbero impossibile, anzi inutile, qualsiasi lotta al capitale proprio mentre si dibatte in clamorose contraddizioni interne.
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19.12.08
Letture parallele di un'opera tutt'ora aperta - Ombre marxiane
di Benedetto Vecchi
Due recenti libri collettivi su Karl Marx. Il primo affronta alcuni concetti chiave del filosofo tedesco. Il secondo è invece una critica alle tesi di Jacques Derrida sulla necessità di recuperare Marx, abbandonando però l'idea che esiste una classe destinata a costruire una società non capitalista
All'indomani della decisione del governo statunitense di intervenire nel salvataggio di alcune imprese finanziarie e banche, un gruppo di autorevoli editorialisti e economisti scrisse che la crisi del libero mercato stava facendo tornare di attualità l'opera di Karl Marx, in particolar modo la sua tesi sulla inevitabilità che il capitalismo incappasse ciclicamente in una crisi che metteva in discussione la sua stessa esistenza. Il fatto più sorprendente è che le parole lusinghiere dedicate al filosofo di Treviri venivano da riviste e giornali da sempre paladini di quello stesso libero mercato che stava portando sull'orlo dell'abisso il capitalismo. Se Time, Business week, Economist e Wall Street Journal cercavano tra le pieghe del Capitale o del Manifesto del partito comunista spiegazioni sul perché il migliore dei mondi possibili, cioè il capitalismo, si stava trasformando in un inferno per miliardi di persone voleva dire che la crisi e la recessione mondiale avviata dal «giocattolo» impazzito dei subprime era cosa davvero seria. È stato poi compito dell'attualità inanellare il drammatico rosario di licenziamenti di massa, fallimenti di imprese. Il volto di Marx è stato poi rapidamente tolto dalle copertine di quelle riviste, ma le affermazioni contenuti negli articoli pubblicati sulla rinnovata attualità dell'opera marxiana sono difficili da dimenticare così in fretta.
L'invenzione di una tradizione
Certo è però il fatto che l'eredità teorica di Marx era diventata una faccenda per pochi intimi, per di più litigiosi tra loro. Neppure i movimenti sociali di questi ultimi due decenni hanno guardato con attenzione all'autore del Capitale. Unica eccezione, l'America Latina, dove ci sono importanti e radicali movimenti sociali che continuano a parlare di socialismo. In Europa e negli Stati Uniti Marx è stato infatti consegnato alle soffitte ben prima che crollasse il muro di Berlino, simbolo di una fallimentare esperienza di costruzione del socialismo. Il Sessantotto aveva solo rinviato la rimozione dell'opera marxiana. E quando in Europa, nel pieno della controrivoluzione liberista, si sono manifestati movimenti sociali - dall'ecologismo agli occupanti di case, ai no-global- le tradizioni teoriche e politiche a cui hanno fatto riferimento non contemplavano né Marx, né tantomeno l'esperienza comunista.
L'unico tentativo serio di fare i conti non con Marx, ma con il marxismo risale infatti agli inizi degli anni Ottanta del secolo scorso, con la pubblicazione di una «Storia del marxismo» curata da Eric Hobsbawm. Ed è proprio in quella storia che lo storico inglese invitava a pensare ai marxismi, perché molte sono state le scuole di pensiero, i percorsi politici che hanno contraddistinto la ricezione dell'opera marxiana. Ed è quindi una felice sorpresa la pubblicazione di un libro - Lessico marxiano, manifestolibri, pp. 198, euro 19 - che ripercorre alcune parole chiave dell'opera di Marx, dichiarando sin dall'introduzione una scelta di campo: tutti gli autori si rifanno all'operaismo, cioè quelll'innovazione del marxismo avviata da Raniero Panzieri e poi proseguita da studiosi come Mario Tronti, Antonio Negri, Romano Alquati e tanti altri. Ma la sorpresa è che è un libro nato all'interno di uno spazio occupato, l'Esc di Roma, che ha sempre manifestato una forte critica nei confronti delle organizzazioni del movimento operaio. Eppure, come dichiarano i curatori di questo volume, l'appuntamento con Marx era nell'ordine delle cose. Per verificare se potesse servire alla comprensione del capitalismo, ma anche se potesse fornire strumenti per il loro agire politico.
Nel flusso della storia
Il Marx che esce da questo volume non è tuttavia lo scienziato del capitalismo, né un economista che fornisce ricette per far funzionare un modo di produzione alternativo al capitalismo. Marx è qui considerato un critico dell'economia politica, mentre la sua produzione teorica è ritenuta un'opera aperta alla critica e al superamento laddove se ne presentasse la possibilità. Le parole chiave scelte per rileggere l'autore dei Grundrisse lasciano infatti trasparire sopratutto un'urgenza politica. Il «fulmine da prendere con le mani» a cui alludono gli attivisti di Esc nell'introduzione non è infatti l'eredità marxiana, bensì la realtà capitalistica contemporaneo, la sua continuità con il passato, ma anche e sopratutto le discontinuità che manifesta. Per questo l'attenzione è data, ad esempio, ai concetti di «astrazione», «forza lavoro», «cooperazione», «lavoro produttivo e improduttivo», «classe», «accumulazione originaria», «diritto». Cioè a temi che costituiscono proprio i nodi da sciogliere per una critica al capitalismo che spesso in questo libro è qualificato come cognitivo.
L'accumulazione originaria è infatti sviluppata per parlare di come la globalizzazione mette in evidenza che quel passaggio violento all'origine del capitalismo si rinnova continuamente quando si ridefiniscono le gerarchie e i rapporti sociali tanto nelle realtà nazionali che a livello mondiale. Questo solo introdurre il fatto che le classi sono continuamente scomposte e ricomposte. Ma che solo da un'ottica di classe, e dai conflitti che agisce, si può risucire a comprendere la realtà e pensare la politica per trasformarla.
Non è quindi un caso che vengono ripercorsi i testi di Marx per capire cosa significa forza-lavoro, lavoro produttivo e improduttivo, produzione e riproduzione in un capitalismo dove diventano centrali le capacità generiche della natura umana (il linguaggio, la capacità di fare astrazione, la capacità di sviluppare cooperazione). E di come il diritto, da sempre dispositivo per legittimare la proprietà privata e i rapporti sociali dominanti, arrivi ad occuparsi di diritto d'autore, di brevetti, di marchi affinché proprio quel linguaggio, quella conoscenza, quel sapere e la vita stessa diventino non solo merci, ma che la loro «produzione» sia regolata secondo il principio della scarsità.
L'impossibile filologia
Un libro che non è mosso da nessun intento filologico rispetto l'opera marxiana. I testi di Marx sono infatti letti e commentati per afferrarre la realtà. E che per questo mette in conto di andare «oltre Marx». Un'operazione provocatoria rispetto a chi, invece, aderendo filologicamente ai testi di Marx cerca risposte politiche. O verso chi cerca di salvaguardare la tradizione politica del movimento operaio. Ma provocatoria anche verso chi cerca di innovare l'analisi marxista, colmando i limiti dell'opera marxiana. Il «lessico marxiano» che emerge dall'insieme dei saggi che compongono il volume è da intendere come una cassetta degli attrezzi da usare per la costruzione di un agire politico che si vuol misurare con questo capitalismo. Un volume che propone infine come prioritaria necessità politica la possibilità di aprire un'altra storia, prendendo definitivamente congedo dall'esperienza socialista del Novecento.
ilmanifesto.it
Due recenti libri collettivi su Karl Marx. Il primo affronta alcuni concetti chiave del filosofo tedesco. Il secondo è invece una critica alle tesi di Jacques Derrida sulla necessità di recuperare Marx, abbandonando però l'idea che esiste una classe destinata a costruire una società non capitalista
All'indomani della decisione del governo statunitense di intervenire nel salvataggio di alcune imprese finanziarie e banche, un gruppo di autorevoli editorialisti e economisti scrisse che la crisi del libero mercato stava facendo tornare di attualità l'opera di Karl Marx, in particolar modo la sua tesi sulla inevitabilità che il capitalismo incappasse ciclicamente in una crisi che metteva in discussione la sua stessa esistenza. Il fatto più sorprendente è che le parole lusinghiere dedicate al filosofo di Treviri venivano da riviste e giornali da sempre paladini di quello stesso libero mercato che stava portando sull'orlo dell'abisso il capitalismo. Se Time, Business week, Economist e Wall Street Journal cercavano tra le pieghe del Capitale o del Manifesto del partito comunista spiegazioni sul perché il migliore dei mondi possibili, cioè il capitalismo, si stava trasformando in un inferno per miliardi di persone voleva dire che la crisi e la recessione mondiale avviata dal «giocattolo» impazzito dei subprime era cosa davvero seria. È stato poi compito dell'attualità inanellare il drammatico rosario di licenziamenti di massa, fallimenti di imprese. Il volto di Marx è stato poi rapidamente tolto dalle copertine di quelle riviste, ma le affermazioni contenuti negli articoli pubblicati sulla rinnovata attualità dell'opera marxiana sono difficili da dimenticare così in fretta.
L'invenzione di una tradizione
Certo è però il fatto che l'eredità teorica di Marx era diventata una faccenda per pochi intimi, per di più litigiosi tra loro. Neppure i movimenti sociali di questi ultimi due decenni hanno guardato con attenzione all'autore del Capitale. Unica eccezione, l'America Latina, dove ci sono importanti e radicali movimenti sociali che continuano a parlare di socialismo. In Europa e negli Stati Uniti Marx è stato infatti consegnato alle soffitte ben prima che crollasse il muro di Berlino, simbolo di una fallimentare esperienza di costruzione del socialismo. Il Sessantotto aveva solo rinviato la rimozione dell'opera marxiana. E quando in Europa, nel pieno della controrivoluzione liberista, si sono manifestati movimenti sociali - dall'ecologismo agli occupanti di case, ai no-global- le tradizioni teoriche e politiche a cui hanno fatto riferimento non contemplavano né Marx, né tantomeno l'esperienza comunista.
L'unico tentativo serio di fare i conti non con Marx, ma con il marxismo risale infatti agli inizi degli anni Ottanta del secolo scorso, con la pubblicazione di una «Storia del marxismo» curata da Eric Hobsbawm. Ed è proprio in quella storia che lo storico inglese invitava a pensare ai marxismi, perché molte sono state le scuole di pensiero, i percorsi politici che hanno contraddistinto la ricezione dell'opera marxiana. Ed è quindi una felice sorpresa la pubblicazione di un libro - Lessico marxiano, manifestolibri, pp. 198, euro 19 - che ripercorre alcune parole chiave dell'opera di Marx, dichiarando sin dall'introduzione una scelta di campo: tutti gli autori si rifanno all'operaismo, cioè quelll'innovazione del marxismo avviata da Raniero Panzieri e poi proseguita da studiosi come Mario Tronti, Antonio Negri, Romano Alquati e tanti altri. Ma la sorpresa è che è un libro nato all'interno di uno spazio occupato, l'Esc di Roma, che ha sempre manifestato una forte critica nei confronti delle organizzazioni del movimento operaio. Eppure, come dichiarano i curatori di questo volume, l'appuntamento con Marx era nell'ordine delle cose. Per verificare se potesse servire alla comprensione del capitalismo, ma anche se potesse fornire strumenti per il loro agire politico.
Nel flusso della storia
Il Marx che esce da questo volume non è tuttavia lo scienziato del capitalismo, né un economista che fornisce ricette per far funzionare un modo di produzione alternativo al capitalismo. Marx è qui considerato un critico dell'economia politica, mentre la sua produzione teorica è ritenuta un'opera aperta alla critica e al superamento laddove se ne presentasse la possibilità. Le parole chiave scelte per rileggere l'autore dei Grundrisse lasciano infatti trasparire sopratutto un'urgenza politica. Il «fulmine da prendere con le mani» a cui alludono gli attivisti di Esc nell'introduzione non è infatti l'eredità marxiana, bensì la realtà capitalistica contemporaneo, la sua continuità con il passato, ma anche e sopratutto le discontinuità che manifesta. Per questo l'attenzione è data, ad esempio, ai concetti di «astrazione», «forza lavoro», «cooperazione», «lavoro produttivo e improduttivo», «classe», «accumulazione originaria», «diritto». Cioè a temi che costituiscono proprio i nodi da sciogliere per una critica al capitalismo che spesso in questo libro è qualificato come cognitivo.
L'accumulazione originaria è infatti sviluppata per parlare di come la globalizzazione mette in evidenza che quel passaggio violento all'origine del capitalismo si rinnova continuamente quando si ridefiniscono le gerarchie e i rapporti sociali tanto nelle realtà nazionali che a livello mondiale. Questo solo introdurre il fatto che le classi sono continuamente scomposte e ricomposte. Ma che solo da un'ottica di classe, e dai conflitti che agisce, si può risucire a comprendere la realtà e pensare la politica per trasformarla.
Non è quindi un caso che vengono ripercorsi i testi di Marx per capire cosa significa forza-lavoro, lavoro produttivo e improduttivo, produzione e riproduzione in un capitalismo dove diventano centrali le capacità generiche della natura umana (il linguaggio, la capacità di fare astrazione, la capacità di sviluppare cooperazione). E di come il diritto, da sempre dispositivo per legittimare la proprietà privata e i rapporti sociali dominanti, arrivi ad occuparsi di diritto d'autore, di brevetti, di marchi affinché proprio quel linguaggio, quella conoscenza, quel sapere e la vita stessa diventino non solo merci, ma che la loro «produzione» sia regolata secondo il principio della scarsità.
L'impossibile filologia
Un libro che non è mosso da nessun intento filologico rispetto l'opera marxiana. I testi di Marx sono infatti letti e commentati per afferrarre la realtà. E che per questo mette in conto di andare «oltre Marx». Un'operazione provocatoria rispetto a chi, invece, aderendo filologicamente ai testi di Marx cerca risposte politiche. O verso chi cerca di salvaguardare la tradizione politica del movimento operaio. Ma provocatoria anche verso chi cerca di innovare l'analisi marxista, colmando i limiti dell'opera marxiana. Il «lessico marxiano» che emerge dall'insieme dei saggi che compongono il volume è da intendere come una cassetta degli attrezzi da usare per la costruzione di un agire politico che si vuol misurare con questo capitalismo. Un volume che propone infine come prioritaria necessità politica la possibilità di aprire un'altra storia, prendendo definitivamente congedo dall'esperienza socialista del Novecento.
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25.3.08
Sotto il martello del capitalismo globale
Vita moderna Le logiche del capitale in «The Beginning of History. Value Struggles and Global Capital», un libro di Massimo De Angelis per Pluto press
Massimiliano Tomba
La letteratura più avveduta considera ormai l'accumulazione originaria non come uno stadio relegabile alla protostoria del modo di produzione capitalistico, ma come basso continuo di tutta la sua storia, anche contemporanea. La questione è da un lato individuare i nuovi modi di accumulazione, dall'altro mostrare come diverse forme di sfruttamento si implicano reciprocamente: su questi due assi si articolano prospettive analitiche e politiche diverse. Confrontandosi con alcune delle più importanti interpretazioni del capitalismo contemporaneo il libro di Massimo De Angelis, The Beginning of History. Value Struggles and Global Capital (London, Pluto 2007) mette in luce come l'accumulazione di capitale sia sempre giocata contro una dimensione esterna, un outside, che non è solo sopravvivenza di aree non capitalistiche, perché viene invece costantemente prodotto dalle lotte di uomini e donne contro la separazione tra mezzi di produzione e condizioni di vita dei lavoratori e delle lavoratrici. Contro nuove e vecchie forme di enclosure. Le analisi di De Angelis mettono in discussione gli assunti della concezione postmodernista secondo la quale il capitalismo costituirebbe una sorta di sistema totale, senza più alcun esterno rispetto ad esso. Una concezione che dà luogo a una sorta di olismo del capitale, non diversa dall'immagine della fantasmagoria delineata da Marx nel celebre capitolo del Capitale sul feticismo. De Angelis prende invece le mosse dal capitale come insieme di rapporti di produzione e come rapporto con il suo altro. Con un outside, appunto, che è risultato di una pratica comune, non solo sottrazione, ma interruzione della temporalità del valore: temporalità di atti creativi ed esperienza soggettiva della trasformazione. Un'alterità che incessantemente si produce e che il capitale, altrettanto incessantemente, cerca di sussumere. Considerando il modo di produzione capitalistico non secondo un'unica linea temporale, le enclosures vengono lette da De Angelis come «una caratteristica continua della logica del capitale». Compito primario dell'analisi è quindi cogliere la funzione centrale delle nuove forme di enclosure nel capitalismo globalizzato. Sia chiaro: questo non significa pensare - secondo una immagine ancora postmodernista - che le più diverse forme di sfruttamento e di insorgenza del lavoro vivo coesistano indifferentemente l'una accanto all'altra in una sorta di esposizione universale delle forme di sussunzione. Quella che deve essere indagata è, piuttosto, «l'articolazione globale di una molteplicità di tecniche e strategie: dallo schiavismo al lavoro salariato, dal lavoro non pagato di riproduzione al lavoro temporaneo post-fordista», dalle produzioni nel cosiddetto terzo mondo alle produzioni del capitalismo high-tech. Una politica di liberazione deve oggi affrontare l'articolazione di queste diverse tipologie nella gerarchia globale dei salari e delle forme di sfruttamento. Non solo il mondo non è una superficie omogenea di forme equivalenti, ma una politica di emancipazione deve seriamente porsi il problema del «superamento di questa articolazione, che tende a dividere la società globale» e a metterne in competizione i diversi segmenti. Importante diventa allora la questione di uno spazio che renda possibili concrete pratiche soggettive, capaci di costituirsi comel'outside del capitale. L'attenzione di De Angelis si sposta con ciò alle nuove forme di insorgenza, cercando di coglierne l'elemento comune. Il conatus verso l'auto-conservazione può fungere da collettore. Permette forse di trovare un punto di convergenza tra lotte oggi ancora nefastamente contrapposte come le lotte per la difesa dell'ambiente e quelle del lavoro, là dove invece proprio la questione delle nuove e vecchie forme di nocività legate al lavoro impone di riarticolare battaglie concrete contro la nocività dentro e fuori ai luoghi di lavoro. Il martello dell'industrializzazione, per usare un'immagine di Joel Kovel (The Enemy of Nature: The End of Capitalism or the End of the World?, Zed Books, 2002) devasta anche la natura umana, assorbendo il tempo di vita nel tempo di lavoro. Sempre più figure lavorative, precarie e non, sono costrette a subire una sempre maggiore indistinzione tra tempo di vita e tempo di lavoro. Contemporaneamente anche le funzioni biologiche dell'essere umano sono diventate oggetto di enclosure: viene privatizzata l'acqua che dobbiamo bere e, in molte metropoli occidentali, siamo costretti a pagare per il privilegio di evacuarla.
ilmanifesto.it
Massimiliano Tomba
La letteratura più avveduta considera ormai l'accumulazione originaria non come uno stadio relegabile alla protostoria del modo di produzione capitalistico, ma come basso continuo di tutta la sua storia, anche contemporanea. La questione è da un lato individuare i nuovi modi di accumulazione, dall'altro mostrare come diverse forme di sfruttamento si implicano reciprocamente: su questi due assi si articolano prospettive analitiche e politiche diverse. Confrontandosi con alcune delle più importanti interpretazioni del capitalismo contemporaneo il libro di Massimo De Angelis, The Beginning of History. Value Struggles and Global Capital (London, Pluto 2007) mette in luce come l'accumulazione di capitale sia sempre giocata contro una dimensione esterna, un outside, che non è solo sopravvivenza di aree non capitalistiche, perché viene invece costantemente prodotto dalle lotte di uomini e donne contro la separazione tra mezzi di produzione e condizioni di vita dei lavoratori e delle lavoratrici. Contro nuove e vecchie forme di enclosure. Le analisi di De Angelis mettono in discussione gli assunti della concezione postmodernista secondo la quale il capitalismo costituirebbe una sorta di sistema totale, senza più alcun esterno rispetto ad esso. Una concezione che dà luogo a una sorta di olismo del capitale, non diversa dall'immagine della fantasmagoria delineata da Marx nel celebre capitolo del Capitale sul feticismo. De Angelis prende invece le mosse dal capitale come insieme di rapporti di produzione e come rapporto con il suo altro. Con un outside, appunto, che è risultato di una pratica comune, non solo sottrazione, ma interruzione della temporalità del valore: temporalità di atti creativi ed esperienza soggettiva della trasformazione. Un'alterità che incessantemente si produce e che il capitale, altrettanto incessantemente, cerca di sussumere. Considerando il modo di produzione capitalistico non secondo un'unica linea temporale, le enclosures vengono lette da De Angelis come «una caratteristica continua della logica del capitale». Compito primario dell'analisi è quindi cogliere la funzione centrale delle nuove forme di enclosure nel capitalismo globalizzato. Sia chiaro: questo non significa pensare - secondo una immagine ancora postmodernista - che le più diverse forme di sfruttamento e di insorgenza del lavoro vivo coesistano indifferentemente l'una accanto all'altra in una sorta di esposizione universale delle forme di sussunzione. Quella che deve essere indagata è, piuttosto, «l'articolazione globale di una molteplicità di tecniche e strategie: dallo schiavismo al lavoro salariato, dal lavoro non pagato di riproduzione al lavoro temporaneo post-fordista», dalle produzioni nel cosiddetto terzo mondo alle produzioni del capitalismo high-tech. Una politica di liberazione deve oggi affrontare l'articolazione di queste diverse tipologie nella gerarchia globale dei salari e delle forme di sfruttamento. Non solo il mondo non è una superficie omogenea di forme equivalenti, ma una politica di emancipazione deve seriamente porsi il problema del «superamento di questa articolazione, che tende a dividere la società globale» e a metterne in competizione i diversi segmenti. Importante diventa allora la questione di uno spazio che renda possibili concrete pratiche soggettive, capaci di costituirsi comel'outside del capitale. L'attenzione di De Angelis si sposta con ciò alle nuove forme di insorgenza, cercando di coglierne l'elemento comune. Il conatus verso l'auto-conservazione può fungere da collettore. Permette forse di trovare un punto di convergenza tra lotte oggi ancora nefastamente contrapposte come le lotte per la difesa dell'ambiente e quelle del lavoro, là dove invece proprio la questione delle nuove e vecchie forme di nocività legate al lavoro impone di riarticolare battaglie concrete contro la nocività dentro e fuori ai luoghi di lavoro. Il martello dell'industrializzazione, per usare un'immagine di Joel Kovel (The Enemy of Nature: The End of Capitalism or the End of the World?, Zed Books, 2002) devasta anche la natura umana, assorbendo il tempo di vita nel tempo di lavoro. Sempre più figure lavorative, precarie e non, sono costrette a subire una sempre maggiore indistinzione tra tempo di vita e tempo di lavoro. Contemporaneamente anche le funzioni biologiche dell'essere umano sono diventate oggetto di enclosure: viene privatizzata l'acqua che dobbiamo bere e, in molte metropoli occidentali, siamo costretti a pagare per il privilegio di evacuarla.
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