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12.3.16

Il costo del paese illegale

Se nei 13 anni compresi fra il 2002 e il 2014 si fossero combattute seriamente corruzione ed evasione fiscale il Pil reale italiano sarebbe oggi superiore del 17 per cento a quello attuale] Se nei 13 anni compresi fra il 2002 e il 2014 si fossero combattute seriamente corruzione ed evasione fiscale il Pil reale italiano sarebbe oggi superiore del 17 per cento a quello attuale

Sergio Rizzo (Corriere)

Secondo i dati del Fondo monetario internazionale non c’è in Eurolandia economia che dall’inizio del nuovo secolo sia andata peggio di quella italiana. Fra il 2001 e il 2015 il Prodotto interno lordo pro capite a prezzi costanti, cioè la ricchezza reale prodotta da ciascuno di noi, è diminuito dell’8,5 per cento. Anche la Grecia ha fatto meglio: meno 7,3 per cento.

Per non parlare del confronto con i Paesi più ricchi dell’Unione. Quindici anni fa il Pil pro capite di ogni tedesco era superiore di appena 1.700 euro a quello di ciascun italiano. Nel 2015 la differenza è salita a 8.500 euro. Crisi o non crisi. Vi chiederete: che cosa c’entra tutto questo con le tangenti dell’Anas che ieri hanno portato in carcere 19 persone? L’economista Mario Baldassarri ha calcolato che se nei 13 anni compresi fra il 2002 e il 2014 si fossero combattute seriamente corruzione ed evasione fiscale il Pil reale italiano sarebbe oggi superiore del 17 per cento a quello attuale.

E la classifica dell’autorevole Transparency international parla se possibile ancora più chiaro. Fra il 2001 e il 2015 la Germania, che ha registrato in quel periodo la migliore performance economica dell’area euro, con le sole eccezioni del Lussemburgo e dei Paesi dell’ex blocco sovietico, ha migliorato la propria posizione nella graduatoria internazionale della corruzione percepita di ben dieci posizioni, salendo dal ventesimo al decimo posto. Mentre l’Italia, invece, precipitava in basso di ben 32 caselle: dalla numero 29 alla 61. Nel 2001 ci separavano dalla Germania nove posizioni. Oggi, ben cinquantuno.

Il fatto è che nelle economie avanzate la corruzione non rappresenta soltanto un danno economico diretto per lo Stato, ma in combutta con la cattiva burocrazia si trasforma in un formidabile freno allo sviluppo.

La Corte dei conti non ha mai confermato la valutazione di un costo di 60 miliardi l’anno. Ma di sicuro, se sono vere le stime del governo Monti secondo cui la corruzione farebbe salire di almeno il 40 per cento il prezzo delle opere pubbliche, non ci andiamo troppo lontani. Questo però è ancora niente rispetto agli effetti nefasti sull’intera economia. La corruzione mortifica la concorrenza e blocca l’innovazione: perché spendere per migliorare i prodotti e rendere più efficiente la propria azienda quando si può vincere un appalto pagando una mazzetta? La corruzione colpisce dunque alle fondamenta la competitività del sistema Paese, in un rapporto simbiotico con la burocrazia parassitaria.

Più cresce la burocrazia, più aumentano le occasioni per corrotti e corruttori. È quasi una legge fisica che, si badi bene, non vale soltanto per le imprese e gli appalti pubblici. Ed è questo forse l’aspetto più grave e allarmante. Grazie a una burocrazia sempre più pervasiva e autoreferenziale la corruzione è diventata molecolare, penetrando così in profondità da impregnare interi pezzi della società italiana. A cominciare dalla stessa Capitale. Nel libro scritto dall’ex assessore alla Legalità del Comune di Roma Alfonso Sabella con Giampiero Calapà («Capitale infetta») si racconta di una metropoli nella quale le metastasi non hanno risparmiato alcun settore dell’amministrazione.

Il germe che ha fatto dilagare la corruzione a tutti i livelli, sostiene il presidente dell’Anac Raffaele Cantone, è nel fatto che per esercitare diritti elementari riconosciuti dalla Costituzione (come la salute…) siamo invece spesso costretti a chiedere favori. Tanto i labirinti burocratici sono impenetrabili che la ricerca delle scorciatoie è inevitabile. Se questo è vero basterebbe ricondurre la burocrazia alla sua funzione di semplificare, anziché complicare, la nostra vita. C’è solo il piccolo problema che dovrebbe occuparsene la politica. E purtroppo, in tutti questi anni, abbiamo visto i risultati.

27.4.15

Derivati. Le scommesse sbagliate sul calo dei tassi. Un conto miliardario per i contribuenti


In quattro anni abbiamo visto evaporare 15,3 miliardi pubblici, soldi finiti a rimpinguare il conto economico di 17 banche estere e due italiane (Intesa Sanpaolo e Unicredit)

Sergio Rizzo

Discutiamo da settimane della possibile esistenza nei conti pubblici di un tesoretto di 1,6 miliardi e scopriamo ora che lo scorso anno il Tesoro ha bruciato con i derivati una somma pari a ben due di quei presunti tesoretti. Tre miliardi e trecento milioni, per l’esattezza. Due tesoretti lo scorso anno, quasi due nel 2013, altri due e mezzo nel 2012, e ancora un paio l’anno precedente. Più un altro tesoretto e mezzo, ha spiegato Stefania Rimini per Report di Milena Gabanelli, causa rinegoziazioni dei contratti di cui sopra. Il risultato è che in quattro anni abbiamo visto evaporare 15,3 miliardi pubblici. Per capirci, è la somma che il governo Renzi dovrà trovare quest’anno per evitare l’aumento delle tasse contemplato dalle clausole di salvaguardia. Tutti soldi finiti a rimpinguare il conto economico di 17 banche estere e due italiane (Intesa Sanpaolo e Unicredit). Quelle, appunto, con cui il Tesoro ha sottoscritto una decina d’anni fa i contratti di finanza derivata.
Per quale motivo l’ha fatto? Gli esperti spiegano che quei contratti sono come delle polizze assicurative. Servirebbero a coprire parte del debito pubblico dal rischio di aumento dei tassi d’interesse e dal conseguente aggravio della spesa. Come funziona è presto detto. Il Tesoro si impegna a pagare alla banca, di solito una delle grandi major internazionali del ramo, un tasso fisso su un certo ammontare di debito pubblico. Poniamo che sia il 4 per cento annuo. La banca, a sua volta, corrisponde allo Stato italiano un interesse variabile misurato sull’ Euribor. Se quest’ultimo è più alto del tasso fisso, il Tesoro ci guadagna la differenza. Ma se è più basso, ci rimette. Oggi che i tassi sono a zero, ci rimette tutto.
Il caso vuole che quei contratti siano stati stipulati pochi anni prima della crisi finanziaria e del crollo verticale dei tassi. E per un ammontare gigantesco: 160 miliardi. Il che rende evidente come quell’operazione, lungi dall’essere una polizza assicurativa contro un rischio finanziario, sia diventata essa stessa un rischio finanziario incalcolabile.
Spiegano i tecnici ministeriali che quando si è deciso di ricorrere ai derivati il mercato dei tassi era in altalena, più su che giù. Andrebbe però ricordato come fra il 2000 e il 2002 l’ Euribor fosse precipitato dal 5 al 2 per cento. Mentre l’ingresso nell’euro tutto poteva far immaginare tranne l’impennata inarrestabile dei tassi.
Questo fa apparire ancora più avventurose le decisioni prese in quegli anni, che hanno finito per favorire soltanto le banche vanificando parte del risparmio sul servizio del debito garantito dalla moneta unica. Qualche numero? Nel 2011 abbiamo speso per interessi 78 miliardi: cifra identica in termini nominali a quella del 2001, quando c’era ancora la lira e il volume dei titoli di Stato in circolazione era nettamente inferiore.
In termini reali il risparmio è stato di ben 18 miliardi, ridotti però a 15 per quella sconsiderata iniziativa sui derivati. I maligni potrebbero anche malignare a proposito di certi passaggi di alti papaveri del Tesoro ai vertici di certe grandi banche internazionali. Ma c’è da dire che all’inizio degli anni Duemila la febbre dei derivati non contagiava solo via XX settembre, bensì anche le amministrazioni locali. Qualcuno di loro ne è uscito con le ossa rotte.
Già nel 2014 la Procura della Corte dei conti, nella relazione sull’apertura dell’anno giudiziario, aveva sottolineato i pericoli crescenti causati da queste operazioni, facendo presente che il rapporto fra deficit pubblico e pil del 2013 sarebbe stato ben migliore (il 2,8 anziché il 3 per cento) senza un salasso di 3,2 miliardi provocato dai derivati, dei quali 250 milioni a carico dei Comuni. E il 10 febbraio scorso ha rincarato la dose, argomentando che «con crescente frequenza tali contratti sono stati utilizzati non tanto con finalità di copertura, bensì con intenti di tipo speculativo incrementando paradossalmente, in caso di utilizzo distorto, una nuova rilevante fonte di rischio e di conseguente danno erariale». Il problema è che fermare questo bagno di sangue non è affatto facile. Rinegoziare i contratti costa un sacco di soldi: e pagano sempre i contribuenti. A differenza dei responsabili.

26.6.14

Stipendi, l’Italia rovesciata - Il Sud più «ricco» del Nord


La classifica delle province per potere d’acquisto. Prime Caltanissetta e Crotone, Milano 97esima

di Sergio Rizzo

A Ragusa il reddito disponibile delle famiglie è circa metà di Milano e la disoccupazione morde tre volte di più. Per non parlare dei giovani: dice la Banca d’Italia che in Sicilia il 55% è senza lavoro. Ma per i pochi fortunati ad avere un’occupazione stabile le cose vanno assai meglio che a Milano.

Un cassiere di banca ragusano con cinque anni di anzianità ha uno stipendio del 7,5% inferiore al suo collega milanese. Se però si tiene conto del differente costo della vita, allora scopriamo che la sua busta paga è più alta del 27,3%. E non è ancora tutto, perché per avere il medesimo potere d’acquisto del cassiere di Ragusa, il bancario di Milano dovrebbe guadagnare addirittura il 70% in più. Nel settore pubblico, poi, le differenze a favore dei dipendenti meridionali sono ancora più evidenti. Il salario nominale di un insegnante di scuola elementare con i soliti cinque anni di anzianità è infatti uguale in tutte le regioni italiane: 1.305 euro al mese. Una retribuzione che però in base al diverso indice dei prezzi al consumo nelle due città equivale a 1.051 euro reali a Milano e 1.549 a Ragusa. Con una differenza abissale a vantaggio della città siciliana: 47%. Per pareggiare il potere d’acquisto dell’insegnante ragusano il maestro milanese dovrebbe avere uno stipendio più pesante dell’83%, sottolinea una ricerca che verrà presentata domani a Roma dalla Fondazione Rodolfo Debenedetti. Obiettivo degli autori, gli economisti Tito Boeri della Bocconi, Andrea Ichino dell’Istituto universitario europeo ed Enrico Moretti dell’università californiana di Berkeley, mettere a fuoco le disuguaglianze di salari, redditi e consumi, in gran parte responsabili di una stagnazione endemica.

I numeri dicono tutto. La Provincia di Bolzano, dove i salari nominali sono i più elevati d’Italia, scivola quasi in fondo alla classifica (posto numero 92) di quelli reali se si considera la differenza del costo della vita. Così Aosta, che dal secondo posto passa al 95. Esattamente al contrario di Crotone, che dalla posizione 95 per i salari nominali balza alla seconda per quelli reali. Appena davanti a Enna, Biella, Siracusa, Pordenone, Vercelli, Taranto, Vibo Valentia e Mantova. Tra le dieci province italiane con i più alti salari reali le meridionali sono ben sei. Prima in assoluto, Caltanissetta.
Dati, secondo gli autori della ricerca, che rappresentano una profonda anomalia rispetto a Paesi nei quali i salari sono allineati alla produttività, con il risultato di avere tassi di disoccupazione con minori differenze fra i territori. Boeri, Ichino e Moretti portano l’esempio di San Francisco, dove la produttività del lavoro è superiore rispetto a Dallas: i salari sono quindi più alti del 50% e il tasso di disoccupazione è simile. Anche a Milano la produttività è superiore a quella di Ragusa, ma la differenza salariale è metà di quella fra San Francisco e Dallas: e a Ragusa la disoccupazione è del 223 % maggiore che a Milano mentre le abitazioni nel capoluogo lombardo sono più care del 247%.

Certo la valutazione complessiva delle differenze non può prescindere da altre variabili. Per avere a Ragusa la stessa qualità di Milano, ad esempio, i servizi sanitari costerebbero 18,7 volte in più. Ed è questa anche la ragione per cui a salari reali più consistenti dei lavoratori non corrisponde automaticamente una migliore qualità della vita. Né un apprezzabile impatto sui redditi. La dimostrazione? La provincia italiana con i redditi nominali più elevati, Modena, è al secondo posto per quelli reali (che tengono conto delle differenze territoriali del costo della vita), dietro Biella e davanti Mantova, Reggio Emilia, Verbano, Ferrara, Ragusa, Novara, Trieste e Rovigo. Tutte del Nord tranne Ragusa.

Conclusione, la «compressione dei salari», come viene definita nella ricerca, è causa di maggiore disoccupazione e disuguaglianza nei salari reali a favore del Sud, e di prezzi più cari delle abitazioni e squilibri nei redditi e nei consumi a favore del Nord. Una situazione tale da creare le condizioni per «frenare la crescita senza migliorare le prospettive del Sud». Sul banco degli imputati, «l’apparente equità della contrattazione nazionale» che determina «distorsioni, inequità ed inefficienze». La svolta, secondo gli autori, sarebbe dunque in un legame più stretto fra retribuzioni e produttività, con gli accordi locali che dovrebbero prevalere sui contratti nazionali.
Impossibile, dopo aver scorso le oltre 50 slide della ricerca, non ripensare alle gabbie salariali. Era un meccanismo nato alla fine del 1945,che divideva l’Italia in 14 aree dove si applicavano salari diversi in rapporto al costo della vita. Durò fino a tutti gli anni Sessanta. Il sipario calò definitivamente nel 1972. Sulle gabbie e sul poco rimasto del boom economico.

28.4.12

Province, Titanic da 18 miliardi tenuto a galla dai doppi incarichi

Protette dal Parlamento, accumulano spese. E sprechi

Sergio Rizzo, Gian Antonio Stella (Corriere)


Ci sono italiani che vivono su Marte. La prova è in una delibera della Provincia di Reggio Calabria. Che il 23 dicembre 2011, il giorno dopo il varo della manovra lacrime e sangue per salvare l' Italia dal baratro, stanziava 120 mila euro per comprare un pianoforte a coda per dare dei concerti a palazzo.


Cosa se ne fa di un pianoforte, direte voi, una Provincia che come le altre sta per essere soppressa? Ecco il nodo: l' idea di chiudere, a molti, non passa neanche per la testa. Il bello è che la Provincia di Reggio è perfino meno sgangherata (si fa per dire.) delle sorelle calabresi. Lo dice l' ultima classifica dei buchi di bilancio pubblicata dal Sole 24 Ore. Che vede i reggini con un debito pro capite provinciale di 236,8 euro, cioè meno della metà di quello stratosferico dei crotonesi (493,7), dei vibonesi (564), dei catanzaresi (564,9) e dei cosentini, che svettano nella hit-parade (dove sono calabresi le prime quattro Province dalle mani bucate) con 591,1 euro di buco a testa. Con dei conti così disastrati, vi chiederete, nei mesi in cui imprenditori asfissiati dai debiti e operai disoccupati si impiccano, come può venire in mente a un amministratore pubblico di comprare un pianoforte a coda? La delibera merita di essere letta per il linguaggio surreale. L' acquisto, infatti, viene motivato dalla necessità di «avviare nel corso del 2012 una stagione concertistica che contribuisca (.) ad avvicinare i cittadini all' istituzione». Testuale. Apriti cielo! «Ma siete pazzi?», hanno chiesto i giornali locali mentre sul web giravano insulti irripetibili. Risposta di Edoardo Lamberti Castronuovo, che dopo essere stato il candidato al comune della sinistra è oggi l' assessore alla Cultura della destra: «Mi domando perché molti non si sono preoccupati degli sprechi del passato e oggi contestano l' acquisto di un bene che diventa patrimonio della gente». Insomma, affittare un pianoforte a Catania costava ogni volta duemila euro! Insurrezione del Conservatorio: «Ma se ne abbiamo due noi!» Sigillo finale: d' accordo, stop, ma l' acquisto è solo rinviato finché si abbassa il polverone. E pare davvero di sentirle, le note dell' ultimo valzer, mentre il Titanic delle Province si avvia verso l' iceberg nella incredulità generale: possibile che, alla fine, si faccia sul serio e si vada allo scioglimento? Un po' di navigazione ancora la vorrà ben concedere. Ed ecco che i presidenti delle Province di Como, Vicenza, La Spezia, Genova, Ancona e Belluno, che sarebbero decaduti il 6 maggio per fine mandato, resteranno ancora un poco al loro posto. Il ministro dell' Interno Anna Maria Cancellieri ha deciso di nominarli commissari di se stessi, in attesa che entro l' anno, come stabilito dal decreto «Salva Italia» si faccia la legge con la quale gli enti dovrebbero scomparire. Il solo presidente della Provincia di Genova, Alessandro Repetto, ha detto «Non ci sto». E si è dimesso. Ma sono in tanti a non volersi rassegnare. Non si rassegnano i nordisti che a maggio 2011, quando già la campana suonava a morto, per bocca del senatore leghista Sergio Divina proponevano una legge per istituire la Ladinia, terza Provincia autonoma nella Regione Trentino Alto Adige. Ma non si rassegnano neppure i meridionali. Giorni fa il disegno di legge regionale che prevedeva la soppressione delle Province siciliane è saltato. Tutto rimandato. In compenso, come racconta LiveSicilia, è comparsa una sorpresina maleodorante: invece di abolire le Province, si è abolita l' incompatibilità fra sindaco o assessore e dipendente di aziende sanitarie. Prosit. Il fatto è che le Province hanno potentissimi sostenitori in Parlamento. Dove sono seduti ben dieci presidenti. E ci resteranno fino alla fine della legislatura. Soltanto due mesi fa la giunta per le elezioni di Montecitorio ha stabilito che l' incarico di parlamentare non è incompatibile con quello di presidente di Provincia. E ciò nonostante la legge al riguardo sia esplicita: non si può. Ma tant' è. La deputata Maria Teresa Armosino resterà quindi presidente della Provincia di Asti, al pari di Luigi Cesaro che governa quella di Napoli, Edmondo Cirielli (Salerno), Domenico Zinzi (Caserta), Antonello Iannarilli (Frosinone), Daniele Molgora (Brescia), Antonio Pepe (Foggia) e Roberto Simonetti (Biella). Tutti di centrodestra. E l' unico «giano bifronte» del centrosinistra? Il senatore Daniele Bosone, presidente della Provincia di Pavia: appartiene al Pd, che alla Camera s'era opposto fermamente ai doppi incarichi. Allora se ne va? No, resta. Ma quanto costano le Province? Le stime, a seconda delle fonti, vanno dai 12 ai 18 miliardi di euro. E chi ne difende la sopravvivenza sostiene che abolendole si risparmierebbe pochissimo. Un miliardo al massimo, considerando che (escluso il licenziamento dei dipendenti) verrebbero meno «solo» 4 mila amministratori. Ma è così? O è solo fumo ostruzionistico per rallentare il processo? Il presidente della Provincia di Roma Nicola Zingaretti, l' unico che abbia pubblicamente sostenuto l' inutilità del suo ente, dice che solo ridisegnando la gara d' appalto per il riscaldamento di 300 scuole romane è riuscito a risparmiare 5 milioni l' anno. Una bella somma: niente, però, in rapporto al fiume di denaro che se ne va per iniziative quantomeno discutibili. Come i viaggi delle delegazioni provinciali campane (50 mila euro ciascuna) al Columbus Day. O lo strepitoso Valva Film Festival, organizzato a spese della Provincia a Salerno nell' agosto del 2009, dove fu assegnato a Noemi Letizia, la ninfetta napoletana alla cui festa cominciò il tormentone sul Cavaliere e le minorenni, il premio alla carriera «Per il talento che verrà». O ancora, a Bolzano, la spesuccia costata una condanna della Corte dei Conti (2.400 euro) a Luis Durnwalder. «Se andiamo avanti così non saranno più i politici a decidere quale iniziativa sostenere con un contributo», è sbottato furente. Difficile, però, non condividere le perplessità dei magistrati contabili davanti al finanziamento indagato: 62 mila euro a un torneo di beach volley. A Bolzano! Elemosine, in confronto a qualche iniziativa di Trento. Dove la Provincia, insieme con il comune di Riva del Garda, ha fatto rinascere con i soldi pubblici un lussuoso e storico albergo a 5 stelle, il Lido Palace. Investimento previsto: una trentina di milioni di euro. Prezzi delle stanze: da 730 a 1.959 euro a notte per la junior suite. Perché le Province, e non soltanto quelle autonome, muovono somme importanti. Talvolta con serie ripercussioni finanziarie, come ha documentato una recente relazione della Corte dei conti sulla Provincia di Torino, il cui indebitamento nel 2013 raggiungerebbe 667 milioni. Nell' occasione, i giudici hanno stigmatizzato l' esistenza di un groviglio di partecipazioni. La Provincia di Torino ne ha 165. Una giungla infernale e costosissima, dalla quale ora il presidente Antonio Saitta vorrebbe uscire accorpando tutto in una nuova società regionale. Dice che si potrebbero risparmiare 4 milioni l' anno. Buona fortuna. Quando la scorsa estate il consiglio provinciale doveva decidere la riduzione delle poltrone, magicamente mancò il numero legale. Eppure dovrebbero saperlo: le società pubbliche spesso sono anche fonte di guai. Ricordate la Sogas che gestisce l' aeroporto di Reggio Calabria, i cui azionisti sono con il 67% la Provincia reggina e col 27% quella di Messina? In vent' anni ha accumulato perdite per 35,4 milioni in euro. Una voragine. La cosa dovrebbe servire d' esempio. Invece la febbre degli aeroporti è sempre più alta. Ogni Provincia vuole il suo. Frosinone, Caserta, Sibari. L' Italia ha più del doppio degli scali della Francia, in rapporto alla superficie? Chissenefrega, le ambizioni delle Province non si placano. Al punto che Caserta, nonostante le resistenze, insiste sul bisogno d' uno scalo a Grazzanise, ad appena 33 chilometri da Napoli Capodichino. La società dell' aeroporto di Frosinone, invece, esiste già: ha un capitale di 5,9 milioni, di cui 2,8 della Provincia. E un consiglio di amministrazione pieno zeppo di politici...

31.8.11

L'evasiva lotta all'evasione

Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella

Fateci capire: esistono diritti acquisiti di serie A e diritti acquisiti di serie B? È una domanda doverosa davanti alla clamorosa e offensiva disparità che emerge dall'ultima puntata della manovra di aggiustamento finanziario. Un tormentone che vede apparire e sparire (e chissà quanto ciò tranquillizzerà i mercati...) norme che sbattono le ali e muoiono come certe farfalle che vivono poche ore, giusto il tempo di incantare i fanciulli.

Di là non si possono toccare gli evasori che pagando uno zuccherino avevano riportato i capitali (anche sporchi) in Italia o i vitalizi parlamentari perché in entrambi i casi «lo Stato tradirebbe la parola data». Di qua lo stesso Stato può rimangiarsi altri impegni. Come quello preso con larghe fasce di cittadini che anche recentemente (perfino su pressione di campagne governative!) avevano riscattato, spesso a caro prezzo, gli anni del servizio militare, della laurea o della specializzazione (fino a 12 anni, in certi settori della medicina) e che si ritrovano oggi con la pensione che s'allontana di colpo di anni e anni. Una scelta che, ammesso che non venga rinnegata domani come tante altre (è già in corso uno scaricabarile) è platealmente punitiva verso un elettorato considerato, a torto o a ragione, ostile.

E il famoso «contributo di solidarietà» evaporato per tutti tranne i dipendenti pubblici di fascia superiore? Varrà, stavolta, anche per i dirigenti di Palazzo Chigi che, umma umma, furono salvati dai tagli della Finanziaria 2010 perché la cosa aveva «sollevato dubbi di natura interpretativa»? E quanto durerà, stavolta, la grancassa sui «tagli epocali ai costi della politica»? La famosa abolizione dei Comuni sotto i 1.000 abitanti, sparata poche settimane fa come «la soppressione di 54.000 poltrone», si spense il giorno stesso della pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Risparmi previsti: zero! Zero carbonella.

È questo il problema. In un momento in cui si moltiplicano le perplessità per i miliardi che mancano ai «saldi invariati» (quattro, cinque, chissà...) e autorevoli istituzioni segnalano che le entrate statali viaggiano verso il 50% del Pil, con il record assoluto di pressione fiscale a dispetto degli slogan «meno tasse per tutti», il governo, la maggioranza, la classe dirigente, avrebbero un disperato bisogno di credibilità. Messa a rischio da troppe norme sfarfalleggianti e sconcertanti contraddizioni.

Prendiamo la lotta all'evasione fiscale. Per anni il Cavaliere, al di là dei condoni a raffica, ha ripetuto che evadere, per chi deve dare allo Stato più di un terzo di quanto guadagna è «un diritto naturale nel cuore degli uomini». Ha detto che «dare soldi alla Guardia di finanza non è considerato reato dall'88% degli italiani». Ha raccontato barzellette tipo: «Due banditi entrano in un ufficio e urlano: "Questa è una rapina". Un impiegato: "Ah, credevo fosse la Finanza"».

È dura, adesso, far la guerra agli evasori. Tanto più avendo al fianco quel Bossi che sfondò in politica incitando alla rivolta fiscale («Io non lo farei mai», lo bacchettò Silvius Magnago: «La mia patria è l'Austria, ma sono un cittadino italiano. E i cittadini le tasse devono pagarle»).

E solo due mesi fa impose l'altolà alla offensiva contro gli evasori tuonando a Pontida: «Già martedì voteremo un decreto che metta dei paletti all'azione di Equitalia. Ci sono agricoltori che si sono visti sequestrare trattori, balle, mucche. Così non possono lavorare...». Tesi rafforzata, mentre venivano rimosse le «ganasce fiscali» e allungati di altri 180 giorni in tempi per i contenziosi, dalle parole di altri leghisti. Come Matteo Salvini: «In certi casi Equitalia pratica lo strozzinaggio». Per non dire della minaccia di Calderoli di uno sciopero fiscale se non fossero stati trasferiti alcuni ministeri al Nord.

Si sono convertiti? Bene: anche San Paolo, prima di restare folgorato sulla via di Damasco, aveva altre idee. Saranno però chiamati a darne prova in modo convincente su certi punti scabrosi. L'Agenzia delle Entrate sta lavorando, ad esempio, a una stretta sulle società di comodo. Quelle, per intenderci, cui sono intestate barche e ville (compresi lo yacht di Flavio Briatore o la Certosa di Porto Rotondo) per fare marameo al Fisco. Passerà, quella stretta? E come?

Non si tratta di convincere solo i cittadini. La stessa Corte dei Conti due anni fa, davanti all'ennesimo ipotetico pacco di miliardi da ricavare dalla guerra agli evasori e messo alla voce «entrate», usò parole dure: «Sussiste il problema dell'incertezza sugli effetti di gettito ascrivibili alla lotta all'evasione a causa dell'assenza di affidabili meccanismi e metodologie di verifica a posteriori che consentano di distinguere con certezza l'effettivo recupero di evasione agli effetti imputabili al ciclo economico o a fattori normativi o, anche, a meri errori di stima». Parole al vento. Ma pesanti come pietre. Tanto più alla luce di una manovra composta, come quella attuale, per oltre il 60% da aumenti delle entrate e per meno del 40 da tagli alle spese. Auguri.

Quanto ai «costi della politica», viene un sospetto: che per lasciare che tutto rimanga com'è, stiano «promettendo» che tutto cambierà. Vale per il dimezzamento dei parlamentari, vale per l'abolizione delle Province. Affidati a un mitico disegno di legge costituzionale destinato a fare 4 passaggi parlamentari in un anno e mezzo. Il tutto dopo anni di ringhiose barricate leghiste. Dopo che ai primi di luglio la stessa maggioranza aveva seppellito alla Camera sotto una valanga di no l'identica legge proposta dall'Italia dei Valori. Dopo che solo alla vigilia di Ferragosto, davanti ai crolli in Borsa, la prima versione della manovra aveva deciso di abolirne 37 poi scese a 29 e infine a 22. Anche qui, auguri.

Non possono pretendere però che i cittadini ci credano così, al buio. Non dopo avere scoperto che quel famoso progetto di riforma storica e immediata sventolato da Roberto Calderoli non è mai (mai) stato depositato. Non dopo aver letto sul «Giornale» tre anni fa un titolo a 9 colonne: «Via alla manovra: abolite nove Province». Non dopo avere trovato su «La Padania» di due settimane fa, a proposito di «svolte epocali» già oggi evaporate, il titolone «La Casta colpita al cuore». Questa volta gli annunci non bastano più. Non solo ai mercati: ai cittadini.

4.2.11

Lazio batte Germania 23 a 1

Sergio Rizzo

I conti del Consiglio regionale: oltre alla sede un’«ambasciata» a Roma. Un milione 824mila gli stanziamenti per le spese di rappresentanza

«A costo zero!» aveva giurato Bruno Astorre. Ma come, la gente era costretta a tirare la cinghia, i cassintegrati stavano diventando un esercito, la disoccupazione giovanile galoppava e il nuovo Consiglio regionale del Lazio appena insediato si permetteva il lusso di spendere quattrini per fare un'inutile rivista di carta? Al tempo di Internet? Il vicepresidente Astorre si era sentito in dovere di mettere le mani avanti: «A costo zero!». Spese di stampa e distribuzione a parte, s'intende. Poi a qualcuno dev'essere venuto un dubbio.

«A costo zero» significa che il direttore resta senza busta paga? Non sia mai detto... Ecco perciò che il 2 dicembre scorso l'ufficio di presidenza del Consiglio, composto dal presidente Mario Abbruzzese (Pdl) e dai due vice Astorre (Pd) e Raffaele D'Ambrosio (Udc), ha fissato il compenso: 30 mila euro l'anno. Lo ha fatto con il voto contrario del consigliere dipietrista Claudio Bucci. E scatenando le reazioni del Verde Angelo Bonelli, autore di una infuocata interrogazione. Anche perché il direttore altri non è che il capo ufficio stampa del Consiglio Regionale Nicola Gargano, pubblicista, in pensione da qualche mese. Pensionato, e subito nominato direttore. Una pensione dignitosa, a giudicare dalle dimensioni del suo stipendio: 204.470 euro e 77 centesimi. Una retribuzione superiore di quasi il 30% a quella che sarebbe toccata al governatore della California, se Arnold Schwarzenegger non vi avesse rinunciato con una motivazione di decenza: «Sono già abbastanza ricco».

Immaginiamo cosa risponderanno a Bonelli. Magari useranno le stesse parole con cui Astorre aveva replicato a Francesco Di Frischia del Corriere nel bel mezzo delle polemiche: «Non sono certo questi gli sprechi che avvengono in Regione». Come dargli torto? Basta dare un'occhiata ai conti. Le spese per il Consiglio regionale, che già nel 2009 erano salite a 91 milioni, un anno dopo sono schizzate a 102 milioni. Un aumento di 11 milioni: il 12%. Alla faccia della crisi. E le previsioni per il 2011, sempre destinate in corso d'anno a decollare, parlano già di 103 milioni.

Perché allora cercare il pelo nell'uovo? Con 30 mila euro si paga appena un mese d'affitto del megaufficio «di rappresentanza» di 600 metri quadrati in via Poli, a due passi da Palazzo Chigi. A Roma. Per un Consiglio regionale che ha sede a Roma? Proprio. Volete mettere la comodità di dare gli appuntamenti in centro anziché costringere gli ospiti di riguardo a sobbarcarsi il viaggio fino agli uffici di via della Pisana? Questo scherzetto è costato ai contribuenti 320 mila euro l'anno per 9 anni, fino a quando l'attuale amministrazione non ha deciso di disdettare il contratto, in scadenza il prossimo giugno. Totale: 2 milioni 880 mila euro. Il regalino risale al 2002, quando governava la precedente amministrazione di centrodestra, e presidente della Regione era Francesco Storace. Beneficiaria, la società Milano 90 dell'immobiliarista Sergio Scarpellini che affitta alla Camera e al Senato con il sistema del global service, cioè tutto incluso, gli stabili dove sono gli studi dei parlamentari. Con accordi tali che alla fine dei fatidici 18 anni del periodo contrattuale la sola amministrazione di Montecitorio avrà sborsato 652 milioni. Una cifra al cui confronto quella pagata dal Consiglio regionale del Lazio non è che una briciola.

Magrissima consolazione. Prendiamo per esempio il consuntivo 2009, approvato qualche settimana fa. Le spese per le consulenze e gli onorari sono lievitate del 74% rispetto alle previsioni, da 6 a 10,4 milioni. Quelle per gli stipendi e le indennità dei consiglieri del 5,5%, da 19 a oltre 20 milioni. Gli stanziamenti per le spese di rappresentanza del presidente del Consiglio regionale sono passati da una cifra già astronomica di un milione e mezzo di euro a quella, siderale, di un milione 841 mila: 23 volte quello che tre anni prima aveva a disposizione il presidente della Repubblica tedesca Horst Kohler. Per non parlare del costo di «funzionamento» dei gruppi consiliari: più 12%, da 4 a 4,5 milioni. Siccome non è fissato un numero minimo di consiglieri per formare un gruppo, ognuno è libero di fare il proprio, autoproclamandosi capogruppo. Il che dà diritto a 7 assistenti, oltre all'auto di servizio, al telefonino e pure a un consistente aumento di stipendio: 891 euro e 50 centesimi netti al mese.

Come sa bene Francesco Pasquali, che ha appena costituito in solitudine il gruppo di Futuro e libertà staccandosi da quello del Pdl. Di cui fa parte la sua compagna Veronica Cappellaro, giovane ex consorte del nipote del fondatore del Msi, Giorgio Almirante, sponsorizzata direttamente da Silvio Berlusconi. Caso non unico né raro, quello di un gruppo composto da un solo consigliere. Al Consiglio regionale del Lazio ce ne sono addirittura 7, compresi naturalmente quei 4 spuntati dal niente nei soli dieci mesi trascorsi dalle elezioni di fine marzo 2010. Oltre a Pasquali si sono messi in proprio Mario Mei (Api), Rocco Pascucci (Mpa) e Antonio Paris. Solitario appartenente, quest'ultimo, a un gruppo comicamente battezzato «Misto».

17.3.09

In Italia l'assegno d'oro scompare dal sito

Società pubblicheIn attesa delle regole sul tetto agli stipendi, I casi Fincantieri e Anas

Il tetto agli stipendi nessuno lo vuole
Ma nessuno ha il coraggio di dirlo apertamente


Il Carroccio ha rovesciato sul decreto per gli incentivi alle imprese una valanga di 115 emendamenti. In mezzo, il più peloso di tutti: il tetto agli stipendi dei manager pubblici. Se passerà, nessuno di loro potrà guadagnare più di quanto guadagna un parlamentare. Anche ai banchieri i leghisti vorrebbero imporre provocatoriamente il limite di 350 mila euro l'anno.

C'è solo un dettaglio. Il tetto c'era già, ma uno dei primi atti del governo di cui la Lega Nord è un pilastro decisivo, è stato metterlo in frigorifero. Ricordate la storia? I senatori della sinistra Massimo Villone e Cesare Salvi presentarono un emendamento all'ultima finanziaria di Romano Prodi che imponeva agli stipendi di tutti i dipendenti pubblici, manager aziendali compresi, un limite massimo pari alla retribuzione del primo presidente della Corte di Cassazione. In cifre, 289 mila euro. L'emendamento provocò feroci mal di pancia. Praticamente tutti i manager pubblici e l'intera prima linea della burocrazia statale e dei principali enti locali erano ampiamente sopra quel tetto. Ma Villone e Salvi riuscirono comunque a far ingoiare il pillolone ai loro riluttanti colleghi della maggioranza. E l'emendamento è passato.

Con il decreto legge di giugno il governo Berlusconi ha deciso di congelare il tetto, per la soddisfazione di molti. Ma soltanto per tre mesi. Giusto il tempo per fare un Dpr con cui il ministro della Funzione pubblica Renato Brunetta di concerto con il suo collega dell'Economia Giulio Tremonti avrebbero dovuto stabilire a chi e in che modo applicare il limite. Ma al 31 ottobre 2008, data fissata per la sua emanazione, di quel provvedimento nemmeno l'ombra. L'offensiva contro i fannulloni aveva assorbito le energie della Funzione pubblica, che prometteva comunque di risolvere il problema entro fine anno. I mesi però sono passati invano e si è arrivati a metà marzo, per avere notizia che solo nelle scorse settimane è stato costituito un gruppo di lavoro misto fra gli esperti di Brunetta e quelli di Tremonti per venire a capo della questione.

Una faccenda che però a quanto pare è piuttosto complicata per le spinte e le controspinte: che cosa si può cumulare, quali redditi si possono escludere dal calcolo, chi deve controllare. Fatto sta che non si sa quando il regolamento sarà emanato.

Inutile girarci intorno. Il tetto agli stipendi nessuno lo vuole, come dimostrano anche i tentativi di aggirare anche in sede locale le disposizioni tese a calmierare le indennità degli amministratori delle municipalizzate. Ma nessuno ha il coraggio di dirlo apertamente. Soprattutto, come si può pretendere di far decidere le dimensioni della tagliola a chi ne dovrà essere vittima? Senza considerare un clamoroso effetto collaterale. Diverse imprese pubbliche hanno interpretato il congelamento del tetto come l'autorizzazione a congelare anche la trasparenza. Da alcuni siti internet aziendali sono spariti gli elenchi dei consulenti e i relativi compensi. Un paio di casi per tutti, quelli della Fincantieri e dell'Anas. Questa la spiegazione fornita dalla società delle strade: «Per la pubblicazione di tali dati l'Anas è in attesa dell'apposito decreto, così come stabilito dalla legge 129/08 del 2 agosto 2008 che converte in legge il decreto legge 97 del 3 giugno 2008. Al momento l'Anas, come tutte le altre società pubbliche, è tenuta a pubblicare sul sito internet solo gli incarichi, non rientranti nei contratti d'opera, superiori a 289.984 euro». Quanti? Uno: quello del presidente Pietro Ciucci. 750 mila euro l'anno, compresa la parte variabile dello stipendio.

Sergio Rizzo

corriere.it