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24.2.18

L’antifascismo non è un’arma di propaganda

 Marco Revelli (il Manifesto)
L’Italia antifascista va in piazza oggi in un clima pesante. «Clima di violenza», recitano i media mainstream, falsando ancora una volta lo scenario, come se si trattasse di violenza simmetrica. Di opposte minoranze estremiste, ugualmente intolleranti, quando invece la violenza a cui si è assistito non solo in queste ultime settimane, ma negli ultimi mesi e negli ultimi anni è una violenza totalmente asimmetrica, distribuita lungo un rosario di intimidazioni, intrusioni, aggressioni sempre dalla stessa parte, per opera degli stessi gruppi, con le stesse divise, gli stessi rituali, gli stessi simboli e tatuaggi: Casa Pound e Forza nuova con i rispettivi indotti. E sempre col medesimo disegno politico: occupare parti di territorio fino a ieri off limits per l’estrema destra.
Periferie metropolitane e piccoli centri, aree in cui la marginalizzazione e il declassamento sociale hanno creato disagio e rabbia, con lo scopo “strategico” di diventare referenti politici di quel disagio e di quella rabbia.
Vicofaro, il 27 di agosto dello scorso anno. Roma, Tiburtino III, il 6 di settembre. Como, il 28 novembre. Sono solo le tappe principali di un percorso che culmina nell’atto estremo di terrorismo razzista a Macerata, il 3 febbraio. Dall’altra parte un solo episodio, quello di Palermo, che per odioso che possa essere considerato – ed è atto odioso il pestaggio di una persona legata, incompatibile con i valori dell’antifascismo quale che ne sia l’idea dei suoi autori -, non può certo mutare il profilo di un quadro politico estremamente preoccupante.
Per fortuna, c’è stato il 10 febbraio a Macerata: quei 30.000 che hanno capito da subito qual’era “la cosa giusta”.
E per fortuna c’è la mobilitazione di oggi, la piazza romana e le tante piazze italiane. Proprio perché pensiamo che minimizzare la minaccia di questa destra orribile e spudorata sia un atto suicida per una democrazia già lesionata. E restiamo convinti che dichiarare il fascismo “morto e sepolto”, come ha fatto il ministro di polizia Marco Minniti, o invitare a sdrammatizzare e abbassare i toni per non turbare una campagna elettorale in salita, sia prova di cinismo e irresponsabilità. Proprio perché sappiamo che dall’onda nera che attraversa l’Europa non è immune l’Italia, anzi! Proprio per questi motivi crediamo che ogni persona in più oggi in piazza sia una vittoria.
Non si tratta qui di rivendicare primogeniture, o giocare al frusto gioco del rinfacciamento. L’antifascismo non è un’arma leggera da portarsi nella battaglia elettorale per contendere qualche decimo di punto. Si tratta di saper vedere il pericolo che incombe. E quel pericolo è grande, inquietante, per certi versi inedito. Non stiamo oggi vivendo una riedizione in sedicesimo dei conflitti degli anni Settanta, quando le bande nere colpivano duro, al servizio di padroni più o meno occulti, di servizi deviati e di agenzie internazionali, ma non avevano un seguito di massa. Il neofascismo di oggi – ma forse sarebbe meglio chiamarlo neonazismo – intuisce (per ora), annusa e avverte un’opportunità nuova di un inedito radicamento “popolare”, per così dire. Di poter attingere a nuovi serbatoi dell’ira.
Dopo il 4 marzo non ci aspetta una tiepida primavera, piuttosto un gelido inverno fuori stagione. L’Europa ha già battuto il suo colpo. Nessuna franchigia prolungata. Un establishment europeo in via di dissoluzione e un’Unione dissestata nei suoi equilibri si preparano a riservare, a un’Italia attardata da un debito insostenibile, un trattamento forse non troppo diverso da quello imposto – nel silenzio di tutti – alla Grecia quasi tre anni or sono. Con una differenza sostanziale: che al governo là c’era saldamente una forza esplicitamente di sinistra come Syriza, che ha salvato il salvabile negli strati più fragili della popolazione, e ha costruito una solida barriera contro la sfida di Alba dorata (che è arretrata da allora).
Qui no, ci sarà o un governo debolissimo, o una destra tanto arrogante quanto divisa: le condizioni per una ulteriore depressione sociale di grandi dimensioni, che amplierà l’esercito della rabbia, del rancore e del risentimento. Alle promesse smodate della campagna elettorale non potrà che seguire la doccia fredda di un’ulteriore deprivazione, col seguito di senso di abbandono, tradimento, solitudine, spirito di vendetta da parte di chi avverte di essere sul versante sbagliato del piano inclinato. L’acqua ideale in cui si preparano a nuotare gli squali che del rancore e della frustrazione si alimentano.
Per questo è da considerare prova d’irresponsabilità grave la decisione del ministero dell’Interno di ammettere alle elezioni le formazioni esplicitamente ispirate al fascismo, contrariamente a quanto era accaduto, correttamente, per le regionali in Sicilia. E assume sempre più rilevanza politica programmatica la richiesta di una rapida, legittima, messa al bando di organizzazioni come Forza Nuova e Casa Pound , con la loro sola presenza, un fattore di disordine e di violenza.

13.4.12

Raffaele Simone: "La izquierda de hoy teme hasta presentarse como izquierda"

Pedro Vallín - La Vanguardia

El lingüista y especialista en filosofía del lenguaje y la cultura, sacudió las conciencia de su país con "El monstruo amable", en el que, a partir de la desaparición de la izquierda tradicional italiana, ensaya las causas del giro del mundo a la derecha.

Lingüista y especialista en filosofía del lenguaje y la cultura, Raffaele Simone ha conseguido sacudir las conciencia de su país con El monstruo amable (Taurus), provocadoramente subtitulado ¿El mundo se vuelve de derechas? en el que, a partir de la desaparición de la izquierda tradicional italiana, subsumida en la democracia cristiana, ensaya las causas del giro del mundo a la derecha y del capitalismo convertido en un marco de confortabilidad que todo lo envuelve —y por tanto es en buena medida invisible— al que llama monstruo amable. Habla un gran castellano, al que traslada una notable capacidad para el trazo fino, extraña cuando no se maneja la lengua materna.

-Una de las conclusiones que recoge en su libro alude a la “naturalidad” del pensamiento de derechas, frente a la condición “artificial” del pensamiento de izquierdas en la medida en que camina contra la tendencia natural al egoísmo.
-Exacto sí, eso es.

-Los científicos evolucionistas, sin embargo, han indicado que la generosidad, la filantropía y la moral son naturales, una ventaja evolutiva en la medida en que el hombre es un ser social. En el mundo primitivo, las sociedades con reglas se imponen a las demás porque permiten crecer en población y el surgimiento de los oficios, etcétera.
-En mi opinión dice exactamente lo mismo que yo postulo. Porque la idea que describo en el libro, con un poco de dramatización, digamos (no es una teoría sino una alegoría un poco dramatizada), es la misma idea de 2001 Odisea en el espacio de Kubrick: al comienzo teórico, al que nadie pudo asistir, los humanos primitivos solían masacrarse. En un momento dado, para evitar la masacre, es decir, como efecto del miedo generalizado, se crearon gradualmente reglas. Y aplicando esta metáfora a la relación entre izquierdas y derechas, creo yo, que estar a la izquierda es menos “natural” que estar a la derecha porque la persona de derechas dice: “Esto es mío y nadie debe tocarlo. Lo que quiero hacer nadie puede contradecirlo”. Son argumentos de tipo “primitivo”, entre comillas por favor, argumentos sin elaborar de ninguna forma. En cambio la izquierda dice: “Tú tienes que renunciar a una parte de lo tuyo porque hay gente que tendrá más necesidad que tú”. O bien: “El interés publico (que es un concepto muy sofisticado) prevalece sobre el interés privado. Lo que tú decides hacer debe ser mediado por una preocupación por el interés de los demás”. Es una actitud para la que yo empleo la imagen del muelle tenso, porque la tendencia natural es al egoísmo, y repartir lo que uno posee entre personas que uno ni conoce es antinatural, en este sentido, encuentra la resistencia del muelle.

-Esto enlaza con el eterno debate, muy intenso en colectivos feministas y entre educadores, entre lo natural y lo cultural. Natural sería ser de derechas y cultural, ser de izquierdas.
-Sí, esa es la oposición, apoyada en este momento por los estudios que usted mencionaba de los etólogos, los estudiosos del comportamiento de los monos superiores, etcétera. Sabemos de lo humano muchísimo más de lo que sabía Rousseau, que en su momento simpatizaba con las posiciones de la Iglesia, que suponen que el hombre es originariamente bueno y que se va haciendo peor con el paso del tiempo. Yo creo instintivamente lo contrario. Y en este caso, es una imagen para explicar el hecho de que es mucho más frecuente y más fácil el paso de izquierda a derecha a nivel individual que el contrario.

-Y además es simétrico.
-¿En qué sentido?

-Cuando uno viene de posiciones extremas de izquierda acaba en posiciones extremas de derechas, y si uno es moderado, termina en posiciones moderadas. Del stalinismo al fascismo, y de la socialdemocracia a la democracia cristiana, por así decir.
-Sí, sí. En Italia tenemos numerosos casos. Es exactamente así. En Italia el partido socialista, casi entero se ha trasladado sin inmutarse a las filas de Berlusconi. Y la gente que es realmente socialista sigue preguntándose cómo han podido. En mi interpretación, es el muelle que, en un momento dado, cansados de la tensión, se deciden a aflojarlo.

-¿Rendirse?
-Exacto.

-Usted cita, y su prologuista también, la escena de Abril (1998), de Nanni Moretti, en la que él mismo se queda ante el televisor gritándole a Mássimo D’Alema: “¡D’Alema, di algo de izquierdas!”. Moretti ya había propuesto una carnavalesca sátira sobre la descomposición del comunismo italiano, Palombella rossa (1993), transmutada en un partido de waterpolo, con un texto explícito sobre la crisis de la izquierda.
-En Moretti hay muchos elementos de este tipo. Además Moretti él activó hace unos años una manifestación de protesta fuerte contra la gestión actual de la izquierda que desembocó en manifestaciones importantes, el movimiento de los Girotondi. Ël fue uno de los iniciadores. En un momento dado se desinfló el movimiento porque era demasiado informal y quizá le faltaban liderazgos, pero fue un movimiento importante que duró varios años.

-¿Es usted muy pesimista?
-No, no. Yo tengo esperanza.

-Cuesta verlo en el libro.
-Creo que es mejor analizar los datos de forma penetrante antes de organizar una respuesta.

-¿No cree que esa pérdida de los principios o de las ideas poderosas de la izquierda que usted denuncia se ha producido de forma gemela en la derecha, que el tradicionalismo o las expresiones más reaccionarias en lo moral han retrocedido?
-Por eso hablo de neoderecha, es una derecha diferente de la anterior. No son fascistas, sólo tienen intereses de tipo material.

-Usted hace una enumeración de las metas no alcanzadas por la izquierda en Europa en los últimos 150 años. Dice que “no se ha producido una elevación estable de instrucción y de cultura”… Las estadísticas de progreso humano de Naciones Unidas dicen otra cosa, que los índices de alfabetización no han dejado de subir.
-No hemos alcanzado la meta.

-Pero usted sostiene que no hay progresos. Luego añade que “no se ha producido una revalorización de la actividad intelectual y creativa”. No le puedo dar datos, pero da la impresión de que es al revés, que nunca el trabajo creativo estuvo mejor remunerado que en el presente.
-Pero no estoy hablando de la modernidad y del resultado en lo moderno de la tradición anterior de la izquierda.

-También dice que no se ha logrado “la difusión generalizada de una mentalidad mínimamente racional y laica”. Esto ha sufrido altibajos.
-Varios momentos, sí. El actual es un momento difícil en España, Italia y Francia. Ustedes tienen un futuro de contrarreformas durísimo.

-Pero sigo: “Ni la creación de una conciencia cívica solidaria y de un espíritu de paz colectivo”. Hay ejemplos de progreso moral muy llamativos: en 2003 por primera vez se produjo una movilización social global y masiva contra una guerra que no había empezado y que iba a suceder a miles de kilómetros. No hay precedente.
-Lo que quería decir aquí yo es que no son todos resultados de tipo socialista. Son resultados de una conciencia nueva, posmoderna, más o menos, en la que la cultura juvenil tiene un papel fundamental no necesariamente de tipo socialista. Es decir, las grandes ilusiones del socialismo pueden haber sido parcialmente realizadas, pero no totalmente. Por ejemplo, la igualdad es un asunto en gravísima crisis y es uno de los rasgos principales de la izquierda. La desigual triunfa en prácticamente todo el mundo y era uno de los rasgos objetivos de la modernidad. Hay otra lista en el libro, las citas históricas, los grandes momentos a los que no acude la izquierda…

-¿Pero esto que usted denuncia de la izquierda no le ocurre también a la derecha? ¿Es decir, la desideologización?
-Pero a la derecha no le interesa de la misma manera, porque ser de derechas supone que los fenómenos, los procesos, se dejen marchar por sí solos.

-¿La neoderecha es entonces apolítica?
-Digamos que no tiene interés en modificar los procesos y en este sentido, argumento en mi libro, la izquierda ha acabado por adoptar las mismas aptitudes que la derecha, porque ha abrazado lo que yo llamo “la infinita tolerancia hacia lo social” que quiere decir que no importa lo que va a ocurrir sino que lo que importa es que pueda fluir tranquilamente. El asunto de la inmigración clandestina es central en este sentido. Ningún país de Europa ha elaborado una postura o un proyecto de gobernar este fenómeno que es inmenso y que va a modificar la faz del mundo en pocos años. Otro tema que a mí me parece muy relevante, otra cita a la que faltó la izquierda, es la revolución digital, que se ha considerado como una innovación tecnológica pura y simple, mientras que en realidad es un cambio de mentalidad.

-Uno de los motores tradicionales de la izquierdas es la idea de progreso, aunque en origen no sea marxista sino propia de la Ilustración.
-Sí, la idea de que la humanidad está en marcha, que camina de forma ascendente.

-¿La izquierda ha abdicado de ella?
-¿Por qué lo dice?

-Porque los mensajes que lanza son, aunque sean legítimos, conservadores: conservemos el medio ambiente, los derechos sociales, el estado de bienestar… es decir, una actitud a la defensiva, como si la izquierda, que era la soberana del futuro, por así decir, ahora tuviera miedo del futuro.
-Exactamente. La izquierda incluso tiene miedo de presentarse como izquierda. Estoy de acuerdo con usted, el lugar del progreso lo ha ocupado el crecimiento, el mito actual es el crecimiento, que yo creo que es otro mito peligrosísimo de la neoderecha. Yo soy bastante partidario del decrecimiento, si no a la Latouche, de otra manera más afable, pero mi idea es que el crecimiento es un gravísimo error. Es un trozo más de mundo que se destruye.

-Tampoco se dice mucho que la evolución demográfica es preocupante.
-Sí, es un problema, por supuesto. En Italia se habla un poco. Es un tema importantísimo porque el mundo está dimensionado para un determinado número de habitantes, que no se puede pasar. Pero, claro aquí de nuevo topamos con el mito de crecimiento. ¿Por qué el futuro ha de ser necesariamente de crecimiento y no de estabilización o redistribución. Por concluir, le diré que la izquierda ha asumido unos mitos de la derecha, liberales o neoliberales sin darse cuenta de lo que estaba haciendo.

-Usted habla mucho sobre la alianza pérfida entre socialdemocracia italiana y la democracia cristiana. Comparten un sustrato filosófico no menor: La pretensión de igualdad, la solidaridad, la compasión. A lo mejor no es una alianza tan contra natura.
-No, no lo es en absoluto. Tienen dos elementos en común, además del espíritu de Iglesia que se le ha atribuido a la izquierda durante años. Es el elemento de estatalismo fundamental, es decir, el Estado ocupa el centro de la vida de la sociedad, y además, al menos en Italia, pero creo que Europa la cosa va más o menos de la misma manera, el espíritu de asistencialismo, que el estado siempre tenga la obligación de asistir a los que tengas necesidades graves. Estos dos elementos aúnan las dos partes, en ese sentido no es una alianza contra natura. Lo que sí es contra natura es que el carácter químicamente infeliz de esta fusión se revela en los temas candentes, como por ejemplo los temas bioéticos. Pero lo que a mí me impresiona más es que el término mismo de socialismo en Italia ha desparecido por completo. Su amigo Walter Veltroni [líder hoy dimitido de la coalición Partido Democrático, que perdió en 2008 contra Berlusconi y ex secretario general de Demócratas de Izquierda. Fue alcalde de Roma y comenzó su carrera política en las filas del Partido Comunista Italiano] declaró a alguien que lo acusaba de insertar un espíritu socialista dentro del programa del Partido Democrático recién nacido: “No, por favor, no hay nada socialista”, como si fuera una acusación, una insinuación ofensiva. Y esta a mí me parece una traición grave, una traición histórica, porque hay gente que se declara socialista, que sigue creyendo en los principios del socialismo, como yo, que sigue teniendo ilusiones de este tipo, y no creo ser el único.

-Una característica también que acerca socialismo y democracia cristiana es la visión paternalista de la sociedad, tal vez hasta condescendiente.
-Creo que sí, porque pese a su preocupación digamos democrática, siguen teniendo fortísimas jerarquías, una esfera prácticamente intocable, los unos y los otros, en Italia pero también en otros países, hay una polémica durísima con los costes de la casta. Este espíritu de casta existe, en la izquierda como en los otros ámbitos. El espíritu democrático no es tan penetrante para eliminar este espíritu de casta.

-Entre las formas aberrantes de la política actual, tanto por la derecha como por la izquierda, es el populismo. Parece que la democracia digital apunta hacia ahí.
-Es por la mediatización del mundo. Es algo que ocurre en todo el mundo, porque los medios permiten a cualquier persona llegar hasta el individuo singular e inducirle a pensar que el poderoso es como ella. Y que tiene las mismas necesidades, gustos, costumbres, mismo lenguaje…

-El movimiento del 15-M, que seguramente es más un síntoma que un fenómeno…
-Sí, es más un indicio que un resultado.

-..es un indicador de que existe una izquierda, pero también de desafección respecto a los partidos de izquierdas.
-Son fenómenos de ebullición, pero la ebullición en política es cosa distinta de las propuestas y la elaboración de programas. En el momento en que nos ponemos a elaborar ideas y programas y proyectos, tenemos que crear una estructura, que es lo contrario del espíritu que se manifiesta en el fenómeno de los indignados. Además los indignados incorporan una idea que históricamente se ha demostrado, no falsa, sino imposible, que es la democracia directa.

-¿Indeseable?
-Para mí indeseable, peligrosísima. Pero siempre presente como ilusión, como esperanza en un momento determinado de la vida. Por eso los partidos de izquierdas no lo rentabilizan. En todo caso, me parece que los políticos deberían reflexionar con detenimiento, detalladamente sobre este fenómeno porque suponen la expresión de una inquietud, un punto de hartazgo frente al que no nos habíamos encontrado nunca antes.

-Se les reprocha no tener un discurso articulado, pero en todo caso es mucho más articulado que el de mayo del 68, que a pesar de tener lemas tan poco sofisticados como “debajo de los adoquines está la playa”, a la larga influyó en todo el pensamiento de izquierdas de las siguientes tres décadas.
-Es verdad, pero, si lo recuerda, pusieron contra las cuerdas al estado francés. En Francia hubo verdadero miedo a un golpe de estado. Además, había un sentimiento de joie de vivre que en los indignados no hay. Aquí aparece la mediatización y la cultura digital. Hay varios elementos muy distintos. En el momento en que un movimiento se concreta bajo la forma de propuesta ya se ha convertido en partido. La diferencia fundamental es la permanencia. En la medida que dure el movimiento, tendrá sus jefes y responsables. En el momento en que los cree y se dé cuenta de que unos jefes son necesarios para existir, se habrá convertido en partido. El movimiento como pura ebullición sólo es un síntoma de inquietud, nada más.

-¿Y cree que revela que hay una mayoría social de izquierdas no articulada?
-No sé si de izquierdas, pero sí expresión de hartazgo. No sé si sólo de izquierdas, porque hay una gran base proletaria en los movimientos de derecha históricos. El fascismo surgió aupado por las clases más desfavorecidas.

1.10.08

IL VENTENNIO DI BERLUSCONI

Alberto Asor Rosa

Nel corso dell'estate, sottovalutando il rischio che il solleone avesse ulteriormente infrollito il già scarso acume dei commentatori politici e giornalistici italiani, ho pubblicato su questo giornale (6 agosto) un articolo («Più del fascismo»), in cui mi sforzavo di collocare Berlusconi e il berlusconismo nel solco della storia italiana contemporanea. Apriti cielo: quali analogie ci possono essere mai tra Berlusconi e Mussolini, tra berlusconismo e fascismo? Ovviamente nessuna: non sono mica scemo. Io non ho inteso - e non ho scritto - che Berlusconi è come Mussolini né che il berlusconismo è come il fascismo: io ho inteso, e scritto che - nella specificità e peculiarità delle rispettive identità - sono peggio . Di questo inviterei a discutere, non delle fittizie (e talvolta tendenziose letture) che di quel testo sono state date. Per favorire tale (peraltro improbabile) obiettivo aggiungerei qualche argomento al già detto. Richiamo l'attenzione (se c'è ancora qualcuno disposto a prestarmene) sull'«incipit» di quell'articolo: «Il terzo governo Berlusconi rappresenta il punto più basso nella storia d'Italia dall'Unità in poi». Di questa frase è soggetto implicito l' Italia : certo, soggetto in sé astratto, difficile da definire, come tutti quelli che se ne sono occupati sanno, connotato tuttavia, nonostante tutto, da una storia e da alcuni dati identitari comuni di lunga durata; ancora più astratto, forse, ma ancor più ancorato a una storia e ad alcuni dati identitari comuni, se consideriamo l'Italia sotto specie di Nazione («dall'Unità in poi...», appunto), ossia di quel conglomerato di fattori politico-ideal-istituzionali, di cui ci apprestiamo a celebrare (2011) il 150˚ anniversario, proprio nel momento in cui - questo è ciò che sostengo - quel conglomerato sembra in fase di dissoluzione. Ebbene, per valutare a che punto è arrivato tale processo, e anche per operarne alcuni confronti sul piano storico (storico, ripeto, non etico-politico), bisognerà individuare alcuni indicatori, che ci facciano capir meglio di cosa stiamo parlando. Parliamo una volta tanto, se siamo d'accordo su questo punto di partenza, dell'Italia, più esattamente dell'Italia come nazione (altri punti di vista ovviamente sono legittimi e possibili; quello di «classe» ovviamente non ci è estraneo, ma noi questa volta, per l'eccezionalità della situazione in cui ci troviamo, riteniamo preferibile questo). Poiché si parla dell'Italia, e dell'Italia come nazione, pare a me che gli indicatori fondamentali non possano che essere questi tre: l' unità (e il senso dell'unità), il rapporto del cittadino con l e istituzioni (e cioè, anche, il senso della distinzione tra pubblico e privato) e il rapporto del presente con la tradizione italiana (e cioè il senso dell'identità e dell'appartenenza nazionali). Da tutti e tre questi punti di vista il berlusconismo è peggio del fascismo, o per lo meno si sforza tenacemente di esserlo. Dal punto di vista dell' unità la fondatezza di tale affermazione è lampante. Nel governo Berlusconi siede come ministro delle riforme (!) un signore il quale si batte fieramente (ed esplicitamente) per la disarticolazione e frammentazione dell'unità politicoeconomico-istituzionale e identitaria del paese. Si tratta di un processo, evidentemente: ma che diffonde una cultura politica e un senso comune avversi a tutte le definizioni topiche dell'essere «italiano» . Il berlusconismo ingloba questa fenomenologia e la fa propria; se non altro perché al presidente del consiglio unità o non unità nazionali sono del tutto indifferenti, purché la macchina del potere resti tutta in ogni caso nelle sue mani. Secondo indicatore: il rapporto del cittadino con le istituzioni non è mai - ripeto, mai - stato così mortificato dal punto di vista della prevalenza degli interessi privati su quelli pubblici. Ovviamente una dittatura tutela comunque i suoi esponenti dalle eventuali contestazioni pubbliche. Ma nessuna dittatura europea del Novecento (e dunque neanche il fascismo) ha fatto dell'interesse privato del leader (e dei suoi accoliti) il fulcro intorno a cui far ruotare l'elaborazione e la promulgazione delle leggi e persino l'esercizio della giustizia. Lo «Stato etico» rappresenta senza ombra di dubbio una torsione intollerabile nella lunga e tormentata storia dello «Stato di diritto» moderno. Ma il livello di corruzione (inteso il termine anche questa volta in senso puramente fatturale: come un aspetto, una forma, una modalità della macchina del potere) raggiunto dal berlusconismo non trova eguali nell'esercizio fascista delle istituzioni e del potere, almeno formalmente rimasto al rispetto o addirittura all'esaltazione della legge, per quanto dispotica (naturalmente sarebbe troppo ingeneroso arrivare a contrapporre ad Alfano e Ghedini le figure di Rocco e Gentile...). Nel terzo indicatore precipitano e si moltiplicano tutte le nefaste conseguenze degli altri due. Il fascismo ebbe con la tradizione italiana un rapporto distorto ma vistoso: volle ristabilire a modo suo (un modo esecrabile, non ci sarebbe bisogno di dirlo da parte mia) la continuità con il Risorgimento, vanificata e interrotta secondo lui dalla tarda, sconnessa e impotente esperienza liberale. Il berlusconismo non ha nessun rapporto, né buono né cattivo, con la tradizione italiana: il suo eroe eponimo è un homo novus che spinge ai limiti estremi la sua totale mancanza di radici, in sostanza niente di più di un abile affarista, che usa il pubblico per incrementare e proteggere il suo privato e il privato per possedere senza limitazioni il pubblico. Tutto ciò che ha a che fare con etica e politica dello Stato di diritto moderno gli è estraneo. Ha tratto anche lui la sua forza dall'impotente declino e dalla irreversibile crisi di questo regime liberal-democratico: nasce cioè e vive da una corruzione, non da una reazione, come invece presunse di fare il fascismo (da intendersi anche in questo caso ambedue i termini in senso politico-istituzionale, non etico-politico). Ora, nella storia italiana post-unitaria, di cui si diceva, è innegabile che a fondare il nocciolo più duraturo della nazione siano stati il Risorgimento prima e la Resistenza poi: da considerare quest'ultima - come fu da molti protagonisti di diverse parti politiche e ideali considerata - una realizzazione più avanzata ma consequenziale del primo. Ma se al Cavaliere nulla importa dei valori di democrazia e del rispetto delle regole (Carta Costituzionale, separazione dei poteri, rapporto elettori-istituzioni, ecc.), cosa dovrebbe importargli non dico della Resistenza, ma dello stesso Risorgimento, che bene o male ha fondato unità e identità italiane nazionali e dato inizio al processo di costruzione di una società (sia pure limitatamente) democratica nel rispetto delle regole? La «rottura storica», alla quale egli, senza sforzo e senza neanche pensarci, si sottrae, non è quella del 1945, è quella del 1861-1870: Cavour è più lontano da lui di Palrmiro Togliatti. Rispondiamo ora, per andare verso la conclusione, all'ultima, più insidiosa e forse più legittima obiezione al nostro ragionamento precedente: si può comparare una democrazia (quale che sia) a una dittatura, arrivando alla conclusione che la democrazia è peggiore della dittatura? Mah, non lo so. Non vedo però che cosa ci sia di male a tentare un confronto, se non altro per capire meglio cosa ci sta accadendo oggi (non è così che si formano i parametri di giudizio storici?). Il fascismo è stato «il male assoluto»? Proviamo a pensare cosa sia per essere e per produrre il «male relativo» nel quale noi attualmente viviamo: «male relativo», ma endemico, profondo, penetrato in tutte le fibre. Quel che mi sembra di vedere dal mio angolo visuale è la crescita di una sorta di dittatura (De Mauro: «governo autoritario, in cui il potere è concentrato nelle mani di uno solo»), ma di tipo nuovo, democratico-populista, fondata non sulla violenza e sulla coercizione esplicite ma sul consenso (come faceva, a modo suo, anche il fascismo...) ed esercitata con un astuto, davvero inedito in Europa mix di suggestioni mediatiche, stravolgimenti istituzionali e intermediazioni affaristiche. Il «modello» - che, come tutti i modelli forti, è politico, culturale e persino antropologico - sta penetrando in profondità e sta facendo fuori la continuità storica su cui si sono fondati finora l'identità e i valori «italiani» al cospetto del mondo. Alla fine del processo non ci sarà una nazione (pur nei limiti ben noti in cui tale processo si è sviluppato nei centocinquant'anni che ci stanno alle spalle) ma solo un mero aggregato di stati-vassalli (di varia natura: economici, corporativi, regionali, ecc.), che troveranno la loro unità unicamente nel fare riferimento al solo Capo. Per questo, - non per motivi più tecnici e circoscritti, come qualcuno cede alla tentazione di argomentare, lasciandosi cullare dal sogno delle «riforme condivise» - vanno fatte fuori le articolazioni finora più autonome e indipendenti dello stato, in primissimo luogo la magistratura e la scuola: esse, infatti, in questo momento, per il solo fatto di conservare la loro indipendenza, costituiscono l'ostacolo maggiore alla compiuta realizzazione di tale disegno (naturalmente, mi rendo conto che, se le cose stanno come dico, la parte più interessante del discorso consisterebbe nel chiedersi come mai tale disegno distruttivo proceda attraverso il consenso: ma cosa sia diventato il popolo italiano in questi ultimi vent'anni, a cosa aspiri, in cosa creda, merita un discorso a parte, che prende ancora più di petto la politica, e che forse un giorno faremo). La conclusione, cui pervenivo nel mio precedente articolo, va oggi ribadita: per quanto non esista in Italia forza politica, uomo politico, in grado attualmente d'intenderla e di praticarla. Per combattere un simile flagello ci vorrebbe un partito, un movimento, un'opzione al tempo stesso politica e culturale, capaci di coniugare la difesa della patria-nazione con quella degli strati più nuovi, più reattivi e più a rischio della società italiana contemporanea (molto a rischio: alla catastrofe nazionale s'accompagnerà, non c'è ombra di dubbio, la catastrofe economico-sociale). Ma dov'è? E, visto che non c'è, quanto ci metterà per nascere, o rinascere? P.S. Il modo migliore di manifestare solidarietà a un giornale è di scriverci sopra. Aggiungerò che i rischi che corre attualmente una testata come il manifesto rappresentano la manifestazione esemplare di quanto avviene in Italia e che ho cercato di descrivere nelle righe precedenti. Il lettore tiri le somme e saprà cosa fare.
ilmanifesto.it