Francoforte/Roma, 5 Agosto 2011
Caro Primo Ministro,
Il Consiglio direttivo della Banca centrale europea il 4 Agosto ha discusso la situazione nei mercati dei titoli di Stato italiani. Il Consiglio direttivo ritiene che sia necessaria un'azione pressante da parte delle autorità italiane per ristabilire la fiducia degli investitori.
Il vertice dei capi di Stato e di governo dell'area-euro del 21 luglio 2011 ha concluso che «tutti i Paesi dell'euro riaffermano solennemente la loro determinazione inflessibile a onorare in pieno la loro individuale firma sovrana e tutti i loro impegni per condizioni di bilancio sostenibili e per le riforme strutturali». Il Consiglio direttivo ritiene che l'Italia debba con urgenza rafforzare la reputazione della sua firma sovrana e il suo impegno alla sostenibilità di bilancio e alle riforme strutturali.
Il Governo italiano ha deciso di mirare al pareggio di bilancio nel 2014 e, a questo scopo, ha di recente introdotto un pacchetto di misure. Sono passi importanti, ma non sufficienti.
Nell'attuale situazione, riteniamo essenziali le seguenti misure:
1.Vediamo l'esigenza di misure significative per accrescere il potenziale di crescita. Alcune decisioni recenti prese dal Governo si muovono in questa direzione; altre misure sono in discussione con le parti sociali. Tuttavia, occorre fare di più ed è cruciale muovere in questa direzione con decisione. Le sfide principali sono l'aumento della concorrenza, particolarmente nei servizi, il miglioramento della qualità dei servizi pubblici e il ridisegno di sistemi regolatori e fiscali che siano più adatti a sostenere la competitività delle imprese e l'efficienza del mercato del lavoro.
a) È necessaria una complessiva, radicale e credibile strategia di riforme, inclusa la piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali e dei servizi professionali. Questo dovrebbe applicarsi in particolare alla fornitura di servizi locali attraverso privatizzazioni su larga scala.
b) C'è anche l'esigenza di riformare ulteriormente il sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi al livello d'impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende e rendendo questi accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione. L'accordo del 28 Giugno tra le principali sigle sindacali e le associazioni industriali si muove in questa direzione.
c) Dovrebbe essere adottata una accurata revisione delle norme che regolano l'assunzione e il licenziamento dei dipendenti, stabilendo un sistema di assicurazione dalla disoccupazione e un insieme di politiche attive per il mercato del lavoro che siano in grado di facilitare la riallocazione delle risorse verso le aziende e verso i settori più competitivi.
2.Il Governo ha l'esigenza di assumere misure immediate e decise per assicurare la sostenibilità delle finanze pubbliche.
a) Ulteriori misure di correzione del bilancio sono necessarie. Riteniamo essenziale per le autorità italiane di anticipare di almeno un anno il calendario di entrata in vigore delle misure adottate nel pacchetto del luglio 2011. L'obiettivo dovrebbe essere un deficit migliore di quanto previsto fin qui nel 2011, un fabbisogno netto dell'1% nel 2012 e un bilancio in pareggio nel 2013, principalmente attraverso tagli di spesa. È possibile intervenire ulteriormente nel sistema pensionistico, rendendo più rigorosi i criteri di idoneità per le pensioni di anzianità e riportando l'età del ritiro delle donne nel settore privato rapidamente in linea con quella stabilita per il settore pubblico, così ottenendo dei risparmi già nel 2012. Inoltre, il Governo dovrebbe valutare una riduzione significativa dei costi del pubblico impiego, rafforzando le regole per il turnover (il ricambio, ndr) e, se necessario, riducendo gli stipendi.
b) Andrebbe introdotta una clausola di riduzione automatica del deficit che specifichi che qualunque scostamento dagli obiettivi di deficit sarà compensato automaticamente con tagli orizzontali sulle spese discrezionali.
c) Andrebbero messi sotto stretto controllo l'assunzione di indebitamento, anche commerciale, e le spese delle autorità regionali e locali, in linea con i principi della riforma in corso delle relazioni fiscali fra i vari livelli di governo.
Vista la gravità dell'attuale situazione sui mercati finanziari, consideriamo cruciale che tutte le azioni elencate nelle suddette sezioni 1 e 2 siano prese il prima possibile per decreto legge, seguito da ratifica parlamentare entro la fine di Settembre 2011. Sarebbe appropriata anche una riforma costituzionale che renda più stringenti le regole di bilancio.
3. Incoraggiamo inoltre il Governo a prendere immediatamente misure per garantire una revisione dell'amministrazione pubblica allo scopo di migliorare l'efficienza amministrativa e la capacità di assecondare le esigenze delle imprese. Negli organismi pubblici dovrebbe diventare sistematico l'uso di indicatori di performance (soprattutto nei sistemi sanitario, giudiziario e dell'istruzione). C'è l'esigenza di un forte impegno ad abolire o a fondere alcuni strati amministrativi intermedi (come le Province). Andrebbero rafforzate le azioni mirate a sfruttare le economie di scala nei servizi pubblici locali.
Confidiamo che il Governo assumerà le azioni appropriate.
Con la migliore considerazione,
Mario Draghi, Jean-Claude Trichet
I link ai giornali degli articoli spesso cambiano e diventa difficile se non impossibile recuperare i testi ai quali si riferivano. Questo è l'archivio on-line del blog Giornale-NOTIZIEOGGI
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29.9.11
Lettera Draghi - Trichet a Berlusconi: «C'è l'esigenza di misure significative per accrescere il potenziale di crescita»
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26.9.11
Censurare Internet per salvare il premier
Guido Scorza (Il Fatto Quotidiano)
Per sottrarre il premier alla giustizia questa volta, la Rete italiana rischia la censura.
Se, infatti, come appare ormai probabile nelle prossime ore il Parlamento riprenderà l’esame del famigerato ddl intercettazioni e il Governo ricorrerà, ancora una volta, al voto di fiducia, il nostro ordinamento si arricchirà di una nuova disposizione in forza della quale tutti i gestori di siti informatici saranno tenuti a disporre la rettifica di ogni informazione pubblicata online entro 48 ore dall’eventuale richiesta, fondata o infondata che sia.
In assenza di tempestiva rettifica, la sanzione sarà quella di una multa sino a 12 mila euro.
E’ questo il contenuto del comma 29 dell’art. 1 del disegno di legge n. 1611 che già la scorsa estate aveva minacciato di mettere un enorme cerotto sulla bocca – o meglio sulla tastiera – della blogosfera italiana.
In occasione del precedente dibattito parlamentare sul ddl – dibattito che questa volta potrebbe addirittura non esserci complice il voto di fiducia – nonostante l’ampio movimento di opinione sollevatosi contro l’approvazione della norma, nessuno, in Parlamento, aveva ritenuto di intervenire in modo determinato per eliminare dal testo “ammazza informazione”, almeno la norma c.d. “ammazza blog”.
Questa volta le speranze di un intervento in extremis per salvare, almeno, l’informazione libera che corre in Rete, appaiono ancora di meno perché maggiore è il bisogno della maggioranza – o di ciò che resta del clan dei compagni di merenda del premier – di disporre delle nuove regole anti-intercettazioni e perché, comunque, il Governo ha già manifestato l’intenzione di ricorre al voto di fiducia.
L’entrata in vigore del ddl e, in particolare, del comma 29 dell’art. 1 nella sua attuale formulazione ridisegnerebbe, in maniera importante e in chiave restrittiva e censorea, la mappa dell’informazione libera sul web.
Il punto, come ho già scritto in altre occasioni, non è sottrarre il blogger alla responsabilità per quello che scrive perché è, anzi, sacrosanto che ne risponda ma, più semplicemente riconoscere la differenza abissale che c’è tra un blog e un giornale o una televisione e tra un blogger – magari ragazzino – e un giornalista, una redazione o, piuttosto, un editore.
Il primo – salvo eccezioni – sarà portato a rettificare “per paura” e non già perché certo di dover rettificare mentre i secondi, dinanzi a una richiesta di rettifica, ci pensano, ci riflettono, la esaminano, la fanno esaminare e poi solo se sono davvero convinti di dovervi procedere, vi provvedono.
Imporre un obbligo di rettifica a tutti i produttori “non professionali” di informazione, significa fornire ai nemici della libertà di informazione, una straordinaria arma di pressione – se non di minaccia – per mettere a tacere le poche voci fuori dal coro, quelle non raggiungibili, neppure nel nostro Paese, attraverso una telefonata all’editore e/o al principale investitore pubblicitario.
Sarebbe davvero una sciagura per la libertà di parola sul web se, preoccupato di assecondare l’urgenza della maggioranza nell’approvazione del ddl, il Parlamento licenziasse il testo nella sua attuale formulazione.
Inutile ripetere che le conseguenze dell’entrata in vigore della norma sarebbero gravissime: ogni contenuto, informazione o opinione non gradita ai potenti dell’economia o della politica sarebbe destinata a vita breve sul web e ad essere rimossa – lecita o illecita che ne sia la sua pubblicazione – a seguito dell’invio di una semplice mail contenente una richiesta di rettifica.
Per sottrarre il premier alla giustizia questa volta, la Rete italiana rischia la censura.
Se, infatti, come appare ormai probabile nelle prossime ore il Parlamento riprenderà l’esame del famigerato ddl intercettazioni e il Governo ricorrerà, ancora una volta, al voto di fiducia, il nostro ordinamento si arricchirà di una nuova disposizione in forza della quale tutti i gestori di siti informatici saranno tenuti a disporre la rettifica di ogni informazione pubblicata online entro 48 ore dall’eventuale richiesta, fondata o infondata che sia.
In assenza di tempestiva rettifica, la sanzione sarà quella di una multa sino a 12 mila euro.
E’ questo il contenuto del comma 29 dell’art. 1 del disegno di legge n. 1611 che già la scorsa estate aveva minacciato di mettere un enorme cerotto sulla bocca – o meglio sulla tastiera – della blogosfera italiana.
In occasione del precedente dibattito parlamentare sul ddl – dibattito che questa volta potrebbe addirittura non esserci complice il voto di fiducia – nonostante l’ampio movimento di opinione sollevatosi contro l’approvazione della norma, nessuno, in Parlamento, aveva ritenuto di intervenire in modo determinato per eliminare dal testo “ammazza informazione”, almeno la norma c.d. “ammazza blog”.
Questa volta le speranze di un intervento in extremis per salvare, almeno, l’informazione libera che corre in Rete, appaiono ancora di meno perché maggiore è il bisogno della maggioranza – o di ciò che resta del clan dei compagni di merenda del premier – di disporre delle nuove regole anti-intercettazioni e perché, comunque, il Governo ha già manifestato l’intenzione di ricorre al voto di fiducia.
L’entrata in vigore del ddl e, in particolare, del comma 29 dell’art. 1 nella sua attuale formulazione ridisegnerebbe, in maniera importante e in chiave restrittiva e censorea, la mappa dell’informazione libera sul web.
Il punto, come ho già scritto in altre occasioni, non è sottrarre il blogger alla responsabilità per quello che scrive perché è, anzi, sacrosanto che ne risponda ma, più semplicemente riconoscere la differenza abissale che c’è tra un blog e un giornale o una televisione e tra un blogger – magari ragazzino – e un giornalista, una redazione o, piuttosto, un editore.
Il primo – salvo eccezioni – sarà portato a rettificare “per paura” e non già perché certo di dover rettificare mentre i secondi, dinanzi a una richiesta di rettifica, ci pensano, ci riflettono, la esaminano, la fanno esaminare e poi solo se sono davvero convinti di dovervi procedere, vi provvedono.
Imporre un obbligo di rettifica a tutti i produttori “non professionali” di informazione, significa fornire ai nemici della libertà di informazione, una straordinaria arma di pressione – se non di minaccia – per mettere a tacere le poche voci fuori dal coro, quelle non raggiungibili, neppure nel nostro Paese, attraverso una telefonata all’editore e/o al principale investitore pubblicitario.
Sarebbe davvero una sciagura per la libertà di parola sul web se, preoccupato di assecondare l’urgenza della maggioranza nell’approvazione del ddl, il Parlamento licenziasse il testo nella sua attuale formulazione.
Inutile ripetere che le conseguenze dell’entrata in vigore della norma sarebbero gravissime: ogni contenuto, informazione o opinione non gradita ai potenti dell’economia o della politica sarebbe destinata a vita breve sul web e ad essere rimossa – lecita o illecita che ne sia la sua pubblicazione – a seguito dell’invio di una semplice mail contenente una richiesta di rettifica.
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6.5.11
Governo, da Cesario a Villari chi sono i nuovi sottosegretari
Dopo mesi di annunci il “rimpastino”, come lo ha definito Silvio Berlusconi, è arrivato con nove nuovi sottosegretari per rinsaldare la maggioranza e “premiare” quanti si sono spesi il 14 dicembre per sostenere l’esecutivo in occasione del voto di sfiducia alla Camera. Sono stati nominati sottosegretari gli ex finiani Catia Polidori, Roberto Rosso e Giampiero Catone, i Responsabili Bruno Cesario e Riccardo Villari. Alla tranche di nomine di aggiunge quella di Massimo Calearo, nominato consigliere personale del Presidente del Consiglio. Dall’infornata governativa sono rimasti fuori molti che attendevano invece di poter essere inseriti nell’esecutivo. E i malumori non sono tardati a farsi sentire. Mario Baccini e Giuseppe Galati dei Cristiano popolari, che avevano sostenuto il premier e a cui erano stati promessi degli incarichi, si sono fatti sentire: “Prendiamo atto che gli impegni assunti dal presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, non sono stati mantenuti”. Ma certo i posti erano quelli, i pretendenti tanti. Ecco chi sono i nove che hanno conquistato la poltrona.
Roberto Rosso, sottosegretario all’agricoltura. Entra in politica giovanissimo, ad appena 19 anni si iscrive alla Democrazia Cristiana. Nel 1994 aderisce a Forza Italia e viene eletto alla Camera per la prima volta, poi confermato fino a oggi. E’ stato anche coordinatore regionale di Forza Italia in piemonte e nel 2001 si candida sindaco di Torino contro Sergio Chiamparino, perdendo al ballottaggio. Poi entra nel Pdl, nel 2008. Ma quando Fini decide di uscire dalla maggioranza, Roberto Rosso lo segue iscrivendosi al gruppo di Futuro e Libertà. Votando anche la mozione di sfiducia al governo del 14 dicembre scorso. Poi, il 17 febbraio 2011, lascia Fli e torna nel Pdl, dopo aver incontrato Silvio Berlusconi a Palazzo Grazioli.
Luca Bellotti, sottosegretario al welfare. Imprenditore prestato alla politica, viene eletto con Alleanza Nazionale poi con il Pdl alla Camera nel 2008. Nel luglio 2010 esce dal partito di Berlusconi e si iscrive a Futuro e Libertà. Ma torna nel Pdl a metà febbraio.
Daniela Melchiorre, sottosegretario allo sviluppo economico. Nata nella Margherita, poi passata nei Liberal Democratici con Lamberto Dini, si allea con il Pdl, poi si iscrive al gruppo misto, trasloca nel Terzo Polo e, infine, ritorna nel Pdl. Giravolta dopo giravolta arriva finalmente a un posto di sottosegretario. Già nel 2006 con il governo Prodi era stata nominata tecnico sottosegretario alla giustizia, ma l’esecutivo durò poco. Così la poltrona. La 40enne magistrato militare, a Verona poi a Torino, nonché eletta “parlamentare più sexy” dai camionisti italiani, non si è mai preoccupata molto delle critiche ricevute dai colleghi a Montecitorio che la vedono traslocare da una parte all’altra dell’emiciclo. Il ritorno nelle braccia di Berlusconi è avvenuto ad aprile, con il voto in aula a favore del conflitto di attribuzione nel caso Ruby.
Catia Polidori, sottosegretario all’economia. “Non tornerò mai nel Pdl”. Non ha fatto neanche in tempo a dirlo, il dieci dicembre al termine di una cena con Gianfranco Fini, che Catia Polidori aveva già salutato Futuro e Libertà per votare insieme alla maggioranza il 14 dicembre la fiducia al governo. Polidori, uscita poi rientrata nel Pdl, da mesi aspettava una nomina. Che ora è arrivata. Anche a risarcimento degli “attacchi” subito dalla stampa quando i giornali hanno scoperto il suo legame con il fondatore e padrone del Cepu, Polidori, fino a immaginare una parentela fra i due. L’onorevole Angela Napoli denunciò: “Catia Polidori ha votato con il governo la riforma universitaria che parifica le università private alle statali solo per aiutare il suo parente proprietario del Cepu”. Lo stesso premier, del resto, il 19 luglio, parteciò a Novedrate a un’iniziativa all’Ecampus, l’ateneo del Cepu, pochi giorni dopo la riforma voluta dalla Gelmini.
Bruno Cesario, sottosegretario all’economia. Nato politicamente nella Democrazia Cristiana, poi passato ai Popolari e nella Margherita, Bruno Cesario è stato tra i fondatori del Pd, poi dell’Api di Francesco Rutelli e infine dei Responsabili insieme a Domenico Scilipoti e Massimo Calearo.
Aurelio Misiti, sottosegretario alle infrastrutture. Eletto alla Camera nella lista dell’Italia dei Valori Salvatore Aurelio Misiti è poi passato prima al Movimento per l’autonomia poi si è iscritto al gruppo misto e ora sostiene la maggioranza. Fu tra i firmatari della mozione di sfiducia al governo Berlusconi il 14 dicembre, per poi invece sostenere l’esecutivo.
Riccardo Villari, sottosegretario ai beni culturali. Eletto nel Partito Democratico Villari nel 2009 venne arrivò alla presidenza della commissione parlamentare di vigilanza sulla Rai grazie ai voti del centrodestra. Espulso dal Pd, fu sostituito da Sergio Zavoli in commissione, ma solo dopo giorni di tira e molla sulle dimissioni dall’incarico. Doveva rassegnarle ma proprio non voleva. Le aveva invocate Veltroni, imitato poi dai presidenti di Camera e Senato. Persino Berlusconi è intervenuto a suggerirgli che conveniva se ne andasse. Lui ha resistito settimane prima di cedere. Poi, non potendo tornare nel Pd, si è iscritto al gruppo Misto per poi entrare nel Movimento per l’autonomia, lasciandolo per approdare al gruppo dei Responsabili di cui oggi è presidente al Senato.
Antonio Gentile, sottosegretario all’ambiente. Nato politicamente in Forza Italia e poi eletto nel Pdl non ha mai cambiato casacca.
Giampiero Catone, sottosegretario allo sviluppo economico. Da politico è passato dal Ccd al Pdl per poi aderire a Fli e ritornare da Berlusconi per il voto di fiducia del 14 dicembre. Più note le sue vicende giudiziarie. E’ stato arrestato nel 2001 per associazione a delinquire finalizzata alla truffa aggravata, falso, false comunicazioni sociali e bancarotta fraudolenta pluriaggravata: due bancarotte da 25 miliardi di lire l’una e 12 miliardi di finanziamenti a fondo perduto ottenuti, secondo l’accusa, dal ministero dell’Industria con carte e perizie false. E’ stato rinviato a giudizio. Lo è stato anche a l’Aquila, sempre per bancarotta fraudolenta. La stessa procura, inoltre, ha chiuso un’altra indagine che vede Catone indagato per estorsione, con il fratello Mario, dipendente di banca Intesa, per aver spillato 118 mila euro al alcuni dirigenti della società Merkel, millantando interventi politici per risolvere i guai finanziari dell’azienda.
Roberto Rosso, sottosegretario all’agricoltura. Entra in politica giovanissimo, ad appena 19 anni si iscrive alla Democrazia Cristiana. Nel 1994 aderisce a Forza Italia e viene eletto alla Camera per la prima volta, poi confermato fino a oggi. E’ stato anche coordinatore regionale di Forza Italia in piemonte e nel 2001 si candida sindaco di Torino contro Sergio Chiamparino, perdendo al ballottaggio. Poi entra nel Pdl, nel 2008. Ma quando Fini decide di uscire dalla maggioranza, Roberto Rosso lo segue iscrivendosi al gruppo di Futuro e Libertà. Votando anche la mozione di sfiducia al governo del 14 dicembre scorso. Poi, il 17 febbraio 2011, lascia Fli e torna nel Pdl, dopo aver incontrato Silvio Berlusconi a Palazzo Grazioli.
Luca Bellotti, sottosegretario al welfare. Imprenditore prestato alla politica, viene eletto con Alleanza Nazionale poi con il Pdl alla Camera nel 2008. Nel luglio 2010 esce dal partito di Berlusconi e si iscrive a Futuro e Libertà. Ma torna nel Pdl a metà febbraio.
Daniela Melchiorre, sottosegretario allo sviluppo economico. Nata nella Margherita, poi passata nei Liberal Democratici con Lamberto Dini, si allea con il Pdl, poi si iscrive al gruppo misto, trasloca nel Terzo Polo e, infine, ritorna nel Pdl. Giravolta dopo giravolta arriva finalmente a un posto di sottosegretario. Già nel 2006 con il governo Prodi era stata nominata tecnico sottosegretario alla giustizia, ma l’esecutivo durò poco. Così la poltrona. La 40enne magistrato militare, a Verona poi a Torino, nonché eletta “parlamentare più sexy” dai camionisti italiani, non si è mai preoccupata molto delle critiche ricevute dai colleghi a Montecitorio che la vedono traslocare da una parte all’altra dell’emiciclo. Il ritorno nelle braccia di Berlusconi è avvenuto ad aprile, con il voto in aula a favore del conflitto di attribuzione nel caso Ruby.
Catia Polidori, sottosegretario all’economia. “Non tornerò mai nel Pdl”. Non ha fatto neanche in tempo a dirlo, il dieci dicembre al termine di una cena con Gianfranco Fini, che Catia Polidori aveva già salutato Futuro e Libertà per votare insieme alla maggioranza il 14 dicembre la fiducia al governo. Polidori, uscita poi rientrata nel Pdl, da mesi aspettava una nomina. Che ora è arrivata. Anche a risarcimento degli “attacchi” subito dalla stampa quando i giornali hanno scoperto il suo legame con il fondatore e padrone del Cepu, Polidori, fino a immaginare una parentela fra i due. L’onorevole Angela Napoli denunciò: “Catia Polidori ha votato con il governo la riforma universitaria che parifica le università private alle statali solo per aiutare il suo parente proprietario del Cepu”. Lo stesso premier, del resto, il 19 luglio, parteciò a Novedrate a un’iniziativa all’Ecampus, l’ateneo del Cepu, pochi giorni dopo la riforma voluta dalla Gelmini.
Bruno Cesario, sottosegretario all’economia. Nato politicamente nella Democrazia Cristiana, poi passato ai Popolari e nella Margherita, Bruno Cesario è stato tra i fondatori del Pd, poi dell’Api di Francesco Rutelli e infine dei Responsabili insieme a Domenico Scilipoti e Massimo Calearo.
Aurelio Misiti, sottosegretario alle infrastrutture. Eletto alla Camera nella lista dell’Italia dei Valori Salvatore Aurelio Misiti è poi passato prima al Movimento per l’autonomia poi si è iscritto al gruppo misto e ora sostiene la maggioranza. Fu tra i firmatari della mozione di sfiducia al governo Berlusconi il 14 dicembre, per poi invece sostenere l’esecutivo.
Riccardo Villari, sottosegretario ai beni culturali. Eletto nel Partito Democratico Villari nel 2009 venne arrivò alla presidenza della commissione parlamentare di vigilanza sulla Rai grazie ai voti del centrodestra. Espulso dal Pd, fu sostituito da Sergio Zavoli in commissione, ma solo dopo giorni di tira e molla sulle dimissioni dall’incarico. Doveva rassegnarle ma proprio non voleva. Le aveva invocate Veltroni, imitato poi dai presidenti di Camera e Senato. Persino Berlusconi è intervenuto a suggerirgli che conveniva se ne andasse. Lui ha resistito settimane prima di cedere. Poi, non potendo tornare nel Pd, si è iscritto al gruppo Misto per poi entrare nel Movimento per l’autonomia, lasciandolo per approdare al gruppo dei Responsabili di cui oggi è presidente al Senato.
Antonio Gentile, sottosegretario all’ambiente. Nato politicamente in Forza Italia e poi eletto nel Pdl non ha mai cambiato casacca.
Giampiero Catone, sottosegretario allo sviluppo economico. Da politico è passato dal Ccd al Pdl per poi aderire a Fli e ritornare da Berlusconi per il voto di fiducia del 14 dicembre. Più note le sue vicende giudiziarie. E’ stato arrestato nel 2001 per associazione a delinquire finalizzata alla truffa aggravata, falso, false comunicazioni sociali e bancarotta fraudolenta pluriaggravata: due bancarotte da 25 miliardi di lire l’una e 12 miliardi di finanziamenti a fondo perduto ottenuti, secondo l’accusa, dal ministero dell’Industria con carte e perizie false. E’ stato rinviato a giudizio. Lo è stato anche a l’Aquila, sempre per bancarotta fraudolenta. La stessa procura, inoltre, ha chiuso un’altra indagine che vede Catone indagato per estorsione, con il fratello Mario, dipendente di banca Intesa, per aver spillato 118 mila euro al alcuni dirigenti della società Merkel, millantando interventi politici per risolvere i guai finanziari dell’azienda.
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7.3.10
Il governo, la forma e la sostanza
BARBARA SPINELLI
Fa una certa impressione rileggere gli articoli che Norberto Bobbio scrisse nelle pagine di questo giornale, tra il 1994 e il 1996, sulla forza politica edificata da Berlusconi a seguito di Tangentopoli: sull’inconsistenza dei club e circoli da lui creati, sulla loro vacuità, sullo spregio delle forme, tanto fieramente vantato.
Sulla violenza protestante della sua ribellione a liturgie e convenzioni della democrazia rappresentativa, vorremmo aggiungere: una violenza di tipo russo, alla Bakunin, che ricorda la vastità informe (la gestaltlose Weite) criticata nel 1923 dal giurista Carl Schmitt.
Fa impressione rivedere quei testi perché molte storture sono le stesse. Non furono curate allora per il semplice fatto che erano ritenute virtù nuove, e adesso la stortura s’è estesa divenendo non solo questione di codice penale ma di riti elettorali prima trasgrediti, poi mal rappezzati con leggi ad hoc. Quel che Bobbio rimproverava ai club era in sostanza questo: il disdegno delle regole, tanto più indispensabili nel regime democratico, che al popolo affida un’amplissima sovranità.
E l’ideazione di una forza non solo dipendente da un’unica persona («Un partito a disciplina militare, anzi aziendale», così Dell’Utri nel novembre ’94), ma priva di statuti, progetti, chiarezza innanzitutto sui finanziamenti.
Bobbio era pienamente consapevole del discredito che la corruzione rivelata da Mani Pulite aveva inflitto ai partiti, annerendoli tutti mortalmente e rendendo ancor più pertinente il termine partitocrazia.
Tuttavia i partiti restavano essenziali per la democrazia, secondo lui, perché senza partiti il potere si fa opaco, arbitrario, imprevedibile. Il non-partito propagandato da Forza Italia minacciava d’essere un’accozzaglia senza storia, una «rete di gruppi semiclandestini»: incompatibile con la «visibilità del potere» che «distingue la democrazia dalle dittature» (Stampa, 3-7-94). La pura negazione (non-partito) non diceva nulla perché infinite sono le possibilità da essa racchiuse: «Se dico “non bianco” comprendo in queste parole tutti i colori possibili e immaginabili (...). La democrazia rifiuta il potere che si nasconde», dirà il filosofo in un’intervista a Giancarlo Bosetti nel 2001. Il non-bianco equivale all’amorfa vastità descritta da Schmitt.
Agli esordi anche i professionisti della politica erano invisi, e lo sono a tutt’oggi: gli uomini che si dedicano alla causa pubblica e ne vivono. Come nel film di Elia Kazan, meglio era scovare un Volto nella Folla, trasformarlo in talentuoso comunicatore, e la fabbrica del consenso partiva. Già nel 1957, Kazan crea il prototipo del manipolatore nichilista delle folle, eterno homo ridens, dandogli il nome di Lonesome Rhodes, il «Solitario» venuto dal nulla o meglio dalla galera. Di uomini così era fatto il non-partito escogitato da Mediaset, e lo è tuttora. Tuttora si avvale dei consigli di Previti, condannato definitivamente per corruzione in atti giudiziari. O di Verdini, indagato per corruzione.
Il politico di professione è considerato da costoro parassita, incapace di fare. La cerchia attorno a Berlusconi è piena di uomini che agiscono al riparo della politica e della legge: imprenditori o avvocati (soprattutto avvocati del Capo). Lo stesso Stato è sospettato, se non li serve: tanto che la sede del governo non è più Palazzo Chigi ma il domicilio del Capo a Palazzo Grazioli. Bobbio dà a questo fantasmatico potere il nome di partito personale di massa, e nel ’94 chiede al suo leader precisazioni: se il suo non è un partito cos’è, esattamente? Come s’è finanziato? Cosa farà per dare al proprio potere visibilità: dunque forme, regole rispettose del codice penale e di procedure elettorali che non avvantaggino i più forti o ricchi? Si vede in questi giorni come i riti, le sequenze formali, le procedure, siano sviliti e lisi.
Il disastro delle liste presentate tardi o malamente nel Lazio e in Lombardia conferma difetti congeniti, non sanati dal partito creato con Alleanza nazionale. All’origine: una politica al tempo stesso autoritaria e informe al punto di smottare di continuo come la terra semovente di Maierato in Calabria. Diciotto anni sono passati da Mani Pulite e i club di Mediaset hanno per questa via privatizzato la politica, screditandola agli occhi degli italiani e convincendo anch’essi che il privato è tutto, il pubblico niente. Si ascolti Verdini, sull’Espresso del 23-5-08. All’obiezione sul conflitto d’interessi replica, ardimentoso: «Il conflitto d’interessi non interessa più a nessuno. Neanche a chi non ha votato il Cavaliere. Diamo cento euro in più nella busta paga, detassiamo gli straordinari, favoriamo i premi aziendali senza tassazione e poi vediamo. Alla fine, la gente fa i conti con la propria famiglia».
La famiglia, l’affare, il favore chiesto per figli, mogli, cognati: son tutte cose che vengono prima, e se farsi strada affatica ci si serve della politica come di una scatola d’utensili cui si attinge per proteggersi dalla legge e aggirarla. Dell’Utri lo ammette: «A me della politica non frega niente, io mi sono candidato per non finire in galera» (intervista a Beatrice Borromeo, Il Fatto 10-2. La dichiarazione non è stata smentita né ha fatto rumore).
Bobbio disse ancora che il berlusconismo è «una sorta di autobiografia della nazione». Autobiografia non solo collettiva ma di ciascuno di noi: cittadini evasori, onesti, non per ultimo cittadini-giornalisti. Un giorno o l’altro dovremo domandarci ad esempio, nelle redazioni, come mai inondiamo i lettori di pagine di intercettazioni che nulla c’entrano con reati penalmente perseguibili. Come mai riceviamo dai giudici 20.000 pagine di telefonate, solo in parte cruciali. Se davvero si difende il diritto degli inquirenti a tutte le intercettazioni utili, per render visibili crimini e poteri nascosti, vale la meta mettere un muro fra le intercettazioni rilevanti e quelle concernenti il privato come le scelte sessuali, a meno che le prestazioni non avvengano in cambio di favori illeciti. Anche questo innalzare muri era pensiero dominante, in Bobbio. Citando Michael Walzer ripeteva: «Il liberalismo è un universo di “mura”, ciascuna delle quali crea una nuova libertà». Il lettore non capisce più nulla, alle prese con faldoni di intercettazioni, e rischia una nausea senza più indignazione.
Il disprezzo delle forme e delle leggi caratterizza ieri come oggi il berlusconismo (con l’eccezione di Fini, da qualche tempo) e sempre ha generato regimi carismatici autoritari. Fu l’estrema destra francese, negli Anni 30, ad anteporre il «Paese reale» (o sostanziale) al «Paese legale».
Anch’essa formò Leghe, non partiti. Il partito è una parte, non rappresenta un’interezza, per natura si dà un limite. Nella stessa trappola dell’informe cade oggi il governo, e il vecchio istinto del non-partito fa ritorno. Con disinvoltura ineguagliata Schifani, di fronte all’intrico delle liste, si augura «che venga garantito il diritto di voto a tutti e che la sostanza prevalga sulla forma». Augurio comprensibile il primo, pernicioso il secondo.
Il rigetto delle forme va di pari passo con il rifiuto della legalità, con il primato dato ai diritti privati o corporativi sugli obblighi comuni, con la separazione dei poteri. Si combina alla sfrontatezza con cui l’homo ridens di Kazan, sicuro com’è del proprio talento, si sente legibus solutus, sciolto dai vincoli delle leggi. Talmente sciolto che Berlusconi non esita a dichiarare, nel novembre 1994: «Chi è scelto dalla gente è come unto dal Signore». La Chiesa non ebbe mai alcunché da dire. Anche questa domanda, che Bobbio pose al Vaticano, resta senza risposta.
Tanta sicurezza può dare alla testa. Se ce ne fosse un po’ di meno, se non continuasse la pratica dei «gruppi semiclandestini», si potrebbe chiedere semplicemente scusa agli italiani e alle istituzioni, per la cialtrona gestione delle liste. Aiuterebbe. Ma forse, come scrive Gian Enrico Rusconi sulla Stampa, sognare non ci è dato.
Fa una certa impressione rileggere gli articoli che Norberto Bobbio scrisse nelle pagine di questo giornale, tra il 1994 e il 1996, sulla forza politica edificata da Berlusconi a seguito di Tangentopoli: sull’inconsistenza dei club e circoli da lui creati, sulla loro vacuità, sullo spregio delle forme, tanto fieramente vantato.
Sulla violenza protestante della sua ribellione a liturgie e convenzioni della democrazia rappresentativa, vorremmo aggiungere: una violenza di tipo russo, alla Bakunin, che ricorda la vastità informe (la gestaltlose Weite) criticata nel 1923 dal giurista Carl Schmitt.
Fa impressione rivedere quei testi perché molte storture sono le stesse. Non furono curate allora per il semplice fatto che erano ritenute virtù nuove, e adesso la stortura s’è estesa divenendo non solo questione di codice penale ma di riti elettorali prima trasgrediti, poi mal rappezzati con leggi ad hoc. Quel che Bobbio rimproverava ai club era in sostanza questo: il disdegno delle regole, tanto più indispensabili nel regime democratico, che al popolo affida un’amplissima sovranità.
E l’ideazione di una forza non solo dipendente da un’unica persona («Un partito a disciplina militare, anzi aziendale», così Dell’Utri nel novembre ’94), ma priva di statuti, progetti, chiarezza innanzitutto sui finanziamenti.
Bobbio era pienamente consapevole del discredito che la corruzione rivelata da Mani Pulite aveva inflitto ai partiti, annerendoli tutti mortalmente e rendendo ancor più pertinente il termine partitocrazia.
Tuttavia i partiti restavano essenziali per la democrazia, secondo lui, perché senza partiti il potere si fa opaco, arbitrario, imprevedibile. Il non-partito propagandato da Forza Italia minacciava d’essere un’accozzaglia senza storia, una «rete di gruppi semiclandestini»: incompatibile con la «visibilità del potere» che «distingue la democrazia dalle dittature» (Stampa, 3-7-94). La pura negazione (non-partito) non diceva nulla perché infinite sono le possibilità da essa racchiuse: «Se dico “non bianco” comprendo in queste parole tutti i colori possibili e immaginabili (...). La democrazia rifiuta il potere che si nasconde», dirà il filosofo in un’intervista a Giancarlo Bosetti nel 2001. Il non-bianco equivale all’amorfa vastità descritta da Schmitt.
Agli esordi anche i professionisti della politica erano invisi, e lo sono a tutt’oggi: gli uomini che si dedicano alla causa pubblica e ne vivono. Come nel film di Elia Kazan, meglio era scovare un Volto nella Folla, trasformarlo in talentuoso comunicatore, e la fabbrica del consenso partiva. Già nel 1957, Kazan crea il prototipo del manipolatore nichilista delle folle, eterno homo ridens, dandogli il nome di Lonesome Rhodes, il «Solitario» venuto dal nulla o meglio dalla galera. Di uomini così era fatto il non-partito escogitato da Mediaset, e lo è tuttora. Tuttora si avvale dei consigli di Previti, condannato definitivamente per corruzione in atti giudiziari. O di Verdini, indagato per corruzione.
Il politico di professione è considerato da costoro parassita, incapace di fare. La cerchia attorno a Berlusconi è piena di uomini che agiscono al riparo della politica e della legge: imprenditori o avvocati (soprattutto avvocati del Capo). Lo stesso Stato è sospettato, se non li serve: tanto che la sede del governo non è più Palazzo Chigi ma il domicilio del Capo a Palazzo Grazioli. Bobbio dà a questo fantasmatico potere il nome di partito personale di massa, e nel ’94 chiede al suo leader precisazioni: se il suo non è un partito cos’è, esattamente? Come s’è finanziato? Cosa farà per dare al proprio potere visibilità: dunque forme, regole rispettose del codice penale e di procedure elettorali che non avvantaggino i più forti o ricchi? Si vede in questi giorni come i riti, le sequenze formali, le procedure, siano sviliti e lisi.
Il disastro delle liste presentate tardi o malamente nel Lazio e in Lombardia conferma difetti congeniti, non sanati dal partito creato con Alleanza nazionale. All’origine: una politica al tempo stesso autoritaria e informe al punto di smottare di continuo come la terra semovente di Maierato in Calabria. Diciotto anni sono passati da Mani Pulite e i club di Mediaset hanno per questa via privatizzato la politica, screditandola agli occhi degli italiani e convincendo anch’essi che il privato è tutto, il pubblico niente. Si ascolti Verdini, sull’Espresso del 23-5-08. All’obiezione sul conflitto d’interessi replica, ardimentoso: «Il conflitto d’interessi non interessa più a nessuno. Neanche a chi non ha votato il Cavaliere. Diamo cento euro in più nella busta paga, detassiamo gli straordinari, favoriamo i premi aziendali senza tassazione e poi vediamo. Alla fine, la gente fa i conti con la propria famiglia».
La famiglia, l’affare, il favore chiesto per figli, mogli, cognati: son tutte cose che vengono prima, e se farsi strada affatica ci si serve della politica come di una scatola d’utensili cui si attinge per proteggersi dalla legge e aggirarla. Dell’Utri lo ammette: «A me della politica non frega niente, io mi sono candidato per non finire in galera» (intervista a Beatrice Borromeo, Il Fatto 10-2. La dichiarazione non è stata smentita né ha fatto rumore).
Bobbio disse ancora che il berlusconismo è «una sorta di autobiografia della nazione». Autobiografia non solo collettiva ma di ciascuno di noi: cittadini evasori, onesti, non per ultimo cittadini-giornalisti. Un giorno o l’altro dovremo domandarci ad esempio, nelle redazioni, come mai inondiamo i lettori di pagine di intercettazioni che nulla c’entrano con reati penalmente perseguibili. Come mai riceviamo dai giudici 20.000 pagine di telefonate, solo in parte cruciali. Se davvero si difende il diritto degli inquirenti a tutte le intercettazioni utili, per render visibili crimini e poteri nascosti, vale la meta mettere un muro fra le intercettazioni rilevanti e quelle concernenti il privato come le scelte sessuali, a meno che le prestazioni non avvengano in cambio di favori illeciti. Anche questo innalzare muri era pensiero dominante, in Bobbio. Citando Michael Walzer ripeteva: «Il liberalismo è un universo di “mura”, ciascuna delle quali crea una nuova libertà». Il lettore non capisce più nulla, alle prese con faldoni di intercettazioni, e rischia una nausea senza più indignazione.
Il disprezzo delle forme e delle leggi caratterizza ieri come oggi il berlusconismo (con l’eccezione di Fini, da qualche tempo) e sempre ha generato regimi carismatici autoritari. Fu l’estrema destra francese, negli Anni 30, ad anteporre il «Paese reale» (o sostanziale) al «Paese legale».
Anch’essa formò Leghe, non partiti. Il partito è una parte, non rappresenta un’interezza, per natura si dà un limite. Nella stessa trappola dell’informe cade oggi il governo, e il vecchio istinto del non-partito fa ritorno. Con disinvoltura ineguagliata Schifani, di fronte all’intrico delle liste, si augura «che venga garantito il diritto di voto a tutti e che la sostanza prevalga sulla forma». Augurio comprensibile il primo, pernicioso il secondo.
Il rigetto delle forme va di pari passo con il rifiuto della legalità, con il primato dato ai diritti privati o corporativi sugli obblighi comuni, con la separazione dei poteri. Si combina alla sfrontatezza con cui l’homo ridens di Kazan, sicuro com’è del proprio talento, si sente legibus solutus, sciolto dai vincoli delle leggi. Talmente sciolto che Berlusconi non esita a dichiarare, nel novembre 1994: «Chi è scelto dalla gente è come unto dal Signore». La Chiesa non ebbe mai alcunché da dire. Anche questa domanda, che Bobbio pose al Vaticano, resta senza risposta.
Tanta sicurezza può dare alla testa. Se ce ne fosse un po’ di meno, se non continuasse la pratica dei «gruppi semiclandestini», si potrebbe chiedere semplicemente scusa agli italiani e alle istituzioni, per la cialtrona gestione delle liste. Aiuterebbe. Ma forse, come scrive Gian Enrico Rusconi sulla Stampa, sognare non ci è dato.
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