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14.12.13

Bye bye Internet, la settimana nera delle nuove tecnologie

di Guido Scorza (ilfattoquotidiano.it)

Nessuno avrebbe mai potuto pensare che in un Paese già fanalino di coda europeo in termini di diffusione di Internet ed appena uscito da quasi un ventennio di governo del Signore del telecomando, Silvio Berlusconi, sarebbe stato possibile allontanare ancora di più i cittadini e le imprese dalle nuove tecnologie e dal futuro. Eppure ci siamo riusciti.

Sono bastati una manciata di giorni a Parlamento, ministri, Governo ed Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni per riuscire in un’impresa inedita e, probabilmente, unica al mondo: mettere Internet in un sacco tricolore e gettarla lontana dai cittadini e dalle imprese del Bel Paese.

Un’asciutta rassegna di quanto accaduto nell’ultima settimana è, purtroppo, sufficiente a supportare una tanto amara conclusione.

La Camera dei Deputati, ieri, ha detto si alla c.d. webtax – creatura dell’On. Francesco Boccia (Pd) – che impone alle imprese italiane di acquistare servizi online solo ed esclusivamente da soggetti dotati di una partita Iva italiana.

Un’iniziativa, quella del parlamentare del Partito democratico, duramente criticata dallo stesso Ministero dell’Economia che l’aveva bollata come incostituzionale e contraria al diritto europeo.

Ora tra i fornitori di servizi online del mondo intero e il nostro Paese c’è un fossato fatto di burocrazia e un indistricabile – persino per un’impresa italiana – groviglio di leggi e leggine fiscali che, difficilmente, contribuirà a rendere l’Italia una meta ambita delle grandi Internet company.

Il 12 dicembre, l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni ha varato la sua personalissima nuova legg(ina) sulla tutela del diritto d’autore online, attribuendosi – in un’inedita sintesi dei tre poteri dello Stato (legislativo, esecutivo e giudiziario, ndr) – il potere di vita o di morte su qualsiasi genere di contenuto pubblicato online e ripromettendosi di esercitarlo nell’ambito di procedimenti sommari da codice militare di guerra e previo sostanziale esautoramento dei Giudici che, sino ad oggi, si sono occupati di far rispettare le leggi in materia online come offline.

L’Autorità potrà anche ordinare ai nostri Internet services provider di dirottare il traffico diretto verso talune piattaforme, contribuendo così – se la web tax non bastasse – all’ulteriore isolamento telematico del nostro Paese.

Altro che Internet nuova agorà e piazza pubblica telematica: chiunque potrà ottenere la rimozione della nostra “parola in digitale” in una manciata di ore, semplicemente scrivendo all’Agcom e sostenendo – a torto o a ragione – che stiamo usando un sottofondo musicale che gli appartiene.

Sempre ieri, frattanto, il Consiglio dei ministri ha approvato il c.d. Decreto Destinazione Italia, titolo che suona quasi ironico, almeno in relazione alle cose di Internet.

Anche se il testo del provvedimento – nel pieno rispetto delle politiche di open gov – non è ancora noto, nel pacchetto ci sono due disposizioni che lasciano senza parole.

Una prima stabilisce che per linkare, indicizzare, embeddare, aggregare un contenuto giornalistico occorre prima chiedere il permesso alle associazioni di categoria degli editori e pagare il prezzo che dovrà essere concordato con queste ultime o, qualora ciò non risultasse possibile, stabilito dalla solita onnipresente Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni. Una manciata di caratteri per riscrivere radicalmente le dinamiche di circolazione delle informazioni online e trasformare la Rete in una piccola – e neppure troppo moderna – televisione nella quale pochi decidono chi può dire cosa.

L’altra disposizione contenuta nel piano “Destinazione italia”, nato per attrarre le imprese estere verso il nostro Paese, dice, più o meno, che la lettura dei libri verrà incentivata attraverso un opportuno programma di benefici fiscali che, tuttavia, non riguarderanno i libri elettronici. Davvero una disposizione illuminata in un’epoca storica nella quale, ormai, ci siamo tutti abituati a leggere, quel poco che leggiamo, su un tablet. C’è solo da chiedersi quale impresa editrice di carta straniera si voglia invitare a far rotta sul nostro Paese attraverso una simile corbelleria protezionistica.

Una pioggia di provvedimenti che basterebbero a fare di quella che si sta per concludere la settimana nera di Internet in Italia, ma non basta ancora.

Negli stessi giorni, infatti, è trapelata anche la notizia che il Ministro dei beni e delle attività culturali, Massimo Bray, stia per varare un nuovo decreto – sembrerebbe trasmessogli via mail con tanto di correzioni in rosso – dalla Siae, attraverso il quale, nelle prossime ore, stabilirà che, nel 2014, i prezzi di smartphones, tablet e PC – oltre ad una lunga serie di altri supporti e dispositivi di registrazione – in Italia, aumenteranno complessivamente, di oltre cento milioni di euro.

Un’altra misura illuminata in un Paese di analfabeti digitali e che sconta un gap senza eguali in Europa in termini di uso delle nuove tecnologie.

Tutto considerato, pare proprio che la novella Arca di Noè che traghetterà il mondo verso il futuro e lontano da un sistema economico e politico prossimo alla fine, salperà senza il nostro Paese a bordo.

Altro che “Yes we can”, in Italia stiamo dicendo, a voce alta, “Bye, Bye Internet!”.

4.5.13

Web e anarchia, lettera aperta a Laura Boldrini

 di

Onorevole Presidente,

ho letto, online, assieme a milioni di cittadini italiani – quelli stessi che Lei rappresenta, sedendo sullo scranno più alto della Camera dei Deputati – la Sua intervista a Repubblica sulla presunta “anarchia” che regnerebbe nel web.

È un’affermazione giuridicamente errata e politicamente preoccupante.

Mi permetta, innanzitutto, di segnalarLe che tutte le condotte che Lei cita a fondamento della Sua tesi costituiscono già, nel nostro Paese, fattispecie di illecito o, addirittura, di reato puntualmente tipizzate dal nostro legislatore ed in relazione alle quali esiste un apparato sanzionatorio severo e rigoroso.

Non corrisponde egualmente al vero che talune delle condotte cui Lei si riferisce nella Sua intervista – come, ad esempio, una scritta ingiuriosa su un muro – se commesse nel c.d. “mondo fisico” costituirebbero reato mentre se commesse online dovrebbero – o anche solo potrebbero – allo stato, considerarsi lecite.

Sono convinto che non Le sfugga che il web è “solo” un mezzo di comunicazione di massa e che il mezzo – per definizione – è insuscettibile di alterare il valore o il disvalore sociale e giuridico di una condotta.

Non c’è, pertanto, nessuna “anarchia” sul web rispetto alla quale sia urgente ed improcrastinabile correre ai ripari e trovare rimedio.

Le leggi ci sono e disciplinano la pressoché totalità delle azioni umane online.

La verità, probabilmente, è che quella che Lei definisce “anarchia del web” è solo la Sua personale percezione di inadeguatezza delle leggi e del sistema investigativo e giudiziario esistente rispetto alla repressione di talune condotte illecite.

È una percezione umana e comprensibile analoga, tuttavia, a quella di milioni di cittadini italiani dinanzi alla lentezza – e talvolta alla fallibilità – della macchina della giustizia nel perseguire talune condotte pure dotate di uno straordinario disvalore sociale.

Non pensa che i Suoi cittadini abbiano la stessa percezione quando vedono politici corrotti continuare indisturbati ad amministrare la cosa pubblica mentre la giustizia arranca, i termini di prescrizione decorrono e cavilli legali consentono loro di farla franca?

Non pensa che le famiglie delle tante vittime delle c.d. “stragi di Stato” abbiano la stessa percezione di assoluta impotenza dell’apparato investigativo e giudiziario del nostro Paese ogni qualvolta si ritrovano costrette a bruciare il calendario di un nuovo anno trascorso senza avere avuto giustizia?

Ogni cittadino italiano, probabilmente, almeno una volta nella vita, si è trovato a percepire il sistema normativo come inadeguato a garantirgli la tutela dei propri diritti e, magari, ha guardato proprio verso lo scranno che Lei occupa invocando l’esigenza di nuove leggi e maggiore attenzione delle Istituzioni, sentendosi, tuttavia, rispondere che quello attuale non è un Ordinamento perfetto ma è il migliore che la Repubblica sia in grado di garantire.

Se, come ritengo, quando Lei parla di “anarchia sul web” è questo che intende, tuttavia, le Sue dichiarazioni oltre a non essere – per quanto detto – giuridicamente corrette, sono, come ho anticipato, politicamente pericolose per non dire deflagranti.

Lei sembra, infatti, pensare che giacché sotto il profilo tecnologico sarebbe astrattamente possibile fare di più ovvero rendere inaccessibile in poche ore un intero sito internet o ordinare – magari senza neppure passare per un giudice – l’immediata rimozione di un contenuto pubblicato online, la legge debba, necessariamente – per scongiurare, appunto, il rischio di quella che Lei chiama impropriamente anarchia – prevedere la possibilità di far ricorso a tali strumenti da Codice militare di guerra e da corte marziale.

L’equazione secondo la quale gli strumenti di repressione degli illeciti tecnicamente possibili dovrebbero ritenersi anche giuridicamente validi ed auspicabili è, tuttavia, un’equazione perversa che minaccia alle radici i principi fondamentali dello Stato di diritto nel quale, sono convinto, Lei si riconosce.

Si tratta di un’equazione tanto più pericolosa online dove, quasi sempre, reprimere un presunto illecito, significa rimuovere un contenuto o renderlo inaccessibile sacrificando così – se la diffusione di quel contenuto dovesse poi risultare lecita all’esito di un giusto processo – la libertà di manifestazione del pensiero ovvero una delle libertà fondamentali del nostro ordinamento democratico.

È per questo che, Onorevole Presidente, Le confesso che le Sue dichiarazioni oltre ad avermi giuridicamente sorpreso mi hanno politicamente preoccupato.

Quella che Lei traccia – o forse solo sottende – è, infatti, una deriva che ha già investito, nella storia recente, decine di volte il nostro Paese come ricorderà certamente bene, tra i tanti, l’attuale ministro della funzione pubblica Giampiero D’Alia che, qualche anno fa, muovendo da considerazioni analoghe alle Sue, avrebbe voluto affidare al Ministro dell’Interno il potere di rendere inaccessibili, nello spazio di poche ore, interi siti internet, senza alcun procedimento giudiziario neppure di natura sommaria.

Spero, naturalmente, di aver completamente sbagliato nell’interpretare le Sue parole e la volontà politica che esse sottendono e mi auguro che, anche grazie alle Sue dichiarazioni, nei mesi che verranno si possa, serenamente, tornare a parlare del web ma non per invocare nuove leggi speciali delle quali non si avverte davvero l’esigenza ma, invece, per promuovere, sempre di più, la circolazione delle informazioni, dei dati e dei contenuti – naturalmente leciti – online e con essa lo sviluppo democratico ed economico del Paese.

Ringraziando Lei per l’attenzione ed il web per questa straordinaria possibilità di dialogo – mi auguro costruttivo – Le porgo i miei più cordiali saluti.

26.9.11

Censurare Internet per salvare il premier

Guido Scorza (Il Fatto Quotidiano)

Per sottrarre il premier alla giustizia questa volta, la Rete italiana rischia la censura.

Se, infatti, come appare ormai probabile nelle prossime ore il Parlamento riprenderà l’esame del famigerato ddl intercettazioni e il Governo ricorrerà, ancora una volta, al voto di fiducia, il nostro ordinamento si arricchirà di una nuova disposizione in forza della quale tutti i gestori di siti informatici saranno tenuti a disporre la rettifica di ogni informazione pubblicata online entro 48 ore dall’eventuale richiesta, fondata o infondata che sia.

In assenza di tempestiva rettifica, la sanzione sarà quella di una multa sino a 12 mila euro.

E’ questo il contenuto del comma 29 dell’art. 1 del disegno di legge n. 1611 che già la scorsa estate aveva minacciato di mettere un enorme cerotto sulla bocca – o meglio sulla tastiera – della blogosfera italiana.

In occasione del precedente dibattito parlamentare sul ddl – dibattito che questa volta potrebbe addirittura non esserci complice il voto di fiducia – nonostante l’ampio movimento di opinione sollevatosi contro l’approvazione della norma, nessuno, in Parlamento, aveva ritenuto di intervenire in modo determinato per eliminare dal testo “ammazza informazione”, almeno la norma c.d. “ammazza blog”.

Questa volta le speranze di un intervento in extremis per salvare, almeno, l’informazione libera che corre in Rete, appaiono ancora di meno perché maggiore è il bisogno della maggioranza – o di ciò che resta del clan dei compagni di merenda del premier – di disporre delle nuove regole anti-intercettazioni e perché, comunque, il Governo ha già manifestato l’intenzione di ricorre al voto di fiducia.

L’entrata in vigore del ddl e, in particolare, del comma 29 dell’art. 1 nella sua attuale formulazione ridisegnerebbe, in maniera importante e in chiave restrittiva e censorea, la mappa dell’informazione libera sul web.

Il punto, come ho già scritto in altre occasioni, non è sottrarre il blogger alla responsabilità per quello che scrive perché è, anzi, sacrosanto che ne risponda ma, più semplicemente riconoscere la differenza abissale che c’è tra un blog e un giornale o una televisione e tra un blogger – magari ragazzino – e un giornalista, una redazione o, piuttosto, un editore.

Il primo – salvo eccezioni – sarà portato a rettificare “per paura” e non già perché certo di dover rettificare mentre i secondi, dinanzi a una richiesta di rettifica, ci pensano, ci riflettono, la esaminano, la fanno esaminare e poi solo se sono davvero convinti di dovervi procedere, vi provvedono.

Imporre un obbligo di rettifica a tutti i produttori “non professionali” di informazione, significa fornire ai nemici della libertà di informazione, una straordinaria arma di pressione – se non di minaccia – per mettere a tacere le poche voci fuori dal coro, quelle non raggiungibili, neppure nel nostro Paese, attraverso una telefonata all’editore e/o al principale investitore pubblicitario.

Sarebbe davvero una sciagura per la libertà di parola sul web se, preoccupato di assecondare l’urgenza della maggioranza nell’approvazione del ddl, il Parlamento licenziasse il testo nella sua attuale formulazione.

Inutile ripetere che le conseguenze dell’entrata in vigore della norma sarebbero gravissime: ogni contenuto, informazione o opinione non gradita ai potenti dell’economia o della politica sarebbe destinata a vita breve sul web e ad essere rimossa – lecita o illecita che ne sia la sua pubblicazione – a seguito dell’invio di una semplice mail contenente una richiesta di rettifica.

1.9.11

Meno sconti sui libri = più cultura?

Guido Scorza (ilfattoquotidiano.it)

E’ davvero curiosa l’equazione che sembra ispirare la nuova disciplina sul prezzo dei libri approvata in estate, con il consenso di tutti gli schieramenti politici, dopo un lungo e travagliato iter parlamentare iniziato nel 2008: meno sconti sui libri, anche se acquistati online, e più cultura per tutti.

Si tratta di un’iniziativa che – promossa con la dichiarata intenzione di difendere la rete dei piccoli librai italiani e con l’alibi di tutelare così la diffusione della cultura nel nostro Paese – danneggia in realtà i lettori e il commercio elettronico. I primi, tra qualche ora, si vedranno privati della possibilità di acquistare online o per corrispondenza libri di ogni genere a prezzi scontati mentre il commercio elettronico – che già, nel nostro Paese, arranca e stenta a decollare – si vedrà privato di un importante volano costituito dall’aver, sin qui, rappresentato un canale privilegiato per l’acquisto di prodotti editoriali a prezzi competitivi.

Difficile condividere lo spirito del disegno di legge che sembra andare contro il buon senso, lo sviluppo del mercato, l’innovazione e i consumatori. Più facile prendere atto del fatto che ci si trova, ancora una volta, dinanzi ad una scelta politica suggerita – per non dire imposta – da una delle tante caste italiane dure a morire: quella degli editori.

Impossibile spiegarsi diversamente perché nel 2011, in un Paese che ambisce a definirsi moderno e che le analisi dell’Unione Europea sullo stato di attuazione dell’agenda digitale ritraggono come drammaticamente indietro sul versante del commercio elettronico (solo il 14,7% degli italiani acquista beni o servizi online), il Parlamento decida di regolamentare un mercato come quello librario mentre in tutta Europa si deregolamentano tutti gli altri, contingentare i prezzi sui libri e, soprattutto, abrogare una norma del 2001 che riconosceva, almeno per le vendite online, libertà di sconto sulla vendita dei libri.

Per capire l’assurdità di una simile decisione basti pensare che, in una segnalazione inviata nel 2002 al Parlamento, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato auspicava “l’eliminazione di tutte le norme che prevedono prezzi minimi di vendita di beni e servizi, incluse le recenti regolamentazioni del sottocosto e quelle che introducono un tetto allo sconto sui libri” in quanto, scriveva l’Autorità, “la fissazione di prezzi minimi non risulta mai uno strumento direttamente funzionale a garantire il mantenimento di un livello minimo di qualità del servizio, il principale obiettivo comunemente invocato a suo sostegno”.

Detto, fatto, o quasi: non solo il Parlamento non ha eliminato la previgente disciplina sui prezzi minimi di vendita ma ne ha, addirittura ampliato l’ambito di applicazione e la portata. Maggioranza e opposizioni, in un’epoca di feroci faide, persino interne ai singoli schieramenti, questa volta si sono straordinariamente trovate d’accordo. Un’unica eccezione che merita una segnalazione e una nota di merito: quella della delegazione Radicale nel Gruppo Pd, rappresentata dai senatori Poretti e Perduca.

Questa la loro dichiarazione di voto a rompere l’unanimità dell’aula: “Proprio in questi giorni, in cui si fa un gran parlare di casta accusando la casta della politica, questo provvedimento ci rientra a pieno titolo. Stavolta si parla di un’altra casta, quella dell’editoria. Ancora una volta siamo qui a sottolineare che questo è un provvedimento corporativo e protezionista, che vede il mercato come un qualcosa di pericoloso, come una giungla non da regolamentare e da disciplinare, ma da cui scappare a gambe levate. Questo provvedimento dovrebbe invogliare la lettura e l’acquisto di un libro limitando gli sconti e imponendo i prezzi per legge; contro queste scelte, per quanto ci riguarda, ci asterremo”.

Da domani i libri, in Italia, costeranno di più e non li compreremo più on line. Secondo il nostro Parlamento, però leggeremo di più e la nostra cultura ci guadagnerà. Se incontrate uno qualsiasi delle centinaia di Parlamentari che ha votato il disegno di legge, chiedetegli di spiegarvi perché limitare gli sconti sui libri dovrebbe far bene alla cultura ed allo sviluppo del Paese.

1.6.11

Agenda digitale: arrivederci Europa

Guido Scorza

A partire dal 25 maggio 2011 i cittadini europei beneficeranno di più diritti e servizi nei settori della telefonia fissa, mobile e di Internet.
E’ questo l’incipit di un comunicato stampa della Commissione europea dello scorso 23 maggio.
A tale data – prosegue il comunicato – gli Stati membri sono infatti tenuti ad attuare a livello nazionale le norme in materia di telecomunicazioni introdotte dall’UE al fine di aumentare la competitività del settore e di offrire migliori servizi alla clientela.

Le nuove norme alle quali si riferisce la Commissione sono quelle contenute nella Direttiva 2009/136/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 25 novembre 2009 recante modifica della direttiva 2002/22/CE relativa al servizio universale e ai diritti degli utenti in materia di reti e di servizi di comunicazione elettronica, della direttiva 2002/58/CE relativa al trattamento dei dati personali e alla tutela della vita privata nel settore delle comunicazioni elettroniche e del regolamento (CE) n. 2006/2004 sulla cooperazione tra le autorità nazionali responsabili dell’esecuzione della normativa a tutela dei consumatori.

Le disposizioni contenute nella Direttiva sanciscono, tra gli altri, il diritto, per i cittadini, di passare a un altro operatore in un solo giorno senza dover cambiare numero di telefono, di avere informazioni più chiare in merito ai servizi offerti e di ricevere una migliore protezione dei dati personali online.
Si tratta di una piccola-grande rivoluzione nelle regole dei servizi telefonici e internet che va nella direzione di rafforzare i diritti degli utenti e consumatori.

Peccato che i benefici dei quali parla la Commissione nel suo comunicato non riguarderanno – o almeno non per il momento – gli utenti ed i consumatori italiani.

Il nostro Paese, infatti, è straordinariamente – ma bisognerebbe, in realtà, dire ordinariamente – indietro nel recepimento della direttiva – che pure è data 2009 – tanto che il Parlamento deve ancora approvare la legge con la quale delegherà il Governo all’emanazione di un decreto legislativo attraverso il quale recepire la Direttiva.
La legge delega, attualmente in discussione alla Camera dei Deputati, accorderà al Governo, come se non bastasse il ritardo sin qui accumulato, un termine di tre mesi dall’entrata in vigore della legge medesima per procedere al recepimento della Direttiva.

E’ quasi incredibile che un Parlamento con uno dei più bassi indici di produttività normativa della storia della Repubblica, riesca ad accumulare ritardi tanto gravi ed importanti persino nell’adempimento a obblighi comunitari.
Frattanto, da Bruxelles, Neelie Kroes, vicepresidente della Commissione europea responsabile dell’Agenda digitale, fa sapere che la Commissione non esiterà ad avviare procedimenti di infrazione contro gli Stati che non adotteranno nei termini la Direttiva e che, in ogni caso “Se questi diritti [n.d.r. quelli riconosciuti nella nuova disciplina UE] non saranno attuati nella pratica, adotterò i provvedimenti necessari, nei confronti degli Stati membri e degli operatori, per porvi rimedio”.

Dopo il plateale “agguato” che il premier ha teso a Obama al tavolo del G8, c’è un’altra bella figura all’orizzonte, nello scenario internazionale, per il nostro Paese.

4.1.11

Povera giustizia

di Guido Scorza

Il ministro della Giustizia, Angelino Alfano ed il suo collega Renato Brunetta continuano, ormai da mesi, a raccontare dei mirabolanti passi in avanti compiuti nell’informatizzazione della giustizia ed a prometterne di ancora più lunghi nei mesi a venire.

L’ultima favola i due l’hanno raccontata il 6 dicembre scorso, presentando a Palazzo Vidoni, il progetto “Vivifacile Giustizia” per avvocati e cittadini, un servizio, attraverso il quale, già nei prossimi giorni gli avvocati dovrebbero ricevere gratuitamente sul loro terminale o sul telefono cellulare gli avvisi relativi alla decisione del giudice di loro interesse, decisione che, in ogni caso, dovranno poi provvedere a ritirare in Tribunale o che dovrà loro essere notificata a mezzo di ufficiale giudiziario.
Aspettare per credere.

Il ministro della Giustizia, d’altra parte, è, da tempo un convinto sostenitore dell’esigenza di informatizzare la Giustizia.
A maggio dello scorso anno, infatti, Angelino Alfano, aveva voluto presentare personalmente, attraverso un bel video pubblicato su YouTube e sul sito del suo ministero, il servizio “Giudice di pace online”, un servizio attraverso il quale, a sentir lui, cittadini ed avvocati avrebbero, finalmente, potuto ottenere – almeno dinanzi ai giudici di pace – giustizia, via internet, senza più bisogno di file, attese e confusioni.
Una bella idea: peccato solo che il funzionamento del servizio preveda che cittadini ed avvocati dopo aver compilato online un modulo per il ricorso al Giudice di Pace debbano stamparlo, firmarlo e spedirlo all’ufficio giudiziario competente a mezzo di raccomandata con avviso di ricevimento, come puntualmente spiegato sullo stesso sito del ministero della Giustizia.

A Roma, nel 2010, per introdurre un giudizio civile l’avvocato scrive sul suo PC l’atto introduttivo, lo stampa, lo firma e lo fotocopia in tante copie quanti sono i soggetti che intende coinvolgere nel procedimento, si reca quindi presso l’ufficio notifiche e, alla fine di una mattinata di fila, consegna l’atto ad un ufficiale giudiziario che, a sua volta, lo firma e lo timbra dopo di che, a seconda dei casi, lo consegna a mani al destinatario o lo chiude in una busta verde ed affida al servizio postale perché lo consegni a mezzo raccomandata.
A distanza di giorni, quindi, l’avvocato torna presso l’ufficio notifiche dove ritira l’originale – rigorosamente cartaceo – dell’atto notificato con l’attestazione, firmata dall’ufficiale giudiziario, attestante l’avvenuta notifica o, invece, l’affidamento alle poste dell’atto medesimo.

Tocca quindi all’avvocato, scaricare da internet il modulo per l’iscrizione della causa a ruolo, compilarlo, stamparlo e firmarlo e tocca, egualmente, all’avvocato predisporre il proprio fascicolo – rigorosamente cartaceo – e, quindi, recarsi presso la cancelleria del Tribunale per provvedere all’iscrizione a ruolo della causa, affrontando ulteriori interminabili file e confrontandosi con pile voluminose di atti e scartoffie.
Naturalmente è solo l’inizio perché, da questo momento e sino ad arrivare alla fine del giudizio, sono numerosissimi gli atti che un avvocato deve scrivere sul suo pc, stampare, firmare e depositare in Tribunale.

Tra eterne sperimentazioni [n.d.r. quella del processo civile telematico è iniziata da oltre un decennio], favole raccontate con grande sagacia e proclami solenni la macchina della Giustizia, oggi – tranne rare eccezioni – funziona ancora così.
Ci vuole coraggio, in tale contesto, a parlare di informatizzazione della giustizia.
A tutto questo, tuttavia, siamo ormai da tempo abituati se non, addirittura rassegnati e, occorre dirlo con grande chiarezza, quello dell’informatizzazione della giustizia è un obiettivo nel quale hanno fallito – ammesso che abbiano mai davvero provato a raggiungerlo – tutti i governi degli ultimi anni, quale che fosse il colore politico del gagliardetto di Palazzo Chigi.
Sembra, tuttavia, che questo Governo dei miracoli abbia deciso di superare sé stesso ed ogni altro precedente Governo facendo ancora di più: l’intenzione, parrebbe, infatti, quella di informatizzare la Giustizia senza software, PC e denaro.

E’ questa la conclusione che si trae nel registrare l’allarme lanciato la scorsa settimana dall’Associazione Nazionale Magistrati e dal procuratore della Repubblica di Roma, Giovanni Ferrara e rilanciato, nelle ultime ore, da Giuseppe Corasaniti, Magistrato in forza alla Procura della Repubblica di Roma che, da anni, si occupa di informatica e giustizia.

Il Governo ha, infatti, tagliato del 50% le risorse necessarie a garantire la manutenzione ai sistemi informatici degli uffici giudiziari, ponendo così a rischio il funzionamento di servizi telematici essenziali all’amministrazione della giustizia.

D’accordo continuare a promettere di informatizzare la giustizia senza avere le idee chiare su cosa serva per farlo ma, pretendere addirittura di riuscire nell’impresa senza soldi, PC e software sembra davvero un’impresa degna di cantastorie di altri tempi.

Non è, d’altra parte, un mistero che questo Governo non ami i giudici e, dunque, non ci si può sorprendere del fatto che, in un’epoca, peraltro, di tagli diffusi, la Giustizia digitale, venga lasciata senza PC.
Povera Giustizia destinata a restare lenta ed analogica in un universo digitale.