di Gianni Riotta
Ci sarà chi andrà a votare, al referendum di domenica, in difesa della libertà di ricerca scientifica, postulata dai Nobel Dulbecco e Levi Montalcini. E chi invece voterà no, o si asterrà, legittimamente, secondo il mandato del cardinal Ruini, per delimitare il potere dei camici bianchi.
Qualcuno dirà di sì ricordando che, fino al 1869, la Chiesa ha esitato sull'inizio della vita (fu Martin Lutero a riproporre il concepimento come debutto della vita, tesi cara a Tertulliano e San Gregorio), qualcuno citerà San Tommaso (che, mal interpretando Aristotele, data la vita umana a ben dopo il concepimento), qualcuno non andrà alle urne, confortato magari dalla bolla del 1588 di Papa Sisto V, «Effraenatam ».
La campagna elettorale non è propizia a serene discussioni, ma almeno i temi del futuro, che il filosofo Francis Fukuyama teme «post-umano », entrano nel tinello di casa. Sarebbe bene però meditare liberi dai guantoni dei pregiudizi che picchiano sui ring dei faziosi, «illuministi contro bigotti», «libertini contro padri di famiglia ». Non è così. Procreazione assistita e cellule staminali sono temi complessi e affascinanti, irriducibili alla propaganda di parte. Lo studioso cristiano William Hurlbut ha convinto l'arcivescovo cattolico di San Francisco William Levada che è possibile creare staminali embrionali senza ledere la morale, e ha già presentato il suo esperimento in Vaticano.
In direzione opposta, la femminista Marie Magdeleine Chatel condanna nel volume «Il disagio della procreazione» ogni intervento medico per indurre gravidanze. Non è facile orientarsi, e del resto la critica all'ingegneria genetica non nasce tra i conservatori, ma tra gli scienziati progressisti, con la storica conferenza di Asilomar del 1975. Quel che colpisce però, nel disputare di esperti, seri o di giornata, è il silenzio freddo sul soggetto cruciale del voto: le coppie di genitori italiani che desiderano bambini e non possono concepirne.
Si discetta di talassemia e Giobbe, di «crioconservazione » e «cultura del desiderio», «ootide ed embrione», ma si dimenticano padri e madri disposti a subire pratiche mediche lunghe, umilianti, spesso dolorose e con impatto grave sulla vita affettiva. Non per piacere effimero, non per narcisismo, ma per una decisione che non ha nulla di erotico o decadente, un atto d'amore, di fede nella vita. Un amore semplice e pulito, controcorrente in un'Italia che di far figli non vuol saperne, troppo edonista per rinunciare al weekend, o troppo disoccupata per arrivare in tre al 27.
Anziché incoraggiare queste famiglie generose, la legge ne rende la Via Crucis ancor più punitiva, sovrapponendovi l'offesa del censo: chi ha i soldi vola all'estero, in cliniche dove non vige la legge 40, definita dalla rivista Foreign Policy «la peggiore al mondo», i poveri restano sterili come il giunco della Bibbia. Le parole di Benedetto XVI contro «la banalizzazione del corpo» e la «pseudolibertà» ci richiamano alla riflessione. Ma le famiglie che hanno avuto un bambino con l'assistenza messa a rischio dalla legge 40 testimoniano proprio di un ritorno al corpo come luogo sacro, di sacrifici, concepimento, vita.
E' la rinuncia concreta alla «pseudolibertà» per il dovere, lungo e faticoso, di maternità e paternità: e Paesi di fervida fede religiosa, dagli Usa a Israele, si guardano infatti dall'imporre i diktat della 40. Chi non vorrà, per convinzione morale, non usufruirà della procreazione assistita. Ma negare, per legge di Stato, a una donna o a un uomo malati di sentirsi chiamare «mamma», «papà» è ingiusto. Il sì è anche scelta di vita, sì a bambini e bambine che altrimenti non vedremo mai sgambettare, sorridendo, tra di noi.
corriere.it
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