Si vocifera che la causa originaria dell'avversione nutrita da Thomas Pynchon per le macchine fotografiche stia nei suoi due incisivi particolarmente sporgenti, che lo farebbero somigliare a una sorta di Bugs Bunny. Vero o meno, lo scrittore è stato al gioco
Uno squarcio nella riservatezza del grande recluso si era già aperto quando la sua agente vendette a un collezionista di feticci le centoventi lettere dello scrittore. Che nel gennaio 2004 decise di svelare il suono della sua voce trasformandosi in un cartone dei Simpsons
TOMMASO PINCIO
Esserci o non esserci. Concedersi senza remore al lettore per fare di sé il protagonista assoluto dei propri libri o nascondersi, invece, trasfigurandosi in personaggi immaginari, pseudonimi elusivi o esistenze rigorosamente appartate? Ecco un dilemma che uno scrittore non può aggirare tanto facilmente. Stabilire in quali forme e misura, e soprattutto se apparire è il tavolo sul quale gli scrittori spesso si giocano ciò che hanno da raccontare. Tutt'altro che rari sono i casi come quello dell'iniziatore del genere poliziesco in Giappone, Hirai Tari, il cui pseudonimo Edogawa Rampo significa «quattro passi lungo il fiume Edo» ma si pronuncia «Edgar Allan Poe». Da qualunque parte si voglia considerare il problema, una cosa è certa: l'identità tocca nel profondo un nervo particolarmente esposto della letteratura. Altrettanto indubbio è che nessuna riflessione al riguardo può evitare di soffermarsi su Thomas Pynchon, colui che più di ogni altro nel nostro tempo ha incarnato la figura dello scrittore invisibile. Ma siccome la completa sparizione di un individuo è operazione estremamente complessa se non impossibile, nemmeno a Pynchon è riuscito di cancellare tutte le tracce. A parte le fin troppo note foto che lo ritraggono ancora ragazzo nei panni di studente universitario e marinaio, uno squarcio significativo nella cortina della sua riservatezza è stato aperto da Candida Donadio, suo agente dal 1963 al 1982.
A onor del vero gli squarci sono ben più di uno. Centoventi per l'esattezza perché tante sono le lettere che lo scrittore scrisse alla Donadio nel corso degli anni e che lei ha pensato bene di vendere per una ragguardevole somma a Carter Burden, uomo d'affari, politico, mecenate e collezionista di feticci letterari. Il grande recluso ovviamente non ha gradito affatto il gesto e per bocca del proprio avvocato ha mandato a dire che non si è mai sentito di «un agente che venda lettere di un cliente salvo dopo la morte di questi».
Il destino ha voluto che il primo a morire fosse Burden. Le lettere sono state così donate alla Pierpont Morgan Library che le ha messe a disposizione degli studiosi. Coloro i quali ottengono il permesso di visionarle scoprono che Pynchon è anche un essere umano oltre che un genio letterario. In altre parole, scoprono una persona che convive con rabbie, passioni e insicurezze in tutto e per tutto simili a quelle di chiunque altro; scoprono che perfino gli scrittori invisibili possono essere in ansia per le prosaiche faccende che assillano tanti scrittori visibili: contratti, diritti d'autore, recensioni e via discorrendo.
Che Pynchon fosse umano, magari perfino troppo umano, non dovrebbe sorprendere nessuno. Tuttavia la sola idea che un simile materiale epistolare esista e sia consultabile ha un che di stonato. Carne e ossa sono orpelli che non addicono a una leggenda. E Pynchon lo è, leggenda. Si pensi a come iniziò il mito della sua irreperibilità. Era il 1963 e Time Magazine stava lavorando al solito articolo sui più brillanti scrittori della nuova generazione di allora. Giustamente si pensò che un posto nell'olimpo dovesse essere riservato a Thomas Pynchon il quale aveva appena pubblicato un romanzo molto apprezzato dalla critica, V. C'era pero un ostacolo: il giovane autore non voleva assolutamente essere fotografato. Sembrava vivesse a Città del Messico e che la gente del luogo gli avesse affibbiato il soprannome di Pancho Villa per via dell'enorme paio di baffi con i quali egli intendeva nascondere se stesso e due incisivi particolarmente sporgenti. In un modo o nell'altro il fotografo del Time riuscì rintracciarlo ma se lo fece scappare sul più bello. Con la destrezza di un consumato escapista, Pynchon saltò all'improvviso su un autobus dileguandosi tra le montagne messicane.
Per le sue modalità, questa fuga richiama alla memoria le scene di certi cartoni animati e in fondo è proprio così che va intesa. Ciò che rende unica la riservatezza di Pynchon non è che sia tanto estrema bensì che sia diventata col tempo una specie di forma d'arte parallela alla scrittura, un'arte che ha molto da spartire con il mondo dei cartoni animati. Si vocifera infatti che la causa originaria dell'avversione per gli obiettivi delle macchine fotografiche vada ricercata proprio nei due incisivi particolarmente sporgenti. Lo scrittore avrebbe ritenuto di non essere socialmente presentabile in quanto quei due denti da castoro lo facevano somigliare a una specie Bugs Bunny dall'aria non troppo sveglia. Poco importa stabilire se e in quale misura simili dicerie corrispondano al vero. L'essenziale è che Pynchon sia stato al gioco e che abbia contribuito ad alimentarlo disseminando la propria opera di elementi quali il cane parlante di Mason & Dixon o i rocamboleschi inseguimenti alla Gatto Silvestro e uccellino Titti di Vineland. Ma è nell'introduzione ai racconti giovanili di Un lento apprendistato che - parlando in prima persona - Pynchon diventa inequivocabile: «Il mio atteggiamento è il seguente: voglia il cielo che i cartoni animati di Bip Bip non svaniscano mai dagli schermi».
Era perciò praticamente inevitabile che l'unica apparizione pubblica di Pynchon dovesse avvenire in forma di pupazzo disegnato. Il grande evento risale al gennaio 2004 e ha avuto quale teatro la Diatriba di una massaia infuriata ovvero una puntata dei famigerati Simpsons in cui Marge è alle prese con ambizioni di scrittrice. Dopo avere partorito un improbabile polpettone ispirato a Moby Dick che ha per titolo Il cuore fiocinato, la moglie di Homer deve risolvere il problema di trovare qualche autore famoso disposto a sponsorizzarla. Entra così in scena lui, il grande recluso. Il volto coperto da una busta di carta marrone con due buchi in corrispondenza degli occhi, Pynchon telefona a Marge proponendole di usare la seguente frase per il lancio pubblicitario: «Thomas Pynchon ha amato questo libro almeno quanto ama le macchine fotografiche». Neanche il tempo di mettere giù il ricevitore ed ecco l'autore sbracciarsi in direzione di alcune persone che sfrecciano in automobile davanti alla sua abitazione. «Ehi voi», urla. «Fatevi una foto in compagnia di uno scrittore inavvicinabile. Oggi l'autografo è gratis. Fermi, non andate via».
È solo in parte una caricatura perché a prestare la voce a questo Pynchon simpsioniano è lo stesso autore. Trattasi dunque di autentico cammeo, seppure parziale. Dopo quasi mezzo secolo di onorata ed elevata letteratura, il grande recluso si è finalmente deciso a svelare una pezzo di sé al pubblico. Ha fatto sentire tutti che suono ha la sua voce trasformandosi in un cartone animato, accettando di buon grado di entrare nel Ghota delle celebrità affiliate alle creature di Matt Groening. Il che è certamente un modo per ironizzare sul fatto che rimanere nell'ombra può rivelarsi una strategia promozionale ma è anche un modo che la dice lunga sul fatto che uno scrittore - si mostri o no - rimane comunque uno scherzo di natura o, se preferite, di letteratura.
ilmanifesto.it
2 commenti:
molto intiresno, grazie
leggere l'intero blog, pretty good
Posta un commento