18.11.07

Esistenze informi tradotte in geometrie romanzesche

Quando è la scrittura stessa di un'opera letteraria a sollecitare l'indagine sulla biografia dell'autore, la critica sembra riattualizzare la lezione della antropologia settecentesca, che per la prima volta stabilì un nesso tra due domande antiche: «che cos'è l'uomo?» e «che uomo sono io?» Le strategie della finzione osservate dalla sponda della vita dell'artista e la vita dell'artista indagata dalla prospettiva che fornisce l'opera
Roberto Gilodi

Che cos'è l'uomo? Che uomo sono io? Sono le due domande centrali dell'antropologia del Settecento. Singolarmente prese non sono domande nuove, ma hanno segnato storicamente lo spartiacque che separa due concezioni radicalmente differenti: alla prima domanda si sono applicate la metafisica e le filosofie sistematiche; alla seconda hanno dato risposte - talora incerte, in altri casi prevedibili - un variegato insieme di scritture, mosse da un bisogno o di natura religiosa, di sincerarsi di se stessi in relazione a Dio, oppure di perpetuarsi nella memoria dei posteri, attraverso i codici retorici dell'esemplarità, collaudati da una lunga tradizione di matrice classica o anch'essa religiosa.
Un fatto è certo: le due domande hanno seguito fin dall'antichità percorsi diversi, le risposte che di volta in volta sono state date non si sono quasi mai incontrate, la vita del singolo uomo aveva rilevanza solo a condizione di funzionare da exemplum per dimostrare le tesi che riguardavano la definizione dell'uomo all'interno delle partiture generali dei sistemi filosofici.
Al centro i dati biografici
Il cammino intrapreso dall'antropologia filosofica del Settecento, che si qualificò come nuova disciplina dell'uomo in relazione oppositiva alle metafisiche tradizionali, stabilì per la prima volta una connessione significativa tra le due domande: solo se scopro esattamente che uomo sono io, posso forse azzardare una risposta alla prima domanda: che cos'è l'uomo? Il momento centrale di questo rovesciamento di prospettiva è quello che il filosofo tedesco Odo Marquardt, con un prestito husserliano, ha chiamato la «Zuwendung zur Lebenswelt», ossia l'esplorazione della vita concretamente vissuta, la vita quindi del singolo individuo. Come tale essa si confronta con «l'uomo nella sua totalità», vale a dire come un insieme dotato di «corpo e anima».
Quanto questa nuova gnoseologia della soggettività individuale abbia avuto effetti sulla scrittura letteraria della modernità, in particolar modo sulla letteratura dell'Ottocento e, contestualmente, sulla critica letteraria, lo dimostra un saggio dello studioso Wolfgang Matz, titolato 1857... Flaubert, Baudelaire, Stifter, recentemente uscito in Germania da Fischer Verlag. Provocatoriamente minimalista nel titolo - quasi da voce di enciclopedia - il saggio rivela un'ambizione che può apparire a tutta prima anacronistica: fornire della modernità letteraria l'immagine di un processo graduale, in cui l'autocoscienza del fare artistico è intrecciata strettamente con le trasformazioni, che un tempo si chiamavano «storico-oggettive». Enunciato così, il progetto del libro corre tuttavia il rischio di dare un'impressione di deja vu, di ripresa di schemi interpretativi che non hanno retto al disincanto storiografico, portato con sé dalla fine delle ideologie.
La vita si fa stile
La novità del libro di Matz sta invece nella tessitura di un discorso critico, che pone al centro il dato biografico-esistenziale, la vita dell'autore e la sua trama di relazioni sociali, ma le osserva dalla specola delle sue realizzazioni letterarie. Non interessa la vita in sé, né la storia in quanto tale ma la «trasformazione della vita in letteratura». Di qui la centralità della relazione tra autobiografia e scrittura, a condizione però di tenere fermo un principio, spesso trascurato, secondo il quale «autobiografico è il procedimento letterario stesso» e non i dati oggettivi di una vita.
Questo orientamento ricorda da vicino un'idea di critica genetica che, come diceva Peter Szondi, tende a vedere non l'opera nella storia ma la storia nell'opera. Storia dunque, e in primo luogo storia di una vita nella sua relazione conflittuale con il mondo, vita che si fa stile, trasformando l'informe materia esistenziale nella geometria di un accadere compiuto.
Nella prima parte del saggio, dedicata a Flaubert, Matz segue con paziente acribia filologica lo sforzo quasi disperato dell'autore dell'Educazione sentimentale di fissare i contorni di quella che già Friedrich Schlegel auspicava come una mitologia della modernità. Seguendo le tappe del suo epistolario - e Matz le ripercorre tutte, a cominciare da quelle infantili in cui l'«idiota della famiglia» comincia a rendersi conto del fatto che solo attraverso la scrittura letteraria potrà dare al suo disagio una fisionomia riconoscibile - osserviamo l'evolversi dagli iniziali «esercizi di stile di un invasato» fino alla scommessa titanica di dare forma alla banalità di un male di vivere non più traducibile nei linguaggi consueti della scrittura letteraria.
Scrivere, per Flaubert, è innanzitutto inventare se stesso come scrittore e le sue creazioni letterarie sono esperienze vissute non in quanto trovano un corrispettivo nella realtà ma in quanto è lo scrivere stesso la sua realtà.
Ricostruire la genesi delle opere attraverso le testimonianze epistolari, intrecciare confession e invenzione letteraria è dunque per Matz un modo, anzi il solo modo di fissare i contorni di una poetica. C'è un esempio di questo procedimento singolare di antropologia letteraria che merita di essere citato. Matz ricorda l'«entusiasmo» provato da Flaubert leggendo la Femme de trente ans di Balzac - «Riportare alla luce nuovi tesori ... in ciò che era stato gettato via come inutile, scoprire nell'universo dell'amore un nuovo continente... non è forse geniale e sublime?» - e osserva come ad entusiasmare Flaubert non sia stato il romanzo in sé, che notoriamente non era gran cosa, ma la capacità di Balzac di unire psicologia e fisiologia. «Se Balzac definisce la sua eroina esclusivamente mediante l'età... un'età, che secondo le convenzioni e la psicologia di quel tempo si trovava già abbondantemente al di là della passione erotica, per tacere di quella sessuale, ciò significa che egli ha offerto alla letteratura una figura tipica fino ad allora sconosciuta, più vera dell'immagine femminile tradizionale.»
Il nuovo universo letterario, che si disegna con Madame Bovary, dimostra come la lezione di Balzac abbia affinato in Flaubert la capacità di cogliere nella fisiologia dei sentimenti, nella 'malattia dell'anima', negli scarti sentimentali, nei margini inespressi dell'odiata borghesia le nuove figurazioni letterarie, di cui le Lettere a Colet, registreranno in presa diretta le tappe più significative. Quanto alla storia, alle rivoluzioni, in particolare quella del '48, l'atteggiamento di Flaubert - ci spiega Matz - non è quello dell'analista politico ma quello di un «fenomenologo della nuova società»: le sue scienze antropologiche sono anzitutto la fisiognomica e l'estetica, quest'ultima intesa nel suo senso originario quale sapere della percezione sensibile.
E così, quando finalmente è di scena Madame Bovary, conta davvero non ciò che accade o ciò che essa fa ma i gesti dell'inazione, come quello celebre della punta del coltello con cui Emma disegnava distrattamente delle righe sulla tovaglia incerata mentre Charles «était long a manger» (ci metteva troppo a mangiare). Questa scena, già magistralmente analizzata da Auerbach in Mimesis, esprime sì la noia, la malinconia, Auerbach dice la «disperazione» di Emma ma è resa possibile perché il romanzo - come dichiara il suo autore a Louise Colet - è «opera della critica anzi dell'anatomia». E aggiunge: «Il lettore non si accorgerà (come spero) di tutto il lavoro psicologico nascosto sotto la forma ma ne avvertirà gli effetti».
La fredda anatomia delle passioni è per Flaubert uno strumento della critica, in cui è implicita, secondo Matz un'attitudine kantiana: il romanzo moderno, se aspira a cogliere la verità, deve, al pari della ragione, conoscere i suoi limiti e le sue possibilità. Se non lo fa, rimane schiavo di un dogmatismo poetico che vanifica le sue intenzioni. La domanda intorno al proprio fare letteratura accompagna come un'ombra ogni gesto poetico di Flaubert e inaugura una svolta nella coscienza moderna del romanzo europeo.
La lezione di Madame Bovary è dunque questa (per chi vorrà raccoglierla): l'autoriflessione critica del narratore non può più affidarsi ingenuamente alle interpolazioni saggistiche (che Flaubert detestava); se vorrà davvero essere efficace dovrà farsi opera essa stessa, trasformarsi in scrittura. «In questo senso un abisso epocale - sostiene giustamente Matz - separa Balzac da Flaubert, la Femme de trente ans da Madame Bovary.»
«Il martire della poesia» è il titolo della parte dedicata a Baudelaire. Il fil rouge è ancora lo stesso: da un lato la bancarotta storica delle grandi illusioni rivoluzionarie e la noia come sentimento dominante di una borghesia che si appresta a conquistare il mondo, dall'altra il desiderio di dare voce agli umori del mondo contemporaneo in tutte le forme disponibili: saggio, critica, traduzione, teatro, arte, musica e naturalmente poesia.
«Baudelaire vive da poeta già prima di esserlo», dichiara Matz, e a suffragio della sua tesi dipana un reticolo di testimonianze autobiografiche descrittive di un apprendistato poetico che è insieme apprendistato alla negatività della vita. Sarah, la prostituta conosciuta nel settembre del 1839, a cui è dedicata una delle prime poesie de Les Fleurs du Mal, contiene quella miscela di elementi che sarà tipica della sua poesia successiva: «lo splendore del brutto, l'erotismo della perversione, il dettaglio esplicitamente realistico, il tentativo di trascenderne il significato figurale, la povertà, la libidine, la provocazione e il blasfemo, l'impulso a salvare il reietto.» Anche qui vita e arte sono intrecciate non per dare voce a un generico disagio ma per distillare un lessico poetico che sappia cogliere, come dice Baudelaire nel Salon del 1846, «il lato epico della vita odierna».
Prospettive moltiplicate
Con Stifter il «disagio della civiltà» assume i connotati utopici di un cammino di formazione etica, che si sottrae e si contrappone provocatoriamente alle costrizioni della razionalità strumentale della società borghese. «L'ideale della libertà è per lungo tempo distrutto» scrive l'autore in una lettera datata 6 marzo 1849. Anche in questo caso la traccia biografica e l'evoluzione letteraria si richiamano in un complesso gioco di dissimulazioni incrociate e alla fine di questo tormentato percorso si distende una sorta di pessimistica liquidazione, tanto degli ideali rivoluzionari di libertà, uguaglianza, progresso, quanto delle mitologie dello stato di natura. E la compiutezza etica di Heinrich, l'eroe protagonista, della Tarda estate), la Bildung a cui aspira con docile sottomissione ha una valenza palesemente antistoricistica. Forse era questo tratto del romanzo che Nietzsche amava e di cui dirà, nel secondo volume di Umano troppo umano, che è fra le poche opere tedesche in prosa che «meritano di essere lette e rilette».
«La letteratura non è fatta di carta, non è una piramide, non è un giacimento immenso di libri, non è una biblioteca di Babilonia circondata di mura. Biblioteca sì ma con finestre e molteplici entrate e uscite attraverso le quali transitano svariate persone». Le parole conclusive dell'imponente lavoro di Wolfgang Matz, che si legge a tratti come un romanzo di romanzi, sono emblematiche di un metodo di cui si è persa la memoria: la critica, quando è vera critica, non è mai solo esercizio anatomico ma moltiplicazione di prospettive e potenziamento creativo delle opere a cui si applica. Perciò è difficile dare un nome a questo tipo di indagine, che unisce l'ermeneutica dell'indizio all'antropologia della scrittura, che osserva le strategie della finzione dalla sponda della vita dell'artista e la vita dell'artista dalla prospettiva dell'opera, in un continuo movimento di entrata e uscita che non approda a certezze apodittiche ma assume equilibrio e contraddizione come essenza ultima del fare letteratura.
La lezione che se ne può trarre è che l'indagine biografica non solo non pregiudica l' intelligenza del testo ma ne è al contrario la condizione indispensabile quando a sollecitarla è la scrittura stessa.

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