Finalmente riscattato dalla traduzione di Mario Materassi, esce per Adelphi «Luce d'agosto», un capolavoro che ha sparso semi ovunque. Per esempio nei bassifondi di Shingu di cui parla Nakagami Kenji in «Mille anni di piacere», appena uscito da Einaudi
Tommaso Pincio
Per troppo tempo il lettore italiano ha conosciuto uno dei più grandi romanzi del Ventesimo secolo in una traduzione che, seppure d'autore, non gli rende giustizia. Per errori, omissioni e gratuite invenzioni, il vecchio Luce d'agosto di Elio Vittorini rasenta infatti i confini dello scempio letterario. Finalmente, grazie alla cura di un fine conoscitore come Mario Materassi, questo capolavoro è stato ora restituito al suo originale splendore (Adelphi, pp. 425, euro 23). William Faulkner lo portò a compimento poco dopo essere diventato una celebrità. Fin dall'inizio della carriera si era guadagnato discrete e talvolta ottime recensioni, ma fu soltanto nell'autunno del 1931 che toccò con mano il successo. «Ho suscitato davvero molta sensazione» scrisse alla moglie rimasta in Mississippi riferendosi al clamore per Santuario, uscito una decina di mesi prima. «Adesso sono la più importante figura letteraria in America. Mi aspetta un grande futuro».
Genesi di un titolo
Fu in effetti un periodo molto intenso. Faulkner era un trentenne nel pieno delle forze. Aveva già dato alle stampe due romanzi del calibro di Mentre morivo e L'urlo e il furore. Da lì a poco avrebbe scritto anche Assalonne, Assalonne! e sarebbe andato a Hollywood. In California lavorò alla sceneggiatura del Grande Sonno e di un altro film tratto da un romanzo di Hemingway, diventò amico di Humphrey Bogart e Lauren Bacall, bevve molto come era suo costume da sempre e si fece una storia con la segretaria del regista Howard Hawks. Sul piano letterario, furono gli anni in cui diede corpo al mondo di Yoknapatawpha, l'immaginaria contea del Sud dove ha ambientato gran parte dei libri e che è ormai un luogo mitico del Novecento. Sperimentò inoltre parecchio, spingendo la forma romanzo ai suoi limiti estremi.
Sotto questo aspetto, Luce d'agosto rappresenta, almeno in parte, un'eccezione. Stilisticamente è forse il suo romanzo più accessibile. Una precisa ragione indusse Faulkner a servirsi di una lingua meno audace del solito, una ragione che va cercata proprio nel titolo. I biografi raccontano che lo trovò in una sera d'estate. Era seduto in veranda a contemplare il tramonto quando la moglie fece un commento del tipo «Non c'è nulla come la luce di agosto, vero?» Lo scrittore si alzò di scatto, si precipitò nel suo studio e dopo avere cancellato il titolo cui aveva pensato in un primo momento, Dark House, appuntò a matita in cima al dattiloscritto «Light in August», che in inglese ha un doppio significato: perché «light» vuol dire anche nascere, venire alla luce. Faulkner ha rivelato che cominciò a costruire la trama partendo per l'appunto dall'immagine di una ragazza povera e incinta, fermamente intenzionata a trovare il suo innamorato. E così si apre il romanzo: con Lena Grove che arriva a piedi dall'Alabama nella contea di Yoknapatawpha in cerca di Lucas Burch, il padre del bambino che porta in grembo. A quanto le è stato detto, costui dovrebbe lavorare in una segheria della piccola città di Jefferson. Giunta sul posto Lena trova un quasi omonimo, un certo Byron Bunch, il quale non ci mette molto a rendersi conto che l'uomo colpevole di avere sedotto e abbandonato la ragazza è in effetti un giovane contrabbandiere di alcol da lui conosciuto con il nome di Joe Brown e al momento rinchiuso nelle patrie galere in seguito all'omicidio di una donna, il cui responsabile è però un negro dalla pelle chiara destinato a fare una brutta fine. Quest'ultimo è il vero protagonista del romanzo, il perno attorno al quale Faulkner fa ruotare e precipitare i sentimenti più oscuri degli abitanti di Jefferson.
Misterioso e sfuggente, per metà bianco e per metà nero, carnefice e martire al tempo stesso, Joe Christmas è una sorta di Messia al negativo, un personaggio indimenticabile che, al pari del capitano Achab di Moby Dick e al Jay Gatsby di Fitzegerald, merita un posto nei piani più alti del pantheon degli antieroi della letteratura americana. Silenzioso, appartato, l'aria tranquilla e soddisfatta, Joe Christmas è tormentato al suo interno da forze tanto violente quanto di origine indefinita, restando perciò un enigma sia per se stesso che per gli altri, inclusi noi lettori. E questo nonostante le tante cose che vengono rivelate sul suo conto nel corso del romanzo. Ma come ebbe a sottolineare lo stesso Faulkner, l'idea tragica e centrale di questa storia consiste proprio nel fatto che egli non sa chi è, né ha possibilità di scoprirlo. Il suo incoerente e dubbio modo di agire diventa pienamente comprensibile se giudicato in questa prospettiva: non conoscere se stessi significa non poter mai essere la stessa persona, il che preclude anche la possibilità di un normale inserimento nel corpo sociale. È la sua dubbia identità - prima ancora del delitto di cui si macchia - a farne un paria. D'altra parte, la grandezza del romanzo consiste proprio nella sua ambiguità, nel lasciare solo il lettore con questioni enormi e irrisolvibili.
Una luce che viene dal mito
«Nella mia terra la luce ha una sua qualità particolarissima; fulgida, nitida, come se venisse non dall'oggi ma dall'età classica» dice lo scrittore a proposito del titolo. I personaggi di Luce d'agosto ci appaiono infatti vivere fuori dal tempo, sublimi e meschini come gli dèi dell'antica Grecia. Le loro miserevoli vicende ci parlano di una condizione universale e se Faulkner ha usato una lingua che sa di orale e antica semplicità è perché voleva restituirci il senso di una narrazione epica, frutto di un intrecciarsi di storie e voci che si rincorrono, contraddicono e sovrappongono, fino a condensarsi in un magma fluido, caldo e avvolgente, dove passato e presente, verità e menzogna, tragedia e commedia convivono.
Spesso in Luce d'agosto, quel che noi lettori dobbiamo sapere ci viene riferito non dal convenzionale narratore onnisciente di romanzesca fattura, bensì dal chiacchiericcio di persone senza volto, dallo sparlare della gente che crea da sé e senza quasi rendersene conto le leggende della sua piccola comunità. Insomma, la luce a cui pensa Faulkner è quella che emana dalla voce del mito e che fa dell'immaginaria contea di Yoknapatawpha un nuovo Olimpo. In virtù di questa voce percepiamo Jefferson come un'entità viva e pulsante, coro e cuore del mondo intero, e tanto più forte è questa percezione quanto più tragicamente palpabile diventano isolamento ed emarginazione di Joe Christmas e degli altri paria del romanzo come, per esempio, il reverendo Hightower.
Non ci sono parole sufficienti per dare a Faulkner quel che è di Faulkner. Semmai esiste un paradiso dei lettori, di sicuro è Luce d'agosto. L'influenza che ha esercitato in America nel corso degli anni è ovviamente incalcolabile. I capolavori lasciano semi ovunque, generano nuovi scrittori e nuove storie nei luoghi più inaspettati. In Giappone, per esempio.
Difficile immaginare un paese più distante per sensibilità e composizione sociale dal Mississippi razzista dei tempi del proibizionismo. Eppure esiste - o per meglio dire è esistito, visto che è scomparso nel 1992 - uno scrittore che ha ricavato dai bassifondi di Shingu, a est di Osaka, un mondo per molti versi assimilabile alla contea di Yoknapatawpha. Dimenticatevi dunque atmosfere rarefatte, essenzialità zen e scene di austera delicatezza, perché di ben altra pasta è fatta l'umanità che vive nei Vicoli descritti da Nakagami Kenji in Mille anni di piacere (Einaudi, a cura di Antonietta Pastore, pp. 274, euro 17,50). Esiste da secoli nell'impero del Sol Levante una minoranza discriminata, una comunità di emarginati sparsi per tutto il paese e bollati con l'etichetta di burakumin, che alla lettera significa semplicemente «abitanti di un villaggio» ma nei fatti indica i discendenti di una casta di schiavi costretti ai lavori più umilianti e segregati in ghetti lontani dalle città.
Sul finire dell'Ottocento, con l'apertura del paese all'Occidente, la divisione della popolazione in classi venne abolita per legge ma, come sovente accade in casi del genere, il pregiudizio perdurò nel tempo. Nonostante il forte impegno del Movimento di liberazione buraku, ancora oggi circolano liste di persone di discendenza «impura» e non è raro che i genitori ingaggino un investigatore per accertare le origini di un aspirante genero. Si tratta di una minoranza invisibile perché rappresenta un problema del quale si preferisce non parlare apertamente e soprattutto perché nulla tradisce all'apparenza l'identità di queste persone da tenere a distanza. Per Nakagami, nato nel 1946 in un villaggio buraku, fu dunque naturale appassionarsi al jazz, espressione dei reietti per eccellenza, i neri d'America, nonché all'opera di Faulkner che, insieme a Genet, considerava come uno scrittore rivoluzionario.
Un figlio della vergogna
È probabile che a colpirlo in modo particolare sia stato proprio un personaggio come Joe Christmas, nel quale il marchio della negritudine non è immediatamente visibile ma rappresenta comunque una maledizione. In modo analogo, i protagonisti di Mille anni di piacere sono uomini bellissimi e lussuriosi destinati a morte prematura per una colpa che non sanno di avere. La loro esistenza si compie in un mondo a parte fatto di miseria, ignoranza, sesso e violenza. Tanto sesso e tanta violenza, soprattutto. Nakagami non risparmia nulla al lettore: ogni dettaglio, non importa quanto disgustoso, viene descritto con impietosa minuzia, ogni pagina è un pugno nello stomaco. Ciò nonostante si ha l'impressione di immergersi in storie nobili e dal sapore epico. Questi bassifondi, che Nakagami chiama semplicemente Vicoli con la v maiuscola come fossero il centro dell'universo, assurgono a una dimensione mitica e assoluta, tanto più che a raccontare il fato degli sfortunati giovani è la loro levatrice, una vecchia che alla maniera dei poeti tiene tutto a mente, perché non conosce l'uso della scrittura. In un altro libro, Il mare degli alberi morti (pubblicato anni fa da Marsilio), la saga di una famiglia buraku il cui protagonista è un giovane ossessionato dalla figura paterna che ha avuto contemporaneamente tre figli da tre donne diverse, si consuma esattamente come una tragedia greca: nel sangue e nell'incesto, tra maldicenze e odi ancestrali. Per quanto possano sembrare estremi e inauditi, i Vicoli stanno alla realtà nella quale è cresciuto Nakagami Kenji come l'immaginaria contea di Yoknapatawpha sta al vero Mississippi dei tempi di Faulkner. In un'intervista rilasciata nel 1989 al quotidiano francese Liberation, l'autore si definì un «figlio della vergogna» che scrive per un pubblico che non può leggere i suoi libri.
«Mia madre, mia sorella, mio fratello sono analfabeti come tutti i burakumin. Io ho potuto imparare a leggere e scrivere dopo la guerra, perché con l'occupazione americana fu istituita l'istruzione obbligatoria per tutti. Mia madre mi proibiva di leggere, diceva che faceva diventare matti. Quando ripenso a questa formazione, mi viene da considerarla un lusso. La letteratura delle origini era di tipo narrativo, si fondava sulla tradizione orale. Il No e il Kabuki vengono proprio da lì, dalla tradizione in cui io ho sguazzato da piccolo».
Dal ghetto all'Olimpo
Prima di intraprendere la carriera letteraria, Nakagami fece vari lavori, operaio in una fabbrica di auto, scaricatore di bagagli in un aeroporto. Trasferitosi a Tokyo negli anni Sessanta iniziò a frequentare gli ambienti di estrema sinistra, dove scoprì il jazz e scrittori occidentali come per l'appunto Faulkner, al quale fu spesso accostato dalla critica non soltanto per le effettive affinità, ma anche per la difficoltà di collocare un'opera tanto brutale ed esplicita all'intero del panorama giapponese. Nel 1976 vinse comunque il prestigioso premio Akutagawa.
Purtroppo, come i suoi personaggi, era destinato a una morte prematura. Se ne andò per un tumore ad appena quarantasei anni, in tempo però per riuscire a riscattare il ghetto che lo aveva visto nascere ed essere considerato uno degli scrittori più importanti del Novecento giapponese.
Genesi di un titolo
Fu in effetti un periodo molto intenso. Faulkner era un trentenne nel pieno delle forze. Aveva già dato alle stampe due romanzi del calibro di Mentre morivo e L'urlo e il furore. Da lì a poco avrebbe scritto anche Assalonne, Assalonne! e sarebbe andato a Hollywood. In California lavorò alla sceneggiatura del Grande Sonno e di un altro film tratto da un romanzo di Hemingway, diventò amico di Humphrey Bogart e Lauren Bacall, bevve molto come era suo costume da sempre e si fece una storia con la segretaria del regista Howard Hawks. Sul piano letterario, furono gli anni in cui diede corpo al mondo di Yoknapatawpha, l'immaginaria contea del Sud dove ha ambientato gran parte dei libri e che è ormai un luogo mitico del Novecento. Sperimentò inoltre parecchio, spingendo la forma romanzo ai suoi limiti estremi.
Sotto questo aspetto, Luce d'agosto rappresenta, almeno in parte, un'eccezione. Stilisticamente è forse il suo romanzo più accessibile. Una precisa ragione indusse Faulkner a servirsi di una lingua meno audace del solito, una ragione che va cercata proprio nel titolo. I biografi raccontano che lo trovò in una sera d'estate. Era seduto in veranda a contemplare il tramonto quando la moglie fece un commento del tipo «Non c'è nulla come la luce di agosto, vero?» Lo scrittore si alzò di scatto, si precipitò nel suo studio e dopo avere cancellato il titolo cui aveva pensato in un primo momento, Dark House, appuntò a matita in cima al dattiloscritto «Light in August», che in inglese ha un doppio significato: perché «light» vuol dire anche nascere, venire alla luce. Faulkner ha rivelato che cominciò a costruire la trama partendo per l'appunto dall'immagine di una ragazza povera e incinta, fermamente intenzionata a trovare il suo innamorato. E così si apre il romanzo: con Lena Grove che arriva a piedi dall'Alabama nella contea di Yoknapatawpha in cerca di Lucas Burch, il padre del bambino che porta in grembo. A quanto le è stato detto, costui dovrebbe lavorare in una segheria della piccola città di Jefferson. Giunta sul posto Lena trova un quasi omonimo, un certo Byron Bunch, il quale non ci mette molto a rendersi conto che l'uomo colpevole di avere sedotto e abbandonato la ragazza è in effetti un giovane contrabbandiere di alcol da lui conosciuto con il nome di Joe Brown e al momento rinchiuso nelle patrie galere in seguito all'omicidio di una donna, il cui responsabile è però un negro dalla pelle chiara destinato a fare una brutta fine. Quest'ultimo è il vero protagonista del romanzo, il perno attorno al quale Faulkner fa ruotare e precipitare i sentimenti più oscuri degli abitanti di Jefferson.
Misterioso e sfuggente, per metà bianco e per metà nero, carnefice e martire al tempo stesso, Joe Christmas è una sorta di Messia al negativo, un personaggio indimenticabile che, al pari del capitano Achab di Moby Dick e al Jay Gatsby di Fitzegerald, merita un posto nei piani più alti del pantheon degli antieroi della letteratura americana. Silenzioso, appartato, l'aria tranquilla e soddisfatta, Joe Christmas è tormentato al suo interno da forze tanto violente quanto di origine indefinita, restando perciò un enigma sia per se stesso che per gli altri, inclusi noi lettori. E questo nonostante le tante cose che vengono rivelate sul suo conto nel corso del romanzo. Ma come ebbe a sottolineare lo stesso Faulkner, l'idea tragica e centrale di questa storia consiste proprio nel fatto che egli non sa chi è, né ha possibilità di scoprirlo. Il suo incoerente e dubbio modo di agire diventa pienamente comprensibile se giudicato in questa prospettiva: non conoscere se stessi significa non poter mai essere la stessa persona, il che preclude anche la possibilità di un normale inserimento nel corpo sociale. È la sua dubbia identità - prima ancora del delitto di cui si macchia - a farne un paria. D'altra parte, la grandezza del romanzo consiste proprio nella sua ambiguità, nel lasciare solo il lettore con questioni enormi e irrisolvibili.
Una luce che viene dal mito
«Nella mia terra la luce ha una sua qualità particolarissima; fulgida, nitida, come se venisse non dall'oggi ma dall'età classica» dice lo scrittore a proposito del titolo. I personaggi di Luce d'agosto ci appaiono infatti vivere fuori dal tempo, sublimi e meschini come gli dèi dell'antica Grecia. Le loro miserevoli vicende ci parlano di una condizione universale e se Faulkner ha usato una lingua che sa di orale e antica semplicità è perché voleva restituirci il senso di una narrazione epica, frutto di un intrecciarsi di storie e voci che si rincorrono, contraddicono e sovrappongono, fino a condensarsi in un magma fluido, caldo e avvolgente, dove passato e presente, verità e menzogna, tragedia e commedia convivono.
Spesso in Luce d'agosto, quel che noi lettori dobbiamo sapere ci viene riferito non dal convenzionale narratore onnisciente di romanzesca fattura, bensì dal chiacchiericcio di persone senza volto, dallo sparlare della gente che crea da sé e senza quasi rendersene conto le leggende della sua piccola comunità. Insomma, la luce a cui pensa Faulkner è quella che emana dalla voce del mito e che fa dell'immaginaria contea di Yoknapatawpha un nuovo Olimpo. In virtù di questa voce percepiamo Jefferson come un'entità viva e pulsante, coro e cuore del mondo intero, e tanto più forte è questa percezione quanto più tragicamente palpabile diventano isolamento ed emarginazione di Joe Christmas e degli altri paria del romanzo come, per esempio, il reverendo Hightower.
Non ci sono parole sufficienti per dare a Faulkner quel che è di Faulkner. Semmai esiste un paradiso dei lettori, di sicuro è Luce d'agosto. L'influenza che ha esercitato in America nel corso degli anni è ovviamente incalcolabile. I capolavori lasciano semi ovunque, generano nuovi scrittori e nuove storie nei luoghi più inaspettati. In Giappone, per esempio.
Difficile immaginare un paese più distante per sensibilità e composizione sociale dal Mississippi razzista dei tempi del proibizionismo. Eppure esiste - o per meglio dire è esistito, visto che è scomparso nel 1992 - uno scrittore che ha ricavato dai bassifondi di Shingu, a est di Osaka, un mondo per molti versi assimilabile alla contea di Yoknapatawpha. Dimenticatevi dunque atmosfere rarefatte, essenzialità zen e scene di austera delicatezza, perché di ben altra pasta è fatta l'umanità che vive nei Vicoli descritti da Nakagami Kenji in Mille anni di piacere (Einaudi, a cura di Antonietta Pastore, pp. 274, euro 17,50). Esiste da secoli nell'impero del Sol Levante una minoranza discriminata, una comunità di emarginati sparsi per tutto il paese e bollati con l'etichetta di burakumin, che alla lettera significa semplicemente «abitanti di un villaggio» ma nei fatti indica i discendenti di una casta di schiavi costretti ai lavori più umilianti e segregati in ghetti lontani dalle città.
Sul finire dell'Ottocento, con l'apertura del paese all'Occidente, la divisione della popolazione in classi venne abolita per legge ma, come sovente accade in casi del genere, il pregiudizio perdurò nel tempo. Nonostante il forte impegno del Movimento di liberazione buraku, ancora oggi circolano liste di persone di discendenza «impura» e non è raro che i genitori ingaggino un investigatore per accertare le origini di un aspirante genero. Si tratta di una minoranza invisibile perché rappresenta un problema del quale si preferisce non parlare apertamente e soprattutto perché nulla tradisce all'apparenza l'identità di queste persone da tenere a distanza. Per Nakagami, nato nel 1946 in un villaggio buraku, fu dunque naturale appassionarsi al jazz, espressione dei reietti per eccellenza, i neri d'America, nonché all'opera di Faulkner che, insieme a Genet, considerava come uno scrittore rivoluzionario.
Un figlio della vergogna
È probabile che a colpirlo in modo particolare sia stato proprio un personaggio come Joe Christmas, nel quale il marchio della negritudine non è immediatamente visibile ma rappresenta comunque una maledizione. In modo analogo, i protagonisti di Mille anni di piacere sono uomini bellissimi e lussuriosi destinati a morte prematura per una colpa che non sanno di avere. La loro esistenza si compie in un mondo a parte fatto di miseria, ignoranza, sesso e violenza. Tanto sesso e tanta violenza, soprattutto. Nakagami non risparmia nulla al lettore: ogni dettaglio, non importa quanto disgustoso, viene descritto con impietosa minuzia, ogni pagina è un pugno nello stomaco. Ciò nonostante si ha l'impressione di immergersi in storie nobili e dal sapore epico. Questi bassifondi, che Nakagami chiama semplicemente Vicoli con la v maiuscola come fossero il centro dell'universo, assurgono a una dimensione mitica e assoluta, tanto più che a raccontare il fato degli sfortunati giovani è la loro levatrice, una vecchia che alla maniera dei poeti tiene tutto a mente, perché non conosce l'uso della scrittura. In un altro libro, Il mare degli alberi morti (pubblicato anni fa da Marsilio), la saga di una famiglia buraku il cui protagonista è un giovane ossessionato dalla figura paterna che ha avuto contemporaneamente tre figli da tre donne diverse, si consuma esattamente come una tragedia greca: nel sangue e nell'incesto, tra maldicenze e odi ancestrali. Per quanto possano sembrare estremi e inauditi, i Vicoli stanno alla realtà nella quale è cresciuto Nakagami Kenji come l'immaginaria contea di Yoknapatawpha sta al vero Mississippi dei tempi di Faulkner. In un'intervista rilasciata nel 1989 al quotidiano francese Liberation, l'autore si definì un «figlio della vergogna» che scrive per un pubblico che non può leggere i suoi libri.
«Mia madre, mia sorella, mio fratello sono analfabeti come tutti i burakumin. Io ho potuto imparare a leggere e scrivere dopo la guerra, perché con l'occupazione americana fu istituita l'istruzione obbligatoria per tutti. Mia madre mi proibiva di leggere, diceva che faceva diventare matti. Quando ripenso a questa formazione, mi viene da considerarla un lusso. La letteratura delle origini era di tipo narrativo, si fondava sulla tradizione orale. Il No e il Kabuki vengono proprio da lì, dalla tradizione in cui io ho sguazzato da piccolo».
Dal ghetto all'Olimpo
Prima di intraprendere la carriera letteraria, Nakagami fece vari lavori, operaio in una fabbrica di auto, scaricatore di bagagli in un aeroporto. Trasferitosi a Tokyo negli anni Sessanta iniziò a frequentare gli ambienti di estrema sinistra, dove scoprì il jazz e scrittori occidentali come per l'appunto Faulkner, al quale fu spesso accostato dalla critica non soltanto per le effettive affinità, ma anche per la difficoltà di collocare un'opera tanto brutale ed esplicita all'intero del panorama giapponese. Nel 1976 vinse comunque il prestigioso premio Akutagawa.
Purtroppo, come i suoi personaggi, era destinato a una morte prematura. Se ne andò per un tumore ad appena quarantasei anni, in tempo però per riuscire a riscattare il ghetto che lo aveva visto nascere ed essere considerato uno degli scrittori più importanti del Novecento giapponese.
1 commento:
Ho appena finito "luce d'agosto".
Vorrei rileggerlo tutto immediatamente, e penso, che lo farò.
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