intervista a Jonathan Lethem
di Enrico Pedemonte
Tutti gli artisti copiano, dice Jonathan Lethem che a febbraio ha scritto un lungo saggio sulla rivista 'Harper's', difendendo la libertà artistica di 'appropriarsi' delle idee degli altri. Lethem compie una lunga requisitoria contro quella che lui definisce "la tirannia del copyright". Per sostenere la sua tesi Lethem ammette che quasi ogni riga scritta nel corso della sua prolifica vita di scrittore è stata copiata da qualche parte, e poi modificata, reinterpretata, reimpastata.
Anche la band protagonista del suo ultimo romanzo ('Non mi ami ancora', in uscita in Italia per i tipi del Saggiatore) non esita a copiare pur di raggiungere il successo. Si tratta di un quartetto di musicisti squinternati che non riescono a trovare né l'ispirazione artistica, né un nome per la band. Mattew, il cantante, lavora allo zoo di Los Angeles, rapisce un canguro e lo nasconde nel bagno di casa. Bedwin, il chitarrista, guarda ossessivamente un vecchio video di Fritz Lang. Denise, la batterista, vende giochi erotici. E Lucinda, la bassista che non ha inibizioni né con l'alcol né con il sesso, passa ore a rispondere al telefono di uno sportello reclami - che in realtà è un'installazione artistica - dove chiunque può sfogarsi raccontando le proprie delusioni, dalle fregature al ristorante ai rancori esistenziali. La storia ha una svolta quando Lucinda si imbatte nella creatività di un 'reclamante' che nel corso di alcune telefonate sconce le offre lo spunto per la prima canzone di successo della band. A questo punto la trama si concentra intorno a un interrogativo: a chi appartengono le idee? Il 'reclamante' ha diritto di pretendere la sua parte di successo?
Lethem pensa di no. Nel corso del romanzo non si dilunga in noiose dissertazioni sul plagio, ma negli ultimi mesi l'argomento è al centro della sua attenzione. La sua è insieme una battaglia culturale e una sperimentazione editoriale. A novembre sul suo sito Internet ha lanciato il 'progetto dei materiali promiscui', dove mette decine di sue opere a disposizione di altri artisti. Chi vuole utilizzarle, modificandole a piacere, deve versare un dollaro e firmare un contratto in cui si impegna a lasciar usare lo stesso materiale a chiunque altro. A 43 anni, dopo il successo ottenuto con 'La fortezza della solitudine' (Tropea editore), Lethem non è solo considerato uno dei più dotati scrittori della sua generazione, ma anche un intellettuale e un saggista di prim'ordine. Lo scrittore divide la sua vita tra Brooklyn, dove è nato, e Blue Hill, nel Maine, dove lo abbiamo intervistato, durante una lunga conversazione più volte interrotta dalle urla del suo bimbo di due mesi e mezzo.
Lei sostiene che gli artisti creano imitando e copiando.
"Non posso immaginare un altro modo possibile. L'imitazione era normale anche nelle botteghe rinascimentali, dove gli artisti creavano capolavori grazie a un processo di assimilazione e di appropriazione del lavoro di altri. Un artista ha l'istinto di un bambino che impara a parlare: prende a modello tutto quello che sente intorno a lui e di tutto fa imitazioni, parodie, collage... L'individualità può essere costruita solo a partire dalla cacofonia di voci che risuonano intorno a noi".
Nabokov prese in prestito Lolita da Heinz von Lichberg, mentre Bob Dylan ha saccheggiato Shakespeare e Scott Fitzgerald. E lei?
"Io ho preso molto da Nabokov e Bob Dylan, e poi da Philip Dick e Jack Kirby e John Cassavetes e molti altri. In particolare ho imparato a scrivere romanzi studiando Graham Greene e Kafka, ma il mio lavoro è chiaramente influenzato dal dibattito sull'arte pop. Alcune di queste influenze sono ovvie leggendo i miei libri, altre sono visibili solo a me".
Qual è il confine tra appropriazione e plagio?
"Si tratta di valutazioni istintive. Quando uso un riferimento, un elemento riconoscibile di un'altra opera, mi domando subito se - inserito in un nuovo contesto - quell'elemento sia sufficientemente trasformato, inaspettato ed emozionante. Poi mi chiedo se sia necessario riconoscere il mio debito. Ogni artista spera che chiunque si appropri di un elemento della sua opera lo riconosca, e non sorvoli sull'appropriazione".
Lei se la prende con Walt Disney...
"Le storie di Disney sono tratte dalle opere dei fratelli Grimm, dalle 'Mille e una notte' e altro ancora. Ma nonostante siano abituati a trovare altrove l'ispirazione, quelli della Disney impediscono a chiunque di usare le loro creazioni e di trasformarle. Io penso che la possibilità di appropriarsi di un'opera d'arte dev'essere libera. Per questo non solo ho scritto il saggio su 'Harper's', ma ho cercato di introdurre alcuni gradi di libertà nell'utilizzare le mie opere".
Infatti lei ha reso diverse sue opere disponibili gratis su Internet. Una scelta etica o un modello di business?
"Non credo che la mia strategia possa diventare un modello per altri. È più un gioco e una provocazione. È una soluzione personale che non raccomando a nessun altro".
Ha lanciato il 'progetto dei materiali promiscui' sul sito mentre scriveva il suo ultimo romanzo. Qualche riferimento alla promiscuità sessuale della protagonista Lucinda?
"Direi di sì, anche se mentre scrivevo il romanzo non ne ero conscio. C'è una compenetrazione tra la promiscuità dei corpi e quella del lavoro artistico".
Nel romanzo c'è uno sportello telefonico per i reclami che in realtà è una installazione...
"Non ho mai avuto problemi a pensare che un artista possa dichiarare artistico qualcosa di inaspettato mettendoci una cornice intorno. Nell'era dell'arte concettuale molte cose che non sembravano arte potevano essere definite artistiche anche se non erano tali".
Da dove nasce l'idea?
"Negli anni Settanta a New York c'era un tale che si faceva chiamare Mister Apology e aveva una linea telefonica che chiunque poteva chiamare per scusarsi di qualunque cosa avesse fatto. Mister Apology colpì la mia immaginazione, mi sembrava che meritasse un racconto. Ne ho approfittato per esplorare il mondo della realtà virtuale, che in questo caso è la cultura telefonica. Amo descrivere come si comporta la gente quando si incontra in questi spazi virtuali".
Perché i protagonisti del suo romanzo non sono neanche capaci di dare un nome alla loro band?
"Sono affascinato dal potere dei nomi. Nella 'Fortezza della solitudine' ogni personaggio ha diversi nomi. Dylan è soprannominato 'Dillinger' e 'D-man', alla fine assume le sembianze di un super-eroe, 'L'uomo freccia', e firma 'Dos' i suoi graffiti. C'era un eccesso di nomi, perché ogni cosa aveva diversi significati. Al contrario le vite dei personaggi del nuovo libro sono per certi versi così stupide, libere e arbitrarie, che c'è la difficoltà a trovarne anche un solo nome. Questo per me rappresenta la qualità senza forma delle loro esistenze".
Nei suoi romanzi compaiono spesso i canguri. Un simbolo o un gioco?
"Sono strani, mi affascinano. Vent'anni fa, quando ho scritto di canguri per la prima volta in 'Gun, With Occasional Music', non pensavo che lo avrei fatto ancora. Poi è diventato un gioco".
Perché ha ambientato il romanzo a Los Angeles?
"Volevo rompere con l'abitudine di scrivere su Brooklyn. La California è l'altro posto dove ho vissuto per parte della mia vita. Ma in realtà ho scelto Los Angeles, che per molti versi è per me un luogo ignoto e misterioso, perché si tratta di una città che mi genera curiosità e confusione. Volevo esplorare la stranezza della città".
Lei descrive un mondo senza scopo, senza significato...
"Non userei questa parola. Il significato delle cose è un fatto individuale e soggettivo. Certo le vite che descrivo sono proiettate in un universo assurdo".
È un universo senza utopie, dove tutto sembra accadere per caso... È questa la sua filosofia?
"Non ho una filosofia. Credo di avere fede solo nelle strutture concettuali costruite dall'uomo: la famiglie, le subculture. Sono luoghi che offrono opportunità e salvezza al di fuori del vuoto dell'universo".
Ha avuto esperienze negative vendendo alcune delle sue storie a Hollywood.
"Non è stata un'esperienza soddisfacente nel senso che i film non sono ancora stati prodotti. Ma è stata molto positiva perché i soldi garantiti da questi contratti mi hanno permesso di scrivere liberamente per parecchio tempo. E questo è esattamente quello di cui uno scrittore ha bisogno: la libertà di scrivere. Hollywood mi ha aiutato regalandomi questo tempo".
Ora due registi stanno girando film tratti da racconti da lei offerti liberamente su Internet. Uno a Chicago, un altro in Germania.
"Sono curioso di vedere il risultato finale. Molti hanno la tendenza a non mettere in discussione il modo in cui tradizionalmente si accordano autori e registi. Ma in realtà non c'è alcuna norma etica che dica di fare in quel modo. In fondo, come dice lei, si tratta solo di 'modelli di business'. Perché allora non guardarsi intorno e non creare accordi di altro tipo?".
(L'Espresso 31 ottobre 2007)
Nessun commento:
Posta un commento