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22.2.22

Che cos’è e perché è pericoloso l’allargamento a Est della Nato

Manlio Dinucci, 22.02.2022 (il manifesto)

Crisi Ucraina. Stoltenberg: «Bene, più di 270 miliardi di dollari di spese militari degli alleati europei dal 2014». Al via negli Usa la la produzione delle nuove atomiche B61-12: andranno in Europa e in Italia

ESSA INIZIA NELLO STESSO anno, il 1999, in cui la Nato demolisce con la guerra la Jugoslavia e, al vertice di Washington, annuncia di voler «condurre operazioni di risposta alle crisi, non previste dall’articolo 5, al di fuori del territorio dell’Alleanza». Dimenticando di essersi impegnata con la Russia a «non allargarsi neppure di un pollice a Est», la Nato inizia la sua espansione ad Est. Ingloba i primi tre paesi dell’ex Patto di Varsavia: Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria. Quindi, nel 2004, si estende ad altri sette: Estonia, Lettonia, Lituania (già parte dell’Urss); Bulgaria, Romania, Slovacchia (già parte del Patto di Varsavia); Slovenia (già parte della Federazione Jugoslava). Nel 2009, la Nato ingloba l’Albania (un tempo membro del Patto di Varsavia) e la Croazia (già parte della Federazione Jugoslava); nel 2017, il Montenegro (già parte della Jugoslavia); nel 2020 la Macedonia del Nord (già parte della Jugoslavia) In vent’anni, la Nato si estende da 16 a 30 paesi. In tal modo Washington ottiene un triplice risultato. Estende a ridosso della Russia, fin dentro il territorio dell’ex Urss, l’Alleanza militare di cui mantiene le leve di comando: il Comandante Supremo Alleato in Europa è, «per tradizione», sempre un generale Usa nominato dal presidente degli Stati Uniti e appartengono agli Usa anche gli altri comandi chiave.

ALLO STESSO TEMPO, Washington lega i paesi dell’Est non tanto all’Alleanza, quanto direttamente agli Usa. Romania e Bulgaria, appena entrate, mettono subito a disposizione degli Stati Uniti le importanti basi militari di Costanza e Burgas sul Mar Nero. Il terzo risultato ottenuto da Washington con l’allargamento della Nato a Est è il rafforzamento della propria influenza in Europa. Sui dieci paesi dell’Europa centro-orientale che entrano nella Nato tra il 1999 e il 2004, sette entrano nell’Unione Europea tra il 2004 e il 2007: alla Ue che si allarga a Est, gli Stati Uniti sovrappongono la Nato che si allarga a Est sull’Europa. Oggi 21 dei 27 paesi dell’Unione Europea appartengono alla Nato sotto comando Usa. Il Consiglio Nord Atlantico, l’organo politico dell’Alleanza, secondo le norme Nato decide non a maggioranza ma sempre «all’unanimità e di comune accordo», ossia d’accordo con quanto deciso a Washington.

LA PARTECIPAZIONE delle maggiori potenze europee a tali decisioni (esclusa l’Italia che finora ubbidisce in genere tacendo) avviene in genere attraverso trattative segrete con Washington sul dare e avere. Ciò comporta un ulteriore indebolimento dei parlamenti europei, in particolare di quello italiano, già oggi privati di reali poteri decisionali su politica estera e militare. In tale quadro, l’Europa si ritrova oggi in una situazione ancora più pericolosa della guerra fredda. Altri tre paesi – Bosnia Erzegovina (già parte della Jugoslavia), Georgia e Ucraina (già parte dell’Urss) – sono candidati a entrare nella Nato. Stoltenberg, portavoce Usa prima che della Nato, dichiara che «teniamo la porta aperta e, se l’obiettivo del Cremlino è quello di avere meno Nato ai confini della Russia, otterrà solo più Nato».

NELLA ESCALATION Usa-Nato, che ci porta sul baratro di una guerra su larga scala nel cuore dell’Europa, entrano in gioco le armi nucleari. Fra tre mesi inizia negli Usa la produzione in serie delle nuove bombe nucleari B61-12, che saranno schierate sotto comando Usa in Italia e altri paesi europei, probabilmente anche dell’Est ancora più a ridosso della Russia. Oltre a queste, gli Usa hanno in Europa due basi terrestri in Romania e Polonia e quattro navi da guerra dotate del sistema missilistico Aegis, in grado di lanciare non solo missili anti-missile ma anche missili Cruise a testata nucleare. Stanno inoltre preparando missili nucleari a raggio intermedio, da schierare in Europa contro la Russia, il nemico inventato che può però rispondere in maniera distruttiva se attaccato.

A TUTTO QUESTO si aggiunge l’impatto economico e sociale della crescente spesa militare. Alla riunione dei ministri della Difesa, Stoltenberg ha annunciato trionfante che «questo è il settimo anno consecutivo di aumento della spesa della Difesa degli Alleati europei, accresciuta di 270 miliardi di dollari dal 2014». Altro denaro pubblico sottratto alle spese sociali e agli investimenti produttivi, mentre i paesi europei devono ancora riprendersi dal lockdown economico del 2020-21. La spesa militare italiana ha superato i 70 milioni di euro al giorno, ma non bastano. Il premier Draghi ha già annunciato «Ci dobbiamo dotare di una difesa più significativa: è chiarissimo che bisognerà spendere molto di più di quanto fatto finora». Chiarissimo: stringiamo la cinghia perché la Nato possa allargarsi.

© 2022

14.5.21

Al mercato delle armi il Golfo compra, Israele testa e vende


Michele Giorgio, ilmanifesto 17.03.2021
Guerre future. Il rapporto dello Stockholm International Peace Research Institute (Sipri) riferisce di un eccezionale aumento dell'importazioni di armi di ogni genere da parte di alcuni paesi arabi e di tre industrie belliche israeliane tra i leader mondiali del settore
Le vendite di armi si assestano in varie regioni del mondo ma vanno sempre più forte in Medio Oriente dove sono aumentate del 25% negli ultimi quattro anni. E le esportazioni israeliane, pur rappresentando «solo» il 3% del totale globale tra il 2016 e il 2020, sono cresciute del 59% negli ultimi cinque anni. Inoltre tre giganti delle industrie militari dello Stato ebraico  Elbit Systems, IAI e Rafael Advanced Defense Systems – sono tra i leader mondiali del settore. Arabia Saudita, Qatar ed Egitto guidano la classifica dei paesi arabi che hanno aumentato l’importazione di aerei da combattimento, carri armati, sistemi missilistici. Doha addirittura fa segnare un + 361%. A riferirlo è lo Stockholm International Peace Research Institute (Sipri) nel rapporto che ha presentato lunedì che stima i volumi di trasferimenti di grandi armamenti e non il valore delle transazioni finanziarie.
Gli ultimi dati del Sipri sul commercio delle armi che sottrae ogni anno centinaia di miliardi di dollari al welfare, sanità, scuole e università in tutto il mondo, giunge mentre il Medio oriente vive un’altra delle sue fasi critiche. Il confronto tra Israele e Iran è sempre più aperto e Tel Aviv non fa mistero dei suoi piani di attacco alle centrali nucleari iraniane se gli Usa non confermerà la linea del pugno di ferro contro Tehran adottata da Donald Trump. In questi ultimi giorni è stato dato un particolare risalto ai «traguardi» della tecnologia militare israeliana. Ieri è stato annunciato l’ulteriore sviluppo del sistema anti-razzo «Iron Dome» anche contro i droni che segue il test positivo del nuovo mortaio noto come «Iron Sting». Quest’ultimo è destinato in particolare a colpire obiettivi nelle aree urbane con, affermano fonti ufficiali israeliane, «minimi danni collaterali» (i civili ammazzati) grazie all’impiego di munizioni guidate da laser e Gps. Secondo il ministro della difesa israeliano, Benny Gantz, lindustria militare nazionale è in grado di fornire alle forze armate «mezzi più letali, accurati ed efficaci». Dietro l’«Iron Sting» c’è la Elbit Systems che conquista anno dopo anno importanti fette di mercato anche in Europa. Le industrie militari israeliane hanno fatto grandi passi avanti anche in India e in altri paesi. Arriva da Israele il 69% delle importazioni di armi dellAzerbaigian che lo scorso anno ha combattuto una guerra sanguinosa contro lArmenia in cui i droni killer israeliani hanno avuto un ruolo chiave.
Comprano ogni anno armi per molte decine di miliardi di dollari le monarchie del Golfo. La prima è sempre quella saudita ma anche gli Emirati fanno la loro parte. Abu Dhabi attende solo il via libera di Joe Biden per l’acquisto, definito con la passata Amministrazione Usa, di 50 caccia F-35 di quinta generazione. In Nordafrica a recitare la parte del leone è l’Egitto che ha aumentato le sue importazioni di armi del 136% tra il 2011-15 e il 2016-20. La Turchia di Erdogan ora compra molto di meno, si è messa in proprio e sta sviluppando rapidamente la sua produzione militare, in particolare di droni che hanno già dimostrato la loro letale efficacia nel conflitto siriano e, come quelli israeliani, nella guerra tra Azerbaigian e Armenia. Si affida, a causa dell’embargo, quasi esclusivamente alle sue industrie militari anche lIran che in segreto fornisce ai ribelli yemeniti Houthi missili e droni per attaccare lArabia Saudita oltre ad assicurare i rifornimenti per l’arsenale del movimento sciita libanese Hezbollah.
Vendono sempre più armi le potenze occidentali, in calo Cina e Russia. Pechino, quinta al mondo al mondo dal 2016-20, ha visto diminuire le sue esportazioni di armi del 7,8% tra il 2011-15 e il 2016-20. L’Italia è scesa al decimo posto della classifica mondiale ma è il secondo paese esportatore verso la Turchia e il terzo verso il Pakistan e Israele, tutti e tre coinvolti in conflitti armati. Senza dimenticare le vendite di armi italiane all’Egitto, tra cui di recente una fregata, nonostante la ferma opposizione della società civile per l’assassinio di Giulio Regeni. Tra i cinque big che da soli assorbono il 76% del mercato  Stati Uniti, Russia, Francia, Germania e Cina Parigi è quella che ha registrato il maggior incremento (+44%).

16.1.12

Collisione in vista per la Banca europea qualche consiglio per evitare lo schianto

 Bruno Amoroso * (Il Manifesto)
 
Avviso ai naviganti: la nave Euro si sta schiantando contro un iceberg. Bisogna sganciare alcuni missili. Fuori di metafora, nazionalizzare le banche e riprendere il controllo della sovranità monetaria.

Il Titanic Euro è ormai a vista d'occhio dalla collisione con l'iceberg della speculazione finanziaria internazionale. A bordo il capitano, Mario Draghi, con l'ausilio del personale precario e dei mozzi - Merkel, Sarkozy e Monti - mantiene la calma e si accinge a pulire i vetri della nave con i pannicelli caldi chiamati «liberalizzazioni» e «disciplina di bilancio», e del «mercato del lavoro». 
Qualche telefonata arriva dalla terra ferma dagli attoniti osservatori (Wolf, Galbraith, Krugman ecc.), che raccomandano di mettere in mare le scialuppe di salvataggio per salvare quanti più paesi è possibile e tentare di fermare l'iceberg prima dello scontro. Mario Draghi e i suoi mozzi hanno già pronti gli elicotteri per il loro salvataggio. 

Le misure estreme da prendere - estreme perché ormai è già tardi - sono quelle di inviare dei missili ben mirati che frantumino l'iceberg della finanza e del gruppo di potere che ha pilotato l'Europa dalla zona dell'Ue alla zona della Grande Germania. Il primo missile, che potrebbe partire dall'Italia, è quello di nazionalizzare le grandi banche nazionali togliendogli ogni ruolo nel campo del credito e del controllo finanziario, mettendole in liquidazione mediante il trasferimento delle loro funzioni al sistema del credito cooperativo e popolare nelle sue varie forme assunte dal credito locale. 
Questa è la vera liberalizzazione da fare smettendola con il fumo dei fuochi d'artificio dei taxisti e delle farmacie. Il secondo missile va diretto alla Banca d'Italia e Banca centrale europea, uffici regionali della Goldman Sachs, restituendo il controllo e la sovranità monetaria ai governi dei paesi e ai rispettivi «Ministeri del tesoro pubblico».
 Il terzo missile - lasciamolo ai francesi che di omicidi mirati se ne intendono come hanno dimostrato da ultimo in Libia - deve colpire le società di rating, accecando così il sistema di rilevazione e di pilotaggio della speculazione, e i paradisi fiscali che sono i centri di benessere della speculazione. Queste società vanno bandite dall'Europa (la guardia di finanza e l'antimafia potrebbero prendersi carico del compito unificando così la lotta all'evasione con quella alla mafia), e le Borse che ne seguono gli indirizzi vanno immediatamente «sospese» come si fa normalmente quando interviene una disturbativa d'asta a scopo speculativo.
 Il quarto missile non deve contenere una bomba, ma un annuncio ai cittadini europei che il debito sovrano va riportato dentro i confini dei vari paesi con l'annullamento di tutti gli impegni su titoli ceduti a tassi che superano il corretto interesse bancario (2,5-3 % max), e collocandoli tra i propri cittadini con un prestito nazionale solidale così come fu fatto in Italia con il «prestito per la ricostruzione» del dopoguerra. Cessioni di titoli al prestito internazionale devono essere contrattati a livello dei governi dei vari paesi, dentro norme e costi concordati in modo trasparente e con la garanzia solidale dell'Ue. 

Le ricchezze così recuperate devono costituire la base di un nuovo patto sociale tra i paesi europei che preveda, insieme alla ricostituzione di un «serpente monetario flessibile», quella di una «divisione europea del lavoro» che metta al bando le mire di competizione e rivalità neocoloniali della vecchia Europa, sia dentro che fuori dei suoi confini, e ne fissi invece le  scelte produttive dentro un programma di cooperazione internazionale che parta dal riconoscimento delle priorità di crescita e organizzazione sociale, concordate in modo sinergico con le grandi aree mondiali (Asia, America latina, Africa, ecc.). Questa può essere la base per una riorganizzazione delle istituzioni europee che avvii un reale processo d'istituzione dell'Europa federale. Un programma minimo, senza il quale i cittadini europei, colori che si salveranno dall'inabissamento della nave Euro saranno ridotti al ruolo di lavavetri di una nave sul fondo del Mediterraneo. 

* Centro studi Federico Caffè

26.3.09

Esplorazioni in forma di loop - Intervista a Edgar Reitz

di Elfi Reiter
Edgar Reitz, ospite al FilmForum di Udine racconta il suo progetto di far rinascere «VariaVision», installazione di cinema sperimentale anni Sessanta
Il progetto annunciato era il restauro dell'opera VariaVision realizzata da Edgar Reitz (il noto autore dei tre cicli di Heimat) nel 1965, ma di fatto quella installazione per 16 proiettori e 120 schermi - totalmente dimenticata perché difficile e supercostosa da realizzare - è andata quasi tutta perduta. Ce lo dice lo stesso Reitz, raggiunto al telefono a Udine dove si sta svolgendo il FilmForum 09 con un convegno e tre serate di proiezioni, (Dalle origini a internet), con film, tra gli altri, di Pedro Costa, Harun Farocki, Danièlle Huillet e Jean-Marie Straub. Un anno fa il museo di arte contemporanea di Monaco, Haus der Kunst, aveva offerto al regista di restaurare l'intero progetto (in collaborazione con l'università di Udine, tramite il laboratorio «La camera ottica» del Dams di Gorizia) ma i negativi dei film collocati in un archivio sono spariti. VariaVision nella sua forma originaria andata in scena nella enorme hall alla fiera di Monaco soltanto quell'anno per cento giorni consecutivi non esisterà più, tranne in tanti documenti d'epoca. Per cui si è deciso di creare una nuova versione intitolata VariaVision 2010, il cui progetto è già pronto sui tavoli delle due istituzioni, con un tema nuovo, eseguito con tecnologie nuove, tutto in digitale. Rimane però da cercare un finanziatore dei vari film da girare. Al centro la ricerca di nuovi valori, permanenti e umani, dato che quelli governati dal denaro finora sono giunti al termine. Sono da trovarsi, dice Reitz, soltanto nelle produzioni artistiche e nell'ambito della cultura, unica prospettiva e di qui il sottotitolo Kino der Horizonte, ossia «cinema degli orizzonti».Quello della versione del 1965 era perpetuum mobile: essa si componeva di tanti corti più o meno astratti che giravano in loop nei proiettori disseminati nell'enorme spazio e associati a un sistema di altoparlanti, di cui alcuni trasmettevano la musica elettronica (composta dal musicista Josef Anton Riedl) e altri il collage di testi scritti appositamente da Alexander Kluge. Con lui, cineasta teorico e scrittore (noto in Italia per aver vinto a Venezia 1968 con Artisti sotto la tenda del circo: perplessi) Reitz aveva fondato nel 1963 l'Institut für Filmgestaltung di Ulm (la cui denominazione significa «creazione cinematografica», e collegato alla Hochschule für Gestaltung, una accademia delle belle arti, era fucina di molti talenti del mondo delle arti visive tedesco, poi chiusa nel 68). «Nacquero in quel contesto i nostri esperimenti, portati avanti con gli studenti per indagare le basi del cinema». Il tema era il viaggio... «Si riferiva al mio corto Geschwindigkeit, essendo la velocità di cui trattava insita nel viaggiare ma anche uno dei punti di vista centrali nelle arti moderne, anzi è il grande mito del XX secolo, basta pensare al futurismo, o alle nuove tecnologie e ai nuovi media. Il tema del viaggio era riferito alle macchine veloci, al passare veloce nel mondo, per dare un nuovo volto del mondo e tracciare una mappa di impressioni fuggenti». Nello spazio espositivo a Monaco erano previsti spazi comodi per sedersi affinché il pubblico potesse concentrarsi nella visione e nell'ascolto, quasi un suggerire il montaggio in diretta nella propria testa? Reitz si affretta a dire che era «una cineperformance astratta basata sulla libera associazione delle immagini» e sottolinea che senza VariaVision non avrebbe mai fatto Heimat. «È stato propedeutico per rispondere alla domanda: che cos'è il cinema? Per me è un incontro tra pubblico e schermo, e ho voluto sperimentarne il funzionamento specifico, al di là di una storia con un inizio e una fine. VariaVision si poteva guardare per tre minuti o per tre giorni, non era mai uguale, perché i singoli piccoli film erano proiettati ognuno per sé, ripetutamente, e avendo ognuno una durata diversa andavano creandosi sempre nuove combinazioni. Ero curioso di quanto tempo le persone si sarebbero fermate a guardare, per scoprire quanto sarebbero state attente nel caso di un film molto lungo: il fulcro non era l'aspetto narrativo ma la forza di attrazione dell'attimo».Alla domanda rispetto quale clima culturale era nato l'esperimento che sembra allacciarsi a quelli del cinema astratto negli anni venti, Reitz precisa che «si trattava di una fuga dal provincialismo e dalle strettezze a livello politico in cui viveva il popolo tedesco negli anni sessanta», in cui si procedeva a ondate concentrate sulle nuove esperienze da fare: dapprima l'«ondata mangerecca», poi l'«ondata dei mobili», in cui ci si focalizzava sulla propria casa e infine quella «del viaggio» per esplorare il mondo che avrebbe influenzato il nuovo modo di vivere e anche la nuova politica in Germania «molto orientata a ciò che si pensa là fuori nel mondo di noi». Fu il quesito centrale del periodo postnazista, c'era - e c'è tuttora -una gran paura rispetto all'opinione sul piano internazionale. Al contrario dell'Italia, il cui governo attuale criticato in tutto il mondo sembra non tenerne conto, in una situazione simile in Germania il governo sarebbe già caduto da tempo...
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24.11.08

In principio fu il gesto - Le nostre parole servono a manipolare la realtà + Intervista all'autore

Lo psicologo neozelandese Michael Corballis nel suo saggio titolato Dalla mano alla bocca. Le origini del linguaggio, edito da Cortina, ripercorre in chiave evoluzionistica le abilità intrinseche al nostro comunicare
Marco Mazzeo

Imbottigliati nel traffico dell'ora di punta è facile assistere a una scena del tutto ordinaria ma che non cessa di provocare un momento di genuina perplessità. Possiamo imbatterci, per esempio, in una ragazza che gesticola in modo convulso, anche se nessuno le siede accanto. Il tempo di mettere a fuoco la scena e il mistero si dissolve: l'auricolare, nascosto tra i capelli, tradisce il carattere telefonico di una conversazione all'apparenza solitaria. A pensarci bene, però, anche ora questo comportamento non cessa di essere enigmatico: perché gesticolare quando il tuo interlocutore non può vederti? Un recente libro dello psicologo neozelandese Michael Corballis, titolato Dalla mano alla bocca. Le origini del linguaggio (Raffaele Cortina, 2008, 26 euro) cerca di rispondere all'interrogativo, riformulandolo in termini più generali: siamo sicuri di sapere quale sia il ruolo svolto dai gesti nella vita degli esseri umani? Il testo offre una ricostruzione del problema in chiave evoluzionistica: confronta le capacità linguistiche e gestuali degli umani con quelle di altre specie, soprattutto scimmie e ominidi (dagli Australopitechi fino ai nostri cugini più misteriosi, i Neanderthal). Corballis non si limita alla ricostruzione, chiara e aggiornata, dei dati oggi a disposizione circa le abilità comunicative degli scimpanzè e della morfologia dei nostri antenati. Piuttosto illustra il problema cercando di sostenere due tesi di fondo. La prima è di ordine generale e riguarda lo status del linguaggio verbale: le parole non servono semplicemente a etichettare le cose, come marcaprezzi al supermercato (idea, purtroppo, ancora molto in voga) ma a manipolare, costruire e distruggere realtà. In questo senso, più che di un terzo occhio il linguaggio sembra dotarci della manualità multiforme della dea Khalì: prima che a contemplare, le parole servono a esplorare e modificare quello che ci circonda. La seconda tesi prova ad andare più nel dettaglio, circostanziando la proposta per mezzo di un rovesciamento. Ritorniamo all'esempio col quale abbiamo cominciato.
Come un sintomo
La sorpresa di fronte al gesticolare della ragazza al telefono tradisce un assunto: il nostro comportamento verbale quotidiano tende a mettere in primo piano quel che diciamo a voce e a lasciare sullo sfondo, come mero commento emotivo ed enfatico, i gesti che accompagnano le nostre parole. Al contrario, secondo Corballis, alzare il pollice mentre diciamo «sì, va bene domani andiamo al mare» o indicare con la mano dove si trova il bar più vicino quando si fornisce un'informazione stradale sono comportamenti di primaria importanza perché hanno il carattere vestigiale ma decisivo del sintomo. Tradiscono un luogo di origine: è con le mani che gli umani (e alcune specie preumane) hanno cominciato a comunicare. Circa due milioni di anni fa, con l'aumento delle dimensioni cerebrali dell'Homo erectus, i nostri antenati avrebbero cominciato a sviluppare capacità linguistiche simili a quelle possedute ancora oggi da alcuni primati allevati in cattività: gesti formati da due o tre movimenti-parola legati tra loro da una sintassi molto elementare ma in grado di distinguere il senso di una frase secondo l'ordine degli elementi che la compongono (è questo a fare la differenza, tanto per fare un esempio, tra l'enunciato «alla Diaz i poliziotti hanno torturato i manifestanti» e l'enunciato «alla Diaz i manifestanti hanno torturato i poliziotti»). Circa 170.000 anni fa, con la comparsa dei primi Homo sapiens, gli umani avrebbero cominciato a sviluppare vere e proprie lingue gestuali, simili alle lingue dei segni impiegate oggi da molte persone sorde. Il passaggio all'oralità sarebbe avvenuto solo più tardi. Si tratta di una ipotesi descritta nel dettaglio: è proprio questo a costituire il maggior punto di forza ma anche, paradossalmente, di debolezza del libro. Corballis propone due serie di argomentazioni. La prima si basa su alcuni dati empirici: le vocalizzazioni degli scimpanzè sono molto più stereotipate dei loro gesti manuali che manifestano, invece, maggiore variabilità di gruppo (in alcuni casi vere e proprie variazioni culturali) e un carattere più marcatamente sociale. Mentre la laringe degli scimpanzè è strutturata in modo tale che per i nostri cugini è fisiologicamente impossibile scandire consonanti e vocali, i loro arti superiori sarebbero molto simili a braccia e mani umane. Dopo secoli di discriminazioni, infine, le lingue dei segni sono state riconosciute come delle lingue a tutti gli effetti e non un semplice scimmiottamento della parola orale. Morale della favola, i gesti esibiscono la complessità necessaria per fare da ponte tra il protolinguaggio degli ominidi e le lingue attuali.
Un interrogativo aperto
Il secondo ordine di argomentazioni si concentra su una stranezza della nostra storia evolutiva che può essere riassunta nell'interrogativo: perché le prime raffigurazioni rupestri, gli utensili tecnologicamente più sofisticati e le migrazioni massicce dall'Africa verso il resto del pianeta sono eventi che si sono realizzati approssimativamente 50.000 anni fa, visto che l'Homo sapiens è comparso sulla Terra molto tempo prima? A tal proposito, la risposta di Corballis è netta: questa estenuante attesa, lunga 120.000 anni, sarebbe servita per passare dalle lingue segnate a quelle orali. Fino a quel momento la comunicazione manuale avrebbe inibito le capacità tecniche umane.
Nella prima parte della loro storia, i sapiens avrebbero impiegato le mani più per parlare che per costruire. Solo l'oralità le avrebbe liberate da un pesante fardello, il carico comunicativo di una specie culturalmente sempre più sofisticata. L'ipotesi di Corballis è suggestiva perché può contribuire all'elaborazione di una teoria della natura umana materialista che prenda le mosse dalla frase del Faust di Goethe «in principio era l'azione»: una teoria capace di comprendere meglio il rapporto tra dimensione percettiva (tattile innanzitutto) e pratica, oltre che politica e linguistica, dell'animale umano. Da questo punto di vista, in futuro potrebbe essere fruttuoso discutere e riflettere su alcune delle difficoltà teoriche dalle quali il libro stenta a sottrarsi. Sono però proprio queste difficoltà a fornirci il materiale più prezioso: possono contribuire alla redazione di una agenda di ricerca che non si sottragga al compito di entrare, volta per volta, nel merito delle singole questioni senza accontentarsi né di slogan, né di proclami. Parte dei dati empirici a cui il testo fa riferimento, per fare solo un esempio, è controversa: a uno sguardo più attento la morfologia e la funzionalità delle mani umane presentano somiglianze solo superficiali con il loro analogo scimmiesco, molto più resistente ma meno versatile da un punto di vista sensomotorio.
Una misteriosa latenza
Di certo le lingue dei segni sono lingue a tutti gli effetti ma Corballis in più di un'occasione sembra spingersi oltre: a suo giudizio, le lingue gestuali sarebbero più naturali di quelle vocali, cioè più facili da apprendere e più spontanee. Questo assunto, teoricamente molto forte, meriterebbe una verifica oltre che un approfondimento. In ultimo, la ricostruzione offerta dal libro purtroppo non riesce a sciogliere il mistero della latenza che sembra aver caratterizzato quella sorta di esplosione culturale dei sapiens risalente a circa 50.000 anni fa. Perché ci sarebbero voluti ben 120.000 anni, due terzi del tempo vissuto dai sapiens sulla terra, per passare dalle lingue gestuali a quelle orali visto che le prime sono così simili alle seconde? La partita, come si suol dire, è aperta.
ilmanifesto.it

Intervista all'autore

PARLA MICHAEL CORBALLIS
Nel linguaggio una miscela di voce e azioni proiettate oltre il presente
«Se devo intrattenere una conversazione significativa devo sapere che l'altro mi capisce e sa di capirmi»
Felice Cimatti

Secondo Michael Corballis il linguaggio umano è una forma di azione, è un fare più che una forma del comunicare. Come scriveva Ludwig Wittgenstein, le «parole sono atti». Il cuore di questa proposta è il superamento del dualismo fra mente e corpo, fra pensiero e azione. Il linguaggio è «embodied», è incarnato. Ma lasciamo che a spiegarcelo sia Corballis.
Secondo la psicologia cognitiva il linguaggio ha essenzialmente due funzioni: comunicativa e cognitiva. Il linguaggio è uno strumento esterno rispetto alla mente/corpo del parlante. Lei invece non la pensa così...
Penso che il linguaggio potrebbe avere avuto origine nei movimenti delle mani, ma naturalmente oggigiorno è articolato primariamente mediante la voce. Anche il linguaggio verbale è gestuale, implica movimenti delle labbra, della lingua, della laringe. È pertanto ancora un modo di agire, indipendentemente dal fatto se sia espresso con le mani o attraverso la bocca.
Qual è, nella sua teoria, il ruolo della scoperta dei neuroni specchio, quei neuroni che si attivano sia quando compiamo una certa azione che quando vediamo qualcun altro compierla?
Insieme ad altri ho sviluppato la teoria dell'origine gestuale del linguaggio prima che i neuroni specchio fossero scoperti. Nondimeno la loro scoperta è stata determinante: ha mostrato che le aree del cervello della scimmia, corrispondenti nel cervello umano alle aree linguistiche, sono primariamente dedicate alle azioni manuali, non alle vocalizzazioni; i neuroni specchio fanno vedere come le azioni corporee siano percepite e comprese nel modo stesso in cui sarebbero messe in atto dall'osservatore. La stessa conclusione era già stata raggiunta rispetto alla percezione del parlato, sulla base di una teoria in virtù della quale la comprensione di un suono linguistico altrui avviene attraverso la simulazione dell'articolazione di quello stesso suono. In altre parole, il sistema dei neuroni specchio suggerisce che non c'è una differenza fondamentale fra il parlato e il gesto - entrambi sono sistemi incarnati.
Gli scimpanzé hanno mani molto simili alle nostre, ma non mostrano nulla di simile al linguaggio umano. Perché questa differenza?
Gli esperimenti con gli scimpanzé e le altre scimmie antropomorfe mostrano che possono essere addestrate a comunicare in modo più efficace attraverso gesti manuali o mediante segni su una tastiera che attraverso la vocalizzazione. La ragione per cui non hanno un vero linguaggio ha probabilmente più a che fare con le loro capacità mentali che con i loro mezzi espressivi. Gli scimpanzé hanno qualche capacità di capire le intenzioni altrui, ma il linguaggio richiede di condividere le intenzioni, in un modo ricorsivo. Per esempio, se io devo intrattenere una conversazione significativa con lei, devo sapere che lei mi capisce, ma devo anche sapere che lei sa di capirmi. Questo significa che la comunicazione simil-linguistica delle scimmie antropomorfe è limitata al fare richieste. Gli esseri umani possono andare oltre questo limite in modo da realizzare discorsi condivisi. Un altro problema è che le scimmie antropomorfe non hanno l'abilità di «viaggiare mentalmente nel tempo»: credo che il linguaggio sia evoluto negli esseri umani in parte perché possiamo condividere i nostri viaggi mentali e parlare del passato e del futuro. Questa è, per esempio, la ragione che spiega perché il linguaggio richieda rappresentazioni di cose che non sono fisicamente presenti, e perché le lingue dispongano di meccanismi (ad esempio i tempi) che collocano gli eventi nel tempo e nello e nello spazio.
L'idea dell'origine manuale del linguaggio è valida solo da un punto di vista evolutivo, oppure ogni essere umano deve ripercorrere questa tappa?
Il lavoro recente di Michael Tomasello presso il Max Planck Institute mostra che i bambini imparano a comunicare attraverso i gesti (soprattutto l'indicare) prima di apprendere una lingua. Quindi sì, penso che ogni essere umano impari il linguaggio prima attraverso le proprie mani e il proprio corpo. Questo vale tanto per le lingue umane gestuali che per quelle verbali.
In ogni lingua ci sono espressioni metaforiche che esprimono nozioni incorporee mediante riferimenti corporei: ad esempio, «afferrare un pensiero». Ma una persona che non potesse muoversi sarebbe in grado di imparare ad usarle?
Penso che sarebbe molto difficile insegnare espressioni di questo tipo a una persona incapace di muovere il proprio corpo, forse anche impossibile, perché il linguaggio consiste essenzialmente di movimenti del corpo. Tuttavia, per esempio, lo scienziato Stephen Hawking mostra una straordinaria comprensione di profondi concetti della fisica acquisiti tardivamente nonostante la sua incapacità di muoversi; naturalmente, molti concetti basilari li ha introiettati prima di essere paralizzato.
Perché se il linguaggio nasce manuale poi è divento vocale?
Parlare ha molti vantaggi pratici. Lo si può fare di notte o quando la visione è impedita; libera le mani per altre attività come la costruzione di utensili; richiede uno sforzo minore e anche meno attenzione, dal momento che puoi ascoltare la voce senza dover guardare chi sta parlando. Non credo che il parlare porti un vantaggio linguistico, dal momento che le persone sorde comunicano in modo del tutto efficace mediante le lingue dei segni. Naturalmente usiamo le mani quando parliamo, sicché il linguaggio è realmente una miscela di vocale e gestuale.

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13.10.08

Domande alle sinistre

Rossana Rossanda

Non credo che una sinistra possa dirsi esistente se di fronte alla più grossa crisi del capitalismo dal 1929 non sa che cosa proporre. Questi erano i lumi che la cittadina sprovveduta chiedeva di avere dai leader delle sinistre e dell'opposizione e dagli amici economisti, ma non ne ha avuti. Stando così le cose, mi azzardo ad avanzare alcune osservazioni e proposte elementari che, se sono infondate, spero vengano vigorosamente contraddette. Prima osservazione. Perché le sinistre non si chiedono la ragione per cui non solo le destre thatcheriana e reaganiana ma anch'esse si sono e restano persuase che non c'è altra via economica da percorrere che non sia la privatizzazione (spesso liquidazione) di tutti i beni pubblici e di gran parte dei servizi, quelli di interesse sociale inclusi? E perché era giusto incitarli alla concorrenza dentro e fuori i confini nazionali ed europei? La destra ha detto che i privati li avrebbero gestiti meglio e che le tariffe si sarebbero abbassate, ma questo non è successo affatto e in nessun luogo. Seconda osservazione. Perché le sinistre hanno accettato, talvolta mollemente opponendosi, la detassazione delle imprese, delle successioni e delle grandi fortune, togliendo entrate allo stato, nella previsione che i capitali, rimpinguati, sarebbero stati investiti nella produzione? Non è stato affatto così, la produzione non è mai stata così bassa, fino all'orlo - per esempio in Francia - della recessione. Terza osservazione. Perché le sinistre, che fino a ieri rappresentano il lavoro dipendente, hanno accettato che per facilitare la crescita si dovessero abbassare, rispetto al passato, i salari mentre lo Stato doveva restringere nella spesa sociale quel tanto che c'era di salario indiretto (vedi, in Italia, finanziaria e protocollo sul welfare dell'anno scorso)? Con l'ovvia conseguenza di una caduta generale del potere di acquisto in tutti i ceti dipendenti? Stando così le cose non occorrono grandi discussioni filosofiche sulla crisi della politica. Quarta osservazione. Non so se dovunque, ma è certo che in Italia questa strada ha condotto non solo a una produzione bassa ma non puntata sull'innovazione di prodotto, bensì al basso costo del lavoro, in questo dando la testa al muro, o cercando le condizioni per delocalizzare, perché sia nell'Est del nostro continente sia fuori di esso i salari sono ancora più bassi che da noi. Quinta osservazione. Perché le sinistre e le loro stesse teste d'uovo non si sono accorte che i capitali, invece che in produzione se ne andavano sia in modo legale sia in modo fraudolento, nella speculazione finanziaria, dandosi a tali demenze che stanno sbaraccando l'intero sistema?
Ultima osservazione. Perché le sinistre non sanno dire altro, a mezza bocca o con grandi sorrisi, che i buchi formati dalle banche, dalle assicurazioni e dagli hedge fund, mandati a picco per demenza dei loro dirigenti, vengano sanati col denaro pubblico, cioè quello dei contribuenti, senza chiedere nessuna proprietà pubblica effettiva in cambio? Suppongo la risposta: non si può reimmaginare un intervento pubblico perché si sa che lo stato gestisce malissimo. Già. Perché, il privato gestisce bene? Nell'epoca dei «trenta gloriosi», cioè della partecipazione pubblica e statale, nessuno di questi immensi guasti si è verificato. Dunque in nome di che cosa, che non sia il pregiudizio, non viene oggi riproposta una politica di intervento pubblico? Certo esso implica darsi non solo una linea economica ma un metodo di gestione pubblica pulito, fatto di diritti chiari invece che ottativi. Perché è vero che questo è mancato dando luogo a quelli che sono stati chiamati boiardi di stato e a clientelismi di vario tipo. Un intervento pubblico non sarebbe il socialismo, come qualche ignorantissimo afferma, ma darebbe luogo a una forma di contrattazione partecipata fra cittadini e istituzioni assai diversa dall'attuale riduzione della democrazia a fiera quinquennale del voto. Chi ci impedisce di metterci a ripensarlo? Nessuno. Chi lo propone? Nessuno. Salvo qualche isolato pensatore americano come Krugman con la riproposizione di un new deal. Chi dirige la musica in Italia è ancora Berlusconi, con la sua speranza che la «scarsa» modernizzazione delle banche italiane ci salvi dal terremoto. Con maggior ragione si può obiettare che una politica di intervento pubblico non si fa da soli, tantomeno in tempi di globalizzazione e dopo che lo stato nazionale si è consegnato mani e piedi alla Costituzione europea che, sotto il profilo politico, è flebile, come si è visto nel caso dei rom e, sotto quello economico, è superliberista. Da parte mia, obietto che lo spazio europeo può essere invece una carta da giocare, per la sua dimensione e la sua moneta unica; vi si potrebbero mettere in atto i processi macroeconomici che oggi un intervento pubblico comporterebbe. Che cosa impedisce che una sinistra possa e debba muoversi su questo terreno su scala continentale? Non penso che mancherebbero le resistenze, e potenti. Ma questo è il momento per aprire il conflitto con qualche possibilità di vincere. I lavoratori europei non sarebbero con noi, invece che darsi alla disperazione o consegnarsi alla Lega o al primo Haider che passa perché gli salvi protezionisticamente l'azienda? La verità è che si tratta di una scelta non «economica», ma «politica». Ecco quanto. Naturalmente sono pronta a riflettere su tutte le critiche demolitrici che mi si vorranno inviare.
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12.6.08

Un tanto al chilo

Ammalati di miliardi
SALUTE Una ricerca conferma che il «modello lombardo» privilegia i posti letto delle cliniche privateLa vicenda della clinica Santa Rita di Milano è un caso esemplare di truffa omicida e chiama in causa tutto un sistema ormai compromesso che paga la malattia invece di promuovere la salute. E' soprattutto in Lombardia che la sanità privata continua ad aumentare la propria sfera di influenza, come dimostrano le cifre di uno studio su costi e prestazioni
Luca Fazio
MILANO
La clinica Santa Rita è davvero la clinica degli orrori? Oppure, anche se è difficile trovare medici disposti ad ammetterlo, in un sistema che paga la malattia ormai è inevitabile che strutture private e pubbliche cerchino di aumentare il numero delle prestazioni inutili infierendo sui corpi dei cittadini? Fulvio Aurora, vicepresidente di Medicina Democratica, parla apertamente di «truffa omicida in un contesto truffaldino». E' questa la sua definizione del cosiddetto «modello lombardo di sanità», un vanto ancora oggi per il presidente Roberto Formigoni, che continua a ritenerlo il migliore tra quelli possibili, nella presunzione che altrove sia sicuramente peggio. Può darsi. Ma non basta.Ma quello che Formigoni non può far finta di non sapere è che la giunta regionale lombarda, accreditando indiscriminatamente tutta l'offerta ospedaliera privata, ha attirato investitori e scatenato la concorrenza tra le strutture sanitarie per accaparrarsi miliardi di euro di denaro pubblico, con ogni mezzo necessario. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: aumento vertiginoso dei volumi di affari della sanità privata e decine e decine di episodi di comportamenti illeciti riscontrati dalla magistratura (sono 35 le cliniche lombarde già finite sotto inchiesta, e proprio in queste ore sono in corso accertamenti di carattere economico in altre dieci strutture). Fenomeni criminosi che chiamano in causa il finanziamento del Sistema sanitario nazionale che si basa sulla remunerazione per prestazione (Drg): una struttura viene rimborsata in base al valore delle prestazioni erogate. Più sono i falsi tumori maligni operati, come ha detto il professor Umberto Veronesi, più sono i soldi incassati dalla struttura. E non è un caso se il privato in Lombardia continua ad aumentare la sua sfera di influenza, pur costando mediamente più del pubblico per «peso» dei Drg dichiarati e per numero delle prestazioni registrare. Roberto Formigoni si ostina a dire il contrario, ma ci sono dati che al di là della cronaca (nel 2003 la Regione ha concesso 95 nuovi posti letto proprio alla Santa Rita nonostante le contestazioni) parlano chiaro sul rapporto distorto tra pubblico e privato in Lombardia.Lo studio è stato curato da Giuseppe Landonio, ex oncologo e consigliere comunale milanese di Sinistra democratica. Le strutture di ricovero pubbliche iscritte al registro regionale sono passate da 117 a 112 nel periodo 2002-2006; nello stesso periodo, invece, le strutture private accreditate sono passate da 79 a 104. Ancora più consistente il divario tra ambulatori pubblici (da 176 sono scesi a 159) e privati (da 233 sono passati a 324). Mediamente si tratta di un aumento uniforme su tutto il territorio lombardo del 30% delle cliniche private, con alcune anomale eccezioni: a Bergamo sono passate addirittura da 24 a 45 mentre le pubbliche sono rimaste 24, a Cremona da 12 a 29 contro le 9 pubbliche, a Lodi da 3 a 10 contro le 5 pubbliche. Nella provincia di Milano ci sono 290 centri privati e 392 pubblici.Un altro dato interessante riguarda il tasso di ospedalizzazione per Asl. Il dato medio sui ricoveri dei lombardi negli anni si è attestato attorno ai 150 per 1.000 abitanti, eppure si assiste a una progressiva diminuzione dei ricoveri. Tutta salute? Non proprio, secondo la letture di Fulvio Aurora, di Medicina Democratica. «Questa diminuzione - spiega - viene recuperata dalle strutture residenziali per anziani, gli ospedali cercano di dimettere il paziente il più velocemente possibile e non a caso sono state aperte molte residenze per anziani: in Lombardia abbiamo 53 mila posti letto, anche quelli sono luoghi dove vengono curati, ma questa volta a pagamento». Viceversa, il tasso di «day hospital» ha superato di molto la media indicata come ottimale, per cui sembra evidente che questo tipo di ricovero potrebbe essere sostituito con semplici prestazioni ambulatoriali. Questi ricoveri fino a un giorno, inoltre, sono molto più numerosi nelle cliniche private (26% del totale) che nel pubblico (14%).Moltissimi lombardi, nonostante la sanità sia gratuita e mediamente di buon livello, scelgono di pagare il ricovero di tasca propria, sia nel pubblico che nel privato: per abbattere i tempi di attesa, per essere trattati meglio durante la degenza e per avere un rapporto privilegiato con un medico (39.397 pazienti nel 2006).Delicata, considerate le notizie degli ultimi giorni, è l'analisi del dato sui decessi in ospedale (2,44% la media lombarda, nel pubblico 2,73% e nel privato 1,79%). Perché questa differenza? Significa che le patologie più gravi di solito vengono curate nel pubblico, e che quindi il privato ha costi di gestione inferiori, per le strutture e la capacità di intervento.Il business della riabilitazione ormai è appannaggio esclusivo della sanità privata: nel pubblico ci sono 2.458 posti letto, nel privato 7.347 (33,46% contro 66,54), e l'Istituto don Gnocchi, di proprietà della Compagnia delle Opere amica dello splendido Formigoni, fa la parte del leone.Se il «cliente» del modello lombardo non è tenuto a conoscere dati e statistiche, certo non può essere indifferente ai tempi di attesa per i ricoveri. Sono lunghi, troppo lunghi, anche per le neoplasie. Mediamente tre mesi per una cataratta, sedici giorni per una neoplasia mammaria, più di tre mesi per una protesi all'anca...Tra le tante cifre che mettono a confronto la spesa per la sanità pubblica e privata in Lombardia, una in particolare interessa i «clienti» più poveri: le cure odontoiatriche. Nelle casse dei 6.440 studi dentistici registrati, ogni anno i cittadini riversano 3 miliardi e 200 milioni di euro, e zero euro (0) nelle casse della sanità pubblica. «Questo - commenta Aurora - è uno dei motivi di impoverimento della popolazione anziana».Insomma, il modello non funziona, e non solo quello lombardo. Tutti (quasi tutti) a gran voce oggi dicono basta, «bisogna abbandonare il mercato e tornare alla cura per premiare la promozione, della salute e non la malattia» (Cgil Lombardia). In ballo, solo in Lombardia, ci sono 25 miliardi e 262 milioni di euro all'anno: 15.842 destinati al pubblico, 9.420 alle strutture private. Politici, medici, sindacalisti, operatori della sanità, chi se la sente di abbandonare questo mercato?
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15.1.08

Le incursioni di papa Ratzinger

Marcello Cini

Il «caso» della visita del papa, non si sa bene in che veste, per l'inaugurazione dell'anno accademico della Sapienza è scoppiato due giorni dopo quello della lavata di capo da lui rivolta al sindaco di Roma Veltroni come se fosse ancora il capo dello stato pontificio. Come già in altre occasioni non si sa se Ratzinger parli dalla cattedra di Pietro o da quella di professore di teologia, o magari dal trono di un re dell'ancien régime. E' un fuoco di fila di voluta confusione di ruoli che contrassegna il protagonismo di Benedetto XVI volto a riportare indietro di un paio di secoli l'orologio della storia. Un tentativo che, come ha ricordato Eugenio Scalfari, tende a «trasformare la gerarchia ecclesiastica e quello che pomposamente viene definito il Magistero in una lobby che chiede e promette favori e benefici, quanto di più lontano e disdicevole dall'attività pastorale e dall'approfondimernto culturale».
Questo disegno mostra che nel suo nuovo ruolo l'ex capo del Sant'Uffizio continua a interpretare il suo compito come espropriazione, con le buone o (come in passato) con le cattive, della sfera del sacro immanente nella profondità dei sentimenti e delle emozioni di ogni essere umano, da parte di una istituzione che rivendica l'esclusività della mediazione fra l'umano e il divino: espropriazione che ignora e svilisce le differenti forme storiche e geografiche di questa sfera così intima e delicata senza rispetto per la dignità personale e l'integrità morale di ogni individuo.
Come alcuni lettori del manifesto forse ricordano già in novembre avevo rivolto al rettore della Sapienza una lettera aperta, nella quale esponevo le ragioni della mia indignazione per un invito a tenere una lectio magistralis che mi appariva del tutto inappropriata nella forma e nella sostanza. Alcuni colleghi hanno voluto successivamente unire la loro voce alla mia e li ringrazio per averlo fatto. Siamo certamente una minoranza del corpo accademico, ma non credo purtroppo che la maggioranza dei miei colleghi si interessi molto alle questioni che non attengono direttamente alla loro attività professionale.
Anche se la proposta di lectio magistralis non è stata portata avanti, si è scoperto, guarda caso, che il papa si troverà a passare da quelle parti proprio lo stesso giorno dell'inaugurazione dell'anno accademico e dunque che sarebbe stato scortese non chiedergli di dire due parole. La sostanza è dunque che il papa inaugurerà giovedì l'anno accdemico dell'Università La Sapienza.
Perché ci indignamo tanto? Perché siamo così intolleranti e settari da non volergli dare la parola? Provo a spiegarlo in due parole. In primo luogo perchè le università, per lo meno quelle pubbliche, sono - negli stati non confessionali - una comunità di studiosi, docenti e discenti, di tutte le discipline universalmente riconosciute, di tutte le scuole di pensiero, di tutte le culture e gli orientamenti politici e religiosi, scelti dai loro pari per i loro contributi scientifici e culturali. Nessuno di loro può però accettare che qualcuno, per quanto vanti investiture dall'Alto, possa loro prescrivere cosa debbano o possano dire, fare o pensare. Ognuno ha la propria coscienza e la propria deontologia professionale. In particolare possiamo tollerare che il papa possa dire ai nostri colleghi biologi che non devono prendere sul serio Darwin? Oppure ai nostri colleghi filosofi che è «inammissibile» - parole del professor Ratzinger a Ratisbona - «rifiutarsi di ascoltare le tradizioni della fede cristiana»?
Concludo con una domanda semplice. Una cosa simile potrebbe mai accadere non dico nella Spagna di Zapatero ma anche in Francia in Germania, in Inghilterra o negli Stati Uniti?
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