Enrico Comba
I cento anni compiuti da Claude Lévi-Strauss rappresentano lo straordinario traguardo di una delle figure più rappresentative della cultura europea del Novecento, ma costituiscono anche un singolare paradosso: il paradosso di uno studioso che rischia di sopravvivere alla sua stessa fama. Oggi è considerato un autore difficile, intricato, ma soprattutto superato dalle mode culturali, che hanno decretato l'oblio dello strutturalismo, visto ormai da molti come eredità di un'epoca tramontata. Eppure Lévi-Strauss è l'autore di un'opera come Tristi Tropici, un libro di riflessioni sulla ricerca etnografica e sull'incontro fra culture diverse, che ha emozionato intere generazioni di lettori e ha contribuito a forgiare numerose carriere di giovani antropologi. La motivazione di questa scarsa presa sul pubblico contemporaneo va probabilmente cercata nel fatto che l'antropologia è cambiata profondamente nell'arco di tempo che va dalla metà del Novecento ad oggi. L'antropologia al momento attuale vanta migliaia di professionisti, distribuiti in ogni nazione del mondo, la maggior parte dei quali ha spostato i propri interessi di studio e di ricerca dalle popolazioni indigene dei continenti extra-europei, che costituirono il principale polo di attrazione delle ricerche nella prima metà del Novecento, a temi più legati alle società contemporanee: le migrazioni, la globalizzazione, le trasformazioni socio-economiche, i conflitti e le negoziazioni del potere, le politiche identitarie. Problemi, certo, di rilevante interesse, che aiutano a comprendere il mondo in cui viviamo e le sue dinamiche, ma che hanno anche avuto l'effetto di creare un gergo a volte poco comprensibile per i non specialisti, e soprattutto di confinare ai margini del discorso antropologico la realtà dei popoli indigeni.
Questi piccoli gruppi umani, che ancora sopravvivono in alcune regioni del mondo, tentando disperatamente di difendere il proprio diritto a essere diversi e a non farsi inglobare e travolgere dai processi di modernizzazione, sono stati relegati ai margini dagli stessi antropologi contemporanei, un po' come i Guaranì nel bellissimo film La terra degli uomini rossi di Marco Bechis, accampati sul bordo di una strada.
E tuttavia proprio queste sono le culture di cui Lévi-Strauss ha sempre rivendicato il ruolo cruciale per lo sviluppo di un sapere antropologico e all'analisi delle quali ha dedicato i suoi principali sforzi di studioso e di teorico.
Una umanità sconosciuta
La sua monumentale opera sulle mitologie dei popoli indigeni americani, i quattro volumi delle Mitologiche, più altre opere uscite successivamente, può scoraggiare il lettore non specialista per la quantità di pagine e per il percorso intricato che l'autore compie, analizzando centinaia di racconti mitici diversi. Da questi lavori, però, emergono due aspetti rilevanti. Innanzitutto, la dignità intellettuale delle creazioni mitiche dei popoli americani, che viene così posta sullo stesso piano delle grandi produzioni intellettuali del mondo antico o delle civiltà orientali. In secondo luogo, la passione dell'autore per questo mondo apparentemente lontano e inconsueto, a cui egli ha dedicato i suoi ultimi cinquant'anni di lavoro, immergendosi giorno per giorno in un universo di storie e di avventure fantastiche, assaporando la «musica che è nei miti».
Nei suoi primi lavori sulla mitologia, Lévi-Strauss ha posto l'accento soprattutto sul metodo strutturale: le sue analisi, egli afferma, ci fanno scorgere come dietro all'apparente varietà e confusione dei racconti più disparati si celano meccanismi rigorosi di trasformazione, che ci permettono di vedere nei miti un processo grazie al quale è possibile passare da una versione all'altra, applicando un certo numero di operazioni logiche. Diversi critici hanno appuntato le proprie osservazioni sull'aspetto eccessivamente astratto dell'opera, che non si preoccupa tanto dei miti e del loro contenuto, quanto di mettere in luce una serie di meccanismi generali del pensiero umano. È un'accusa in parte fondata, ma che trascura il fatto che se si leggono i volumi mitologici dell'autore, e non solo l'introduzione metodologica, ci si trova immersi e affascinati dalle storie sul giaguaro signore del fuoco, o sull'origine dei maiali selvatici e del tabacco, dal ruolo del fuoco come intermediario tra uomo e animale così come tra cielo e terra, tra il sole e la luna.
Si scopre allora che i miti ci dicono in realtà molte cose, ci fanno scoprire un'umanità sconosciuta che è al tempo stesso molto lontana e molto vicina a noi, un'umanità che non avremmo mai conosciuto se autori come Lévi-Strauss non ci avessero accompagnato alla sua scoperta, suscitando la nostra ammirazione.
Non si può non restare impressionati nel leggere il testo della prima lezione tenuta dall'antropologo francese al Collège de France, nel 1960, davanti a un pubblico composto dal fior fiore dell'intellettualità parigina (opportunamente riproposto in questi giorni da Einaudi, con il titolo Elogio dell'antropologia). Dopo avere presentato il contenuto essenziale degli studi antropologici, Lévi-Strauss richiama l'attenzione degli ascoltatori sui lontani popoli indigeni che, a migliaia di chilometri, conducono la loro vita lottando quotidianamente per la propria sopravvivenza, fisica e culturale.
Questi piccoli popoli, sparsi per il mondo e minacciati continuamente dalle forze devastanti della modernizzazione, sono i detentori di un «povero sapere» che costituisce tuttavia l'essenza dell'antropologia. Nel momento stesso in cui Lévi-Strauss consacra la propria carriera entrando a far parte di una delle più prestigiose istituzioni accademiche del suo paese, si presenta al pubblico non tanto come un interprete delle culture umane o un esploratore dei processi mentali, quanto piuttosto come l'«allievo e il testimone» di lontani popoli sperduti, nei confronti dei quali dichiara apertamente di aver contratto un debito di riconoscenza inestinguibile.
Celebrando il «secolo di Lévi-Strauss» dovremmo quindi accogliere il monito del grande studioso a non farsi trascinare dalle trappole della modernizzazione, a guardare con occhio critico e disincantato al lato oscuro della globalizzazione, che cancella le forme più deboli e più radicali di diversità culturale, e a prestare ascolto a quegli sparuti popoli indigeni, che hanno attirato l'interesse e l'ammirazione del grande antropologo francese e dai quali possiamo ancora apprendere il significato più profondo dell'espressione «essere umano».
ilmanifesto.it
2 commenti:
leggere l'intero blog, pretty good
La ringrazio per Blog intiresny
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