5.11.08

Il potere della Rete

INTERVISTA CON MICHEL BAUWENS
La cooperazione tra pari come alternativa all'economia capitalista. Una pratica sociale che si diffonde come un virus e che aggira e si sottrae alle situazioni di conflitto con il potere
Tiziana Terranova

Michel Bauwens è considerato, a ragione, uno dei guru di Internet per le sue capacità di cogliere alcune tendenze sociali presenti nella Rete che hanno la capacità di rompere le barriere dello schermo e condizionare così la realtà al di fuori del web. Nato in Belgio, filosofo è considerato uno dei teorici della «economia politica della produzione peer», cioè di quell'attitudine a scambiarsi informazione, musica e video che caratterizza la rete e che sta cambiando profondamente la realtà. Infatti Bauwens, dilata molto il concetto di peer to peer, includendovi tutte quelle attività relazionali che caratterizzano il World wide web, ma anche quelle forme di cooperazione e condivisione che avvengono al di fuori del cyberspazio. E non è un caso che uno dei testi più noti è Peer to peer and Human Evolution. L'incontro con lui ha fornito l'occasione per fare il punto sullo stato dell'arte della rete e ciò che nel mondo anglosassone è chiamata network culture, cioè quell'accumulo di elaborazioni e e riflessioni su come la rete e le forme di vita lì insediate stanno cambiando la realtà.

Alcuni anni fa hai fondato la «Fondazione per le alternative peer to peer» (the Foundation for P2P alternatives: www.p2pfoundation.net/). Come definiresti queste alternative?
Il momento chiave per me, che ero un imprenditore di Internet e consulente per una grande impresa high-tech, è stato pochi mesi dopo il crollo delle dot.com, nell'aprile del 2001. Allora, mi sembrò molto chiaro che l'innovazione in Internet, nonostante la crisi, stava accelerando. Era un grande paradosso, poiché di solito pensiamo all'innovazione come a una attività imprenditoriale e all'attività imprenditoriale come realtà capitalista. Ma nel web potevamo vedere una forma di imprenditoria sociale che era slegata da una logica capitalista. Mi sono quindi posto la domanda: cosa guida questa innovazione sociale? La mia risposta è stata: un'aggregazione di singoli che stabiliscono una relazione paritaria attorno a progetti che creano valore. Questa capacità di autoaggregazione mi ha colpito immediatamente per il suo straordinario e radicale potenziale di cambiare la logica della nostra economia.
Il mio concetto di peer to peer non è tuttavia tecnologico. Sono infatti interessato alla forma sociale del peer to peer che la tecnologia semplicemente facilita. Una forma sociale dove, ripeto, uomini e donne si aggregano per produrre valore senza nessuna mediazione istituzionale o imprenditoriale. Il peer to peer risiede quindi nella sfera della (inter)soggettività umana e del desiderio che può usare anche infrastrutture tecnologiche a suo vantaggio. Dove vivo in Thailandia, vedo emergere di reti di auto-formazione peer to peer tra le comunità di contadini che non hanno quasi accesso a Internet. Un altro esempio sono gli effetti di un accesso intermittente a Internet attorno alle condizioni di lavoro e sulle capacità di resistenza dei lavoratori migranti nel sud della Cina.

Nei tuo scritti il peer to peer, per emergere o affermarsi, non ha bisogno di quello che gli economisti chiamerebbero un certo tipo di «capitale umano» (per esempio abilità tecniche) o di quello che i marxisti chiamerebbero un alto livello di socializzazione del lavoro, come avviene nei settori più avanzati dell'economia. Cosa innesca dunque la logica peer to peer? E perché emerge proprio adesso? E a quali condizioni?

Molte fasi dell'innovazione, come la progettazione o l'invenzione, dato che sono «immateriali», cioè basate sulla conoscenza, possono usare la base del capitale intellettuale esistente. Bittorrent e molte altre invenzioni di Internet si sono ad esempio sviluppate con investimenti limitati. È solo quando questi progetti hanno successo che richiedono una forte «iniezione» di capitale. Il capitale interviene dunque a posteriori. Questo non significa che il processo innovativo ha «divorziato» dal capitalismo. Stiamo assistendo semmai a una riformulazione radicale della relazione tra comunità, aziende e autorità pubbliche. Per questo non ci sono grandi ostacoli nel pensare a modi alternativi di collegare la progettazione aperta a una produzione «fisica», tangibile. L'azionariato popolare o le imprese cooperative sono sempre esistite, ma limitate nello spazio e in relazione a risorse fisiche. Ma che accade se i costi di transazione e comunicazione diminuiscono fino al punto che i singoli possono aggregarsi in piccoli gruppi su scala globale, coordinando le loro attività senza un'allocazione centrale di risorse? Penso che questo è esattamente ciò che tecnologie distribuite permettono: la coordinazione globale di piccoli gruppi.
Per tornare alle tue domande, posso rispondere semplicemente che la molla che innesca la logica peer to peer è da ricercare nel «sapore» di un lavoro non alienato che essa ha; ma anche nella possibilità di un coinvolgimento appassionato in un progetto e nella conseguente produzione di significato al di fuori delle strutture autoritarie che essa permette.
Per il momento, il peer to peer «fiorisce» nelle economie cosiddette avanzate, ma questo è uno stato di cose temporanee. Non è nell'Occidente che mi aspetto di vedere uno sviluppo rigoglioso di comunità a produzione «aperta», bensì al di fuori di esso, cioè in quelle realtà che hanno molto più da guadagnare dalla produzione peer to peer, visto che sono produzioni che richiedono limitati investimenti per creare infrastrutture fisiche distribuite. E questo non riguarda solo la produzione di manufatti «immateriali», ma anche prodotti tangibili.

Nella tua esperienza, che succede quando un progetto peer to peer incontra/ha bisogno di capitale? Sto pensando per esempio alla retorica del Web 2.0 come nuova opportunità d'impresa, come afferma Tim O'Reilly nel suo manifesto per il web 2.0, il quale usa la parola «imbrigliare» per descrivere la natura dell'operazione che un'impresa di web 2.0 ha bisogno per «captare» il potere delle reti sociali allo scopo di produrre valore economico. O'Reilly per esempio sostiene l'importanza di mantenere il controllo (cioè la proprietà intellettuale) sui dati generati dagli utenti delle piattaforme web 2.0...

Se esaminiamo le modalità di adattamento reciproco tra i progetti peer to peer e le imprese possiamo distinguere già vari modelli. La prima e la più «capitalista» e si base su una modalità crowdsourcing. In questo scenario una piattaforma è creata da un'impresa, che usa i contributi volontari che sono offerti al mercato. In questi caso, il processo rimane sotto il controllo del proprietario della piattaforma e i contributi volontari sono più deboli perché motivati dal profitto finanziario individuale.
Il secondo formato, l'economia condivisa, vede singoli che creano per la propria espressione creativa, per il valore d'uso estetico se vuoi, e non sono motivati primariamente dal profitto monetario. In questo scenario, i proprietari di piattaforme vendono l'attenzione degli utenti ai pubblicitari.
Il terzo formato è la vera produzione peer to peer e si ha quando c'è un'intenzione comune di creare un artefatto sociale; poiché queste comunità hanno legami più forti al loro interno, sono spesso capaci di creare le loro infrastrutture cooperativa. Quali sono gli effetti quando una maggioranza di produttori peer to peer inizia a essere pagato? Fino ad adesso abbiamo una situazione in cui il processo di sviluppo «aperto» e i valori della comunità sono preservati. Possiamo però dire che assistiamo a due tendenze complementari: da un lato, c'è un rafforzamento della produzione peer to peer e di una logica non monetaria; dall'altro lato assistiamo a una integrazione di quella stesso processo sociale in una logica capitalista.
Voglio aggiungere una tesi provocativa: che la produzione peer to peer è iperproduttiva, specialmente quando può contare su una combinazione di comunità che si autogovernano, di associazionismo e di un'«ecologia d'impresa». Secondo, che questo modello si estenderà in maniera crescente alla produzione fisica, tangibile, dove comunità aperte si possono combinare non solo con il capitalismo, ma anche con nuovi modelli di cooperazione produttiva.

Tutto ciò è molto attraente e quasi inevitabile! Voglio fare la parte dell'avvocato del diavolo e chiedere di alcune problematiche che possono ostacolare l'affermazione di una economia dove il peer to peer sarebbe l'ethos economico dominante. Mi riferisco al ruolo esercitato da governi, classi sociali e enti finanziari internazionali, quali l'Fmi o la World Bank, nell'imporre un modello economico che tende a promuovere una ulteriore accumulazione di capitale, anche a costo di scatenare guerre. Secondo quanto hai detto, sembra che ti aspetti che l'economia peer to peer sarà semplicemente accettata. Ad esempio: cosa accadrebbe se, per esempio, un governo decidesse di costruire enormi centrali nucleari piuttosto che una rete di energia solare? Mi sembra che quando si tratta di fare grandi affari, la soluzione peer to peer tende ad essere attivamente ostacolata allo scopo di favorire una vecchia economia fondata sul profitto. Mi domando e ti domando: come una rete peer to peer può trovare la forza politica di imporre i suoi modelli? Inoltre mi sono sempre chiesta quale sia la qualità della socialità nelle reti peer to peer. La letteratura su di esse tende a sottolineare un tipo di socialità spontanea che emerge tra astratti individui cooperanti. Tu metti al centro della tua riflessione il desiderio per un diverso modo di produzione. Ma la socialità può essere qualcosa di molto turbolento, che implica relazioni di affinità e appartenenza così come di conflitto e antagonismo tra culture, prospettive, modi di vita, interessi, storie e persino identità. Cooperative e gruppi di tutti i tipi spesso tendono a disintegrarsi a causa di vari motivi di conflitto tra i loro membri. Come spieghi, dunque, la conflittualità e la parzialità della socialità umana nelle reti peer to peer...

Poni due problematiche che è meglio affrontare separatamente. La prima è se l'ethos peer to peer sarà semplicemente abbracciato o che sarà attivamente combattuto e marginalizzato. Sono d'accordo con te che è realistico immaginare una resistenza da parte delle imprese e del capitale rispetto alle alternative peer to peer. Anzi, questa è la situazione che stiamo vivendo. Abbiamo, infatti, una fioritura di cooperazione e innovazione alla pari, ma per il momento sono realtà spesso ignorate o marginali, che non riescono a diffondersi per mancanza di mezzi, conducendo molti dei partecipanti a tali iniziative a vivere una vita precaria o in povertà. Vedo questa condizione di minorità come effetto di una reazione conservativa. In futuro ritengo infatti che la situazione cambierà, perché l'attuale logica sociale è diventata distruttiva per la sopravvivenza della biosfera. Le élite si divideranno in due campi.
Da un lato, ci saranno quelli che vogliono attivamente opporsi al nuovo modo di produzione e socialità, e possiamo vedere quest'aspetto all'opera nella guerra generalizzata contro la condivisione del sapere. La domanda è: possono vincere alcune battaglie, ma vinceranno la guerra? Ritengo che si farà strada un altro tipo di reazione, rappresentate dalle posizioni di Al Gore e George Soros.
Questo segmento delle élite vede chiaramente che non c'è futuro e che la struttura globale dell'impero ha bisogno di una profonda riforma: vogliono una combinazione di keynesianismo globale e capitalismo verde. Per questo motivo cercheranno alleanze con i capitalisti anarchici di internet e gli imprenditori ambientalisti. Per quest'ultimi, una alleanza con le forze peer to peer è una necessità naturale. Vogliono che il mercato prevalga e che mantenga il suo dominio, vogliono controllare la partecipazione e integrarla nelle loro catene di produzione di valore, ma sanno anche che la partecipazione è essenziale per la uno sviluppo economico sostenibile. La scelta quindi è tra la distruzione della biosfera, il collasso finanziario e una riforma globale del capitalismo. È ragionevole ipotizzare il fatto che nel prossimo futuro assistermo allo sviluppo di enormi movimenti sociali che sfideranno il presente status quo e che modificheranno radicalmente gli assetti del capitalismo globale. La posta in palio è fare in modo che il peer to peer si trasformi da realtà germinale a una parte essenziale del nuovo sistema.
Ora passiamo alla tua domanda a proposito delle conflittualità sociali. Penso che il peer to peer consente di affrontare diversamente dal passato il conflitto con lo status quo, perché non risolve le differenze culturali o i conflitti, ma li «aggira». La peer to peer governance, ad esempio, non sostituisce la democrazia, ma crea una sfera di aggregazione autonoma dove l'abbondanza è possibile.
ilmanifesto.it

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