Proposte che puntano ad equiparare i blog ai giornali. Il decreto che ha  strozzato la diffusione delle connessioni nel nostro paese. Il disegno  di legge che voleva punire con 12 anni di carcere a chi “incita alla  violenza” su Internet. Non ultima, la proposta (ancora sul piatto) di  una multa fino a 12mila euro per i blog che non pubblicano rettifiche  così come sono obbligate a fare le testate giornalistiche.
Sono  in tutto dieci, e in soli cinque anni, le leggi e proposte di  legge italiane contro Internet. Per ora (quasi) nessuna di questa è  passata, ma un’attività tanto intensa è simbolo di una volontà politica  chiara: la rete, strumento del futuro, è luogo sconosciuto alla classe  politica; Internet, in quanto spazio di libertà, è temuto da i governi  di ogni colore.
Nel giorno della protesta italiana contro il  bavaglio, su ilfattoquotidiano.it abbiamo deciso di ripercorrere tutte  le leggi e proposte di legge italiane che in questi anni hanno messo nel  mirino Internet.
1) DECRETO PISANU  (luglio 2005)
Nel Decreto Pisanu è contenuta la prima norma  anti-Internet, quella che finora ha avuto gli effetti più duraturi e  catastrofici. All’indomani degli attentati nella metropolitana di Londra  del luglio 2005, il governo Berlusconi appena sconfitto alle regionali  approvò un pacchetto anti-terrorismo che portava la firma dell’allora  ministro dell’interno Beppe Pisanu. Il decreto, oltre a misure contro le  libertà personali il linea “per la lotta al terrorismo”, introdusse  anche una norma sulle “comunicazioni digitali” unica nei paesi  democratici.
La Pisanu dispone che ogni comunicazione online deve  essere tracciabile al fine di scovare eventuali terroristi. A  cinque anni di distanza nessun Bin Laden è stato arrestato ma intanto  nelle strade delle nostre città, non sono disponibili connessioni, sia  pubbliche che private, liberamente accessibili.
Facciamo un esempio.  In quasi tutti i bar d’Europa e d’America, così come nei parchi  pubblici, nelle stazioni e negli areoporti, è pressocchè sempre  disponibile una connessione a Internet offerta dai gestori degli  esercizi, da aziende private o da enti pubblici. In Italia, invece, se  prendiamo un treno, aspettiamo in areoporto, ci sediamo su una panchina  in piazza, troviamo solo reti protette. Se andiamo fare colazione in  un qualsiasi bar, non solo non troviamo alcuna rete alle quali  collegarci, ma neanche un computer scalcinato dove controllare la posta  elettronica. Il nostro barista, infatti, per farci navigare, dovrebbe:
 a) Chiedere un’autorizzazione alla questura;
b) Chiedere ad ogni  cliente che vuole accedere a Internet un documento di identità e  registrarne i dati anagrafici;
c) Acquistare ed aggiornare un  software complesso e costoso che registria ogni operazione su Internet  dei clienti;
d) Conservare per due anni un archivio con i dati delle  navigazioni avvenute sui computer.
Ogni navigazione, appunto,  deve essere tracciabile. Perciò molti operatori commerciali o pubblici,  grandi e piccoli, in questi anni hanno preferito non offrire un servizio  di Wi-Fi gratuito piuttosto che rimanere sciacciati dalla burocrazia  e da costi aggiuntivi. Paradossalmente qualche progetto  pubblico è riuscito ad eludere questa norma, come ha fatto la provincia  di Roma che per i collegamenti a “Roma Wireless” permette di navigare  associando il proprio indirizzo Ip temporaneo alla Sim del cellulare  (alla quale a sua volta è associato il nostro documento di identità).
 Il risultato del Decreto Pisanu è sotto gli occhi di tutti: in Italia  ci sono pochissime connessioni Wi-Fi e i cittadini che hanno bisogno di  Internet per strada possono solo contare sui loro eventuali  smart-phone (a pagamento). Non a caso il presidente Agcom  Corrado Calabrò ha dichiarato solo qualche giorno fa che la rete dati  “mobile” è prossima al collasso.
Il Decreto, che doveva rimanere in  vigore solo un anno (e che successivamente è stato disconosciuto dallo  stesso Pisanu) è arrivato fino a noi con proroghe annuali (nei  cosiddetti “decreti milleproroghe”) e questo senza alcun dibattito  pubblico riguardo la sua utilità e nonostante numerose campagne per la  sua abolizione da parte della blogsfera.
2) LEGGE  FRANCO-LEVI (ottobre 2007)
Il primo disegno di legge contro  i blog e siti Internet arriva invece con il governo Prodi nell’ottobre  2007 per mano dell’allora sottosegretario alla presidenza del consiglio  Ricardo Franco-Levi. L’obiettivo è lo stesso che si dimostrerà essere una  vera e propria ossessione per la classe politica: equiparare  blog e siti Internet a testate giornalistiche. La Franco-Levi in  particolare punta a ridefinire le caratteristiche di  “mezzo di  informazione”,  “prodotto editoriale” e  “attività editoriale”. Con la  legge “prodotto editoriale” diventerebbe “qualsiasi prodotto  contraddistinto da finalità di informazione, di formazione, di  divulgazione, di intrattenimento, che sia destinato alla pubblicazione,  quali che siail mezzo con il quale esso viene diffuso”. Con questa ampia  definizione siti di news, pagine Facebook, blog, forum, social network  sarebbero ricaduti nella tipologia di “prodotto editoriale”. E tutti  avrebbero dovuto iscriversi ad un apposito registro di “operatori della  comunicazione”, nominare un direttore di testata e adempiere agli  obblighi di legge.
La proposta osteggiata dalla websfera e da alcuni  esponenti politici (tra questi qualcuno che precedentemente l’aveva  firmata) venne sbeffeggiata anche dalla stampa estera: nel Regno Unito  The Times parlò di “Un assalto geriatrico ai blogger  italiani”. Viste le polemiche, la legge venne poi accantonata.
3)  COMMA PECORELLA (settembre 2009)
Anche  Gaetano Pecorella,  negli anni settanta militante di Potere Operaio e poi diventato legale  di Silvio Berlusconi,  ha dato il suo contributo alla legislazione  anti-Internet. Nel settembre 2009 Pecorella presentò alla commissione  giustizia della Camera un comma all’articolo 1 della legge sulla  stampa risalente al 1948. Così come la Franco-Levi obiettivo  dell’uomo di fiducia di Berlusconi era applicare l’intera disciplina  sulla stampa anche “ai siti Internet aventi natura editoriale”. La  proposta non è mai giunta al dibattito parlamentare.
4)  LEGGE BARBARESCHI (gennaio 2009)
Luca Barbareschi, il  deputato-attore-produttore (scoperto a copiare nella sua trasmissione su  La7 le battute di Spinoza.it senza citare la fonte) è  paradossalmente autore di una legge per la ferrea tutela del  diritto d’autore su Internet. “Disposizioni concernenti la  diffusione telematica delle opere dell’ingegno” questo il titolo della  sua proposta. L’obiettivo era quello di portare anche in Italia la  dottrina Sarkozy che punta a coinvolgere i provider (che per la  direttiva europea sul commercio elettronico sono tenuti alla neutralità)  nella repressione delle pirateria online. Nella visione del deputato  Pdl, la Siae dovrebbe avere un ruolo primario nell’indicare ai fornitori  di servizi quali contenuti oscurare o rendere inaccessibili. La legge  per ora non ha avuto fortuna.
5) EMENDAMENTO D’ALIA  (febbraio 2009)
Giampiero D’Alia, senatore da Messina pressoché  sconosciuto alle cronache politiche, è invece noto per il famigerato  emendamento al Pacchetto Sicurezza che porta il suo nome. L’emendamento  intendeva conseguire la “Repressione di attività di apologia o  istigazione a delinquere compiuta a mezzo internet”. Il progetto di  D’Alia era quello di affidare al ministero dell’Interno (e non alla  magistratura) il compito di valutare ipotesi di “apologia di reato” o  “istigazione a delinquere” commesse via Internet dando facoltà allo  stesso ministro di chiudere d’imperio siti web ritenuti  pericolosi. Il tema naturalmente risultatava molto scivoloso e si  prestava facilmente ad abusi. IlFattoQuotidiano.it, per  esempio, ha annunciato “disobbedienza civile” se dovesse passare la  Legge Bavaglio. Con l’emendamento D’Alia il Ministero dell’Interno  avrebbe potuto chiudere il nostro sito con una semplice comunicazione.  Dopo un’ennesima alzata di scudi della Rete e di una parte della  politica, l’emendamento D’Alia venne abrogato da un contro-emendamento  del senatore del Pdl Roberto Cassinelli.
6) LEGGE  CARLUCCI (febbraio 2009)
Anche l’onorevole Gabriella  Carlucci, passata dalla conduzione di Portobello agli scranni di Forza  Italia, ha voluto presentare la sua proposta contro la rete. L’ex  show-girl intendeva trasformare Internet in un “territorio della libertà  dei diritti e dei doveri”. E per fare questo aveva approntato  delle norme con le quali si intendeva abolire “l’anonimato su  Internet”, imporre ancora una volta “tutte le norme relative  alla Stampa” alla Rete, e introdurre forme di responsabilità dei  fornitori dei contenuti pubblicati dagli utenti. La legge è ancora oggi a  prendere polvere in parlamento.
7) PROPOSTA LAURO  (gennaio 2010)
Dopo l’aggressione dello psicolabile Massimo  Tartaglia a Silvio Berlusconi in Piazza Duomo dello scorso dicembre, la  politica italiana si scatenò in una vera e propria campagna di  odio nei confronti di Internet. Il presidente del Senato Renato  Schifani dichiarò: “Facebook è più pericoloso dei gruppi degli anni  settanta” e le televisioni del premier si scatenarono: “Bisogna chiudere  questi siti come Facebook” urlò Barbara D’Urso nella sua trasmissione  del pomeriggio. Un campagna d’odio forse non casuale: proprio una  settimana prima dell’aggressione, a Roma si era svolto il  partecipatissimo No Berlusconi Day nato proprio su Facebook.
In quei  giorni il senatore Pdl Raffaele Lauro prese la palla  al balzo: insieme ad altri colleghi presentò una proposta di legge che  aveva l’obiettivo di rivedere il codice penale e “portare da 3 a 12”  gli anni di carcere “per chi avvalendosi di mezzi di  comunicazione telematica incita a delinquere”. Passata l’emozione del  momento, la proposta è ora in sonno alla commissione Giustizia del  Senato
 DECRETO ROMANI (gennaio 2010)
Anche  contro le web-tv e i video-blog si è provato a mettere i bastoni tra le  ruote. Il decreto Romani, ha denunciato l’opposizione, doveva solo  recepire una direttiva europea me “è stato trasformato dal governo in  una riforma radicale della nostra normativa sui media” e  senza alcun passaggio parlamentare. Il Romani, in una prima versione,  tendeva ad equiparare tutti i siti che trasmettono contenuti video a dei  canali televisivi, penalizzando così anche le dirette streaming.  Dopo l’ennesima mobilitazione (60 blogger si ritrovarono scalzi davanti  all’ambasciata americana a Roma gridando: “Obama, salva Internet in  Italia”), il decreto è stato modificato: sono stati esclusi da tali  obblighi: “siti Internet tradizionali come i blog, i motori di ricerca,  versioni elettroniche di quotidiani e riviste, giochi online” e comunque  tutti i servizi che “non risultano in concorrenza con la  radiodiffusione televisiva”. Nonostante ciò, secondo alcuni  blogger, per questioni di carattere interpretativo il decreto  potrebbe causare dei problemi a chi fa informazione video su Internet.
 9) CODICE MARONI (dicembre 2009 – in corso)
Oltre  alla già citata proposta Lauro, la vicenda di piazza Duomo ha lasciato  un’altra scia velenosa. All’indomani dell’aggressione di Tartaglia, il  ministro Maroni (lo stesso ministro “pirata” che si era conquistato le  simpatia della rete perché ha più volte ammesso di “scaricare musica da  Internet”) si dichiarò pronto a varare un decreto governativo per fermare  la violenza sul web. Obiettivo dell’esecutivo sembrava lo  stesso del vecchio emendamento D’Alia: dare al governo il potere di chiudere  siti Internet ritenuti “pericoli” o “incitanti all’odio”. Dopo  l’ennesima levata di scudi del mondo della rete e di buona parte  dell’opposizione, Maroni ha poi virato verso un “codice di  auto-regolamentazione” da far sottoscrivere ai provider e fornitori dei  servizi. Questi dovrebbero impegnarsi in prima persona a minacciare via  mail gli utenti avvertendoli eventualmente che un contenuto da loro  pubblicato potrebbe risultare “malevolo” o  “inopportuno” (in base a quanto stabilito dal codice stesso). Gli utenti  sarebbero quindi invitati a provvedere alla rimozione,  altrimenti il  contenuto potrebbe essere rimosso dal provider o segnalato alle autorità  competenti. Dopo la denuncia del Fatto Quotidiano, il codice sembra per  ora messo da parte, anche perché provider e fornitori di  servizi rivendicano la loro “neutralità” sui contenuti che  attraversano le loro infrastrutture.
10) BAVAGLIO-ALFANO  (2008 – in corso)
La legge sulle Intercettazioni in approvazione  alla Camera sulla quale tanto si è speso Silvio Berlusconi, contiene  anche una misura anti-blog. Certo, la legge di per sé è un “bavaglio  alla stampa” e, tanto più oggi, oggetto di un’ampia mobilitazione della  società civile, del mondo dell’informazione, dei cittadini. Ma il famigerato  “comma 29” della legge sulle intercettazioni si occupa anche  di “siti informatici”. Facendo riferimento ad una casistica amplissima  (“siti informatici” appunto) la legge impone che “le dichiarazioni o le  rettifiche” così come avviene sui giornali “vengano pubblicate entro  quarantotto ore dalla richiesta, con le stesse caratteristiche grafiche,  la stessa metodologia di accesso al sito e la stessa visibilità della  notizia cui si riferiscono”. Pena, una multa che può arrivare a 12mial  euro. Qualsiasi pagina web, dovrebbe insomma sottostare  all’obbligo di rettifica. Secondo molti, la norma non tiene  conto della natura “amatoriale” della quasi totalità dei siti, e impone  una misura che rischia di soffocare la rete nelle maglie di un  imposizione alla quale possono adempiere solo imprese editoriali.
 Queste sono le dieci proposte nate in questi anni per  ridurre la libertà della rete. Se (quasi) nessuna per ora è passata, lo  si deve alle mobilitazioni puntualmente messe in atto da cittadini,  giornali e blogger, compresi coloro che negli anni hanno denunciato ogni  pericolo e stortura: tra i tanti, l’avvocato Guido Scorza così come i  blogger Claudio Messora, Massimo Mantellini, Stefano Quintarelli, Sergio Maistriello.  Importante anche l’azione di informazione e coinvolgimento su questi  argomenti del blog di Beppe Grillo  e di testate online come Punto  Informatico. Anche alcuni politici si sono fatti sentire: Antonio Di Pietro e altri  parlamentari dell’Italia dei valori, il senatore Vincenzo  Vita del Partito Democratico e, con i suoi distinguo, l’onorevole Roberto Cassinelli  del Popolo delle libertà, si sono sempre spesi a tutela e a difesa della  rete.
Sarebbe ormai il caso che la crescita e la salvaguardia  della rete Internet venissero prese in carico da settori sempre più ampi  della politica e dell’opinione pubblica. Forse non è follia sperare che  un giorno non troppo lontano il parlamento italiano possa approvare una  legge pro-Internet che rafforzi l’infrastruttura nella direzione della  banda larga, tuteli la libertà degli utenti, dia possibilità di  collegarsi ovunque e, come già successo in Islanda e Finlandia, dichiari  Internet un diritto fondamentale dell’individuo.
 
 
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